Preferenze privacy

Questo sito utilizza servizi di terze parti che richiedono il tuo consenso.

Skip to content
Amici Corecco

Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 1

Torna al libro

LITURGIA: FONS E CULMEN

Capitoli

Discorso di presentazione di Mons. Eugenio Corecco, Vescovo eletto, alla Televisione della Svizzera Italiana. 28 giugno 1986

Vi parlo da questo Monastero di clausura sopra Claro, dove vive una comunità di benedettine. E’ senza dubbio una delle realtà più preziose della nostra Diocesi. Sono salito quassù per prepararmi, perché domani sarò ordinato Vescovo di Lugano; per moltissimi di voi, vostro Vescovo nel senso più stringente del termine.
È una regola antichissima della Chiesa che un Vescovo sia consacrato da tutti i Vescovi delle regioni circostanti, per significare che l’ordinazione di un Vescovo non concerne solo la Chiesa locale, ma tutta la Chiesa universale. Sarà perciò un atto liturgico molto solenne, trasmesso dalla Televisione, posto da tutta la Chiesa diffusa nel mondo. Non saranno presenti solo Vescovi svizzeri, ma anche stranieri. Tutti mi imporranno le mani per esprimere che il Signore e la Chiesa prendono possesso della mia persona.
E un atto liturgico che tocca non solo la mia persona, ma tocca tutti voi cattolici e, indirettamente, secondo rapporti di relazione diversificati, anche i non cattolici e i cittadini non cristiani del nostro Cantone. Questa nuova appartenenza a Cristo e alla Chiesa non implica per una persona solo nuove responsabilità, ma le conferisce anche una grande sicurezza: è perciò in ultima analisi un fatto liberante.
In effetti, una delle aspirazioni più profonde della persona umana è quella di appartenere a qualcuno, su cui poter contare. lo potrò sempre rivolgermi a Cristo e a voi. Voi potrete trovare nella mia persona qualcuno, cui potrete sempre rivolgervi. Attraverso questo rapporto con un Vescovo, avete la garanzia di essere ricollegati, attraverso i secoli, agli apostoli, che hanno visto e toccato Gesù di Nazaret, il Cristo, redentore degli uomini, al quale i cristiani appartengono personalmente già in forza del Battesimo.
Tra le molteplici cose che verranno ufficializzate domani, ve ne sono due che voglio illustrarvi rapidamente.
La prima è il testo, che ho fatto imprimere sulla immagine ricordo, tolto dall’episodio dell’incontro del giovane ricco con Gesù di Nazaret: «Maestro, cosa devo fare per avere la vita eterna, poiché da sempre mi sono sforzato di praticare tutti i comandamenti?». «Allora ti manca una cosa» ha replicato Gesù: «Va, vendi tutto quello che hai e distribuiscilo ai poveri». Questa risposta di Gesù tocca l’essenza stessa del cristianesimo, che non è, come ha fatto osservare Romano Guardini, una religione in cui si aderisce semplicemente ad una dottrina astratta, a un sistema, e si pratica una morale, ma l’incontro con una persona: la persona di Cristo. È un riferimento personale, un appartenere alla sua persona storica, come si appartiene a un padre e a una madre.
Dopo che il giovane se ne fu andato tutto triste, Gesù ribadì: «Non vi è nessuno che abbia abbandonato la sua casa, il suo campo, la moglie, i fratelli, i genitori o i figli per me, che non riceva il centuplo, già in questa vita, e, nel tempo futuro, anche la vita eterna». Questa esperienza di un distacco, che gratifica del centuplo, non è solo per chi è chiamato al sacerdozio o alla vita religiosa, ma è possibile indistintamente per tutti i cristiani. Tutti, per appartenere a Cristo, dobbiamo lasciare qualche cosa. Chi una cosa, chi l’altra, qualcuno magari tutto. Non è possibile appartenere a Cristo assieme a tutte le cose che ingombrano la nostra persona. Abbandonare vuoI dire, come minimo, affermare in tutti i nostri rapporti con cose, situazioni e persone, la priorità di Dio. Nella società moderna retta, come ha osservato il filosofo contemporaneo Erich Fromm, dal principio dell’avere e non da quello dell’essere, non è facile accettare tale priorità. Eppure il distacco, materiale, o almeno interiore, dalle cose, in nome di Cristo, non ci impoverisce, ma ci arricchisce.
Il testo del Vangelo garantisce che Cristo ci rifonde il centuplo già in questa vita. Ciò significa che l’esperienza cristiana non mortifica la nostra persona, ma la esalta in tutte le sue potenzialità espressive, la rende ancora più profondamente umana. Ognuno di noi può fare questa esperienza.
Il secondo fatto ufficializzato con la mia ordinazione è lo stemma episcopale che comprende: un motto e due segni araldici.
Il motto dice: «In omnibus aequitas quae est Deus». Traducibile approssimativamente come «l’equità in tutto, perché è Dio». Sono convinto, con tutta la tradizione cristiana che ha prodotto questa formula già nel 1200, che l’equità è una forma superiore della giustizia.
Anzi, coincide con la giustizia di Dio. La giustizia di Dio, nella sua essenza, è misericordia e perdono. Non ha come simbolo la bilancia umana, dove si pesa meticolosamente il dare e l’avere, ma ha come simbolo la croce
che è l’espressione della redenzione e del perdono di Dio. Questa realtà noi dobbiamo renderla presente nella storia attraverso il perdono che ci concediamo vicendevolmente.
Gli altri due elementi dello stemma sono la graticola, simbolo di San Lorenzo, patrono della Chiesa Cattedrale di Lugano, e l’immagine di San Gottardo.
La graticola su cui è stato bruciato San Lorenzo ci richiama l’attualità drammatica del martirio. Il martirio non è un fenomeno esclusivo della Chiesa primitiva, dilaga attualmente in tutta la Chiesa d’oriente e d’occidente. Le persone che sono torturate o soppresse a causa della loro fede in Cristo sono innumerevoli nella cristianità moderna. Non possiamo, tuttavia, non stabilire il nesso che questi martiri hanno con tutti quegli uomini e quelle donne, ancora più numerosi, che subiscono le peggiori torture e la morte in difesa della propria e dell’altrui libertà, della propria concezione filosofica e politica. In effetti Papa Giovanni Paolo Il ha affermato proprio qui in Svizzera durante la sua visita pastorale che viviamo in una civiltà della morte. La nostra grande distrazione rispetto a questi fatti orrendi, appena interrotta da qualche sussulto di coscienza di fronte a singoli fatti particolarmente gravi, è il sintomo che stiamo impoverendo nello spirito; una povertà spirituale mal compensata dalla nostra ricchezza materiale.
La scelta di San Gottardo come mio simbolo personale nello stemma, non è dovuto solo ad un fremito vallerano. Il colle di San Gottardo è il simbolo di tutto il Ticino, della nostra unità etnica e culturale, della nostra italianità. Ha determinato la storia di tutte le genti che ci hanno preceduto in queste vallate e nelle quali si riconosce ogni ticinese. Prima abate di Baviera e poi Vescovo di Hildesheim all’inizio dell’undicesimo secolo, San Gottardo fu un grande precursore della cultura cristiana europea. Ha fondato in quell’epoca una scuola di musica e di pittura e nei brevi anni del suo episcopato ha costruito ben trenta chiese. Per questo l’iconografia lo rappresenta sovente con una chiesa in mano. Non saranno le chiese quelle che mancano oggi, ma un Vescovo è costruttore della Chiesa di Cristo, per cui l’ho scelto come patrono. Il culto di San Gottardo è diffuso in tutta Europa, dal nord della Germania a Milano, dove esistono due chiese in suo onore; dalla Lituania alla Spagna. E’ diventato il patrono della via delle genti. Ci ammonisce perciò di non chiuderci su noi stessi e di accogliere lo straniero, perché secondo il diritto delle genti i passi, come i mari, appartengono a tutti. San Gottardo ci ricorda che la direttrice sud-nord che nel passato fu la dorsale culturale dell’unità cristiana d’Europa, ha assunto oggi un significato nuovo, ancora più vasto. E diventata la direttrice economica nord-sud con l’impegno per tutti i paesi ricchi di aiutare quelli più poveri in vista dell’unità e della pace del mondo. La figura di San Gottardo è perciò carica di un simbolismo che dobbiamo riscoprire, ed oggi abbiamo più che mai bisogno di simboli, se non vogliamo soffocare nei nostri piccoli orizzonti.
Ecco, vi ho detto alcune cose in cui mi identifico; se domani qualcuno di voi mi ricorderà al Signore, gliene sarò infinitamente grato.

