Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 1
L’ANNUNCIO DELLA FEDE
Capitoli
Fedeli carissimi,
«Il divorzio che si constata in molti, tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo».1
In questa constatazione lapidaria dei 2400 Vescovi presenti al Concilio Vaticano II trova conferma storica il velato presentimento contenuto nella vibrante esortazione rivolta da San Paolo ai cristiani della prima generazione: «… resistete fermi e saldi nella fede e non lasciatevi allontanare dalla speranza promessa nel Vangelo che avete ascoltato» (Col. 1,23).
Consapevoli, dopo duemila anni, dell’attualità del monito dell’Apostolo delle Genti, i Padri Conciliari non hanno esitato a denunciare come grave errore il fatto che noi cristiani di questo secondo dopo-guerra viviamo in modo diviso, come se la fede che professiamo ogni domenica nel Credo non avesse più una reale incidenza sulla prassi della nostra vita quotidiana.
Da sempre, anzi, fin dai primissimi battiti della sua storia, come documenta ampiamente il Nuovo Testamento, la cristianità ha assistito a molti tentativi di falsificazione della fede. Mentre però le antiche o meno antiche eresie vertevano sui contenuti della fede, snaturandone il significato, l’errore di oggi si concretizza in una spaccatura tra la fede e la vita di tutti i giorni.
1. La spaccatura tra fede e vita quotidiana
Il fenomeno di una simile spaccatura è ovviamente sempre esistito a livello della vita morale. Ogni cristiano ha fatto quotidianamente, come noi, questa esperienza. Tuttavia oggi il fenomeno della spaccatura assume un significato diverso, non solo perché è più vasto, ma perché è penetrato più in profondità. Non investe solo la nostra fragilità nel comportamento morale, bensì tutta la nostra persona nel suo modo di concepire e progettare la vita, previo al problema morale stesso. Il fenomeno da morale è diventato così un fenomeno culturale.
Tale divisione non tocca solo il nostro agire etico concreto, ma investe alla radice il nostro modo stesso di pensare, personale e collettivo. Diviso è il nostro modo di progettare ed organizzare la vita concreta di tutti i giorni in tutte le espressioni fondamentali della nostra esistenza: il matrimonio e la famiglia, i figli e la scuola, il lavoro e la professione, la convivenza sociale, il divertimento, l’avvenire. Cedenti di fronte alla mentalità comune e alla cultura dominante, che non sono più determinate in profondità da un’aderenza reale ai valori cristiani, anche il nostro comportamento etico, se non è peggiorato, certo non è in questo dopo-guerra migliorato.
Questo divorzio nella nostra persona, tra la fede e la vita reale del quotidiano ha le sue radici più remote negli sviluppi avvenuti nel corso di questi ultimi secoli in seno alla cultura moderna. Nata dal Rinascimento, tale cultura ha tradito il Rinascimento stesso che, malgrado avesse posto l’uomo al centro della propria attenzione, del proprio pensiero filosofico e della propria espressione letteraria e artistica, aveva comunque conservato uno stretto legame con la matrice cristiana della cultura precedente.
L’uomo moderno ha consumato questa rottura pro gettando, passo dopo passo, il mondo e la convivenza umana, prescindendo dalla fede cristiana e utilizzando come punto di riferimento sempre più esclusivo il criterio della ricerca empirica e sperimentale, peculiare alle discipline scientifiche ed umane moderne, cui, in ultima analisi, non soggiace più la filosofia ma il calcolo matematico. Su questa strada la fede in Dio, tollerata come elemento appartenente alla sfera interiore e privata della persona, è stata progressivamente bandita dalla sfera sociale: quella che interessa il vivere in comune nella collettività. Sono nati così una cultura umana ed un comportamento sociale secolarizzati, estranei, se non addirittura contrari alla fede cristiana.
Non ci interessa, cari fedeli, in questa lettera pastorale, stabilire le responsabilità del fenomeno appena descritto. In larga misura esse ricadono anche su noi cristiani. Ci interessa invece constatare il fatto, assieme ai Padri del Concilio Vaticano II, poiché esso incide in modo determinante sulla coscienza che abbiamo di noi stessi, prima ancora che sul nostro modo di vivere concreto. Questo fenomeno incide così profondamente sull’autocoscienza delle nostre persone e sulla nostra identità, da aver indotto il Concilio Vaticano Il a ritenere il cristiano moderno come persona divisa in se stessa, disassociata nell’intimità del proprio «io». Un cristiano che si riferisce alla sua fede quando si reca in chiesa la domenica ed accede ad alcuni sacramenti, ma che, nella vita di tutti i giorni, quella che conta veramente e per la quale lavoriamo, amiamo e soffriamo, si conforma all’opinione dominante e alle abitudini prevalenti, spesso fino a identificarsi con essi. Si realizza in noi su grande scala la situazione che già ai primordi del cristianesimo aveva provocato il monito rivolto da San Paolo ai cristiani di Roma: «Non conformatevi alla mentalità di questo mondo» (Rm. 12, 2).
2. La perdita del senso religioso: causa ultima di tale spaccatura
Di quanto fosse già reale e profonda la dissociazione tra la fede e la vita di tutti i giorni nella nostra generazione di cristiani, nati o cresciuti in questo secondo dopoguerra, che ha registrato in occidente uno sviluppo tecnico ed economico senza precedenti, si era accorto, alla vigilia del Concilio, uno dei più grandi artefici del Concilio stesso: il Cardinale Montini.
Guardando l’immensa ed attivissima metropoli lombarda che storicamente e culturalmente sollecita ed esprime le aspirazioni più profonde, consapevoli o inconscie, anche di tutti noi che viviamo ed operiamo in questa nostra terra ticinese – l’allora Arcivescovo di Milano scriveva nella sua prima lettera pastorale del 1957: «Ecco: davanti a noi si stende il panorama del nostro mondo contemporaneo, pieno di vita, di pensiero, di attività, di conquiste. La città terrena va trasformandosi e construendosi in nuove e grandi forme di civiltà. L’uomo cresce: di numero, di cultura, di potenza. Studi ed affari, imprese ed interessi, macchine e soldi, viaggi e ricchezze, divertimenti e piaceri, sogni e progetti assorbono il suo spirito, che si è fatto chiaro, calcolatore, operoso, sociale, edonista. L’attualità lo prende. Anche le sue speranze sono diventate dinamiche per il presente. La terra è il suo regno. Ed il regno dei cieli? E la vita futura? E il destino soprannaturale dell’uomo? E il mistero della vita e dell’universo? E Dio? L’uomo moderno va perdendo il senso religioso».
Abbiamo magari mille ragioni per valutare con una certa distanza interiore l’entusiasmo e l’ottimismo di chi divenne il futuro papa Paolo VI. Infatti siamo stati tutti clamorosamente disincantati dall’esperienza delle vicende umane di questi ultimi decenni, nei quali abbiamo assistito a centotrenta conflitti armati locali con trenta milioni di morti e feriti; conflitti che hanno lasciato gravissime conseguenze nella coscienza delle nuove generazioni.
A queste esperienze dolorose se ne sono aggiunte molte altre. Non possiamo, infatti, dimenticare che siamo spettatori di milioni e milioni di profughi e perseguitati che devono abbandonare i loro paesi con tutti i mezzi della disperazione; non possiamo dimenticare il fatto di vivere sentendo incombere la minaccia dell’apocalisse atomica o della guerra stellare; di dover paventare la catastrofe ecologica o quella della manipolazione genetica; di dover constatare che un terzo dell’umanità è regolarmente decimata dalla fame; di sapere che l’Aids potrebbe intaccare l’uomo nella sua resistenza fondamentale.
Forse abbiamo ragione di essere oggi cautamente meno ottimisti, ma un punto rimane fermo ed è la constatazione drammatica formulata dal Cardinale Montini con assoluta lucidità trent’anni or sono: l’uomo moderno va perdendo il senso religioso.
A ben vedere, la perdita del senso religioso è un errore ancor più grave del divorzio tra la fede e la vita quotidiana, denunciato dal Concilio Vaticano II, poiché investe l’uomo stesso, nella sua attitudine naturale a percepire qualche relazione con la divinità. Si affievolisce in noi la capacità, iscritta nella persona umana, nel bisogno, consapevole o inconscio, di porci globalmente il problema del nostro destino e del senso ultimo della nostra esistenza.
Questa coscienza razionale, che l’uomo ha di se stesso, coincide con la sua capacità di conoscere anche l’esistenza di Dio. Questo livello della religiosità precede la capacità stessa dell’uomo di porre l’atto di fede, tipico della esperienza religiosa cristiana. L’atto di fede presuppone un profondo senso religioso, eliso dalla propria vita, invece, da chi si professa ateo.
L’ateismo, teorico o pratico, consiste nel fatto di non sapere più o non volere riconoscere l’esistenza di un Dio trascendente e personale: in questo modo l’uomo vive e fa l’esperienza dell’assenza di Dio dalla sua vita, ad un livello della coscienza che precede la fede cristiana in quanto tale.
Si può, infatti, essere non-credenti, dal profilo cristiano, senza essere atei, poiché la fede cristiana è qualcosa di più della stessa certezza razionale dell’esistenza di un Dio personale. La fede è la risposta interiore alla Parola di Dio nella sfera del pensiero e della volontà dell’essere umano; è la risposta e l’adesione, libera e personale, alla rivelazione attraverso cui Dio manifesta se stesso all’uomo e gli si manifesta non solo 2 come principio di tutte le cose, conoscibile come tale dalla semplice ragione umana, ma come l’essere trinitario, conoscibile solo grazie ad un dono soprannaturale, che Dio stesso fa all’uomo. Questo dono è la Grazia della fede.
Dio si rivela esistente come Padre, Figlio e Spirito Santo; come Creatore del mondo; come Verbo che si è fatto uomo in Gesù Cristo, per la nostra salvezza; come Spirito Santo che prende dimora nel cuore dell’uomo e nella Chiesa. Mentre la conoscenza razionale dell’esistenza di Dio impegna l’uomo a livello della sua intelligenza, la fede nel mistero della Trinità presente nel mondo attraverso Cristo e la Chiesa, coinvolge necessariamente l’uomo «tutto intero» 3, nella totalità delle sue facoltà mentali, volitive, psicologiche ed affettive.
Nell’atto di fede l’uomo non risponde a Dio solo con una parte di se stesso, ma con il consenso di tutta la sua persona. Vive un rapporto di amore con Dio, nella reciprocità. L’uomo affida se stesso, e si consegna a Dio, con tutta la sua persona. La fede, infatti, non consiste solo nell’accettazione intellettuale dei contenuti delle verità rivelate, quelle che recitiamo nel Credo. Questa conoscenza del Dio Trino postula un coinvolgimento della persona umana in tutte le sue risorse vitali, incidendo così anche sul nostro modo di concepire il nostro destino e il significato della storia.
Nella fede, l’uomo aderisce nel suo cuore a quel Dio che in concreto si manifesta al mondo attraverso il volto umano di Gesù Cristo, ancora presente nella storia attraverso la Chiesa, vale a dire attraverso la comunità universale e particolare di tutti coloro che, in nome di Cristo e con l’aiuto dello Spirito Santo, vivono in comunione di amore con Dio e tra di loro. La Chiesa, infatti, malgrado le sue molteplici precarietà, è il segno inconfondibile della presenza di Cristo Salvatore nel mondo.4
L’adesione alla Chiesa coincide, perciò, con l’adesione al mistero della Trinità, alla cui immagine e somiglianza l’uomo è stato preventivamente creato «per mezzo di Cristo » (Ef. 1, 4). Infatti, in Cristo nostro Signore, come ci insegna ancora San Paolo, «Dio ci ha scelti prima della stessa creazione del mondo» (Ef. 1, 4). In Cristo, la nostra appartenenza a Dio è ancora più antica di quella dell’universo creato: si perde nella profondità eterna di Dio.
Ciò che abbiamo appena descritto è la dinamica dell’atto di fede; della nostra fede personale. Se ne fossimo consapevoli, dovremmo gloriarci, come ci suggerisce di fare la liturgia ogni qualvolta ci fa ripetere le promesse battesimali. Certo, dobbiamo gloriarcene; essere cioè ad un tempo lieti, pieni di stupore e riconoscenti a Dio di essere stati immersi nell’orizzonte senza confini di questo mistero trinitario. È un orizzonte che valica i confini dell’intelligenza umana, ma che nello stesso tempo è comprensibile da ogni intelligenza, anche da quella della persona più semplice!
La fede in Cristo introduce alla conoscenza di un mistero che concerne Dio in se stesso, il nostro destino personale e quello del cosmo e della storia. È un mistero questo di cui l’uomo, tra tutti gli esseri, è l’unico a poter prenderne coscienza.
Senza cedere ad alcuna tentazione di presunzione, dobbiamo essere pienamente consapevoli dei contenuti e della forza culturale di questa nostra fede cristiana, proprio perché non investe solo la nostra persona, ma tutta la storia dell’umanità in quanto tale e del mondo. Il problema della nostra generazione è, per l’appunto, quello di ridiventare lucidamente, e dunque anche culturalmente, consapevoli di questa dimensione culturale della nostra fede.
La progressiva perdita del senso religioso e l’erro re della dissociazione tra la fede e la nostra vita quotidiana sono sintomi inequivocabili che noi cristiani siamo oggi potenzialmente in procinto di perdere la piena consapevolezza della nostra fede. È come se lentamente, ma inesorabilmente, anche noi stessimo per diventare atei o non credenti.
Stiamo, infatti, cedendo su due fronti: quello della consapevolezza di ciò che siamo come uomini e quello della coscienza di ciò che siamo come cristiani.
3. La consapevolezza di essere uomini
La cultura dominante nella nostra società moderna, chinatasi sull’uomo dal Rinascimento in poi, parla sovente dell’uomo. Ne parla però in modo riduttivo, perché lo affronta non nella sua concretezza reale, ma in modo astratto, seguendo di volta in volta i modelli astratti pro- posti dalle ideologie più diffuse.
Innanzi tutto, seguendo l’ideologia del consumismo, predominante forse nella nostra società svizzera e ticinese. In esso l’uomo è valutato a partire dalla sua capacità di fruire, sempre di più, di tutti i beni di consumo offerti dall’opulenza neocapitalista. Il modello di uomo, costantemente insinuato, è quello della persona che vale perché riesce ad emergere sugli altri nel possesso di ogni genere di beni materiali e culturali. L’uomo è stimato ed additato non per quello che è, ma per quello che possiede.
In secondo luogo l’ideologia del conformismo democratico, che stravolge la natura stessa della matrice culturale democratica e federalista del nostro Paese, essenzialmente pluralista. Tale ideologia impone di fatto il principio secondo cui nessuno deve pensare o agire in modo non conforme alla mentalità comune e all’opinione dominante. L’uomo «bene» è colui che si adegua nella sua vita, privata o sociale, ai parametri di convenienza fissati dal comportamento prevalente. Per questa ragione, oggi, avere molti figli, non divorziarsi quando la convivenza diventa un problema, non procurare l’aborto di un feto portatore di handicap, diventare prete, entrare in convento, oppure rinunciare alla possibilità di arricchirsi rapidamente, sono comportamenti e scelte considerate come spreco delle possibilità che la vita moderna offre all’uomo contemporaneo.
In terzo luogo l’ideologia razionalistica-liberale, che tende a far coincidere la dignità della persona con la sua libertà di fare o non fare quello che vuole, dando adito all’equivoco secondo cui la libertà non consiste, invece e in primo luogo, nella possibilità di aderire a valori morali oggettivi, previ alla libertà stessa di scelta. Se ognuno è libero di fare ciò che vuole, pur dovendo rispettare le norme della legge, valevole per tutti i cittadini, indistintamente, l’interesse ed il successo personale diventano gli elementi che nella vita contano più di tutto,
come se questo desiderio di espressione soggettiva coincidesse con l’essenza stessa del bisogno più profondo insito nel cuore dell’uomo.
Infine, l’ideologia marxista, meno diffusa nel nostro ambiente a livello di espressione teorica, ma molto penetrante a livello del metodo di analisi utilizzato per affrontare la realtà sociale, politica e culturale. Un’analisi che parte dal presupposto secondo cui l’uomo è, di fatto, sempre uno strumento asservito al potere. Un soggetto, cioè, che manipola ed è sempre, nello stesso tempo, manipolato. Questo presupposto, che nega di fatto la capacità dell’uomo di essere interiormente libero nelle sue scelte, identifica l’essere umano con i suoi bisogni temporali e terreni, rendendo ultimamente irrilevanti le sue aspirazioni religiose.
La consapevolezza che dobbiamo avere di noi stessi, come uomini è, invece, un’altra. E la consapevolezza che l’uomo non è un’astrazione in funzione di un progetto politico o di un’ideologia, bensì una realtà concreta e reale. L’uomo è un essere concreto e individuale, creato a immagine e somiglianza di Dio.
La novità culturale dell’Enciclica Redemptor hominis di papa Giovanni Paolo II sta, infatti, nell’aver riparlato a tutti, indistintamente, di quest’uomo concreto e reale, irriducibile nella sua dignità ad un numero appartenente alla massa dei quattro miliardi di uomini esistenti nel nostro pianeta. È quest’uomo concreto e reale che dobbiamo riascoltare in noi stessi! È la sua tensione all’assoluto, presente in tutti e in ciascuno di noi, perché creati ad immagine e somiglianza del Dio Uno e Trino, che dobbiamo imparare di nuovo ad ascoltare.