Omelia per l’ordinazione episcopale nella Cattedrale di Lugano, 29 giugno1986

L’atto liturgico straordinario celebrato assieme in questa chiesa Cattedrale di Lugano ha un’ascendenza storica di quasi due millenni. Fu infatti il primo Concilio Ecumenico della cristianità, convocato dall’imperatore Costantino a Nicea nell’anno 325, ad esigere che ogni Vescovo fosse consacrato in relazione ad una sede episcopale determinata, come oggi per quella di Lugano, da tutti i Vescovi della provincia circostante o almeno da tre prelati in rappresentanza di tutti gli altri.
Il significato ecclesiologico di questa regola antichissima, che a così grande distanza di tempo ha ancora guidato questa nostra celebrazione liturgica, è duplice. Questo atto liturgico, così solenne, in cui è stata proclamata la Parola di Dio e sono stati posti i segni simbolici ed efficaci del Sacramento, si rivela nello stesso momento essere anche un atto vincolante dal profilo sociale e giuridico. In esso è avvenuta contemporaneamente l’ordinazione sacramentale di un nuovo Vescovo e la sua assunzione, o presa di possesso, del ministero o ufficio episcopale della Diocesi di Lugano.
Questa unità tra sacramento e istituzione esprime un aspetto fondamentale dell’esperienza cristiana. La dimensione sociale della fede e il carattere vincolante dell’istituzione sono inerenti alla forza salvifica della Parola e del Sacramento che celebriamo. La socialità in cui ci troviamo coinvolti, celebrando liturgicamente il Mistero cristiano e l’istituzione che la ordina, con forme e criteri variabili nel corso dei secoli, non derivano prima di tutto dalla insopprimibile esigenza sociale insita nella natura della persona umana, ma dalla imperatività e dalla potenza aggregativa della Parola di Dio e del Sacramento. Si tratta di una socialità generata dal nuovo rapporto interpersonale che si instaura tra i cristiani in forza della loro unica appartenenza a Gesù Cristo nella fede e nel Battesimo.
Questa visibile appartenenza reciproca che investe l’esistenza dei cristiani, assume una connotazione di valore e un nome specifico rispetto a qualsiasi altra forma di socialità umana: quella di essere nella sua essenza un rapporto di comunione. L’appartenenza comune allo stesso Cristo crea tra di noi un legame oggettivo di reciprocità totale dell’uno nell’altro, antecedente alla stessa coscienza che di esso dovessimo avere.
La comunione ecclesiale si esprime senza dubbio come legame nella carità e fraternità reciproca e in un rapporto di solidarietà profonda. Dovremmo saperla vivere con la determinazione di chi è consapevole che essa costituisce la forma stessa della nostra esistenza umana. Non si esaurisce tuttavia in un semplice rapporto psicologico e affettivo. La comunione è prima di tutto un rapporto oggettivo e strutturale che determina tutte le componenti essenziali del nostro essere Chiesa. Essa significa che nella Chiesa di Cristo nulla può essere separato e diviso. La comunione è un rapporto di immanenza e di indivisibilità, che ha origine dal nostro rapporto di unità profonda con Dio e con gli altri cristiani.
In effetti il cristiano non può autoconcepirsi se non come colui che, appartenendo a Cristo, appartiene agli altri e come colui al quale tutti gli altri battezzati appartengono quale parte integrante di se stesso. I cristiani in effetti sono un popolo di persone che, al di là di ogni barriera di sangue, di razza, di lingua e di cultura, si appartengono reciprocamente e si costituiscono come Corpo mistico di Cristo. Basterebbe scandagliare più a fondo questa verità per scoprire i mille scompensi del nostro vivere individualisticamente l’identità reale della nostra persona, battezzata nel Cristo.
Potremmo fare un elenco esauriente dei fatti in cui si realizza questo principio della immanenza e della indivisibilità degli elementi: dalla inseparabilità che lega la Parola di Dio e il Sacramento, alla indissolubilità del rapporto tra l’uomo e la donna nel sacramento del matrimonio; mi limiterò oggi a soli due aspetti del mistero cristiano: il rapporto di mutua dipendenza esistente tra i fedeli e il Vescovo e il rapporto di immanenza esistente tra la Chiesa locale e quella universale.
Esiste un rapporto di necessarietà reciproca, e perciò di comunione, tra il sacerdozio comune di tutti i fedeli e il sacerdozio ministeriale del Vescovo, dal quale derivano e dipendono tutte le altre forme ministeriali; quella dei presbiteri e dei diaconi, ed eventualmente di altri. Il sacerdozio comune a tutti i battezzati si realizza secondo specificità che devono essere vissute integralmente senza sconfinamenti reciproci.
Esiste infatti un rapporto di mutua complementarietà tra la responsabilità del fedele laico e la ministerialità del fedele che riceve il sacramento dell’ordine sacro. Quando il laico non assume la propria responsabilità, secolare ma cristiana, nei confronti del mondo, dello statuto culturale, sociale e politico della società umana, e quando i ministri ordinati non assumono la responsabilità della Parola e del Sacramento in funzione dell’unità di tutti i fedeli, il rapporto di immanenza tra i fedeli si rompe e si rompe la comunione. Quando i laici e i ministri ordinati non si lasciano giudicare dalla presenza profetica dei religiosi e delle religiose e quando questi ultimi non assumono la responsabilità di dare una testimonianza chiara e radicale della loro vocazione, la comunione nella Chiesa si appiattisce in un rapporto di forze, senza significati spirituali.
All’interno di questa dinamica di mutua dipendenza e di reciprocità tra tutti i fedeli, a qualsiasi stato di vita essi appartengano, dobbiamo valutare anche il ministero del Vescovo.
Un Vescovo nasce nella Chiesa e dalla Chiesa. Come per il Verbo Incarnato la cui appartenenza al genere umano non andrà mai persa, così si deve dire del Vescovo rispetto alla comunità ecclesiale in cui e da cui è nato come credente. Chi è diventato Vescovo è giunto ad esserlo come membro e frutto di una Chiesa che gli è stata madre, come membro di una comunità particolare di fede, che lo ha generato.
Questa derivazione ecclesiale, che può anche essere particolare quando assume la connotazione di un carisma specifico (come quello di .un movimento ecclesiale), non può mai essere ignorata, né posta sotto silenzio, né cancellata. Il Vescovo infatti, per riprendere la celeberrima espressione di S. Agostino, è cristiano tra i cristiani, tra i quali però esiste una pluralità di espressione: «Se mi terrorizza» scrive il Vescovo africano di Ippona «quello che sono per voi, mi consola ciò che sono con voi. Per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano» (Sermo 340, l). Nel Vescovo sussiste una fraternità con tutti i fedeli che non può essere cancellata dalla paternità che deve esercitare nei loro confronti, pronunciando la Parola normativa di Cristo, con tutta l’anteriorità e l’autorità che le è propria.
Questa duplice dimensione oggettiva, di fraternità, che abbraccia indistintamente tutti senza elidere i carismi particolari, e di paternità, esistente tra i fedeli e i presbiteri e tra i presbiteri e il Vescovo, appartiene all’essenza stessa della esperienza ecclesiale.
Il Vescovo non è il principio e il fondamento della Chiesa locale,come il Papa non lo è della Chiesa universale, perché per molti aspetti tutti quanti siamo con la stessa legittimità principio e fondamento di quella Chiesa che costituiamo storicamente aderendo alla persona di Cristo. Il Vescovo secondo l’insegnamento del Vaticano II (LG 23,1) è il principio e il fondamento dell’unità della Chiesa locale. E il garante della comunione, del fatto che nella Chiesa locale «il tutto si realizzi nel frammento» come ha formulato il grande teologo Hans Urs von Balthasar.
La seconda funzione del Vescovo è inoltre quella di essere garante dell’unità della Chiesa locale con la Chiesa universale. Questo è l’altro aspetto messo in evidenza dall’atto liturgico che sta per concludersi in questa Cattedrale. La presenza di Vescovi svizzeri e stranieri sta a significare che l’ordinazione di un Vescovo concerne non solo questa nostra Chiesa particolare di Lugano, ma tutta la Chiesa universale.
La cattolicità nasce dalla presenza nel mondo di migliaia di altre Chiese particolari che si diversificano fra di loro, non a partire dalla diversa cultura e situazione storica in cui vivono, ma dalla interpretazione e dalla assunzione nella fede che i cristiani sanno fare delle differenti culture. La cattolicità nasce dal fatto che tutti i valori cristiani essenziali, vissuti in un determinato luogo e secondo modulazioni culturali diverse, sono accolti e vissuti almeno potenzialmente in tutte le altre Chiese particolari sparse nel mondo.
Questa unità fondamentale, nella pluralità, è comunione; l’unità e l’immanenza di tutte le Chiese che si riconoscono in comunione con la Chiesa di Roma. Ciò significa che se tutti i cristiani hanno diritto di cittadinanza in tutte le Chiese particolari del mondo, hanno anche il dovere di accogliere, nella loro eucaristia e nella comunità che da essa viene generata, tutti i fratelli, stranieri o non stranieri, provenienti dalle altre Chiese particolari con tutti i loro bisogni materiali e spirituali. Questo principio che sembra privilegiare il prossimo, in armonia con il comandamento del Signore di amare il prossimo, non esclude nessun’altra solidarietà cristiana ed umana, ma urge pedagogicamente ad allargare tutte queste solidarietà verso orizzonti senza confini.
In una società assetata di unità ma determinata da una cultura particolaristica, divisa da barriere sociali, etniche ed ideologiche, che sembrano essere insuperabili, noi cristiani abbiamo bisogno di immettere fin nelle pieghe più recondite del nostro essere tutto il respiro dell’universali- tà della Chiesa di Cristo, per saper dare al mondo una testimonianza di unità. Da essa, infatti, gli uomini riconosceranno che il Figlio di Dio è stato mandato per salvare il mondo (Gv 17,23).
L’unità della Chiesa è stata definita dall’attuale Pontefice come il contributo più grande che la Chiesa deve dare alla pace nel mondo. Ogni Chiesa, che non apre se stessa all’orizzonte della universalità, realizza in modo imperfetto l’unica Chiesa di Cristo, ingenerando una falsificazione più o meno profonda della stessa esperienza di fede. La comunione che si realizza secondo gradi diversi, ma tende verso una coincidenza sempre più perfetta dei contenuti della fede, vissuti nelle singole Chiese particolari con quelli della Chiesa universale di Cristo, è il principio che deve guidare lo sforzo di riconciliazione di tutti i cristiani. Il dovere di ricomporre l’unità dell’unica Chiesa di Cristo incombe, infatti, a tutti i battezzati, per volontà stessa del Signore (can. 755 § 1).
Il ministero del Vescovo è il punto di convergenza istituzionale, della dimensione particolare e universale della Chiesa di Cristo, perché egli rappresenta la propria Diocesi in seno al collegio universale dei Vescovi, con a capo il Papa, e nello stesso tempo rende presente nella propria Chiesa locale la communio Ecclesiarum che si esprime nel collegio universale dei Vescovi della Chiesa. Ecco perché San Cipriano con espressione audace, ma esatta per quello che intende significare, ha potuto scrivere nel III secolo che «la Chiesa (l’unica Chiesa di Cristo) è nel Vescovo e il Vescovo è nella Chiesa» (Carta 66,8,1).
Questo è il significato della presenza di molti Vescovi alla consacrazione di uno solo. Prendere atto del significa- to ecclesiale dell’avvenimento, che abbiamo vissuto in questa Chiesa Cattedrale, rinfranca in noi la coscienza della nostra appartenenza alla Chiesa e ci aiuta a vivere con risonanze spirituali e culturali più vaste la nostra fede personale in Cristo.
Tutto quanto abbiamo detto finora sulla comunione e sulla Chiesa deve essere compreso nella prospettiva del mandato, che tutti abbiamo ricevuto, di trasmettere la nostra fede in Cristo a tutti gli uomini. «Andate per tutto il mondo, predicando il vangelo a tutta la creazione» (Mc 6,15). Viviamo la fede nella misura in cui ne diamo testimonianza agli altri. Anche la vita ci è stata data per essere trasmessa agli altri. In questo l’uomo è costituito a somiglianza di Dio, che è amore (l Gv 4,8). Proprio perché Dio è nella sua essenza amore, ha reso partecipi il mondo e l’uomo della sua esistenza, nella creazione.
Se l’uomo non può trasmettere la vita in modo solo biologico, come avviene nel regno animale, ma solo come atto di amore, che fa riecheggiare nell’io della persona umana la dignità stessa del Creatore, il cristiano deve ripetere in se stesso l’atteggiamento di Cristo che «pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio», per cui comunicò se stesso facendosi uomo (FiI 2,5-8).
Il compito fondamentale della vita del cristiano è perciò quello di testimoniare e trasmettere la fede, ricevuta come dono gratuito da Dio. Esiste tutto, la famiglia, la professione, l’impegno culturale, sociale, politico, esiste la vocazione al matrimonio, al sacerdozio e alla vita religiosa consacrata, ma il compito fondamentale del cristiano è quello di testimoniare la propria fede in Cristo, realizzando tutte queste cose.
La personalità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, dei quali ricorre oggi la solennità liturgica, ci deve far riflettere su quest’ultimo tema. Hanno vissuto come compito della loro vita quello di testimoniare agli uomini di qualunque stirpe e di qualunque nazione la risurrezione di Cristo. Testimonianza da dare agli uomini, perché l’interl ocutore della Chiesa è l’uomo, tutti gli uomini, senza esclusione di nessuno: l’uomo che è presente nel cristiano e l’uomo che è presente nel cittadino credente o non credente. L’uomo è il referente di Dio che ha mandato il Cristo per salvarlo.
L’uomo, con la sua dignità, con la sua intelligenza, con la sua passione e gioia di vivere, deve rimanere il referente di tutti gli altri uomini: del poeta, dell’uomo di cultura, dello scienziato, non solo come singoli, ma anche nelle loro formazioni sociali, quali i partiti politici, i sindacati, lo stato, la scuola, e di noi tutti che siamo Chiesa.
Nel concludere questa omelia desidero testimoniare la mia devota gratitudine al Santo Padre, assicurandogli a nome di questa solenne assemblea l’impegno della nostra Chiesa a vivere nella piena comunione.
Non posso inoltre fare a meno di rivolgere un affettuoso pensiero e ringraziamento ai miei predecessori, interpretando l’attesa di tutta la Diocesi: Monsignor Ernesto Togni e Monsignor Giuseppe Martinoli, che così tanto hanno dato, danno e daranno a questa Chiesa nell’esercizio di un ministero vissuto in spirito di totale, e talora sofferta, dedizione.
Ai confratelli nell’episcopato e alle Chiese che sono qui presenti nella loro persona; al clero diocesano e religioso, alle religiose, alle associazioni e ai movimenti ecclesiali e a tutto il popolo di Dio, con il quale siamo questa Chiesa di Lugano, l’augurio di percorrere in comunione fraterna un coraggioso cammino.
Alle Autorità civili, in primo luogo al Consiglio federale, qui rappresentato dal presidente della Confederazione, onorevole Alphons Egli; ai membri della deputazione ticinese alle Camere federali; ai rappresentanti dell’Autorità giudiziaria, dei Comuni, dei Patriziati e delle Parrocchie; al Governo del Cantone Friburgo e della città; alle Autorità militari; ai membri del Corpo Diplomatico e Consolare; agli eminenti colleghi di varie Università, in particolare al rettore dell’Università di Friburgo; al presidente del Consiglio superiore della Magistratura della Repubblica Italiana; ai rappresentanti di gruppi e associazioni civili, la mia gratitudine per aver onorato la nostra Diocesi con la loro ambita e significativa partecipazione, pegno di futura e consapevole collaborazione per il bene del nostro Paese.
Che la Vergine Santissima, venerata in questa Cappella delle Grazie, ci protegga con la tenerezza con la quale ha accompagnato suo figlio Gesù, il Cristo Redentore degli uomini.

Omelia durante la celebrazione eucaristica di fine anno 1988

Cari fratelli e sorelle nel Signore, durante il tempo di Avvento mi ha colpito, nella preghiera del Breviario, questa perentoria affermazione del profeta Isaia:
«Non hanno intelligenza quelli che portano un idolo da loro scolpito e pregano un Dio che non li può salvare » (Is. 45, 20).
Il richiamo sferzante del profeta evoca l’immagine di popoli che sfilano in processioni rituali, portando sulle spalle i propri idoli: simulacri dall’aspetto umano o animale fatti oggetto di culto e venerazione.
È un’immagine alla quale noi uomini del ventesimo secolo guardiamo con ironico distacco, che ci deriva dalla nostra inculturazione, ma che conserva tuttavia una forte attualità.
Potremmo ritenere, infatti, che l’evoluzione di millenni di storia e di sviluppo ci abbia messo al riparo dal cadere in espressioni così primitive e goffe del senso religioso.
Eppure, agli albori dell’era moderna il filosofo naturalista inglese Francis Bacon metteva ancora in guardia tutta l’umanità dalle tentazioni idolatriche, in cui continuava a cadere. Ed individuava in particolare una serie di idoli dell’uomo moderno, capaci di deformare la coscienza dei singoli e delle masse, impedendo una corretta conoscenza della realtà e della verità.
Per il filosofo inglese anche l’uomo moderno, forse meno incline dei suoi antecessori alle processioni rituali, più sensibile alle esigenze ed ai condizionamenti della razionalità e dell’intelligenza, era preda di numerosi ed altrettanto devianti idoli: quelli della tribù, cioè dell’ambiente etnico, etico e culturale in cui l’uomo è cresciuto ed ha formato la propria personalità; gli idoli della spelonca, cioè quelli originati dal suo substrato psichico, oggetto, in tempi recenti, di indagini non sempre appaganti della psicanalisi; gli idoli del foro, vale a dire quelli che derivano all’uomo dal commercio con i suoi simili e perciò dalla corsa al benessere ed al potere; infine, gli idoli del teatro, che sorgono dall’accoglimento acritico, da spettatore passivo, di dottrine ed ideologie.
Ma questi concetti erano già stati enunciati millecinquecento anni prima, con la sensibilità cristiana che costituisce il nostro patrimonio spirituale, da San Paolo, l’Apostolo delle Genti, allorché scongiurava il Vescovo Timoteo di essere prudente di fronte alle ideologie della sua epoca: «Verrà un tempo, infatti, in cui gli uomini non sopporteranno più la sana dottrina, ma, secondo le proprie voglie, si circonderanno di una folla di maestri, facendosi solleticare le orecchie, e storneranno l’udito dalla verità, per volgersi alle favole. Tu, però, sii prudente in tutto…» (2 Tim. 4, 3-5).
Cari fratelli e sorelle, vale la pena di soffermarci per un istante queste immagini di uomini, che percorrono il cammino della loro esistenza, come in processioni rituali, portando issati sulle spalle gli idoli che hanno scolpito, sia con le proprie mani, sia con i propri comportamenti privati o sociali e con le proprie ideologie ed opinioni individuali o collettive; vale la pena di soffermarci su questi uomini che inseguono le favole narrate loro da una folla di falsi maestri, che solleticano le loro orecchie.
Nel momento in cui volge al termine questo anno, riflettiamo sugli idoli che accompagnano il nostro procedere quotidiano. In molti di essi possiamo facilmente riconoscere quello stesso elenco di deformazioni etiche e pratiche formulato dal filosofo Bacon.
Gli idoli, sia che assumano le forme ingenue dei simulacri con sembianze umane o animali, sia che si concretizzino in una scala di valori che guidano il nostro agire quotidiano o di obiettivi da raggiungere nella nostra esistenza, ai quali conformare tutte le nostre energie e risorse materiali e spirituali, sono pur sempre il frutto della nostra limitatezza, parzialità ed imperfezione.
Il problema degli idoli, oggi come in qualunque momento della storia, tocca al fondo, il senso ultimo dell’esistenza dell’uomo.
Poiché, attraverso le varie forme antiche o moderne di idoli, l’uomo manifesta ciò cui aderisce nel profondo dell’animo. In base a questo suo credo l’uomo regola, magari anche solo inconsciamente, la sua dimensione spirituale e il suo agire verso gli altri uomini. Dà, insomma, un’ impronta al suo destino ed alla sua propria storia.
In effetti, se ci domandiamo per che cosa abbiamo vissuto in questo anno, anche noi potremmo scoprire di aver portato, nel nostro cuore o nel nostro rapporto con gli altri, idoli da noi scolpiti a nostra immagine e somiglianza, cioè a misura delle nostre esigenze e desideri, dei nostri sogni, delle nostre velleità, dei nostri pregiudizi. Idolo è ciò che ci è più caro nella vita.
Quando nel libro della Genesi il Signore ha ricordato all’uomo di averlo creato a sua immagine e somiglianza, lo ha reso attento al fatto del rapporto di derivazione dell’umano dal divino, e, quindi, che l’uomo deve misurare la propria azione ed ispirare la propria vita al rapporto con la divinità. È solo un amaro paradosso della storia quello che ha spinto l’uomo di ieri, e spinge l’uomo di oggi, a far derivare il divino – cioè il proprio innato desiderio di appagamento spirituale – dall’umano, e quindi a divinizzare il proprio appagamento materiale. E a scolpirsi i propri idoli.
Il lirico e drammaturgo inglese Eliot scriveva nel 1934 che l’uomo contemporaneo, se, nel processo di razionalizzazione del proprio esistere, nelle sue componenti materiali e spirituali, è convinto di aver superato tutti gli dei delle religioni antiche (dalla Bibbia qualificati come idoli scolpiti dall’uomo), in realtà ne ha conservati alcuni: l’usura, la lussuria, il potere.
L’usura come sete di danaro e di benessere egoistico; la lussuria come sete di piacere effimero e sensoriale; il potere come sete di dominio sul prossimo.
Non possiamo sottacere che questi valori negativi rappresentano gli idoli della coscienza contemporanea, di cui gli strumenti di comunicazione sociale ed un forma di cultura dominante hanno saputo offrirci suggestive immagini, creando di essi quasi un culto, una religione, con nuovi sacerdoti. Ma si tratta di idoli che, se danno l’effimera felicità di un giorno, non possono certamente dare la salvezza di cui parla Isaia.
Anche una serata di gala a scopi benefici per la fame nel mondo o per i terremotati dell’Armenia, quale quella della Notte stellata, teletrasmessa dal Grand Casinò di Ginevra alcuni giorni fa, portava con sé una pesante impronta di idolatria, nel senso che abbiamo detto. Infatti, al di là delle ammirevoli intenzioni e dell’apprezzabile esito materiale, non possiamo non chiederci se inconsapevolmente la nostra appagata società, che non sa fare a meno, neppure nei momenti più drammatici, del proprio atteggiamento ludico, non stesse ancora una volta portando in processione gli idoli da essa costruiti, in particolare quello del benessere, dietro cui si nasconde un’inconfessata responsabilità verso tutti quegli uomini e quei bambini che trascorrono la propria vita – a volte brevissima – negli stenti e nella miseria.
La consapevolezza di queste contraddizioni, di queste stridenti ingiustizie, cari fratelli e sorelle, ce la può dare soltanto la fede; la fede, cioè, non in uno o più idoli creati da noi stessi a nostra misura, ma la fede in un Dio che, avendoci fatti tutti uguali in quanto creati a sua somiglianza, ha elevato ciascuno di noi ad una dignità che non è solo uno stato personale, ma è un obiettivo da realizzare attraverso lo sforzo di solidarietà sociale.
E questa dignità dell’uomo, la cui ragione più alta consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio, si realizza allorché gli è permesso di vivere in mezzo ai suoi simili senza forme di schiavitù sociale, economica, psichica, razziale, ideologica. Queste situazioni di vita, non possiamo nascond ercelo, sono il frutto degli idoli venerati dalla parte appa- rentemente vincente dell’umanità. Ma questi idoli, non solo non possono salvare l’uomo, come affermava Isaia, ma al fondo attentano alla sua stessa dignità di creatura di Dio.
E si potrebbero citare innumerevoli esempi di attentati alla dignità dell’uomo, consumati in nome di falsi idoli, talora addirittura invocando malintesi diritti della persona umana.
Tra questi ultimi, permettetemi, cari fratelli e sorelle nel Signore, di ricordarne alcuni, che vanno consolidandosi sempre più nella mentalità comune.
Così, la pretesa libertà dell’uomo di autodeterminarsi nel sublime compito della pro c reazione, e che si ritiene re nda i coniugi arbitri di interv e n i re artificialmente nei pro c e ssi fisiologici del concepimento e di condizionarne gli esiti; ora, impedendo meccanicamente o chimicamente il fatto procreativo, ora causandolo nell’artificio di una provetta.
A quest’ultimo proposito, l’erronea proclamazione del diritto della coppia sterile di possedere e disporre di un figlio ricorrendo alle tecniche della procreazione artificiale eterologa od omologa, costituisce forse l’espressione più insidiosa della tendenza all’autoaffermazione dell’uomo contemporaneo, proteso a rendersi autonomo dalla sua radicale dipendenza da Dio, che lo ha creato a Sua immagine e somiglianza.
La fecondazione artificiale omologa, cioè tra marito e moglie, benché convergenza di intenti e di amore, non raggiunge l’espressione adeguatamente completa dell’amore coniugale, perché in essa l’unione spirituale ed affettiva è separata da quella corporale.
È vero, fedeli cristiani, che nella storia della Chiesa ha spesso prevalso una concezione che ha sottovalutato l’espressione corporale dell’amore, tuttavia, la posizione più antica e radicata nella Chiesa ha valorizzato in tutta la sua vibrazione spirituale il rapporto sessuale tra uomo e donna nel matrimonio. Ne è prova il fatto che, al di là dei vari orientamenti delle scuole teologiche, il Magistero, pur avendo sempre riconosciuto la validità del matrimonio della coppia sterile, ha sempre affermato l’invalidità e perciò l’inesistenza dei matrimoni viziati di incapacità al rapporto sessuale; anzi, ha concesso la dissoluzione dei matrimoni, anche sacramentali, non perfezionati dall’unione dei corpi. Dunque, l’imprescindibilità dell’unione corporale, dell’unica carne, nella quale si perfeziona il Sacramento del matrimonio nella sua indissolubilità, per adempiere il ministero della procreazione.
In questo senso, non può non apparire disinvolto un recente documento con cui la Commissione Justitia et Pax, sia pure a nome proprio e senza impegnare la Conferenza dei Vescovi svizzeri, mette in alternativa la propria opinione all’insegnamento del Papa – pur non ancora definitivamente vincolante – sull’illiceità della fecondazione artificiale omologa. Ciò fa pensare che gli idoli possono essere prodotti non solo da un’errata impostazione della ragione filosofica, ma anche da una teologia che cede di fronte ai postulati razionali, frutto del debole pensiero moderno, senza ascoltare fino in fondo il richiamo più profondo della fede.
Un altro esempio degli attentati alla dignità dell’uomo può rinvenirsi nella tendenza a fronteggiare lo spaventoso dilagare dell’AIDS, ricorrendo a strumenti di preservazione pur di non accettare il dovere della fedeltà coniugale o un corretto comportamento sessuale, che trova la sua espressione più nobile nella virtù della castità. Virtù, che, dall’etimo latino «virtus», significa forza d’animo, coraggio e consistenza della persona; elementi necessari per superare la fragilità dei sensi che caratterizza il nostro essere uomini.
Un altro idolo è quello dell’affermato diritto della donna a disporre non solo del proprio corpo, ma anche dell’embrione, che in esso si sviluppa, e sottrarsi, così, con l’aborto, alla sua condizione femminile, naturalmente orientata anche alla procreazione e perciò all’accoglienza e alla protezione della vita.
Se questi sono i guasti morali e sociali determinati dagli idoli scolpiti a misura d’uomo, anche noi, cari fedeli, chiudendo questo anno, segnato da avvenimenti mondiali luttuosi, ma anche da speranza, e nella nostra vita personale da gioie e da dolori, dobbiamo interrogare la nostra coscienza.
Ci faremmo delle illusioni se credessimo non più attuale rispetto al nostro vivere quotidiano l’affermazione di San Paolo, quando definiva imperdonabili gli uomini allorché, dopo aver conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio, né gli resero grazie; e così, «ritenendosi sapienti divennero sciocchi, e scambiarono la gloria di Dio incorruttibile con le sembianze di uomo corruttibile, di volatili, di quadrupedi, di serpenti» (Rom. 1, 22-23).
Anche noi, pur credendo in Dio, non lo glorifichiamo, né lo riconosciamo come Dio, quando portiamo nel nostro c u o re gli idoli, ai quali siamo attaccati, avendoli costruiti a nostra misura. In questo consiste il nostro vero peccato…
Se questa sera siamo riuniti nella nostra Cattedrale a ringraziare il Signore con il «Te Deum» per tutte le grazie, per tutti i benefici che abbiamo ricevuto, per il fatto stesso di esistere a sua immagine e somiglianza e per il dono fattoci dallo Spirito Santo di cre d e re nella persona di Cristo, unico salvatore della nostra esistenza, abbiamo mille motivi anche per domandare al Signore, dal profondo del cuore, di perdonarci tutte le nostre piccole e grandi idolatrie.

Omelia per la S.Messa di Pentecoste, 1989

Nel racconto della storia dell’umanità, in ordine alla Salvezza, la Bibbia contrappone due grandi avvenimenti: l’episodio della Torre di Babele (Gen. 11, 1-9) e l’evento della Pentecoste (Atti 2, 1-11).
Agli albori della storia la Bibbia fa emergere il peccato dell’umanità contro il piano creatore di Dio: la pretesa dell’uomo di unificare il mondo costituendo un unico popolo attorno ad un’unica lingua e ad un’unica cultura. Dio sconfessa questo progetto umano perché prescinde da Dio ed è contrario alla Creazione. Nella sua immaginazione, l’autore sacro descrive così l’intervento di Dio sul cantiere degli uomini: «Il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo e disse: “Ecco, essi sono un solo popolo ed hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera ed ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo, dunque, e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro. Il Signore li disperse di là, su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città”».
Il progetto sociale, culturale e politico dell’uomo, emerso con la costruzione della Torre di Babele, di unificare l’umanità imponendo a tutti la stessa cosa e senza tener conto della paternità di Dio su tutti, nega la libertà originale della persona umana di esprimersi secondo un’identità culturale e politica propria. La diversità etnica, linguistica, culturale e sociale di ogni popolo e di ogni Nazione appartengono, infatti, all’ordine originario della creazione di Dio; è inerente al modo con il quale Dio ha predeterminato la storia dell’umanità.
Nello stesso modo in cui l’uomo ha bisogno della famiglia ed ha diritto di costituirla per essere educato a scoprire la sua vera identità umana, l’uomo ha bisogno anche di appartenere ad un popolo e alla Nazione, che costituiscono l’ambito in cui può crescere culturalmente e politicamente, così da esprimere se stesso in modo completo.
Papa Giovanni Paolo II ha affermato a Ginevra, davanti all’UNESCO, che un popolo, costituito in Nazione, è la comunità degli uomini uniti da legami diversi, da una storia comune che supera l’individuo e la famiglia, da una lingua propria e da una cultura particolare, che rappresentano l’orizzonte globale entro cui la persona umana concepisce il proprio destino.
II progetto della Torre di Babele è totalitario e la Bibbia sottolinea che, su questa base, contrariamente a quanto gli uomini hanno creduto e possono sempre ancora credere, non riusciranno mai ad intendersi.
Il secondo avvenimento riferito dalla Bibbia è quello della Pentecoste, che celebriamo oggi con questa solenne liturgia.
La Pentecoste restaura nella storia dell’umanità l’immagine originale secondo cui Dio ha creato il mondo, riaf- fermando il principio che la diversità etnica, linguistica, socio-culturale e politica, appartiene alla struttura dell’esperienza umana. Ribadisce, perciò, il principio della necessità e legittimità del pluralismo culturale e politico.
Tuttavia, il Nuovo Testamento introduce un elemento nuovo nella storia dell’umanità, valido a partire dall’Incarnazione e dalla Redenzione di Cristo.
Gli Atti degli Apostoli (2, 6-11) riferiscono che, mentre gli Apostoli parlavano, ciascuno li sentiva parlare la propria lingua: «Erano stupefatti e, fuori di sé per lo stupore, dicevano:
“Costoro che parlano non sono forse Galilei? E com’è che li sentiamo parlare la nostra lingua nativa? Siamo abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia… dell’Asia… dell’Egitto, della Libia… siamo stranieri di Roma, Ebrei e Arabi e li udiamo annunciare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio”».
L’elemento nuovo, capace di riunificare gli uomini e i popoli non può venire da un tentativo umano autonomo, come avevano fatto i costruttori di Babele, ma solo da un riconoscimento di tutti, nella fede, della persona di Gesù Cristo. Un riconoscimento che può avvenire solo se tutti siamo disposti ad accogliere in noi la Grazia e la presenza dello Spirito Santo. Nessuno, infatti, afferma S. Paolo nella lettera ai Corinzi che abbiamo ascoltato, «può dire Gesù Cristo è il Signore, se non sotto l’azione dello Spirito Santo».
In realtà, continua l’Apostolo delle Genti, «noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito, per formare un solo corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi (ed oggi possiamo aggiungere svizzeri o stranieri, europei o asiatici, anglosassoni o africani), perché tutti siamo stati abbevera- ti ad un solo Spirito» (1 Cor. 12, 3 e 13).
La Pentecoste ha posto nella storia del mondo un fatto ed un principio sociale nuovo. Lo Spirito Santo, che ha reso irreversibile nella coscienza degli Apostoli e dei primi discepoli la fede nella persona di Gesù Cristo, ha dato origine ad una nuova comunità umana: quella che si riconosce nella Chiesa di Cristo.
«Mentre il giorno di Pentecoste stava per finire – raccontano gli Atti degli Apostoli – si trovavano tutti assieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso un rombo, come un vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro come lingue di fuoco che si dividevano e si posavano su ciascuno di loro, ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo».
La Chiesa, cioè tutta la comunità dei cristiani presenti nel mondo, è stata riunita e costituita da Cristo nello Spirito Santo, in quel giorno di Pentecoste di 2000 anni or sono, come modello di un’umanità nuova, perché redenta con il Suo sangue sulla Croce.
La Pentecoste richiama tutti noi e tutti gli uomini al fatto che l’unità degli uomini e del mondo può essere raggiunta solo nel riconoscimento comune di Dio creatore, di cui Gesù Cristo è diventato, nella storia, la manifestazione e la presenza concreta. Lo Spirito Santo è la forza che ci spinge verso l’unità perché, se lo sappiamo ascoltare ed accogliere nella nostra anima, ci mantiene nella fedeltà a Lui; ci mantiene fermi nell’adesione nella fede a «Cristo Redentore dell’Uomo, centro del cosmo e della storia» come afferma Giovanni Paolo II nella sua enciclica programmaticaRedemptor hominis.
Il Concilio Vaticano II afferma che «la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, è in Cristo sacramento, cioè segno visibile, elevato tra le Nazioni quale strumento, non solo dell’intima unione degli uomini con Dio, ma anche dell’unità di tutto il genere umano. La Chiesa è stata costituita con il compito di aiutare tutti gli uomini e tutti i popoli, oggi già più strettamente congiunti di un tempo da vari vincoli sociali, tecnici e culturali, a conseguire la piena unità in Cristo» (LG, I, 1).
Cari sorelle e fratelli nel Signore, celebrare la Pentecoste significa prendere coscienza di questa responsabilità, che tutti assieme portiamo nei confronti della società e del mondo. Siamo in grado di assumere questa responsabilità solo se siamo profondamente convinti del fatto che ciò che può unire veramente gli uomini sta nel riconoscere Dio come origine di tutte le cose; Padre di tutti gli esseri umani e fine ultimo verso cui tutti siamo in cammino. È Padre di tutti noi in Gesù Cristo, Suo Figlio, il quale ha redento tutta l’umanità dal peccato, versando il Suo sangue sulla Croce. È il peccato della nostra indipendenza, della nostra ribellione, ricorrente da sempre nella storia dell’umanità, come ci ricorda l’episodio della Torre di Babele.
Noi cristiani siamo responsabili verso il mondo di dare testimonianza alla verità fondamentale dell’appartenenza a Dio di tutti gli uomini. La nostra missione è quella di aiutare tutte le persone che ci circondano a non perdere o a riscoprire la fede in Dio, con la nostra adesione personale a Cristo Risorto, il quale continua ad essere concretamente presente nel mondo attraverso la Chiesa.
L’unità tra i cristiani è il più grande contributo che noi, seguaci di Gesù Cristo, possiamo dare all’unità tra gli uomini e alla pace nel mondo. L’unità e la pace devono essere fondate sul rispetto dei diritti di ogni persona umana e di ogni Nazione; sul rispetto delle minoranze, che, come ha affermato recentemente papa Giovanni Paolo II, è il banco di prova di ogni politica per garantire, su questa Terra, l’unità e la pace tra gli uomini.
Il messaggio della Pentecoste è semplice: pronunciare tutti assieme ed in modo sempre più aderente alla nostra persona che Gesù Cristo è il Signore. Ciò può avvenire solo se siamo aperti ad accogliere in noi la Grazia dello Spirito Santo, oggi misteriosamente rieffuso sulla Terra attraverso la memoria sacramentale della Pentecoste celebrata in tutto il mondo. Nessuno, infatti, può dire «Gesù è Signore» se non sotto l’influsso dello Spirito Santo.
Questo compito affidato alla Chiesa e reso pubblico dallo Spirito Santo, davanti a tutta l’umanità, il giorno di Pentecoste, interroga noi cristiani sul modo con il quale abbiamo assunto ed assumiamo questa responsabilità davanti alla storia.
La mancanza di unità tra i cristiani è il peccato più grave, del passato e del presente, consumato all’interno della Chiesa, costituita da Cristo nello Spirito Santo, come Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica.
Oggi, allo Spirito Santo dobbiamo chiedere il perdono per non avergli permesso di agire in noi con la pienezza della Sua grazia e dei Suoi doni.
È un perdono di cui abbiamo bisogno, prima di tutto individualmente, poiché tutti siamo divisi nella nostra persona, tra il bene e il male; siamo divisi nelle famiglie, con i nostri genitori e i nostri figli, con nostra moglie e nostro marito, anche quando non fossimo arrivati alla tragedia del divorzio. Ognuno di noi è diviso con i vicini di casa, con i colleghi di lavoro, con gli avversari politici, con i suoi operai e i suoi datori di lavoro; siamo divisi con i compagni di scuola, con gli insegnanti e con gli allievi; siamo divisi con gli stranieri perché stranieri, con i drogati perché drogati, con gli altri perché diversi. Siamo divisi con i nostri fratelli nel sacerdozio, con il Vescovo o con il Papa, con le nostre sorelle di vita consacrata. Tutti pecchiamo contro lo Spirito Santo, che è lo Spirito di amore e di unità.
Ma il perdono dobbiamo chiederlo anche tutti assieme, perché c’è divisione tra le comunità ecclesiali e tra le confessioni cristiane. Questo peccato è pubblico, in faccia al mondo, e più di qualsiasi altro compromette la missione affidata, il giorno di Pentecoste, da Cristo e dallo Spirito Santo a tutta la Chiesa.
È vero che ciò che ci unisce è molto più profondo, malgrado le apparenze, di quanto ci divide; tuttavia, è altrettanto vero che la comunione tra le nostre Chiese e comunità ecclesiali non è piena. Il Signore Gesù Cristo, invece, ci ha chiamati a vivere non un’unità qualsiasi, ma un’unità totale, perché il mondo possa più facilmente credere che il Padre lo ha mandato a salvare l’umanità (Gv. 17, 23).
Domani, a Basilea, si riunisce la prima Assemblea ecumenica europea. È il più grande raduno ecumenico che sia mai stato convocato nella storia. Un avvenimento straordinario, poiché segno inequivocabile che, in seno alla Chiesa, la consapevolezza della responsabilità affidata a tutti noi, al cospetto del mondo, sta emergendo in modo sempre più ineluttabile, fino ad affiorare con chiarezza alla porta della nostra coscienza e del nostro cuore.