Il lavoro che tutti, credenti e non credenti, dobbiamo fare è quello di risalire alle spalle della cultura e delle ideologie moderne, come hanno fatto i cristiani dei primi secoli. Non si sono conformati alla cultura greco-romana di allora, pur avendone assunto molti valori fondamentali, ma sono stati fedeli al dato originale.
Dobbiamo imparare a risentire e ad accogliere tutta la provocazione di quest’uomo reale che sta nel cuore di noi stessi. Risentire questa provocazione equivale a sviluppare in noi il senso religioso che è stato colto con impareggiabile intuizione da Sant’Agostino quando scrisse all’inizio delle sue «Confessioni»: «Tu ci hai fatto, Signore, per Te; ed è irrequieto il nostro cuore, finché non riposa in Te!».
In questa inquietudine creativa batte e pulsa tutto ciò che esiste di più profondamente umano: il senso della nostra appartenenza a Dio, la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la sete di amore, la fame della libertà, la nostalgia del bello, lo stupore del nuovo, la voce della coscienza. La dignità dell’uomo coincide con il suo senso di appartenenza e di dipendenza da Dio e con la coscienza che il proprio destino è indissolubilmente legato a quello eterno di Dio.
Noi cristiani, come tutti gli uomini, non possiamo essere presenti nel mondo senza tener conto, per noi e per gli altri, che ogni tentativo di elidere o ignorare questo insopprimibile bisogno di Dio riduce il dato originale dell’uomo.
4. La coscienza di essere cristiani
Il punto di partenza per ritrovare la nostra capacità di credere le verità cristiane, che ci sono state rivelate e tramandate, è dunque il ricupero dell’immagine e della coscienza di cosa siamo in quanto uomini, cioè, di che cosa sia l’uomo. Ogni persona coincide, infatti, con l’uomo reale e concreto presente nel suo cuore. È quest’uomo reale concreto che noi cristiani non dobbiamo e non possiamo perdere in noi stessi.
Il primo passo, che noi cristiani dobbiamo compiere per poter far rifiorire in noi ed attorno a noi la nostra fede cristiana, è quello di prendere profondamente coscienza, a livello personale e comunitario, della presenza in noi di questo anelito religioso naturale, che permette di varcare la frontiera della temporalità, pur vivendola fino in fondo con tutte le sue esigenze storiche.
Questa capacità di vedere Dio in trasparenza nella nostra persona, negli altri uomini e donne, nelle cose che ci circondano, è l’itinerario culturale e religioso proposto a tutti gli uomini, e perciò anche a tutti i cristiani, da papa Giovanni Paolo II nella sua prima Enciclica, che inizia con la frase storica: «Il Redentore dell’uomo Gesù Cristo, è centro del cosmo e della storia».
II secondo passo è quello di prendere coscienza del potenziale ateismo pratico che alberga anche nella nostra mente e nel nostro cuore. Solo se ci accorgiamo della perdita progressiva nella nostra coscienza e nella nostra vita concreta del senso della nostra appartenenza a Dio Trino, in forza del fatto che siamo stati da Lui creati, che siamo stati redenti da Cristo e siamo diventati dimora dello Spirito Santo il giorno della Pentecoste; solo se ci rendiamo conto che in realtà viviamo per noi stessi e per le cose che facciamo, quasi che la vita ci appartenesse in proprio e non fosse un dono di Dio, dal quale siamo stati «creati per conoscerlo, amarlo e servirlo quaggiù onde poterlo godere per sempre in Paradiso», come ci inculcava il catechismo di un tempo, allora, e solo allora, sarà per noi possibile riappropriarci pienamente della fede nel mistero trinitario e nella Chiesa. Allora, e solo allora, ricupereremo quella fede che la tradizione cristiana ha fatto giungere fino in fondo alle nostre valli disseminandole di chiese, croci e cappelle, di generazione in generazione, e che ci è stata data in dono il giorno del nostro battesimo.
Il terzo passo, che noi cristiani dobbiamo compiere, è quello di capire la ragione ultima di tutti questi nostri cedimenti nel modo di vivere la fede cristiana. Infatti, se assistiamo in noi al divorzio tra la nostra fede e la nostra vita quotidiana, se non sappiamo più come utilizzare le nozioni centrali della nostra fede in Cristo, morto e risorto per noi, per affrontare i problemi fondamentali dell’esistenza di tutti i giorni, se le verità contenute nella nostra fede rimangono marginali rispetto agli obiettivi della nostra esistenza reale, questo avviene perché ultimamente viviamo una religiosità, e perciò anche una fede, deboli. La nostra fede è debole perché conta troppo poco nella nostra vita ed è incapace di diventare generatrice di un’esistenza e di una progettualità veramente cristiana.
Il quarto e decisivo passo è quello di renderci conto che la fede cristiana è un dono di Dio; un dono che ognuno di noi può accogliere, solo liberamente e volontariamente, nella profondità della propria coscienza e intelligenza, della propria affettività e della propria esigenza primordiale di vivere fino in fondo il gusto essenziale di essere uomo o donna.
Paradossalmente ogni uomo e ogni donna è qualcosa di più grande dell’uomo. Oltre ad avere dentro per natura l’immagine e la somiglianza trinitaria di Dio, l’uomo reale ha ricevuto in dono anche la capacità di compiere l’atto di fede che è un atto di abbandono libero, totale al Dio personale nella sua intelligenza e nella sua volontà; atto che solo Dio però può aiutare a compiere.
Professare: «Credo in un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra… Credo in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito. Figlio di Dio… Credo nello Spirito Santo, che procede dal Padre e dal Figlio… Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica… Credo alla risurrezione dai morti e alla vita del mondo che verrà», significa, da una parte, pronunciare parole semplici dal cui accostamento emerge però un significato inesauribile; dall’altra, essere immediatamente introdotti in quel mistero della Chiesa, Corpo Mistico di Cristo e nuovo Popolo di Dio, che custodisce e rende attuale questo stesso significato per noi e per tutti gli uomini.
È questa fede che ci dice cosa siamo come cristiani. È questa stessa fede che dà dignità e senso al nostro vivere quotidiano. Per questa ragione, cari fedeli, se è vero che la fede senza la vita quotidiana risulta inutile e si perde, è altrettanto vero che la vita senza la fede arrischia di essere arida, per il fatto di non possedere una finalità carica di significato eterno. Questa finalità orienta la vita terrena verso quella dimensione trascendente, di cui la comunione ecclesiale è il segno storico e tangibile.
Fedeli carissimi, la constatazione del Concilio Vaticano II, che nei cristiani della nostra epoca è avvenuta una divaricazione tra la fede e la vita quotidiana, non può perciò lasciare tranquillo nessuno di noi.
Il dualismo descritto dai Padri Conciliari non ha origine solo nella nostra incapacità personale di vivere in modo corretto dal profilo morale la fede cristiana. Se il problema fosse solo quello della nostra fragilità morale, allora il rimedio istituito da Cristo, e da sempre propostoci dalla Chiesa, sarebbe semplice: quello del sacramento della penitenza. In realtà, però, da molti anni disertiamo il confessionale, qualche volta sostituito in buona fede dalla confessione comunitaria, la quale, se fosse stata vissuta correttamente, avrebbe comunque dovuto ricondurci al confessionale. Se ciò non è avvenuto è perché abbiamo smarrito anche il senso del nostro peccato. Ciò è un indice che la nostra vita quotidiana sfugge globalmente a un giudizio dato a partire dai contenuti della nostra fede. Il problema perciò non è semplicemente quello della moralità, ma, ripeto, esso è più profondo, perché investe il modo stesso con il quale concepiamo globalmente la nostra esistenza, sottraendola al giudizio della fede.
Il rimedio a questa spaccatura non può essere solo quello di riconoscere e confessare le nostre colpe, ma, assieme a questo, quello di riappropriarci della nostra fede cristiana sul piano dei contenuti e sul piano dell’impegno esistenziale, personale e comunitario. Tale riappropriazione tocca non solo la sfera intellettuale, ma anche quella psicologica ed affettiva della nostra persona. La fede interpella tutto il nostro modo di vivere, con priorità su ogni altra cosa.
Ciò significa rendersi conto che nella vita tutto è necessario: il lavoro, la famiglia, la professione, lo svago, i soldi, la casa, ma che il compito fondamentale di ogni cristiano è quello di ricavare dalla fede tutta l’energia per vivere e quello di darne testimonianza agli altri. Già San Paolo chiedeva ai cristiani di Corinto: «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio». Anche a noi il tempo della vita è donato per maturare in questa stessa fede, che è la fede della e nella Chiesa. Assumendola fino in fondo esprimiamo la nostra personalità, che non coincide con il fatto di essere preti o monache, di essere professionisti o operai, di essere padri o madri di famiglia, ma di essere cristiani. Per una simile maturazione, personale e comunitaria, è indispensabile la catechesi, la quale è sempre stata considerata dalla Chiesa come uno dei suoi impegni più fondamentali.5
5. Necessità e urgenza della catechesi
La riappropriazione della fede cristiana deve avvenire, come abbiamo già detto, a due livelli: quello dei contenuti e quello del loro significato per il modo concreto di vivere in seno alla società contemporanea.
Il primo momento della catechesi è quello di apprendere l’insegnamento impartito dalla Chiesa. Papa Giovanni XXIII nel lontano 1961 ha intitolato la sua prima Enciclica Mater et magistra, proprio per sottolineare che la Chiesa è Madre, in quanto genera continuamente nuovi figli con il battesimo, ma che è anche Maestra perché con l’insegnamento delle verità di fede, attraverso la catechesi, essa nutre il «sensus fidei» dei fedeli, cioè il senso e il bisogno innato, esistente nel loro cuore e sviluppato in loro dal battesimo, di possedere la fede in modo così reale da diventare criterio di vita. 6
Secondo papa Paolo VI, la catechesi, come la predicazione, non devono trasmettere «dubbi e incertezze nati da una erudizione male assimilata, ma alcune certezze solide, perché ancorate nella parola di Dio». «I fedeli» – continua questo grande papa che non era certo né teologicamente problematico, né culturalmente chiuso – «hanno bisogno di queste certezze per la loro vita cristiana e ne hanno diritto in quanto figli di Dio».7
Queste certezze, che abbiamo largamente perso, non possono nascere da una conoscenza superficiale della nostra fede. Il Sinodo straordinario dei Vescovi, celebrato nel 1985 per commemorare il ventesimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II, non ha infatti esitato ad ammonire la nostra generazione per non aver letto attentamente ed in profondità i suoi testi.8
Troppo spesso ci si è limitati a prendere una visione superficiale dei documenti conciliari. Se è vero che la certezza non deve essere confusa con la presunzione, è altrettanto vero che il dubbio non serve alla conoscenza adeguata del mistero e quindi a renderci forti nella fede. Tutti i fedeli hanno perciò il diritto di ricevere da coloro che nella Chiesa, per ufficio o per mandato, sono responsabili della catechesi e della predicazione, risposte chiare sulle verità certe della fede e risposte responsabili sui problemi aperti e discussi.
Il secondo livello della catechesi è quello in cui impariamo ad accogliere i contenuti oggettivi della nostra fede nella interiorità psicologica ed affettiva del nostro “io”. Non basta, infatti, conoscere le verità e le certezze della fede, poiché la fede nella sua essenza è anche un atto di sequela e di fiducia nella persona di Cristo, in cui crediamo.
Gli Apostoli, i martiri, i confessori, i santi e tutti coloro che hanno contribuito a diffondere nel mondo il nome di Cristo, hanno scommesso la loro vita dando fiducia alla promessa di Cristo fatta al giovane ricco: «Chiunque ha lasciato case o fratelli o sorelle o padre o madre o moglie o figli o campi per il mio nome, riceverà il centuplo ed erediterà la vita eterna» (Mt. 19, 29).
La fede è un’adesione, di natura intellettuale e affettiva, grazie alla quale il cristiano consegna tutta la sua persona e tutta la sua vita a Dio Padre, che lo ha creato a immagine e somiglianza della Trinità; a Cristo che lo ha redento e unito a sé nel battesimo; allo Spirito Santo che ha preso definitiva dimora nel suo cuore nel sacramento della Confermazione.
Il terzo livello è quello del confronto dei contenuti di fede con la prassi della nostra vita quotidiana. Si tratta di mettere in evidenza le implicazioni della fede riguardo il tempo o il luogo in cui si vive, le condizioni di vita, la famiglia e il lavoro. In altri termini si tratta di mostrare come per un cristiano non sia possibile vivere, neppure una parte della propria umanità, al di fuori di quel senso della vita che scaturisce dalla fede in Cristo. Così l’intera nostra condizione umana, del singolo come della comunità ecclesiale, viene progressivamente illuminata e vagliata dai contenuti della fede che convergono tutti verso la persona di Cristo.
Il Vangelo, infatti, non è riducibile ad una dottrina, magari più sublime di qualsiasi altro insegnamento religioso o etico. Il Vangelo è l’annuncio della incarnazione, morte e risurrezione di Cristo, Figlio di Dio, e, nel contempo, la spiegazione del significato della sua persona per la nostra vita personale e per la storia dell’umanità. Il continuo paragonare la nostra vita con la fede diventa perciò inevitabilmente dialogo e confronto sincero e critico, oltre che con noi stessi con la cultura e la mentalità dominante, in seno alle quali viviamo e respiriamo a pieni polmoni.
Dal dialogo e dal confronto del Vangelo con la cultura, nasce, come quarto momento della catechesi, anche un giudizio culturale sui fatti, sugli avvenimenti, sulle tendenze, sulle dottrine, sui comportamenti comuni della società. «Per la Chiesa» – affermava con fermezza papa Paolo VI – «non si tratta soltanto di predicare il Vangelo… a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità che sono in contrasto con la Parola di Dio e con il disegno della salvezza».9
Il manifesto di questa posizione critica e profetica che il cristiano deve assumere nel mondo contemporaneo, che vive il dramma della «rottura tra Vangelo e cultura»10 è stato anticipato nella sua metodologia più profonda da San Paolo con questa consegna: «Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono». (1 Ts. 5, 21). Questo principio conferma in forma sintetica il monito rivolto ai colossesi: «Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia, con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo»
Oltre a giudicare noi stessi, nel nostro comportamento quotidiano, la catechesi deve aiutarci perciò ad essere attenti e critici nei confronti della realtà che ci circonda .11 Non si tratta certo di compiacersi in un atteggiamento gratuito di critica per partito preso, bensì di saper utilizzare nella nostra vita e nel rapporto con gli altri la novità insita nelle verità e nella grandezza della nostra fede in Cristo.
La testimonianza che dobbiamo dare a Cristo non può essere infatti limitata al buon esempio della nostra vita. In una società come quella contemporanea, sempre pronta ad interrogare il cristiano e la Chiesa con implacabile esigenza, la nostra testimonianza deve essere offerta anche con il sapere dare ragione della nostra fede. Già San Pietro esortava i primi cristiani ad essere sempre «pronti a rispondere a chiunque vi domanda la ragione della speranza che è in voi» (I Pt. 3, 15). Noi cristiani alla soglia dell’anno duemila non possiamo e non dobbiamo fare di meno.
6. Invito finale ad un cammino comune
È perché dobbiamo sempre essere pronti, di fronte a noi stessi e di fronte agli altri, a dare ragione del dono della fede in Cristo Gesù, oggi come domani, che vi invito, fedeli carissimi, a fare in questi prossimi anni un intenso cammino comune di catechesi, prioritario magari su tante altre cose, che non possiamo comunque tralasciare. Invito tutti, ma soprattutto gli adulti, a fare questo cammino, assieme ai presbiteri della nostra diocesi, alle religiose e ai religiosi, assieme a tutti quei fedeli laici che già sono impegnati, molto generosamente, nella catechesi sacramentale parrocchiale, e a tutti quelli, giovani e meno giovani, che vorranno unirsi per aiutare loro stessi e gli altri a riscoprire la fede cristiana come criterio di vita.
Questa catechesi deve permetterci di diventare tutti «forti nella fede». Saremo forti in essa nella misura in cui sapremo dare a noi stessi e agli altri la ragione del nostro credere e della nostra adesione personale a Cristo, Redentore di tutti gli uomini.
Ci sia di guida e sostegno l’esempio della Madonna «diventata realmente presente nel mistero di Cristo proprio perché ha creduto».12 Essere presenti nel mistero di Cristo significa essere determinati da esso nel nostro modo di esistere.
1 Gaudium et spes, n. 43.1.
2 Cfr. A. FROSSARD. N’ayez pas peur!. Dialogue avec Jean Paul Il, Paris 1982, 57-123.
3 Dei Verbum, n. 5.
4 Lumen gentium, n. 1.
5 Cfr. Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica Catechesi tradennae. Introduzione, 1.
6 Cfr. AAS 53 (1961) 401
7 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 79.
8 Relazione Finale, I, 3-5; cfr. anche il Messaggio ai Fedeli, n. III
9 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 19
10 Paolo VI, Evangelii nuntiandi, n. 20.
11 Cfr. 1 Cor. 2, 10-15.
12 Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Redemptoris Mater, n. 2.
1. Vivere il dono della fede
Nella prima lettera pastorale Siate forti nella fede ho sottolineato l’urgenza, per tutti noi, di riscoprire la nostra fede, non solo a livello intellettuale, ma soprattutto psicologico e affettivo.
Il divario che esiste in noi tra la fede e la vita trova la sua espressione nei nostri cedimenti di fronte alla mentalità della cultura dominante e nella nostra sudditanza al modo comune di pensare della società, diffuso dai mezzi delle comunicazioni sociali.