Omelia per la S.Messa del giorno Pasqua 1989

«Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col. 3, 1). Questo ammonimento dell’Apostolo Paolo, fatto nel cuore della gioia pasquale, può essere equivocato da chi volesse ravvisare in esso una conferma del giudizio, che tanta cultura moderna ha espresso ed esprime, in merito al modo dei cristiani di essere presenti nel mondo e nella società.
Secondo questa mentalità efficientista, spesso dominante, il cristiano vivrebbe in modo astratto rispetto alla realtà. In ultima analisi è ritenuto inutile al mondo, perché la sua esistenza è protesa verso l’aldilà. La storia, per il cristiano, non potrebbe essere che un luogo di passaggio, senza impegno reale, poiché afferma di anelare ad una patria trascendente.
Al cristiano, visto che pensa alle cose di lassù, per rendersi davvero utile alla società in cui vive, per lavorare seriamente accanto a tanti altri uomini che lottano e soffrono quotidianamente per alleviare le proprie sofferenze, è richiesto, in nome di una mentalità pragmatista e utilitarista, di mettere tra parentesi la propria fede e la propria speranza nell’aldilà. Gli si vorrebbe imporre, come condizione previa per lavorare alla costruzione del mondo, di rinunciare alla fecondità storica della propria fede e perciò all’identità della propria persona.
Gli esempi sono innumerevoli. Dovrebbe accettare, senza batter ciglio, il controllo artificiale delle nascite come soluzione imprescindibile per alleviare la fame nel mondo, l’aborto per liberare la donna dai vincoli della sessualità, l’eutanasia per sfuggire alla sofferenza. Non è lontano il momento in cui gli si domanderà di rinunciare al carattere festivo della domenica, per ottenere una produzione industriale più efficace.
Il mistero pasquale ci ricorda che le cose non stanno esattamente così. «Pensate alle cose di lassù» non significa «distraetevi dalla terra», non vuol dire «estraniatevi dal dramma della storia». Esattamente il contrario.
In effetti: la storia conosce tre vie fondamentali percorse dall’uomo, nel tentativo di interpretare il significato del mondo e di scoprire la verità di se stesso, del proprio destino umano e della propria storia. L’uomo ha sempre cercato di trovare un orizzonte più vasto, entro il quale dare un significato al suo vivere ed al suo operare. Ha sempre capito di non potere indugiare dentro il proprio piccolo mondo, ripiegato su se stesso, come il serpente che si morde la coda.
La prima via è quella del pensiero delle religioni orientali. Afferma l’assolutezza del divino, accettando l’assoluta relatività delle realtà terrestri e della storia individuale dell’uomo. Suggerisce perciò all’uomo di sottrarsi ai propri limiti, alla propria finitezza e alla contingenza delle cose terrene, abbeverandosi con la contemplazione del divino e dell’assoluto. Questa elevazione, perpendicolare rispetto alla storia, verso la contemplazione filosofica e religiosa della purezza del divino, gli ha fatto accettare, fatalisticamente, le contraddizioni terrene, trascurando per millenni, anche in seno ai popoli di più grande cultura, di sviluppare strutture sociali più vivibili per tutti. Dentro questa concezione pessimistica delle cose terrene, della vita e del dolore, il progresso sociale, infatti, è rimasto minimo.
La seconda via è quella del pensiero occidentale, diventato ateo negli ultimi due secoli. L’uomo è invitato a cercare nella propria storia terrena l’orizzonte esclusivo entro cui operare, identificando Dio con la storia del mondo. Secondo questo pensiero, non esiste altro significato per la vita dell’uomo, se non quello dato dalle prospettive offerte dalla vita terrena.
Questo tentativo occidentale di dare un senso alla vita e al lavoro dell’uomo, le cui radici lontane risalgono al messianismo ebraico, ha trovato in Karl Marx il suo grande profeta: colui che ha proposto l’idea del progresso e del benessere come unico ideale capace di realizzare in terra quel paradiso, in cui l’uomo potesse soddisfare le sue aspirazioni più profonde. Ha dato all’uomo contemporaneo, anche al di fuori del marxismo, l’illusione di poter raggiungere il paradiso dietro l’angolo, in una fuga in avanti, senza sosta e senza esito reale.
L’Incarnazione del Figlio di Dio, in Gesù Cristo, preclude tutte e due queste possibilità di fuga, dal mondo e dalla storia, verso la trascendenza e verso l’avvenire.
Il cristiano sa di non poter consolare nessuno con la sola promessa della contemplazione del divino o con la semplice speranza di un futuro migliore. Il cristiano, coe rente con se stesso, perché crede veramente al Dio diventato uomo, sa, da una parte, che senza l’aiuto di Dio non riuscirà a migliorare in profondità la qualità di vita dell’umanità, e sa, dall’altra, che la salvezza dell’uomo non si esaurisce nel benessere terreno.
La fede nel fatto che Dio stesso è entrato nel tempo e nella storia con l’Incarnazione di Cristo, che nella Sua Risurrezione ha vinto la morte, quale evento privo di ogni esito positivo, ha insegnato al cristiano ad impegnarsi per migliorare il mondo, accogliendo però la Grazia quale forza che supera la sua forza naturale, così come ha costantemente tentato di fare nel corso di due millenni; ma gli dice, inoltre, che deve anche saper «sperare contro ogni speranza » (Rm. 4, 18), in un avvenire definitivo migliore. Questa forza e questa speranza gli sono date dalla sua fede nella risurrezione di Cristo e nella risurrezione dei morti.
Pensare alle cose di lassù non significa perciò guardare ingenuamente verso il cielo, astraendosi dal mondo, ma guardare alle cose più alte, che sono le cose più profonde. «Altus», cioè «alto», significa profondo, allo stesso modo che un mare alto significa la profondità del mare e un alto silenzio significa un silenzio pieno di intensissimo significato.
«Guardate alle cose di lassù» significa per il cristiano guardare alla profondità delle cose. Cercare la verità profonda in esse racchiusa.
L’ammonimento di San Paolo è quello di cercare la verità ultima di noi stessi e della nostra vita. Questa profonda verità di se stesso e della storia il cristiano la trova guardando a Cristo, morto e risorto; a Gesù Cristo «Redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia» come afferma Giovanni Paolo II nella sua enciclica Redemptor hominis.
Cristo, crocifisso e risorto, è la verità di tutte le cose e si pone quale pietra angolare del cosmo intero. San Giovanni, infatti, nel prologo del suo Vangelo, ci rammenta che il Verbo era fin dal principio presso Dio e che il Verbo era Dio e che «tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui non è stato fatto nulla di ciò che è stato fatto » (Gv. 1,1-3).
Guardare a Cristo, riconoscerlo come significato ultimo del mistero del mondo e aderire a Lui nella fede, con la mente e con il nostro cuore, rappresenta l’unica possibilità per essere davvero presenti, in modo utile, nella storia. Solo chi aderisce, esplicitamente o implicitamente, a Cristo, che ha detto di essere «la via, la verità e la vita» (Gv. 14, 6), può lasciare un segno nella vera storia dell’uomo. La storia dell’uomo, infatti, non è la storia di un uomo fattosi da solo e da se stesso, bensì la storia dell’uomo creato dal Padre e redento da Cristo, suo Figlio.
Non occorre, infatti, cercare lontano per vedere le tracce di disumanità, in un mondo manipolato da una cultura assetata solo delle «cose di questa terra». L’uomo e il cristiano che si distraggono da Dio e da Cristo, fatalmente distruggono in se stessi l’umano e il proprio ambiente. Solo coloro che riconoscono Dio come creatore del mondo, o credono anche in Cristo, dal quale sono stati redenti, sono in grado di operare veramente per umanizzare in modo globale il mondo, poiché l’uomo nella sua essenza non è solo una realtà terrena e biologica contingente, ma una realtà in cui è presente l’immagine di Dio, che lo ha creato a sua somiglianza.
Ciò implica il dovere di collaborare fraternamente con tutti gli uomini di buona volontà, poiché la Salvezza è rivolta e promessa a tutti gli uomini che non intendono rifiutarla, qualunque sia il modo di venirne a conoscenza.
Solo chi nutre una speranza che trascende l’uomo e la storia, sa lavorare amando davvero l’uomo e la storia, che portano in se stessi le tracce inequivocabili della loro appartenenza a Dio. La storia dell’umanità è infatti inscindibile dal fatto di aver avuto origine da Dio Creatore e di aver ricevuto la Salvezza da Cristo Redentore, morto e risorto per tutti gli uomini.
La celebrazione di Cristo Risorto, di cui facciamo oggi sacramentalmente la memoria, in quanto uomo risorto, oggi presente in mezzo a noi, ci deve rendere coscienti della novità che ci è accaduta e della responsabilità che le è connessa.
La Pasqua di risurrezione è perciò un invito ad essere più che mai presenti nel mondo, con la nostra vera identità di cristiani credenti.

Omelia nella S. Messa della notte di Natale, 1990

«Cristo, il Galileo, è stato il riformatore dell’umanità, predicando il bene morale; io invece sono il benefattore di questa umanità. Darò a tutti gli uomini ciò che è loro necessario. Il Cristo come moralista ha diviso gli uomini secondo il bene ed il male; io li unirò ricolmandoli di benefici, senza distinzione tra buoni e cattivi… La mia giustizia non sarà solo compensatrice, ma anche distributiva».
Non una giustizia che ricompensa secondo i meriti, ma che concede a ciascuno ciò che desidera.
Con queste suggestive promesse il pensatore russo Vladimir
Solov’ev, alla fine del secolo scorso, ha sintetizzato profeticamente il programma religioso, politico e sociale dell’«uomo del futuro»: il grande uomo venuto a completare e definire il destino dell’umanità, come vero ed ultimo salvatore: l’Anticristo.
Un modello di Anticristo diverso da quello biblico, che impersonava le forze del male e venne identificato dalla tradizione popolare nei personaggi più abietti della storia, come Erode e Nerone.
L’Anticristo descritto da Solov’ev con straordinaria preveggenza, cento anni or sono, è l’uomo moderno. Un uomo che pretende di essere razionale e buono, che promette al mondo la felicità. E persuaso di essere investito della missione di svelare agli uomini, con la sola intelligenza umana, tutta la verità, superando la verità stessa rivelata.
È il nuovo profeta, che ha il compito di predicare la verità totale e definitiva sull’uomo. È un genio straordinario, di una moralità irreprensibile; un filantropo, pieno di compassione, non solo amico degli uomini, ma anche degli animali, e soprattutto proteso, una volta raggiunto il potere politico universale, ad instaurare l’uguaglianza ritenuta più essenziale per l’uomo: quella della «sazietà generale».
L’Anticristo di Solov’ev riesce, nel volgere di pochi anni, ad autoproclamarsi imperatore universale, riconosciuto da tutti. È l’uomo capace di riunire tutti i popoli, di realizzare la pace sociale, di unificare ecumenicamente tutte le religioni ed i culti, elidendo ogni differenza e divisione, perché ritenute causa di tutti i conflitti della storia.
Il racconto profetico dello scrittore russo descrive però anche il crollo finale del tempio innalzato per celebrare questo progetto umano, nel solco dell’episodio antico della Torre di Babele.
L’Anticristo fallisce definitivamente allorquando, nelle ultime fasi dell’unificazione di tutte le religioni, viene chiamato, dai cristiani, ormai ridotti ad un’esigua minoranza, come il resto di Israele, a svelare se stesso ed a professare la sua posizione nei confronti del Galileo, di Gesù Cristo, il Figlio di Dio. La sua professione di fede è ambigua. Cristo, per lui, non è propriamente il Figlio di Dio fatto uomo, ma solo un grande profeta.
In quel momento si consuma il fallimento del progetto dell’Anticristo. I popoli da lui sedotti, con la promessa di liberazione e di benessere universale, fondato sulla distribuzione di benefici a tutti gli uomini, buoni e cattivi indistintamente, si ribellano al suo potere.
In questa notte di Natale, in cui celebriamo il mistero della nascita di Dio nel mondo, non mancano i motivi per meditare su questo progetto umano di salvezza dell’Anticristo, perché questo Anticristo, così come è descritto da Solov’ev risulta più che mai attuale ai nostri giorni.
Anche oggi l’umanità è sedotta da una promessa di uguaglianza nella giustizia, realizzata solo dall’uomo; sente le lusinghe di una pace globale, affidata solo alla buona volontà di tutti e spera in un benessere universale, come fatto risolutore, capace finalmente di garantire all’uomo la salvezza.
Noi cristiani dobbiamo rimanere coscienti dell’inganno di questo progetto, che non comprende Cristo, senza però sottrarci al compito di collaborare con tutti gli uomini per realizzare i diritti fondamentali della persona, la pace universale ed il benessere materiale dei popoli.
Sarebbe tuttavia la negazione dell’unicità di Cristo credere che la salvezza della nostra persona e dell’umanità, si risolva semplicemente in una migliore organizzazione politica ed economica della convivenza umana.
È un progetto che accompagna la storia dell’umanità di tutti i tempi: quello di ridurre il messaggio del cristianesimo ad una semplice saggezza umana, realizzata dagli spiriti più illuminati ed altruisti.
E una proposta che si identifica nella pacificazione sociale solo esteriore, nella soddisfazione di ciò che appare più essenziale e necessario nella vita terrena, sia nel campo dei bisogni materiali che spirituali.
L’Anticristo può mostrarsi, nel corso della storia, nella veste di singole persone. Esse, tuttavia, sono sempre l’espressione di posizioni filosofiche e culturali, morali o religiose, collettive, dai mille volti, proposte come alternativa radicale al cristianesimo.
In ogni epoca esistono impostazioni filosofico-culturali o religiose che tendono, in ultima analisi, a negare Cristo o a dimostrare che Egli non è l’unico Redentore del mondo e che la Sua signoria, così come il Suo amore per noi, non sono necessari per la salvezza dell’uomo; anzi, diventano un intralcio, un impedimento alla realizzazione della nostra felicità.
Oggi come nel passato l’Anticristo è tutto ciò che tende a convincerci che non v’è più posto per il Cristo nella nostra esistenza; che la sua umanità, in cui il Verbo, il Logos di Dio, si è incarnato, ha esaurito il suo ruolo storico e perciò non è più necessaria.
L’Anticristo si concretizza in tutte quelle dottrine, che si pongono in modo sostitutivo alla fede in Cristo, offrendosi come forme diverse di salvezza per l’umanità.
La nostra capacità di cristiani deve essere quella di saper individuare, nella fede, i segni della sua presenza.
Nel mondo contemporaneo tali segni sono ravvisabili, non solo in quei regimi tradizionalmente atei o anticlericali, dei quali la storia europea recente ha registrato il clamoroso fallimento, ma sono ravvisabili anche in sistemi politici ed economici improntati alla democrazia, alle leg- gi della libertà di mercato e ad una più grande tolleranza.
In entrambi i casi, infatti, seppure in modi diversi, si possono realizzare i controvalori dell’Anticristo, tra i quali la secolarizzazione, l’indifferentismo religioso, l’etica del piacere, del successo e del potere; il primato dell’economia sulla morale e dell’utile sul giusto, il disprezzo per la vita umana in tutti i suoi stadi. A quante iniquità stiamo assistendo nel nostro tempo, nel mondo occidentale e nel nostro piccolo Paese, nei confronti dei più deboli, degli emarginati e degli indifesi.
Per non dire della situazione dei popoli del Medio Oriente, come quello libanese, forse lacerato e disperso in modo definitivo; quelli palestinese ed israeliano, martoriati da insanabili odi etnici e religiosi, ed infine, le sorti delle popolazioni del Golfo Persico, su cui incombe, oggi più che mai, lo spettro di una guerra spaventosa.
Questi popoli, di diversa religione ed appartenenza etnica, pagano allo stesso modo, l’assenza di una vera politica internazionale di pace e di giustizia, che, per quasi un secolo, ha lasciato libero il campo alla cupidigia economica di un potere di diversa ispirazione ideologica, che preferisce nascondersi dietro le quinte di un presunto interesse universale.
L’Anticristo non è tuttavia presente solo nell’azione dei centri di potere, più o meno occulti, ma anche nell’intimo della nostra vita quotidiana.
L’Anticristo si profila in noi quando viviamo il cristianesimo, non a parti re dalla persona di Cristo, dal dono di se stesso, nella sua nascita, morte e risurrezione, ma piuttosto a partire dalle nostre istintività personali, dai nostri desideri illegittimi, dalle nostre passioni, individuali e collettive.
La diffusione, tipica dell’ora presente, di una morale edonistica, il culto del benessere fisico e materiale, il tentativo disperato di eludere il dolore, l’indisponibilità al sacrificio, la sordità ai bisogni del prossimo, il tentativo di emanciparsi dalla morale cristiana, non sono altro che uno dei molti modi attraverso i quali cancelliamo il Cristo dalla nostra vita.
Un’altra forma di falsificazione del Cristo si manifesta in noi, quando invece di amare prima di tutto la Sua persona, cerchiamo, non senza presunzione, di entrare in contatto con Lui, per ottenere prima di tutto una risposta ai nostri bisogni e ai nostri capricci contingenti.
Il nostro essere cristiani ed il nostro amore per Cristo si fermano, spesso, laddove arrivano le nostre piccole esigenze.
Anche nei momenti più difficili e drammatici della nostra esistenza non è raro in noi l’atteggiamento di invocare il suo aiuto, senza che vi sia in noi una vera e profonda fede; tant’è che siamo capaci, una volta esauditi, di tornare alla nostra incredulità.
Dal Signore Gesù Cristo cerchiamo di strappare, prima di tutto, ciò che riteniamo essere mondanamente utile per noi: la grazia o il miracolo, da inserire però nel nostro progetto, senza credere in Lui ed amarlo veramente.
Questo, cari fratelli e sorelle, è sovente il nostro modo di essere cristiani; questa è la funzione distorta che noi attribuiamo a Gesù Cristo, nella nostra vita individuale e sociale.
Giustifichiamo nella nostra esistenza tutta una serie di posizioni equivoche, di cui l’Anticristo, prospettato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, è appunto l’esponente compiuto e definitivo.
Ma, davanti alla culla di questo bambino, nel quale il Verbo di Dio si è degnato diventare uomo come noi, dobbiamo interrogarci sul nostro rapporto reale con la Sua persona.
Perché, cari fratelli e sorelle, qui presenti o partecipi, attraverso le antenne radio, a questa celebrazione, sempre suggestiva e commovente, perché dobbiamo aderire a Cristo ed amarlo con tutto l’affetto del nostro cuore?
Esiste un’unica ragione per spiegare l’accoglienza che dobbiamo offrirgli. Non possiamo amare Cristo solo perché sarebbe il più grande tra gli uomini, essendo anche Dio, e neppure in ultima analisi, perché ci ha lasciato norme di vita incomparabili per rendere più umana la nostra esistenza.
La sola vera ragione per amare Cristo è perché Cristo, nell’unicità del suo cuore, ci ha amati di un amore unico al mondo. Un amore che si dona a noi, anche in questa notte, come sulla Croce, indipendentemente dalle nostre debolezze e dai nostri peccati.
Solo la certezza che Egli ci, ama, può aiutarci a sconfiggere in noi e nel mondo la presenza dell’Anticristo. E il sorriso con il quale ci guarda, in questa notte, deve riempirci di affetto e di amore per Lui.