Poiché il senso religioso e la nostra fede cristiana sono diventati deboli, non sappiamo più come utilizzare le nozioni centrali della nostra fede nel mistero della Trinità, rivelatoci da Cristo, per affrontare i problemi fondamentali dell’esistenza. Esse rimangono marginali rispetto agli obiettivi reali della nostra esistenza.
Siamo forti nella fede quando raggiungiamo la consapevolezza che nella vita il compito fondamentale è quello di vivere secondo la logica della fede, che ci è stata data, cercando di farne il fulcro di tutta la nostra esistenza, senza peraltro lasciarci prendere dalla paura di dover rinunciare alla pienezza della dimensione umana, che la vita ci offre .
Infatti, tutto è necessario ed importante di ciò che la vita domanda o propone di fare: la famiglia, il lavoro, la professione, lo svago, i soldi, la casa: ma l’essenziale è riuscire a vivere tutte queste realtà in unità profonda con Dio, per salvare il loro vero significato: «Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio».13
Il primo compito di chi voglia essere cristiano, il primo compito, perciò, della nostra vita, quello che ha priorità su tutti gli altri, sta nel vivere la nostra esistenza secondo la logica della nostra appartenenza a Cristo nella fede.
S. Ilario di Poitiers ha scritto, nel IV secolo, una frase luminosa: «la vita non ci viene data solamente per morire ». Non basta, egli dice, il possesso, né il godimento tranquillo della vita stessa. Non possiamo contentarci dei beni e della sicurezza, altrimenti obbediremmo solo al nostro ventre e alla nostra pigrizia.14
L’antica risposta del catechismo alla domanda «perché Dio mi ha creato?» è valida anche oggi: «per conoscerlo, amarlo, servirlo in questa vita e per goderlo per sempre in Paradiso».15 Infatti, il vertice della vita, nella sua duplice espressione terrena e eterna, è raggiunto solo se amiamo Dio per quello che è: «Questa è la vita eterna: che cono- scano Te unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo».16 La vita terrena è vissuta realmente solo se riusciamo a mobilitare tutte le nostre energie verso questa finalità; la fede è perciò principio generatore di una vita intensamente vissuta. Conferisce alla stessa uno scopo più alto ed esaltante di quello che ad essa può imprimere qualsiasi finalità particolare e contingente.
Il dono inestimabile della vita, ricevuta per un atto d’amore assolutamente gratuito di Dio, è stato fatto individualmente a ciascuno di noi, affinché entriamo in comunicazione con Dio e viviamo con Lui un destino che perdura anche dopo la morte corporale. Proprio in questo destino consiste il valore inestimabile del dono della vita.
La conoscenza e l’adesione personale a Dio garantisce tutto il suo significato al nostro esistere, al nostro diventare adulti, al nostro amore interpersonale, al nostro educare i figli, al nostro lavoro, ai nostri progetti, alla nostra morte temporale.
L’emergere alla vita dipende da una scelta che Dio fa personalmente nei confronti di ciascuno di noi. È la chiamata, o vocazione, a vivere l’esistenza come itinerario destinato a sfociare oltre i limiti terreni del tempo e dello spazio, nel mistero eterno di Dio. È il mistero della Trinità, ad immagine e somiglianza del quale, per l’appunto, ognuno di noi è stato creato.
La fede è la capacità di conoscere tutta la verità di questo nostro destino, aderendo a Cristo che ce lo rivela, per poterlo raggiungere con certezza. «La vita non ci viene data solamente per morire». La sola ragione non è in grado di prospettarci tutta la dimensione e tutta la verità del destino al quale siamo chiamati.
Certo, Dio trova il modo, ben al di là dell’immaginazione di cui è capace la nostra misericordia, di salvare anche coloro che, per ragione indipendenti dalla loro volontà, non entrano in contatto con il Figlio di Dio fatto uomo. Per chi nella vita ha incontrato Cristo, però, questa salvezza dipende dalla risposta personale che riesce a dare a Dio per la vocazione ricevuta.
La salvezza, cioè il poter vivere ogni aspetto della nostra vicenda terrena senza spaccature interiori e il poter conoscere Dio e il senso del nostro destino personale nella visione eterna della Trinità, dipende dalla nostra adesione a Cristo come Redentore. La salvezza, dice infatti, San Paolo, «viene dalla fede».17
Vivere questa fede ed essere forti in essa, superando ogni tentazione di vanificarla, sostituendo le forme di sapienza solamente umana, è perciò il primo compito della nostra esistenza. Tutti gli altri compiti particolari di cui la vita ci investe sono ad esso subordinati. Ognuno di noi, cari fratelli e sorelle nel Signore, deve rendersi conto di avere già incontrato Gesù Cristo nella sua esistenza. Ognuno di noi ha ricevuto, nel Battesimo, il dono della fede.
La fede è quella conoscenza intellettuale, psicologica ed affettiva che ci è stata infusa, come dono, dallo Spirito Santo nel Battesimo: «Ora voi», scrive San Giovanni, «avete l’unzione ricevuta dal Santo Spirito e tutti avete la scienza»,18 cioè la conoscenza, in germe, del vostro destino in Dio. La nostra fede battesimale, cioè quella conoscenza conferitaci con l’unzione o consacrazione sacramentale, stabilisce in noi il contatto con la realtà soprannaturale di Dio. Ci mette in contatto con Dio e con il nostro destino in tutta la loro verità.
«E quanto a voi» continua San Giovanni «l’unzione che avete ricevuto da Lui (dallo Spirito Santo) rimane in voi, e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri. Ma come la sua unzione (cioè la fede conferita con la consacrazione battesimale) vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in Lui».19 La fede rimane in noi e dobbiamo stare saldi in lei, perché ci fa capire e ci ammaestra su ogni cosa.
Si tratta perciò, nella vita, di far crescere, a livello di conoscenza e di adesione esistenziale, il seme della fede depositato dallo Spirito Santo nel nostro cuore, resistendo all’autorità della pura ragione umana che, nella cultura moderna, cerca di far valere, quale unica categoria valida per l’esistenza e la convivenza sociale, quella della certezza scientifica.
2. La fede, per sua essenza, richiede di essere trasmessa
Se il dono della vita non ci è stato dato solamente per morire, non ci è stato dato neppure solamente per essere consumato a titolo personale.
La vita ci è stata donata per essere trasmessa agli altri nei nostri figli. La stessa logica regge il dono della fede, poiché la fede non ci è stata conferita per una finalità solo personale. Ci è stata data per essere annunciata agli altri, man mano che essa si sviluppa in noi in modo articolato ed organico.
L’annuncio della fede agli altri è essenziale alla fede stessa. È proprio dell’essenza della fede, come della vita, l’essere trasmessa.
San Paolo ha stabilito questo assioma: la fede dipende dalla predicazione. Nella lettera ai romani si pone, infatti, questa domanda: «Come potranno credere senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? Ora la fede dipende dalla predicazione» .20
Perché uno possa accedere al Battesimo ed alla fede ha bisogno di un annuncio: quello promesso dai genitori quando fanno battezzare il loro bambino; oppure quello diretto ed esplicito fatto ad un adulto da qualsiasi persona. Un annuncio che può avere la funzione di primo annuncio della fede, oppure quella di far riscoprire una fede già ricevuta.
È esattamente su questo punto, cari fratelli cristiani, che dobbiamo confrontarci quest’anno, dopo aver meditato, nella lettera pastorale Siate forti nella fede, sulla natura stessa della fede e sul nostro dovere di viverla quale impegno prioritario della vita.
La fede in Cristo è stata data a ciascuno di noi come dono dello Spirito Santo, assieme al mandato di comunicarla agli altri.
In realtà, la fede è realmente vissuta da una persona solamente nella misura in cui essa sente dentro di sé l’urgenza e la passione di comunicarla agli altri: di fare agli altri l’annuncio della sua adesione a Cristo. La fede diventa così l’oggetto del suo rapporto con le altre persone. La fede è forte, solo quando mobilita una persona fino al punto di diventare contenuto della sua conversazione e del suo rapporto con gli altri.
L’uomo tende naturalmente a comunicare agli altri se stesso, i suoi pensieri, le sue opinioni, i suoi desideri, le sue gioie e le sue angosce. L’uomo è essenzialmente bisognoso di relazione con le altre persone.
Se la fede non entra, come contenuto di questa trama di rapporti della persona, significa che il soggetto non la possiede quale energia e forza spirituale e che essa non gli appartiene come elemento costitutivo della sua personalità.
La necessità di trasmettere la fede agli altri deriva, prima di tutto, dal fatto che essa implica un’adesione a tutto il mistero della persona di Cristo. È il mistero del Figlio di Dio venuto nel mondo e nella storia per rivelare all’uomo l’esistenza, non conoscibile per pura ragione, del Dio personale Uno e Trino.
Il Figlio di Dio, infatti, è colui che è stato mandato dal Padre per la salvezza del mondo. Non è venuto da se stesso, ma è stato mandato dal Padre: «Non sono venuto infatti da me stesso, ma Lui (il Padre) mi ha mandato».21
«Le opere che faccio mi rendono testimonianza che il Padre mi ha mandato».22 «Devo annunziare la buona novella del regno di Dio, per questo sono stato mandato23. Queste affermazioni di Cristo riassumono quanto aveva già proclamato a Nazareth, quando era entrato la prima volta nella sinagoga, ed aveva applicato a sé la profezia di Isaia:24«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio».25
3. Il mandato di annunciare la fede
Questo stesso annuncio della salvezza dell’uomo, del tempo cioè della Nuova Alleanza stabilita da Dio con gli uomini, portato da Gesù nel mondo per mandato del Padre, deve essere riproposto pazientemente a tutti gli uomini nel progredire del tempo e della storia.
Gesù è stato il primo ad annunciare la buona notizia (espressione che traduce in italiano il termine greco «evangelo »); è stato il primo evangelizzatore del mondo per incarico del Padre, ma ha mandato noi, dopo di lui, a fare lo stesso annuncio: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi»;26 «andate perciò a proclamare questa buona novella in tutto il mondo»27; «andate e fate discepoli in tutte le nazioni»28.
Questo comando dato da Cristo agli Apostoli vale anche per noi, per tutti noi cristiani, chierici e laici, sia pure secondo modalità diverse. Se tutti abbiamo incontrato Cristo nella vita e possediamo perciò una vocazione irreversibile a vivere nella fede, tutti abbiamo ricevuto anche la vocazione ed il mandato di annunciare agli altri la salvezza da noi incontrata.
L’apostolo Giovanni ci ricorda questo fatto con la vibrazione tipica delle sue parole: «Colui che era fin dal principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita eterna, che era presso il Padre e che si è manifestato a noi… lo annunzio anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi»29. Come Giovanni evangelista, anche noi abbiamo ricevuto da Cristo il mandato di trasmettere la nostra fede «affinché anche gli altri abbiano comunione con noi».
L’annuncio della fede agli altri non incombe solo ai vescovi, ai presbiteri, ai religiosi, incombe a tutti i cristiani indistintamente, a tutti quelli che credono; incombe, perciò, con la stessa urgenza, anche a voi laici che credete in Gesù Cristo.
Gli Apostoli e i loro successori i Vescovi, assieme ai presbiteri e ai diaconi, hanno ricevuto questo mandato a livello ministeriale, attraverso uno specifico sacramento, quello dell’ordine sacro, che li ha resi continuatori e garanti, nella storia, della missione stessa di Cristo.
Ma anche voi fedeli laici, indistintamente uomini e donne, sia che viviate nel mondo, sia che abbiate abbracciato la vita religiosa, tutti accomunati ai ministri ordinati dal Concilio Vaticano II a costituire nell’unità il nuovo Popolo di Dio, che è la Chiesa, siete depositari di questo mandato, grazie al sacramento del battesimo che conferisce a tutti i fedeli un sacerdozio comune.
Il battesimo, se apre a tutti i fedeli, laici e chierici, le porte della Chiesa come realtà sacramentale visibile, conferisce anche a voi laici il mandato di annunciare agli altri, nel rispetto e nella sequela del magistero del Papa e dei Vescovi, la «buona novella» della salvezza universale.
La vostra partecipazione alla missione della Chiesa non può ridursi ad una assunzione attivistica di responsabilità nelle comunità: deve diventare, come dice la recentissima Esortazione Apostolica Post-Sinodale Christifideles laici di Papa Giovanni Paolo II, «slancio e azione missionaria verso quanti ancora non credono, o non vivono più la fede ricevuta nel battesimo».30
Tutte e due questi sacramenti, il battesimo e l’ordine sacro, conferiscono una partecipazione, sia pure differenziata, al Mistero della persona di Cristo. La differenza in questa partecipazione non sta nell’urgenza, o nella necessità del mandato di annunciare il Vangelo, bensì nella sua natura; nel fatto, cioè, che la responsabilità della garanzia della autenticità è affidata solo al sacerdozio ministeriale, cioè ai Pastori.
«Guai a me se non annunciassi il vangelo» ha esclamato San Paolo31. Guai a noi fedeli se non annunciassimo il vangelo. La nostra fede sarebbe debole e non sarebbe del tutto vera. Non saremmo pienamente consapevoli, né di che cosa il nostro incontro con Cristo sia stato per la nostra vita, né di cosa sia la salvezza che abbiamo ricevuto.
Se tutti voi laici, anche quelli che vivono nel mondo, siete costituiti responsabili della trasmissione della fede, con la parola di testimonianza, le opere e la vita, su di voi incombe una responsabilità ancora più grande quando ricevete il sacramento del matrimonio.
La famiglia infatti ha una particolare valenza ecclesiale, tanto che il Concilio Vaticano II l’ha paragonata ad una «Chiesa domestica».32 In essa deve avvenire il primo annuncio della fede ai figli. È questa la ragione per cui la famiglia è sempre stata considerata quale «cellula portante della cultura cristiana».33
Senza l’annuncio della fede fatto in seno alla famiglia, la Chiesa incontra difficoltà sempre più gravi nell’annunciare la fede nella società contemporanea, perché trova un ambiente culturale sempre più estraneo, o avverso, alla verità che Dio ha rivelato.
4. Possedere la consapevolezza del mandato
Le condizioni imprescindibili perché anche in noi possa nascere l’urgenza e lo slancio di comunicare agli altri la nostra fede sono due: possedere la coscienza di essere investiti di questa missione da Cristo e dalla Chiesa, e possedere la coscienza di aver ricevuto in dono una verità da comunicare. È prima di tutto fondamentale essere consapevoli del fatto che l’annuncio agli altri di ciò che crediamo nella fede è parte essenziale della fede stessa. trasmettere agli altri; una verità che non vale solo per noi, ma per tutti.
Annunciare la buona notizia, cioè la salvezza da cui siamo stati investiti nella fede, non è una scelta che può dipendere dalla nostra voglia personale, come se dipendesse solo dalla propria volontà e come se si trattasse di annunciare un evento solo a nome proprio.
La fede dobbiamo trasmetterla agli altri, ai nostri figli, alle persone che incontriamo, a quelle che amiamo più di tutte, al marito e alla moglie; a quelli in cui la vita, la professione, i rapporti sociali, gli eventi necessari o casuali ci fanno imbattere e mettono nell’orizzonte del nostro destino umano, perché il Signore Gesù ci ha investiti di questo mandato. Non lo facciamo perciò in nome proprio, ma in forza del mandato che abbiamo ricevuto, indipendentemente dal nostro statuto ecclesiale, dall’essere ministri consacrati o laici.
Quando non avessimo la consapevolezza di questo mandato, o quando l’avessimo perduta, il nostro annuncio diventa immediatamente velleitario, inconsistente o ideologico; diventa facilmente strumento per dominare sugli altri, prevalendoci di qualche cosa che crediamo di possedere.
Evero, cari fratelli e sorelle nel Signore, che l’uomo moderno, come ha scritto Papa Paolo VI nella sua Enciclica Evangelii nuntiandi, «è sazio di discorsi e si mostra spesso stanco di ascoltare»; è vero che è immunizzato contro la parola e che taluni affermano che «l’uomo moderno ha superato la civiltà della parola, ormai inefficace ed inutile, e vive oggi nella civiltà della immagine … »34, ma ciò non diminuisce la forza permanente della parola e non ci deve far perdere la fiducia in essa.
L’assioma stabilito da San Paolo è sempre valido anche oggi: «la fede dipende dalla predicazione», cioè dall’«annuncio orale». È la Parola di Dio ascoltata che porta a credere e noi dobbiamo trasmettere questa Parola con la nostra parola e con la nostra testimonianza.
Tutti abbiamo perciò ricevuto, originariamente, la vocazione di essere missionari. Quando parliamo di missione non dobbiamo pensare immediatamente all’America Latina, all’Africa o all’Asia; dobbiamo pensare a quella cerchia di persone che affolla la nostra vita quotidiana e che fatica a mantenere la fede in Cristo, oppure l’ha già persa.
Questo impegno di diffondere la nostra fede attorno a noi fa parte della nostra identità cristiana. È un fatto al quale dobbiamo convertirci se vogliamo vivere in profondità, e con verità, la nostra fede. Assumere una posizione di apertura e di responsabilità verso gli altri, così da sentirci autorizzati a comunicare loro ciò che crediamo, è elemento fondamentale della nostra conversione personale.