Omelia per la S. Messa di Pentecoste, 1990

Pentecoste è la festa nella quale invochiamo il dono dello Spirito Santo sulla Chiesa. Un dono del Padre e del Figlio, perché la Chiesa possa con fedeltà inverare nella storia l’opera della salvezza compiuta da Cristo stesso. Un dono fatto prima di tutto ai cristiani, perché possano aderire nella libertà e con decisione alla persona di Cristo. «Nessuno, infatti, può dire “Gesù è il Signore” se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12, 3).
Con l’atto di riconoscere Gesù Cristo come Salvatore avviene tra i credenti un’aggregazione spirituale e sociale. La Chiesa, infatti, è quella comunione di credenti che si riconoscono tra di loro, in forza del fatto di avere in comune la fede in Gesù Cristo. In questa nuova realtà sociale, che è la Chiesa, si realizza il miracolo della nuova creazione, di una nuova società di persone già redente nelle loro manifestazioni umane fondamentali.
Caratteristica fondamentale e primaria della Chiesa è quella dell’unità. «Credo la Chiesa una…» professiamo ogni domenica nella celebrazione dell’Eucaristia. L’unità è il valore supremo che la Comunità dei cristiani è chiamata a realizzare in se stessa e a proporre al mondo. L’unità dei cristiani è la testimonianza attraverso la quale il mondo può riconoscere che il Padre ha mandato il Figlio come Redentore (Gv 17, 23).
L’unità non é convivenza, ma comunione tra le persone. Il gesto supremo dell’unità è il momento nel quale i cristiani comunicano al corpo e al sangue di Cristo nell’Eucaristia.
L’unità lascia intatta la caratteristica individuale di ogni persona, salvandone tutta la propria ricchezza umana e soprannaturale. Non significa affatto uniformità. Lo Spirito Santo ha una ricchezza inesauribile che, invece di uniformare, crea, attraverso i suoi doni, un’infinità di individualità ecclesiali. La pluralità nella diversità di ogni cristiano deve però rimanere organica. Questa organicità, cioè questa profonda convergenza e complementarità dei cristiani, è il presupposto perché nella Chiesa possa svilupparsi una vita e una creatività inesauribile. La vita naturale e la vita soprannaturale sono possibili solo se esiste un’organicità tra i soggetti che la costituiscono.
La teologia di S. Paolo (1 Cor 12) sulla varietà dei doni e dei carismi e quella sul Corpo Mistico, in cui ogni membro è coinvolto nelle gioie e nel dolore dell’altro, non lascia nessun dubbio sul senso e sul valore dell’unità nella Chiesa. L’obbedienza a questa pluralità ed organicità, che hanno, nel mistero episcopale e papale, il loro punto di riferimento e coesione imprescindibile, è norma di vita per coloro che riconoscono Gesù Cristo come Salvatore.
S. Paolo, infatti, invita i cristiani a riconoscere l’unicità della loro origine, nella diversità delle sue manifestazioni e, di conseguenza, a mettere a frutto i loro carismi «per l’utilità comune» (1 Cor 12, 7).
La libertà dei cristiani si realizza nella capacità di consegnare se stessi all’utilità comune, per l’edificazione di quel Popolo di Dio e di quel Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa.
Questo compito nell’edificazione della Chiesa può essere realizzato solo se i cristiani accettano di cambiare il loro comportamento sociale mondano. L’edificazione della Chiesa esige una dinamica di comportamento che sia ecclesiale, cioè consona alla natura stessa della Chiesa. Solo a questa condizione può formarsi nel mondo una comunione di cristiani, in cui inizi veramente la nuova creazione.
In questo contesto di Pentecoste, che ci richiama così potentemente alla ricchezza della pluralità e all’imprescindibilità dell’unità, la Chiesa contemporanea, e noi tutti, dobbiamo porci degli interrogativi.
Da venti anni, dopo cioè la promulgazione dell’Enciclica Humanae vitae nel 1968, e nel contesto culturale della contestazione studentesca europea, è nato il fenomeno del dissenso ecclesiale.
Esso si radica nella storia della Chiesa come dissenso, prima, sulla morale coniugale, poi, su altri aspetti di natura disciplinare, mettendo in gioco il rapporto tra teologi e magistero, tra lettera e spirito del Concilio, tra una certa «base» ecclesiale ed il Papa con i Vescovi. È un fenomeno che si nutre di un sospetto: il Magistero è deciso ad applicare il Concilio Vaticano II e a rimanere nello spirito del Concilio?
Nel linguaggio ecclesiale avviene, in quel momento, una profonda mutazione: la pluralità diventa pluralismo, l’opinione diversa diventa dissenso.
Il pluralismo rivendicato dal dissenso non è la pluralità delle opinioni e delle scuole teologiche, né sono le multiformi espressioni della fede, poiché esso tende ad erigersi fine a se stesso, snaturando i criteri dell’unità a semplice forma di convivenza che spesso nega il valore supremo della verità come criterio oggettivo di unità.
La divergenza delle opinioni ed il disaccordo si trasformano in dissenso: cessando di essere un semplice dato di fatto, per altro ineliminabile dalla storia, per erigersi a diritto. Nasce così il fenomeno del credente «à la carte», che rivendica il diritto di essere considerato come cattolico, anche quando accetta una verità, ma ne nega un’altra.
Il teologo si considera libero solo se ha il diritto di insegnare il contrario di ciò che insegna la Chiesa. La verità negata può essere più o meno fondamentale: il fenomeno come tale si distingue, però, perché, di fatto, dichiara la teologia altrettanto competente del magistero, erigendola a magistero parallelo.
Il diritto rivendicato è il diritto di essere alternativi, e perciò norma oggettiva anche per le coscienze. Ciò va ben oltre alla critica legittima e alla diversità del giudizio. Il dissenso ecclesiale moderno è sempre uguale, sia che si ponga come fenomeno progressista, sia che si ponga come fenomeno di retroguardia. Non esiste se non in forza del fatto di ritenere che nella Chiesa esiste la libertà solo a condizione di potersi costituire come opposizione e alternativa legittima al ministero episcopale, valida però per il comportamento dei fedeli.
La radice del dissenso ecclesiale, che ha subito il fascino dell’impennata ideologica sessantottina, pur non avendo magari il coraggio di seguirla sul terreno politico, è tut- tavia più profonda della stessa, perché, in ultima analisi, deriva da un’idea intellettualistica della Redenzione.
La Redenzione non è considerata come l’evento della persona di Cristo, ma ridotta, nella prassi e nel solco della cultura razionalista moderna, a rivelazione di una dottrina astratta. La verità è una dottrina, non la persona di Cristo. Si dimentica che il Verbo, cioè la Verità, si è fatto carne (cfr. Gv 1).
È solo all’interno di un’adesione personale a Cristo, morto e risorto, che la fede riesce a cogliere le verità rivelate, in se stesse e nella loro gerarchia, per prestare a Dio, che si rivela nella persona di Cristo, l’assenso del proprio intelletto e della propria volontà, cioè di tutta la sua umanità (DV 5).
Solo se l’uomo si lascia incorporare a Cristo, vivendo in Lui e nel suo Corpo Mistico, che è la Chiesa, impara ad aderire integralmente alle verità di fede ed a viverle. La vita cristiana si configura come incontro globale e totale della persona con il Cristo vivo ed adorabile; incontro che avviene nella Chiesa, quale ambiente di vita degli uomini redenti.
Fuori da questa prospettiva, l’adesione a Cristo, e perciò alla Chiesa, diventa parziale e regionale. Quando la rivelazione è ridotta ad una serie di verità astratte ed intellettuali, l’assenso della fede cerca subito di distinguere, tra le verità, quelle che devono obbligatoriamente essere tenute e quelle sulle quali si può avere un’opinione personale, anche se ciò implicasse il dissentire ad ogni costo dal magistero.
In questa prospettiva, le verità ritenute vincolanti sono ridotte di fatto ad un piccolo nucleo, che lascia amplissimo spazio alla circolazione del «libero pensiero», trasfor- mando il principio della pluralità delle opinioni in pluralismo, cioè convivenza di pensieri più protesi ad affermare le diversità dottrinali, regionali o nazionali, che l’unità.
Non meraviglia che, in questa prospettiva intellettuale ed astratta, anche l’idea di appartenenza ecclesiale diventi un’idea debole. L’incontro con Cristo non è più concepito come incontro con la sua persona risorta. Con la sua persona, la cui presenza obbliga a cambiare il nostro comportamento.
Non meraviglia neppure che il Magistero della Chiesa, del Papa e dei Vescovi in comunione con lui, venga spesso trattato come un’opinione tra le altre. Il criterio di giudizio non è più direttamente ancorato alla fede, ma prevalentemente, anche se spesso involontariamente, all’opinione dominante.
Il dissenso allora si paluda con le vesti della battaglia per la libertà e la democrazia nella Chiesa, quando, in realtà, altro non è se non il mezzo per contrabbandare nella Chiesa l’ideologia dominante.
È inevitabile che questa appartenenza debole alla Chiesa si traduca in teorizzazione della conflittualità, che non esita ad infrangere i confini della carità e della comunione, e non indietreggia neppure di fronte al sospetto ed alla denigrazione.
La carità e la comunione sono il valore supremo dell’esperienza ecclesiale e sono il segno inequivocabile di un’appartenenza forte alla Comunità ecclesiale: forte, perché implica la disponibilità a sacrificare, almeno in via provvisoria, la propria opinione.
Una simile posizione lede facilmente la funzione del Magistero dei Vescovi e del Papa, cui è sempre dovuto, secondo la «Lumen Gentium» (25) “religioso rispetto”, anche quando non godono o non dovessero avvalersi della prerogativa dell’infallibilità.
Ovviamente questo “religioso rispetto” non è richiesto solo in materia di fede e di morale; implica anche un’attenzione ed un ascolto reali, non solo formali, verso l’iniziativa pastorale dei Vescovi. Ad essi non ci si può opporre teorizzando l’utilità o la necessità della polemica pubblica, che per sua natura implica il rischio di stracciare l’indivisa tunica di Cristo, cioè l’unità della Comunità ecclesiale.
La conflittualità, connaturale al dissenso, ha sempre come risultato quello di offendere la fede del Popolo di Dio, che ha come supremo diritto quello di essere accompagnato nella sua esperienza ecclesiale nella verità e nella fiducia verso i pastori.
Tutto ciò non significa di certo che i Vescovi debbano essere ritenuti dai fedeli come padroni infallibili del gregge, ma piuttosto che non debbano essere a priori trattati con la diffidenza e il sospetto riservati ad un potenziale nemico, magari con il pretesto della loro origine, della loro storia e del loro temperamento.
La situazione attuale nella Chiesa in Svizzera dà luogo a molte riflessioni sul dissenso ecclesiale, che si avvale, per i propri fini polemici, dell’inevitabile risonanza e distorsione offerta da certa pubblicistica di opinione.
Paolo VI, che, dopo il Concilio ha assistito addolorato all’esplosione del fenomeno del dissenso ecclesiale, si è espresso più volte in merito. Forse vale la pena di ricordare qualche suo intervento: «Noi richiameremo ancora una volta chi si professa figlio della Chiesa a non arrendersi alla moda della contestazione sistematica (affermava nel 1976), quasi che questa posizione critica autorizzasse a corrodere quell’intima coesione che dev’essere di una Chiesa ben costruita, cioè di una società animata dalla carità».
Riferendosi, nel 1972, alla situazione della Chiesa, che presentava molte analogie con la situazione attuale in Svizzera ed altrove, papa Paolo VI non ha esitato ad affermare: «Si direbbe che da qualche misteriosa, no, non è misteriosa, da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio… credevamo che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole e di tempeste, e di buio, e di ricerche e di incertezze; si fa fatica a dare la gioia della comunione».
Se la Pentecoste è la festa del dono dello Spirito Santo, forse, al di là di tutte le inadempienze e di tutti i torti che la Chiesa ed i Vescovi possono avere, ci si può chiedere, cari fratelli e sorelle nel Signore, se il dissenso non sia piuttosto l’espressione di un non assenso allo Spirito Santo.
Tutti abbiamo bisogno di correggerci, ma questo è possibile solo se riusciamo ad invocare su di noi la grazia di essere docili ai doni, che oggi, se siamo interiormente preparati, lo Spirito Consolatore effonde su di noi.