La fede non comunicata non è vera fede e non ci salva; non raggiunge la pienezza del suo significato salvifico nel nostro cuore umano. La fede è vera, invece, quando si trasforma in testimonianza, provoca l’ammirazione e la conversione, si fa predicazione ed annuncio della buona novella.35
Proprio perché non si tratta di imporre una verità a nessuno, l’annuncio non è mai una violazione della libertà personale degli altri, ma è piuttosto un omaggio a questa libertà della persona, alla quale si annuncia e si propone una scelta, un’adesione.36
Papa Paolo VI, rispondendo all’obiezione spesso circolante nell’opinione moderna, che la missione, cioè l’annuncio, costituisce un attentato alla libertà di coscienza, si è giustamente chiesto: «È dunque un crimine contro la libertà altrui proclamare nella gioia una buona novella che si è appresa per misericordia di Dio?». Perché solo la menzogna è l’errore, la degradazione e la pornografia avrebbero diritto di essere proposti e spesso imposti dai mass-media?37
Questo modo rispettoso di proporre Gesù Cristo come redentore dell’uomo, oltre ad essere un nostro diritto e un nostro dovere, è un diritto dei nostri fratelli cristiani e non. Essi hanno il diritto di ricevere il vangelo.
Il vero problema è solo quello di sapere se noi, per negligenza, per ignoranza, per paura, per rispetto umano, per quella vergogna che fa «arrossire il vangelo»,38 o, per falsa ideologia, trascuriamo di annunciarlo, perché ciò significa tradire il mandato conferitoci da Dio.
Se non abbiamo il coraggio di testimoniare agli altri la nostra fede è perché abbiamo perso la consapevolezza del dono ricevuto, la coscienza della nostra identità cristiana e il senso dell’amore per gli altri.
Il segno più sicuro, infatti, del bene, che dovremmo volere alle persone, sta nella cura di comunicare loro la verità di cui siamo stati gratificati da Dio nella fede39. L’espressione più nobile della nostra carità verso i fratelli è quella di illuminarli con la conoscenza della verità che salva noi e loro.
Ogni rapporto, che un cristiano intrattiene con un’altra persona, per essere vero fino in fondo non deve mortificare in noi la dinamica dell’essere testimoni della verità di Cristo, con le opere e con la parola.
Se la società moderna sta perdendo la coscienza della propria origine cristiana, ciò è dovuto in larga misura al fatto che la maggior parte di noi ignora il mandato ricevuto da Cristo di essere Suoi testimoni nel mondo. Se la società si è scristianizzata, cedendo all’inevitabile impulso della secolarizzazione, è perché la nostra fede, da molto tempo, è diventata muta, incapace di esprimersi nella testimonianza e di coinvolgere gli altri.
5. È richiesta la certezza di una verità da trasmettere
Il secondo presupposto per riscoprire l’urgenza di confessare agli altri la nostra fede è quello di essere consapevoli di essere in possesso di una verità da offrire a chi ancora non la possiede, o a chi ha dimenticato di avere incontrato Cristo nel battesimo.
Noi cristiani dobbiamo sentirci «debitori del vangelo» verso tutti, così come ha scritto l’Apostolo Paolo.40
Ma se non possediamo la coscienza della verità, che ci è stata rivelata nella fede, non avremo il coraggio di aprirci, non matureremo in noi, sacerdoti, religiosi e laici, il senso della responsabilità per la verità e la consapevolezza di essere debitori a tutti del vangelo.
La coscienza della verità, scrive Papa Giovanni Paolo II: cioè «la consapevolezza di essere portatori della verità che salva, è fattore essenziale del dinamismo missionario della intera comunità ecclesiale, come testimonia l’esperienza fatta dalla Chiesa fin dalle origini. Oggi, in una situazione nella quale è urgente por mano ad una nuova evangelizzazione, una forte e diffusa coscienza della verità appare particolarmente necessaria».41
Proprio perché noi cristiani abbiamo perso la coscienza di essere stati investiti da Dio con la Sua verità, è avvenuta in noi una caduta della tensione missionaria, individuale e comunitaria. Possiamo essere una presenza carica di annuncio e di testimonianza nella società solo nella misura in cui, nella nostra vita, viviamo la memoria dell’evento che ci è accaduto e continua ad accaderci. L’evento di aver incontrato Cristo ed, in Lui, la verità su Dio e sul nostro destino umano.
Quando questa certezza opera una lenta e progressiva trasformazione della nostra vita, genera in noi, sacerdoti e laici, una personalità dotata di una nuova percezione del nostro «Io» e di quanto accade attorno a noi. Carichi di questa verità che è una novità trasformatrice, affrontiamo l’esistenza in modo diverso, fin al punto di palesarci agli altri. Quando l’evento dell’incontro con Cristo nella fede ci percuote veramente, esso si allarga in noi sino a ricomprendere tutti i nostri gesti e i nostri comportamenti, comunicandosi agli altri spontaneamente.
Ciò presuppone, però, in noi, l’idea chiara di aver ricevuto in deposito, nel profondo del cuore, grazie alla consacrazione battesimale, una verità rivelata, che la ragione umana, da sola, non può conoscere. È la coscienza di essere stati raggiunti dalla luce misericordiosa di Dio e di essere perciò chiamati a diventare luce del mondo: «Voi siete la luce del mondo»,42 cioè i depositari di una conoscenza salvifica. Il Cardinale di Bologna Giacomo Biffi scrive, a questo proposito, che in una cultura in cui si privilegia il dubbio, considerato «segno di una mente libera ed aperta a tutti i valori, mentre le certezze esprimerebbero angustia, dogmatismo, intolleranza, chiusura ad ogni dialogo», anche noi cristiani cediamo facilmente di fronte alla paura di essere considerati dal mondo laico come integristi e il nostro annuncio agli altri si affievolisce.
La certezza (che non ha niente a che vedere ton l’ostinazione nella difesa immotivata di opinioni senza fondamento) «è per se stessa una qualità positiva della conoscenza; non un suo difetto»: il dubbio invece (che non ha niente a che vedere con la giusta instancabili nella ricerca e nell’approfondimento della verità) «è di per sé un’impurità della coscienza della quale non c’è ragione alcuna di vantarsi; è uno stato morboso da cui l’uomo, che è fatto per la verità, deve sempre tentare di uscire».
Coloro che colpevolizzano il credente di avere delle certezze «hanno sempre essi stessi delle convinzioni che ritengono indiscutibili. Abbiamo invece bisogno, per esistere ragionevolmente, di verità indiscutibili sulle quali appoggiare la nostra esistenza».43
Queste verità fondamentali le possederemo se il Credo, da noi recitato tutte le domeniche, diventasse veramente il punto di riferimento della nostra vita. E proprio questa la ragione, fedeli cristiani, il motivo per aver iniziato in Diocesi la catechesi per adulti, scegliendo gli articoli fondamentali del Credo, come linea conduttrice per la nostra rieducazione alla fede.
6. L’annuncio non può prescindere dalla testimonianza personale
La coscienza di certezza diventa presupposto della nostra inquietudine missionaria e del nostro amore per gli altri, solo quando assume anche un carattere, non solo intellettuale, ma anche esistenziale.
Solo se siamo in grado di vivere esistenzialmente in noi stessi l’effetto salvifico delle verità che crediamo nella fede, la nostra testimonianza diventa veramente comunicativa. Comunicativo infatti, per sua forza, diviene l’annuncio in ogni uomo che lo vive nella propria persona. È una comunicazione che produce in noi e negli altri una trasformazione radicale e continua.
Basta pensare alla Samaritana nell’attimo in cui, colpita nel segno dall’annuncio del Cristo, corre trasecolata ad annunciare agli abitanti del suo villaggio: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Non sarà lui il Messia?».44 L’incontro con Cristo è stato per lei un avvenimento che l’ha colpita nel cuore del suo essere. Perciò corre a comunicarlo agli altri.
Anche l’esperienza di San Paolo descrive assai bene la dinamica dell’annuncio. Arrestato nella sua corsa da Cristo, apparsogli sulla via di Damasco, ne resta così profondamente trasformato, che da tutto il suo comportamento trasparirà la presenza viva di una memoria: quella di aver incontrato Cristo. Per questo egli si pone ovunque, e in qualunque cosa compia, come missionario. Il suo annuncio, infatti, è il riverbero sugli altri di ciò che era accaduto e stava continuamente accadendo in lui.
Tutta la predicazione degli Apostoli ha come fondamento psicologico ed esistenziale l’esperienza del loro incontro personale con Cristo. Abbiamo già ricordato San Giovanni quando scrive: «Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi». Non è solo il racconto dell’esperienza del primo incontro con Cristo, ma il resoconto di quanto l’apostolo Giovanni ha vissuto durante tutta la vita e che ha trasformato la sua esistenza.