Omelia per la Pasqua 1990

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore
Il nemico più insidioso della nostra vita, della nostra esistenza e della nostra persona è la morte. In ognuno di noi, infatti, esiste l’angoscia segreta della morte, l’evento al quale ognuno di noi pensa, anche quando cerca di fugarne la memoria vivendo nella dimenticanza, o censurandolo dal proprio mondo interiore.
La società moderna sta compiendo uno sforzo immane per allontanare il pensiero della morte. Cerca di ammantarlo di fiori, di discorsi, di cimiteri lontani dalle zone urbane, di far scomparire i carri funebri dalle città, di relegare il fatto della morte nella sfera privata, sottraendolo agli occhi dell’attenzione pubblica. Imbalsamiamo i morti, come avviene oltre oceano. Non lo facciamo però con la stessa intenzione dei popoli antichi, per venerare e conservare il più a lungo possibile la memoria del defunto, ma per dare alle spoglie mortali un’apparenza simile a quella delle persone viventi e creare l’ingenua illusione del protrarsi della loro presenza in mezzo a familiari e amici.
I mass-media, per contro, abbondano nel trasmettere immagini di cadaveri e di morte, ma anch’essi non per creare negli utenti la coscienza della Provvisorietà della vita, bensì per denunciare, spesso con manipolazioni ideologiche e politiche, l’ingiustizia e la violenza.
La morte è il vero nemico dell’uomo, perché fonte di disgregazione; è ciò che si frappone tra l’uomo e il suo compimento.
L’annuncio della Pasqua è che Cristo ha vinto la morte. La liturgia di questi santi giorni ci fa cantare: «O mors, ubi est victoria tua?». O morte, dove è la tua vittoria?
L’intera umanità può, così, guardare con fiducia al primo ed unico uomo che ha vinto la morte. Questo fatto, e solo questo, è capace di generare nell’uomo una speranza nuova, la speranza vera. La vittoria di Cristo sta nella sua risurrezione.
Nulla di più grande può essere annunciato all’umanità della risurrezione di Cristo. La buona notizia, contenuta nei Vangeli, la novità per eccellenza, è che il fatto capace di rendere definitiva la nostra esistenza, sottraendola alla legge della dissoluzione nel nulla, è già accaduto. «Tutto è compiuto» (Gv. 19,30), ha gridato Cristo dalla croce, aggrappandosi, nell’intimo segreto della sua coscienza, alla certezza che il Padre lo avrebbe risorto, strappandolo dal vuoto profondo degli inferi in cui stava per inabissarsi.
Ma oggi, come può l’uomo credere ancora alla risurrezione di Cristo e alla propria risurrezione personale?
Esiste un riscontro preciso tra la risurrezione di Cristo e il desiderio insopprimibile dell’uomo di sopravvivere a se stesso, anche dopo la morte corporale. Se l’umanità si è sempre posta la domanda della sopravvivenza dopo la morte, è perché la coscienza psicologica, che l’uomo ha di se stesso, è quella di possedere un «io» insopprimibile.
Certo, possiamo teorizzare ideologicamente la nostra fine nel nulla, ma anche quando l’uomo accede a questa credenza, nell’incapacità di sottrarsi con le proprie forze alla forza di molti argomenti, esso resiste tenacemente alla tentazione di accettarla nell’interiorità della sua autocoscienza.
Ogni persona prova in se stessa la percezione della impossibilità psicologica e fisica dello spegnersi nel nulla del proprio «io». Nella sua facoltà immaginativa, infatti, l’uomo proietta la propria sopravvivenza oltre i confini della morte, vivendola come un fatto che scaturisce dalla sostanza stessa del suo essere.
Il culto universale dei morti e la persistente immaginazione della possibilità di un ritorno alla vita nella metempsicosi, attraverso la reincarnazione dell’anima in altri esseri umani o animali, tipiche delle religioni panteiste orientali, sono il sintomo inconfondibile della convinzione di continuità della propria persona oltre l’evento della morte corporale.
Non sono mancati grandi pensatori che, dal profilo filosofico, hanno aff e rmato l’immortalità dell’anima. Anche il dualismo tra anima e corpo, soggiacente al pensiero filosofico e a quasi tutte le religioni, fornisce il presupposto dottrinale, per dimostrare la possibilità di una sopravvivenza dell’uomo dopo la morte.
Il cristianesimo, tuttavia, non afferma solo l’immortalità dell’anima, ma anche la risurrezione del corpo. Nella risurrezione di Cristo vede, infatti, il paradigma e il pegno sicuro della risurrezione di ogni uomo, nella totalità degli elementi costitutivi della sua persona.
Nel Credo la Chiesa afferma la risurrezione dai morti in termini di risurrezione della carne: «credo nella risurrezione della carne».
La fede cristiana nella risurrezione offre perciò una risposta plausibile e sicura all’esigenza più profonda inscritta nella persona umana: quella della sua sopravvivenza dopo la morte.
A differenza della dottrina filosofica dell’immortalità dell’anima, la fede nella risurrezione implica il ricongiungimento del corpo con la persona, per la ricomposizione totale dell’identità del nostro «io». Immortale è la persona umana.
Non si tratta, certo, di pensare ad un ricostituirsi delle funzioni biologighe del corpo, ma solo al fatto che la persona, in quanto tale, e non solo in quanto anima, ritrova nella risurrezione il suo compimento corporale.
Questo mistero ci fa comprendere l’impronta della corporeità. La persona umana non sopravvive alla vita terrena solo come spirito, quasi che lo spirito godesse di una dignità e di un valore superiori al corpo, ma sopravvive come tale, ricomponendosi anche nella totalità della sua natura e delle sue possibilità espressive.
È questo il senso dato dalla fede cristiana all’affermazione che, con la Sua risurrezione, Cristo ha vinto la morte. Ha vinto quel processo disgregativo della persona, provocato dalla morte corporale; ha vinto quell’evento che si pone come il più insidioso nemico dell’uomo.
Se ciò è vero, vuol dire che l’esperienza umana vale la pena di essere vissuta, perché, con la Sua risurrezione, Cri- sto ha conferito una nuova prospettiva all’esistenza stessa terrena dell’uomo. Un’umanità che non deve più attendersi di estinguersi nel proprio fallimento, perché sorretta da una speranza indistruttibile: quella della nostra continuità totale, nella risurrezione.
Il senso della vita umana, perciò, cambia, poiché riscopre nella persona di Cristo il suo modello originale e la ragione della sua esperienza terrena.
L’uomo, infatti, già nella creazione, ha ricevuto e riceve la vita, attraverso la mediazione di Cristo, immagine del Padre. Sia San Giovanni, nel prologo del suo Vangelo (1,3), che San Paolo, nelle lettere agli Efesini (1,4) e ai Colossesi (1,16), affermano che tutto è stato creato per mezzo di Cristo, e che in Lui l’uomo è stato scelto dal Padre prima della creazione stessa del mondo. In Cristo non siamo stati solo creati, ma anche redenti nella sua risurrezione.
Anzi in Cristo siamo già risorti fin d’ora, poiché la fede nella risurrezione conferisce una prospettiva eterna alla nostra vita terrena. Nella risurrezione di Cristo, infatti, cambia la finalità stessa della vita umana. Non è più solo un fatto spirituale e biologico destinato a perire , ma a sopravvivere nella totalità del suo «io» e della sua persona.
In questa prospettiva, la responsabilità dell’uomo di fronte a se stesso e alla storia risulta perciò enormemente potenziata. Non ha scritto l’autore della lettera agli E b rei riprendendo il Salmo 8, che Dio ha creato l’uomo «di poco inferiore agli angeli»? (2,7)
Se questo è vero, significa che tutti dobbiamo riconos cere, in Cristo, il vero, autentico modello e criterio di esistenza. Ogni aspetto della nostra vita deve essere ricondotto a Lui. Il compito principale della vita diventa, perciò, quello di ristabilire l’unità interiore della nostra persona, attorno a Cristo morto per noi e per noi risorto.
Cari fratelli e sorelle nel Signore, la Chiesa è il luogo dove questo annuncio è fatto e dove l’uomo è aiutato a vivere nella prospettiva della risurrezione. È una prospettiva che deve cambiare i nostri giudizi, il nostro modo di vivere, il nostro modo di possedere le cose, il nostro modo di entrare in rapporto con gli altri, il nostro modo di unirci in matrimonio e di educare i figli, il nostro modo di guardare al mondo, il nostro modo di pensare. Questa novità cambia la nostra cultura.
Celebrare la risurrezione di Cristo implica aprirci a questa Sua presenza folgorante al punto da permetterle di trasfigurare ogni particolare della nostra esistenza.
San Paolo ci off re un saggio di queste conseguenze quando, avendo davanti agli occhi la prospettiva drammatica della parusia e della risurrezione, afferma: «fratelli, questo vi dico, il tempo ha avuto una svolta, d’ora innanzi quelli che hanno moglie siano come se non l’avessero; quelli che piangono come non piangessero; quelli che si rallegrano come se non si rallegrassero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero a fondo: perché passa la figura di questo mondo» (1 Cor. 7,29-31).
Il «come se» non significa la negazione del valore del fatto umano, dell’avere famiglia, del possedere, della professione, della politica, del progetto culturale.
Il «come se» significa che, nella prospettiva della risurrezione, ogni situazione esistenziale ed ogni attività umana assumono un valore che trascende la situazione e l’attività stesse, un valore che potenzia enormemente il loro significato. Il «come se» conferisce alla vicenda umana una responsabilità non solo terrena, ma tale da investire tutto il destino eterno dell’uomo.
Il «come se», pronunciato da San Paolo, segnala all’uomo e a tutti noi cristiani che non possiamo attaccarci alle circostanze fondamentali della nostra vita terrena, quasi conferissero, per se stesse, un significato esauriente alla nostra esistenza terrena.
Significa che la nostra persona, in quanto tale, è più importante della situazione in cui vive e delle cose attraverso cui si esprime.
Il significato della nostra vita non dipende da quello che facciamo. È la nostra vita e le nostre attività che ricevono significato dal come le viviamo. Il matrimonio, la famiglia, il lavoro, i soldi, i rapporti sociali, la politica, la scienza e l’arte, per essere umane e grandi, devono esprimere la coscienza che l’uomo ha del proprio destino eterno.
Nella prospettiva della risurrezione di Cristo e della nostra risurrezione personale la vita, con tutta la sua intensità, assume, perciò, una valenza umana più completa. L’umanità nell’uomo è tanto più grande, quanto più la prospettiva della risurrezione la investe alla radice delle contingenze, importanti e meno importanti, di questa vita terrena.
Ecco perché il Cristo risorto è il Redentore, il centro per l’uomo; il centro del cosmo e della storia.

Il Vescovo è ricoverato per l’ennesimo intervento chirurgico e partecipa alla celebrazione eucaristica in Cattedrale nella Notte di Natale del 1994 inviando un messaggio ai fedeli

Cari confratelli nel sacerdozio, cari fratelli e sorelle nel Signore,
il giorno della nascita di Gesù per noi cristiani è in se stesso un giorno di indicibile gioia. Ci ricorda e ci fa rivivere il momento nel quale Dio si è rivelato al mondo, mostrandosi come un bimbo che piange e sorride in una culla.
La nascita di un bambino, in qualsiasi situazione avvenga, anche tra le più dolorose della vita, è sempre un momento magico: fa nascere in tutti una grande voglia di festa.
Per noi cristiani la nascita di Gesù è un giorno di gioia per un motivo incommensurabilmente ancora più profondo. E’ una gioia che scaturisce da un evento non solo umano, ma dal fatto che questo Bambino è il nostro Redentore. Con questo Bambino inizia la storia della nostra salvezza che, oltre a concederci il perdono di tutti i peccati, ci dà la possibilità di conoscere il vero volto di Dio: quello della Trinità.
II Natale è tuttavia un momento di gioia mai disgiunto dal dolore. Non lo fu neppure il primo Natale, quello in cui Gesù nacque corporalmente e realmente da Maria di Nazareth, poiché non solo i disagi corporali, ma anche la paura che qualcuno sopprimesse il Bambino, turbarono ben presto la gioia della Sacra Famiglia.
Tuttavia, anche gli innumerevoli Natali celebrati dai cristiani nel quadro di immani sofferenze fisiche e morali non hanno mai perso quell’attimo di gioia insopprimibile provocata dalla nascita di Cristo.
Il Natale cristiano porta sempre con sé l’esperienza della gioia e del dolore.
In un testo della liturgia ambrosiana, l’autore sacro interroga Gesù avvolto in fasce: “Quare rubicunda vestimenta tua?”: perché le tue vesti sono già macchiate dal sangue della Croce?
Cari fratelli e sorelle, come il Natale di Nostro Signore, così come quello di moltissimi cristiani e della stragrande maggioranza degli uomini e delle donne di questo nostro pianeta, anche il mio è tinto quest’anno non solo di gioia, ma anche con un po’ di dolore.
In effetti, ho dovuto sottopormi a Berna, proprio nell’imminenza del Santo Natale, a un intervento di chirurgia ortopedica nella zona del bacino.
Evidentemente, non esiste nessuna proporzione tra il dolore di Cristo sulla croce, tra quello da cui sono atrocemente afflitti miliardi di persone e la sofferenza fisica e morale di chi subisce un intervento chirurgico in un ospedale moderno superattrezzato, come lo sono i nostri.
Tuttavia, un rapporto tra queste diverse manifestazioni della sofferenza umana esiste: sta nel fatto che tutti coloro che soffrono, indipendentemente dalla gravità della loro sofferenza, possono diventare, sull’esempio e credendo in Cristo, fonte di purificazione e di espiazione del male commesso da noi stessi, nella nostra società e nel mondo intero.
So benissimo che, paragonato alla stragrande maggioranza di chi soffre, posso avvalermi di un privilegio straordinario: quello di essere accompagnato dalla vostra preghiera. So di aver accumulato, grazie a voi, un patrimonio di preghiere così enorme, che mi permette di superare ogni difficoltà, come lo permetterebbe a qualsiasi altra persona.
La difficoltà maggiore, del resto, non viene mai dalla sofferenza fisica e morale in quanto tali, bensì dall’accettare la malattia come un segno della presenza di Dio nella nostra vita. Di fronte a questo segno siamo invitati a pronunciare interiormente il nostro “si”, come ci invita a fare la preghiera modello del cristiano, il Padre Nostro: “sia fatta la tua volontà”.
Del resto anche per Cristo il momento più difficile da superare non è stato quello della Croce, ma quello dell’orto del Getsemani, quando, sudando sangue, ha avuto la netta percezione di dover permettere al Padre di compiere la Sua volontà: “Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Lc 22, 42).
Sono sicuro, cari fedeli, che l’immenso patrimonio di preghiere da voi accumulato in questi anni, per aiutare il vostro Vescovo, sarà anche questa volta estremamente efficace.
Proprio in forza di questa certezza faccio il possibile per accettare dal Signore questa nuova difficoltà. Sono però altrettanto sicuro che l’aiuto che vi apprestate a darmi avrà un risvolto benefico anche per voi stessi, le vostre famiglie e tutta la cerchia delle persone che vi sono più care.
Malgrado la precarietà della gioia di chi vive oggi questo Natale, tormentato dalla fame, dalla violenza e dalla guerra, chiedo al Signore che in tutti voi, in seno alla vostra famiglia, in compagnia dei vostri figli e dei vostri amici, prevalga, su tutto quello che potrebbe offuscarlo, il momento e l’espressione della gioia.
L’augurio di “Buon Natale”, che correntemente ci scambiamo, deve mantenere intatto il suo significato e il suo auspicio: quello di essere la manifestazione della nostra fede in Gesù Cristo, che, grazie al fatto di averci redenti con la sua nascita, morte e risurrezione, permette a tutti i credenti di vivere almeno per Natale un momento di profonda riconoscenza e letizia.

Omelia nella notte di Natale alla Radio della Svizzera Italiana, 1991

Fratelli e sorelle carissimi e voi tutti in ascolto attraverso i microfoni della RSI, in questa Santa Notte di un Natale denso di rivolgimenti epocali, la Chiesa e tutti noi ci interroghiamo su come annunciare ancora Cristo alla nostra società contemporanea così afflitta da mali spirituali e materiali.
Nel momento in cui l’espressione più avanzata e scientifica della modernità, quella del comunismo, ha subito nei paesi dell’Est europeo la sconfitta politica più rovinosa che una ideologia abbia mai conosciuto nella storia, quale deve essere il messaggio dei cristiani all’Europa?
La caduta dei regimi totalitari all’Est pone oggi la Chiesa faccia a faccia con l’altra espressione della modernità, apparentemente più moderata: quella della cultura occidentale capitalista.
Una cultura e un sistema politico, che non potendo più legittimarsi come baluardo insostituibile contro l’espansione del materialismo dialettico, hanno perso parte del loro prestigio.
La sfida culturale per i cristiani è, di conseguenza, diventata improvvisamente più stringente e precisa.
In una società capitalista e pluralista come la nostra, che, a differenza di quella costruita all’Est dal materialismo dialettico, non nega necessariamente e sempre l’idea di Dio, ma la riduce spesso a opinione, tanto più tollerabile quanto più rimane circoscritta alla sfera individuale del cittadino, noi cristiani siamo ancora legittimati a predicare agli uomini l’unicità della salvezza in Cristo?
Il problema fondamentale, cui è confrontata la Chiesa contemporanea e con essa tutti noi cristiani, chierici e laici, non è infatti primariamente quello di rendere plausibile al mondo, in cui siamo immersi, la morale cristiana, ma quello di possedere ancora la forza culturale e il coraggio di annunciare agli uomini del nostro tempo l’unicità della salvezza di Cristo.
Avanza, infatti, a grandi passi, nella cultura occidentale, in stretto contatto ormai con le grandi religioni orientali, la persuasione che l’incarnazione del “logos” in Gesù Cristo non è unica, bensì una delle tante manifestazioni del “logos” stesso.
Tutte le grandi religioni, infatti, rivendicano di essere, anch’esse, fondate su una rivelazione, contenuta nei rispettivi libri sacri.
Il Gesù storico della Palestina può ancora avere la pretesa assoluta di essere l’unico figlio di Dio, e perciò l’unico Salvatore per tutti gli uomini?
Rimane ancora vera l’affermazione di San Paolo, nella lettera a Tito letta in questa liturgia, che in Gesù Cristo «è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini». (2,11).
La risposta a questo interrogativo è centrale, sia per il compito che ci incombe di evangelizzare nuovamente la nostra cultura europea, sia per annunciare Cristo alle culture extraoccidentali, affacciatesi ormai sulla scena del mondo contemporaneo.
La cultura moderna, sostanzialmente europea, è nata dall’affermazione che la ragione umana è l’unica fonte conoscitiva per poter comprendere la realtà, il significato della vita umana e della storia.
Tuttavia la scoperta recente e sempre più palese dei limiti teoretici, sociali e politici, inerenti alla cultura moderna, e della sua incapacità radicale a risolvere, sia in Oriente che in Occidente, il problema della convivenza pacifica degli uomini, ha dato ormai avvio alla fine dell’epoca moderna, facendo entrare l’Occidente nella fase della postmodernità.
La cultura dominante ha però avallato tra i cristiani la convinzione diffusa che, anche per la Chiesa cattolica, sia iniziata la fase della post-cristianità. Una postcristianità che nasce, non tanto dalla constatazione dei limiti storici della cristianità, bensì dall’accettazione, da parte del cristianesimo, di essere considerato, dalla cultura contemporanea, solo come una delle tante forme di religiosità umana.
Per l’uomo post-moderno, il cristianesimo e, in modo esponenziale, la cattolicità dovrebbero accettare di collaborare con tutte le altre religioni e denominazione cristiane e con tutte le forze spirituali del mondo, per realizzare alcuni valori comuni, come la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, rinunciando però ad una visione propria sul significato della storia.
Se così fosse, la giustizia umana, presupposto della pace, e la salvaguardia dell’ambiente, diventerebbero, non solo il punto di riferimento di ogni prassi ecumenica tra i cristiani, ma anche il valore esclusivo per la convivenza tra gli uomini, di fronte al quale anche la fede nella trascendenza di Dio e nella divinità di Cristo dovrebbe inchinarsi.
Se dovessimo accettare che la Chiesa non ha il suo fondamento, nell’unicità dell’incarnazione del “logos”, Figlio di Dio, la conseguenza sarebbe di dover sostituire l’annuncio di Cristo al mondo con il dialogo, inteso come semplice scambiò di convinzioni soggettive e opinabili. All’interno stesso della Chiesa la conseguenza sarebbe che ogni fedele è autorizzato, a livello della fede e della morale, a prendere o lasciare ciò che più gli conviene.
Prenderebbe ulteriore consistenza il fenomeno, in atto anche fra noi fedeli praticanti, del cattolicesimo “à la carte”. Un Cristo e un cattolicesimo a misura dei nostri gusti e delle nostre esigenze individuali.
Di fronte a questa situazione, anche altri testi teologici del Nuovo Testamento, scritti dall’Apostolo delle Genti e da San Giovanni, rivestono un’importanza fondamentale.  In effetti, sia San Paolo che San Giovanni, hanno dovuto confrontarsi con una cultura, quella greco-romana, sostanzialmente sincretista, analoga a quella dei nostri tempi, caratterizzata da un profondo relativismo culturale e religioso.
Per intaccare alla radice questa cultura pagana, essi sono perciò risaliti all’origine stessa del rapporto di Dio con l’uomo, rivelandoci che la chiamata rivolta da Dio all’uomo è previa alla creazione stessa del mondo. San Paolo ha posto il “logos”, Figlio di Dio, nel cuore stesso dell’atto creativo del Padre.
Egli, il Padre, scrive nella lettera agli Efesini (1, 4), “ci elesse in Gesù Cristo prima” (e non dopo come siamo inclini a pensare comunemente) “della creazione del mondo stesso”.
Ciò significa che la paternità di Dio nei confronti della nostra persona è più antica della creazione del mondo; precede l’esistenza stessa della materia originale da cui, per successive evoluzioni, si è formata la realtà incommensurabile del cosmo. L’uomo trascende perciò l’universo creato.
Il nostro rapporto di figliolanza, di fronte a Dio, anticipa il rapporto di dipendenza stabilitosi tra la realtà creata e il Padre, nel momento stesso della creazione del mondo, rivelatoci dal libro della Genesi.
Il secondo elemento di questa rivelazione apostolica sull’origine del mondo e dell’uomo è quello della funzione mediatrice svolta dal “logos” nella creazione. Il Verbo, che era in principio presso Dio ed era Dio, è l’immagine attraverso la quale ogni creatura è stata creata. “Tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui non fu fatto assolutamente nulla di ciò che è stato fatto”, scrive San Giovanni nel prologo del suo vangelo (1, 1-3).
Nella lettera ai Colossesi, San Paolo prosegue affermando che il “Figlio è l’immagine del Dio vivente, primogenito di tutta la creazione, poiché in lui sono stati creati tutti gli esseri nei cieli e sulla terra, visibili e invisibili. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” per cui tutti gli esseri trovano la loro consistenza intrinseca in lui (1, 15-17).
Se l’uomo è stato creato dal Padre attraverso il Verbo, immagine perfetta del Padre, che, per analogia, ha esercitato la stessa funzione dell’immagine intellettiva nei confronti della nostra conoscenza umana, ciò significa che non è esatto dire che Gesù Cristo si è incarnato assumendo un modello di natura umana preesistente. San Paolo e San Giovanni affermano, infatti, che l’uomo stesso è stato creato secondo il modello dell’umanità, che Cristo avrebbe assunto nel tempo e nella storia.
Tocchiamo, fedeli cristiani, i vertici della contemplazione del mistero di Dio creatore e della conoscenza che l’uomo può avere di se stesso e della propria origine.
E’ l’uomo ad essere fatto a immagine di Cristo, primogenito di tutta la creazione, e non il Cristo ad immagine dell’uomo.
Cari fratelli e sorelle nel Signore, Gesù Cristo Signore, Verbo di Dio e immagine perfetta del Padre, ha plasmato l’origine stessa della nostra persona.
Il libro della Genesi, infatti, ci rivela che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Ciò significa che la salvezza dell’uomo e la nostra salvezza personale possono avvenire solo attraverso la persona stessa di Cristo.
Se Cristo è stato il modello unico, attraverso il quale il Padre ci ha creati, la nostra salvezza non può avvenire se non attraverso la restaurazione in noi di questa immagine, grazie alla redenzione operata da Cristo stesso sulla croce.
L’unicità della salvezza in Cristo rimane perciò l’elemento imprescindibile e centrale della nostra fede. Non possiamo eliderla dalla nostra coscienza, senza degradare la rivelazione cristiana a religione naturale umana: fosse pure il prodotto della migliore e più nobile razionalità umana; di una ragione, però, incapace, per definizione, di penetrare nel tempio sacro del mistero della paternità di Dio verso l’uomo e verso le nostre singole persone.
Se dovessimo rinunciare, pur nel totale rispetto di tutte le altre proposte religiose, ad annunciare questa verità centrale della nostra fede al mondo, noi cristiani, non solo capitoleremmo di fronte alla cultura dell’epoca postmoderna, ma non avremmo più nulla di proprio da annunciare all’Europa per la sua nuova evangelizzazione.
L’essenza del cristianesimo, infatti, affermava Romano Guardini, non sta nella più alta nobiltà della sua dottrina morale, personale e sociale, bensì nella persona di Cristo.
Il “logos”, cioè la parola, ossia il Verbo del Padre, si è fatto carne, diventando presente in mezzo a noi.
Cari fedeli, in questa notte di Natale celebriamo il mistero dell’Incarnazione del Figlio unigenito del Padre.
Questa notte e questa celebrazione sono vere per noi cristiani, solo se sappiamo fare un atto di fede in Gesù Cristo, affermando nel nostro cuore e con la nostra bocca di credere che il Bambino venuto alla luce nella grotta di Betlemme, che ha sorriso a Maria e Giuseppe come sorride a noi in questo momento, è il nostro unico Salvatore. Questa notte è vera solo se sappiamo credere che in Lui “è apparsa la Grazia, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini” e solo se in questo momento sappiamo affidare a Lui, unico Signore e Redentore la nostra persona.

Omelia per la notte di Natale 1992

La notte di Natale è sempre stata la notte dello stupore. Oggi magari non è più così, perché crediamo di essere diventati adulti. Ma ricordiamoci di quando eravamo bambini. Il nostro stupore davanti ai doni che Gesù Bambino aveva portato sotto l’albero. Mi ricordo quando mio padre e mia madre mi avevano fatto portare da Gesù bambino un carretto a quattro ruote con il timone, perché ne avevano bisogno loro per il campo. Vivevamo in città, ma nel bel mezzo della seconda guerra mondiale e del “Piano Wahlen”, che invitava ogni famiglia a coltivare un pezzo di terra, magari preso in affitto. Lo stupore mi aveva invaso, davanti a quel carretto, perché Gesù Bambino lo aveva toccato con le sue mani. La gioia e l’esaltazione provate nel corre re in giro, il mattino dopo, trascinandomelo dietro per le strade, perché Gesù Bambino, anche lui l’aveva trascinato, chissà da dove, per portarlo in casa nostra.
Pochi mesi dopo venni a sapere la verità su Gesù Bambino, ma senza nessun dramma interiore. Il carretto a quattro ruote, con timone, l’avevo già dimenticato. Lo usavano i grandi per trasportare il granoturco, i girasoli e le patate. L’idea però di una presenza invisibile di Gesù mi era rimasta. Era rimasta perché è vera, anche se Gesù non porta i balocchi, attraversando, nella notte di Natale, spazi ed itinerari misteriosi.
La pedagogia cristiana ci ha educati in questo modo alla presenza di Gesù Cristo, individuando, nell’animo ingenuo del bambino e nella sua capacità di stupore, il punto più accogliente per deporre nel suo cuore il seme della fede nel mistero di Dio: quello della presenza vera, anche se invisibile, di Cristo risorto nel mondo e nella comunità dei credenti. «Dove due o tre di voi si riuniscono a pregare, io sono in mezzo a loro» (Mt 18, 20).
Credere che Cristo è risorto significa credere che Cristo è vivo e che la sua Persona è presente invisibilmente nella nostra vita. Quale differenza corre tra il bambino che tocca i balocchi, perché crede che Gesù Bambino li abbia toccati prima di lui, e l’adulto che crede alla presenza invisibile di Cristo negli itinerari e nel destino della sua vita? «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3).
Del resto anche il bambino di gesso esposto sopra i nostri altari, addobbati a festa per il Natale, ha solo carattere simbolico; eppure ci richiama alla presenza vera, anche se invisibile, di Cristo nella nostra vita.
Questa è la verità profonda comune a tutti i segni sacri, di indirizzare il nostro sguardo verso una verità che esiste oltre il velo delle apparenze.
La credenza che Gesù visita tutti i bambini portando un regalo la notte di Natale; la statua di Gesù Bambino esposta in una greppia sopra gli altari; Cristo sulla croce; oppure, l’iconografia del Cristo risorto, di Cristo che percorre la Palestina compiendo miracoli, sono tutti strumenti della pedagogia cristiana per educarci a vivere, avendo la sensazione precisa nella fede che Cristo è vivo ed è presente nella nostra esistenza.
E’ una pedagogia che dobbiamo rispettare poiché coglie nella nostra persona il bisogno primordiale di conoscere Dio e di vivere alla sua presenza e ci introduce nello stesso tempo a credere nella presenza reale di Cristo (con il suo Corpo ed il suo Sangue) nell’Eucaristia, cioè a quella forma di presenza che è la più ardua per la nostra fede, poiché supera ogni possibilità di immaginazione umana.
Quella di Gesù Bambino è perciò una tradizione che dobbiamo conservare o reintrodurre nelle nostre famiglie, se vogliamo che i nostri figli siano preparati a vivere, quando saranno adulti, la presenza di Cristo risorto lungo tutto il cammino del loro destino umano. Senza aver creduto alla venuta di Gesù Bambino è più difficile credere alla presenza sacramentale reale di Cristo, sotto le specie del pane e del vino. Infatti, se non fossimo stati educati allo stupore non saremmo neppure capaci di credere.
Lo stupore umano, di cui i bambini sono capaci in modo eminente, è una delle condizioni della nostra fede.
Tra i pensieri lasciatici da Papa Giovanni Paolo I, uno è particolarmente interessante: “Questa Chiesa (ha detto in una catechesi del mercoledì), che ama definirsi moderna, ha sostituito lo stupore per l’evento di Cristo con delle regole”.
Cari fratelli e sorelle nel Signore, noi che siamo riuniti in questa Cattedrale per celebrare l’evento della nascita di Cristo, ma anche tutti voi che, in questa notte, non vi siete incamminati verso la chiesa, ma siete magari usciti a cena con gli amici; oppure, voi che vi apprestate a recarvi in un night, o voi che trascorrete questa notte con i vostri figli o che magari circolate frettolosi e soli sulle strade, scrutando il buio della notte, oltre i fari della vostra macchina; voi che siete inquieti e pensate nella solitudine ai vostri fastidi; che pensate al vostro coniuge lontano o ai vostri figli che ormai non tornano più a casa; a tutti voi che siete ammalati in un ospedale, ospiti di una casa per anziani; voi che siete prigionieri dietro le sbarre e pensate al vostro avvenire; oppure voi che in questa notte siete ancora svegli perché non è una notte come le altre; voi tutti, noi tutti, cosa abbiamo fatto della nostra fede in Cristo, sbocciata con la nostra fede in Gesù Bambino?
Molti di voi, che avete abbandonato Cristo o che avete preso le distanze dalla Chiesa, l’avete fatto forse perché avete ridotto il cristianesimo ad un insieme di norme morali o di precetti ecclesiastici, rivelatisi, oltre tutto, spesso impossibili da osservare. Altri, che sono rimasti, hanno fatto invece lo sforzo di praticare la morale cattolica, ma senza appagamento, perché avevano una coscienza insidiata dal dubbio su tematiche emergenti: l’indissolubilità del matrimonio, la morale sessuale e sociale, il valore della vita nel suo sorgere e nel suo dissolversi.
Sotto le regole il cristianesimo lo hanno sepolto, sia coloro che in nome della tradizione non riescono ad accettare nessun cambiamento della Chiesa, sia coloro che in nome del progresso e della modernità riducono il problema del rinnovamento della Chiesa a un rifacimento di strutture, senza confrontarsi con l’imperativo del rinnovamento della Chiesa attraverso la conversione del cuore.
“Uno sguardo retrospettivo dei trent’anni trascorsi dal Concilio Vaticano II rivela tutta la fragilità dell’identità e della coscienza cristiana di chi ha fatto del proprio schieramento a destra o a sinistra, tra i conservatori o i progressisti, il punto cruciale della propria appartenenza alla Chiesa. In effetti in tutti e due i casi sono state prese come punto di riferimento la norma, la regola o l’istituzione con l’identico intento di conservarle o di abbatterle.
Questo modo di vivere la fede cristiana e la nostra appartenenza alla Chiesa è dettato dalla mentalità comune. Nel mondo, l’uomo è preoccupato prima di tutto del funzionamento delle strutture, della efficacia delle istituzioni, delle prospettive economiche, ma chi si appassiona per i valori, per la cultura, per i problemi di significato inerente alla convivenza civile? La recente votazione sullo “Spazio economico europeo” ha ampiamente messo a nudo il fatto che le preoccupazioni fondamentali e le spinte più reali presenti nella nostra società sono state utilizzate, per il sì o per il no, con criteri più funzionali che ideali. Questa stessa mentalità la viviamo in forza di una traslazione anche nella Chiesa.
La vera mondanizzazione della fede non proviene dalla secolarizzazione del mondo, vale a dire dal fatto di accettare che la società sia retta dal principio della neutralità religiosa, bensì dal fatto che noi cristiani ci lasciamo determinare, nella nostra posizione interiore, dalle regole del mondo, all’interno stesso della Chiesa.
A colloquio con il grande scrittore francese Jean Guitton, Papa Paolo VI ha descritto questa situazione, quando ha confessato al suo interlocutore che all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico… ma esso, anche se diventasse il più forte, non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa.
La prima e più incisiva forma di pensiero non cattolico, dalla quale noi fedeli ci lasciamo determinare in modo ricorrente, è quella di vivere il cattolicesimo come se si trattasse di una religione qualunque: una delle tante religioni escogitate dall’uomo per adorare Dio e garantire una vita morale, sia nel settore privato che sociale della convivenza tra gli uomini. Il cristianesimo non è solo una religione, fosse pure la più sublime che l’uomo sia mai riuscito a formulare; non è solo una religione perché alla sua origine non sta l’uomo, ma Dio. E’ Dio che ha rivelato all’uomo la modalità del rapporto che deve esistere tra lui e la divinità. Non è l’uomo, ma è Dio che ha preso l’iniziativa tra Lui e noi. E questo Dio si è rivelato attraverso Gesù Cristo.
La novità assoluta del cristianesimo rispetto ad ogni altra religione umana sta nella presenza della persona del Figlio, attraverso il quale il Padre si è manifestato a noi uomini. Da questa novità noi siamo attratti perché sentiamo che il Figlio di Dio è una persona, che non possiamo solo conoscere, ma che richiede di essere amata.
Nella notte di Natale noi celebriamo la nascita del Figlio di Dio, la nascita di Dio stesso che si è proposto alla storia, venendo alla luce di questo mondo come un bambino. Puer natus est nobis! ci fa esclamare la liturgia: “Un bambino è nato per noi!” Di fronte a questo bambino, che racchiude in sé un mistero sconfinato, al quale possiamo aderire solo credendo, di fronte a questo bambino che è Dio, un solo sentimento è possibile, il sentimento dello stupore.
Cari fratelli e sorelle nel Signore, dobbiamo essere ancora capaci di stupore se vogliamo che la nostra esperienza di fede vada al di là della religione e se non vogliamo correre il rischio di sostituire lo stupore, per l’evento di Cristo, con delle regole da osservare.
Infatti, lo stupore non nasce da un impulso del sentimento o da una sensazione estetica. Esso anzi, presuppone un giudizio della nostra intelligenza di fronte alla straordinarietà di un fatto. Questo è il nostro stupore davanti alla incarnazione del Figlio di Dio, che si è fatto uomo nel seno di Maria di Nazareth e si è degnato di abitare tra noi.
Lo stupore ci invade e coinvolge quando la nostra intelligenza intuisce, nella fede, la grandezza e l’importanza per la storia dell’uomo e per il destino della nostra persona del mistero del Natale. Senza questo stupore, che nasce dalla coscienza di essere coinvolti nel mistero della salvezza, non è possibile amare né la persona di Cristo, né la comunità dei suoi fedeli che è la Chiesa. Il dramma del mondo e dell’uomo moderno è nella sua incapacità di stupirsi di fronte al mistero di Cristo e quindi di accettarlo al di sopra di ogni altro valore.

In occasione della prima giornata diocesana di formazione per cantori e animatori liturgici, Lugano 9 ottobre 1988.

Cari confratelli nel sacerdozio,
cari fratelli e sorelle in Cristo, care suore.
Esistono due modi di concepire il cammino della santificazione della nostra persona, cui tutti siamo chiamati. Il primo è quello di cercarlo al di fuori del servizio ecclesiale nel quale siamo stati assunti; il secondo è di percorrerlo attraverso l’esercizio del nostro stesso ministero.
Per lungo tempo, dopo il Concilio di Trento, si è pensato che la formazione spirituale del clero, e perciò la sua educazione alla santità dovesse consistere nel prepararlo a vivere bene il proprio stato di vita clericale, piuttosto che a vivere il suo ministero apostolico in quanto tale.
La santità di vita era esigita in funzione di un esercizio fruttuoso del ministero pastorale. L’accento era messo sull’aspetto soggettivo della santità, come se dovesse essere raggiunta comunque, anche prescindendo dall’esercizio del ministero pastorale e missionario.
Tutta la formazione, perciò, era orientata verso le pratiche di pietà: la preghiera personale, la meditazione, il Breviario, il S. Rosario, la mortificazione, la Confessione frequente. Anche la partecipazione e la celebrazione dell’Eucarestia era in ultima analisi vissuta come pratica di pietà. Il cammino verso la santità personale rimaneva estrinseco all’esercizio del ministero apostolico, quello della predicazione della Parola e della celebrazione dei sacramenti, che correva così il rischio di essere ridotto ad un semplice ruolo da assumere.
Soprattutto con il Decreto Presbiterorum Ordinis (cap. 13), il Concilio Vaticano II ha corretto questa impostazione, mettendo in risalto che l’esercizio globale della funzione presbiterale costituisce, in quanto tale, la fonte primaria e specifica della santificazione del clero. Ha messo l’accento sul fatto che i presbiteri, pur aiutandosi e sostenendosi con la preghiera personale e tutte le altre pratiche di pietà, comuni a tutti i fedeli o tradizionalmente considerate specifiche del clero, devono santificare la loro persona attraverso l’esercizio del ministero, di cui sono investiti sacramentalmente.
Accettare questa indicazione conciliare è la condizione previa per elidere dalla formazione del clero il rischio dell’educazione al “ruolismo”, provocato dall’esercizio del ministero come professione distinta dalla propria persona e dalla propria esperienza reale di fede. In effetti, l’annuncio della Parola agli altri deve essere un annuncio fatto, prima di tutto, a se stessi. Nell’atto di celebrazione della liturgia il sacerdote, che la offre per tutti e assieme a tutti, deve offrire anche il sacrificio della propria persona. Nell’esercizio di tutte le altre attività derivanti dalla Parola e dai Sacramenti, cioè di tutto il lavoro apostolico con essi connesso, il sacerdote pratica la propria ascesi personale, rinunciando a perseguire interessi particolari propri.
Queste considerazioni formulate in ordine alla santità del clero, come esempio più facilmente comprensibile, valgono per tutti i fedeli; valgono anche per la vocazione alla santità dei laici. Tutti siamo chiamati a praticare l’ascesi e a perseguire la santificazione della nostra vita, attraverso e non al di fuori, o a lato, degli atti fondamentali che caratterizzano il nostro stato di vita nella Chiesa e la nostra attività in essa.
La preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, la celebrazione dei Sacramenti, non possono rimanere fonte estrinseca di santificazione, rispetto al lavoro e ai compiti che siamo chiamati ad assumere nella vita come cristiani. Per i laici ciò significa prima di tutto santificazione attraverso il matrimonio con la vita familiare e la presenza del mondo e nell’ambiente professionale.
È nella testimonianza data attraverso lo svolgimento del proprio compito e della propria vocazione secolare che i laici realizzano il loro sacerdozio comune e il loro sensus fidei e, di conseguenza, la loro partecipazione alle tre funzioni stesse di Cristo, di santificazione, di annuncio della verità e di trasformazione del mondo.
L’ascesi, cioè la tensione ininterrotta verso una vita ricavata non dalla ragione o dal buon senso, ma dalla fede in Cristo, deve essere realizzata vivendo la verità intrinseca agli atti costitutivi della nostra vocazioni. Cosa serve la pratica dei Sacramenti e la partecipazione alla liturgia se il modo con il quale voi laici vivete la famiglia e la professione non coincidesse con la testimonianza della vostra fede, cui siete stati chiamati in forza della vostra incorpo- razione battesimale a Cristo e alla Chiesa?
La lettera agli Ebrei, (4, 12-13), ci offre lo spunto per approfondire la questione. Ascoltiamo questo brano della lettera in cui si afferma che «la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima».
Il dualismo, tra la santità ricercata con altri strumenti, e l’esercizio del ministero, in cui può incorrere facilmente il clero, insidia anche il vostro servizio specifico di laici o religiose, chiamati ad essere cantori o animatori liturgici. Non ha importanza ora sapere con esattezza in che misura il vostro servizio liturgico possa essere teologicamente definito come ministero, o meno. Importante, in ultima analisi, è solo il fatto che anche voi, come noi vescovi e presbiteri, investiti del ministero sacerdotale, potete svilire il vostro servizio liturgico, denaturandolo a semplice ruolo.
Ciò che soffoca la nostra fede e quella degli altri fedeli è “il ruolismo” dal quale ci lasciamo protagonizzare. Se la lettera agli Ebrei ci richiama al fatto che la Parola di Dio, cioè la verità, «è più tagliente di ogni spada a doppio taglio e dobbiamo lasciarla penetrare fino al punto di divisione della nostra anima», è segno che il dualismo nel vivere la nostra persona è un equivoco, che da sempre minaccia in profondità la nostra esperienza umana e cristiana.
Come non è possibile assumere solo estrinsecamente il ruolo di padre o di madre, senza compromettere nella sua essenza l’esperienza della vita familiare, e come non è possibile vivere l’esperienza professionale prescindendo dalla testimonianza della nostra fede, così non possiamo vivere il nostro essere cantori o animatori liturgici come un semplice ruolo: come se si trattasse di un servizio che non tocca la nostra persona a livello della fede.
Dobbiamo lasciar penetrare la spada della Parola di Dio fino al punto di questo dualismo della nostra persona.
Quando vivessimo il nostro impegno di cantori o animatori liturgici senza preoccuparci di approfondire in esso la nostra fede, il nostro servizio cessa di essere un servizio ecclesiale. È una mondanizzazione della nostra vita, alla quale tutti possiamo esporci; una mondanizzazione che riduce il nostro servizio a ruolo, perché, non incidendo sul nostro modo di porci davanti a Cristo, non permette di trasformare il nostro operare in esperienza e testimonianza intrinsecamente ecclesiali.
Anche la pericope tolta dal libro della Sapienza (7, 7- 11), ci invita a giudicare con la massima serietà l’atteggiamento con il quale viviamo il nostro servizio liturgico. Ciò che conta è l’estetica, in quanto tale, del nostro canto o della nostra ritualizzazione del mistero di Cristo. L’autore sacro ci ricorda, infatti, che la sapienza con la quale componiamo le nostre azioni è preferibile ad ogni altro valore: «preferii (la Sapienza) a scettri e troni. Stimai un nulla la ricchezza al confronto della sapienza, perché tutto l’oro al suo confronto è solo un pò di sabbia. L’amai più della salute e bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce».
Nel linguaggio biblico, la sapienza non coincide con la semplice saggezza umana. Consiste nella capacità di usare e possedere, con l’aiuto dello Spirito Santo, tutte le cose, mettendole al servizio di Dio e della Chiesa. La sapienza cristiana è l’esercizio della propria funzione non come ruolo, ma come luogo e fonte della nostra santificazione personale, a testimonianza per la santificazione degli altri fedeli. Dobbiamo cercare la nostra santificazione vivendo il nostro ministero o il nostro servizio come atto ecclesiale di cui Cristo è e rimane in ogni caso il primo protagonista. «Non sono io che vivo, esclama S. Paolo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).
Solo questi atti edificano la Chiesa. Il primo ed unico servizio che dobbiamo fare per la Chiesa è la nostra fede. Il servizio non consiste in ciò che facciamo, ma nel modo con il quale lo compiamo, la fede con cui lo viviamo. Al di fuori di questa dinamica e persuasione il nostro servizio si risolve in un attivismo senza significato ed efficacia ecclesiali.
L’assunzione di un servizio coinvolge perciò tutta la nostra vita. Non esiste nessuna preoccupazione estetica e nessun compiacimento personale, nessun ruolo, per quanto compiuto diligentemente, che possa edificare. la comunità ecclesiale, in quanto Popolo di Dio e Corpo Mistico di Cristo. Vale il principio di S. Benedetto, «Hoc est quod dicitur». Dobbiamo vivere i nostri compiti per quello che sono, rispettandone la verità intrinseca. Questa è la sapienza cristiana. Dobbiamo invocarla continuamente dallo Spirito Santo come dono, senza mai scoraggiarci di fronte alle nostre inadempienze e distrazioni.
Cari fratelli e sorelle nel Signore. Sono tante le conclusioni concrete che possiamo declinare da queste considerazioni, suggeriteci dalla lettera agli Ebrei e dal libro della Sapienza. Ognuno di noi pensi a se stesso e si lasci penetrare da questa verità fin dentro il punto di divisione della sua anima.
Se la partecipazione al coro e la collaborazione allo svolgimento del rito liturgico, sotto qualsiasi forma, non diventa un gesto e un momento nel quale mettiamo in discussione la nostra anima, nella profondità del nostro essere, snaturiamo il nostro impegno liturgico a semplice ruolo. Un ruolo che diventa facilmente spunto di dissidi, di durezze, di incomprensioni, di potere, di ricerca di noi stessi, di piccoli ricatti, di arroganza e affermazione della nostra ragione umana, di mancanza di obbedienza, non solo alle persone ma alla situazione in cui siamo chiamate ad operare.
Al testo del libro della Sapienza, in cui si afferma che tutto l’oro di questo mondo e tutta la bellezza, nei confronti della verità dei nostri atti è solo un po’ di sabbia, fa eco un altro testo: quello del tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, i cui S. Paolo ci ricorda che se anche parlassimo tutte le lingue, quelle degli uomini e quelle degli angeli, o cantassimo come gli angeli dell’Apocalisse, o distribuissimo tutti i nostri averi ai poveri, o bruciassimo i nostri corpi per Lui, ma non avessimo la carità, non compissimo cioè un servizio ecclesiale fondato sulla verità ecclesiale della nostra azione, tutto questo, non solo non ci servirebbe a nulla, ma non servirebbe a nessuno. La nostra vita e la liturgia diventerebbero semplice ritualizzazione di un processo di azioni umane mondanizzate, senza nessuna efficacia in ordine all’edificazione della Chiesa.
Non ci ha forse dato il Signore come compito supremo quello di edificare la sua Chiesa? «Andate e amministrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19).
La vocazione di cui siete investiti, cari fratelli e sorelle, non è quella di fare delle cose, ma di edificare la Chiesa, cambiando prima di tutto voi stessi per acquistare la consapevolezza che la vostra appartenenza alla Chiesa, in Cristo, è la radice della vostra vera identità come soggetti attivi e collaboratori della celebrazione del mistero liturgico.