Anche il primo discorso tenuto da San Pietro a Gerusalemme, ai pellegrini provenienti da tutte le parti dell’impero romano per la celebrazione della Pentecoste ebraica, risponde alla stessa dinamica: quella di testimoniare l’esperienza che lui stesso aveva fatto di Cristo: «Fratelli, parliamoci francamente.
Gesù il Nazareno fu uomo accreditato da Dio presso di voi con prodigi, portenti e miracoli… e voi l’avete ucciso inchiodandolo al patibolo. Ma Dio lo ha risuscitato… E noi tutti ne siamo testimoni. Egli è stato dunque esaltato alla destra di Dio, ha ricevuto dal Padre il dono dello Spirito, come voi ora vedete e ascoltate». A queste parole i presenti furono profondamente turbati e dissero a Pietro e agli altri Apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli? ». Pietro rispose loro: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per ottenere il perdono dei vostri peccati: e riceverete il dono del Santo Spirito». Essi allora accolsero la sua parola e furono battezzati, e in quel giorno si aggiunsero a loro quasi tremila persone.45
La straordinaria capacità di Cristo di raccogliere attorno a sé gli Apostoli, all’inizio della sua predicazione, non è il risultato di un discorso intellettuale sulla salvezza e sulla Nuova Alleanza, ma di una proposta concreta: quella di condividere con lui la vita quotidiana: «Gesù voltatosi e visti i due discepoli che lo stavano seguendo disse loro: «Che cercate? ». Gli dissero: «Rabbi, dove abiti?». Disse loro: «Venite e vedrete».46
Se non esiste un nesso esistenziale tra ciò che vorremmo trasmettere agli altri e ciò che è accaduto in noi, un nesso cioè con la verità annunciata e l’esperienza da noi vissuta, la nostra testimonianza non è totalmente vera e perde molta della sua efficacia.
«Predicate veramente quello che vivete?», domanda Papa Paolo VI nella sua grande EnciclicaEvangelii nuntiandi. La testimonianza della vita, infatti, «non solo attraverso le opere, ma attraverso il racconto della propria esperienza personale, è divenuta più che mai una condizione essenziale della predicazione».47
Accanto alla predicazione del Vangelo in forma generale Gesù, infatti, ha praticato anche l’altra forma: quella da persona a persona, che ogni cristiano può e deve facilmente praticare. Così con Nicodemo, Zaccheo, la Samaritana, Simone e il fariseo e con altri: «C’è forse in fondo una forma diversa di esporre il Vangelo che trasmettere agli altri la propria esperienza di fede?», si domanda ancora il Papa nella Evangelii nuntiandi.48
Se il Vangelo ha toccato il nostro cuore può toccare anche quello degli altri, perché la nostra esperienza personale dà una vibrazione interiore alle nostre parole, così da produrre sull’altro il sapore e il convincimento della verità.
7. L’annuncio del Vangelo: contributo alla promozione umana
La mancanza dell’annuncio della fede e i danni che ne derivano sono comprovati dalle angosce dell’uomo, dalla turbolenza, dai dissidi e dai conflitti che percorrono la società civile e gli stessi rapporti tra i popoli.
Evidentemente questo fenomeno, prima che dalla mancanza della fede cristiana, è ingenerato dalla caduta del senso religioso. L’uomo, privo di senso religioso, pone se stesso al centro dell’esistenza, in una posizione autonoma rispetto al Trascendente. Ne è riprova il fatto che l’uomo moderno tende a dare una giustificazione puramente antropologica o sociologica a tutti i dissesti peculiari dell’epoca contemporanea.
È, ad esempio, ricorrente l’analisi sociologica e comportamentale delle cosiddette devianze, dei disadattamenti, delle emarginazioni ed alienazioni che accompagnano, sia l’opulenza della nostra società occidentale, sia la massificazione sociale propria dei Paesi marxisti. Quelle del drogato, del violento, dell’alcolista, dell’omosessuale e di tutte le altre forme di diversità sono posizioni individuali o collettive, che vengono sistematicamente ricondotte ad origini familiari, interpersonali o sociali di incomprensione, a disaffezione, a contrasti, a discriminazioni, a prevaricazioni di potere, a sperequazioni socio-economiche e arretratezza culturale.
Dati, questi, che possono certamente produrre, favorire e accompagnare l’insorgere di queste situazioni. Tuttavia, sempre, al fondo di esse, vi è un dato che raramente viene colto dalle ricorrenti analisi su questi guasti e posizioni residuali. Il fatto che essi siano il fenomeno emergente di spazi sempre più vasti, nella coscienza del singolo come nel sentire collettivo, mancanti del senso di Dio e della appartenenza a Lui di tutte le cose: di una esperienza umana, cioè, priva di un senso religioso naturale, o di una fede cristiana in valori soprannaturali.
L’uomo che non vede in se stesso e nel prossimo l’immagine di Dio può dissociare la propria persona, far mercimonio del proprio corpo, infliggere violenza fisica o psichica agli altri, senza percepire tutta la gravità del proprio agire. Non solo ai margini della società possono individuarsi tali forme negative, ma, in modo forse più drammatico e pericoloso, per il futuro dell’uomo, anche in quelle acquisizioni della creatività dell’uomo e del suo sapere scientifico, ritenute positive e come tali socialmente apprezzate.
Il progresso tecnologico, la liberazione da tutti i tabù, l’emancipazione dalla norma oggettiva e il dominio sulla legge di natura, sono troppo spesso vissuti come valori fine a se stessi, come valori davanti ai quali deve inchinarsi qualsiasi considerazione di morale, di religione o di fede cristiana.
Quando la novità è considerata sempre come progresso, come naturale sviluppo della capacità creativa dell’uomo cui tutto deve soggiacere, si entra in una dinamica esistenziale nella quale non c’è più posto per il confronto con la trascendenza.
E allora diventa lecito, positivo e valido, tutto ciò che l’uomo può creare e tutto ciò che l’uomo vuole sperimentare e produrre. Diventano così espressione del progresso, della libertà dell’uomo di autodeterminarsi, della sua capacità di emancipazione e simbolo di liberazione, l’aborto, l’eutanasia, il controllo delle nascite e la procreazione artificiale, l’ingegneria genetica e tutto ciò cui l’uomo può conferire, modificare o togliere l’esistenza e le sue modalità.
Ancora una volta l’uomo, come Prometeo, rincorre il mito di rubare il fuoco a Dio per rischiarare il proprio cammino nella storia, verso mete di cui vuole essere l’unico programmatore. Sia le devianze che i risultati della sfida tecnologica, che caratterizzano l’ora presente, sono in larga misura, infatti, la risultante di una cultura che ha smarrito il senso della appartenenza a Dio e che non ascolta, o soffoca i richiami della fede in Cristo.
È questa una ragione in più, cari fratelli e sorelle nel Signore, per sostenerci nella consapevolezza che l’annuncio della fede cristiana è un’urgenza che non trova soltanto una giustificazione teologica, ma che è esigita anche da una preoccupazione sociale, politica e culturale.
Per il cristiano la prima forma di promozione umana consiste, infatti, nel trasmettere la fede, cioè, nella comunicazione al prossimo del dono più grande, assieme alla vita data da Dio all’uomo. La condizione previa ad ogni promozione umana sta, infatti, nel rinnovamento interiore dell’uomo stesso.
Quando il nostro annuncio riesce a far percepire all’uomo la novità dell’avvenimento di Cristo suo Salvatore, si instaura in lui, inevitabilmente, una dialettica serrata con la realtà sociale in cui vive e cerca di trasformarla per renderla più umana. Non esiste promozione umana compiuta, esauriente e vera, se non nel solco e all’interno della promozione umana che Dio ha compiuto nella storia, rivelando all’uomo la verità di se stesso e quella sul destino dell’uomo, da Lui creato a Sua immagine e somiglianza.
L’uomo comprende in tutta la sua lucidità la propria dignità e il proprio destino solo se lascia risuonare in sé l’annuncio della salvezza. Quando cerca di essere uomo al di fuori di questo annuncio di Dio, fattogli attraverso Gesù Cristo e la Chiesa, non riesce più a misurare con esattezza le proprie dimensioni, perde facilmente la sua libertà e il senso della sua vocazione storica.
È per questo, cari fedeli cristiani, che non possiamo non prendere sul serio il mandato conferitoci da Cristo e riconfermatoci dalla Chiesa nel battesimo: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo»: perché non solo lo esige la nostra appartenenza a Cristo, ma anche il nostro amore per l’uomo e per la società in cui siamo immessi. Questo amore è il banco di prova della nostra fede cristiana.
8. L’annuncio attraverso la catechesi
Accanto al Magistero della Chiesa – quale garante ultima di autenticità -,accanto all’omelia nella celebrazione eucaristica, alla predicazione in genere, alla testimonianza personale e comunitaria, uno degli strumenti privilegiati dell’annuncio della fede è la catechesi.
Nella lettera pastorale Siate forti nella fede ho fatto l’analisi della dinamica secondo cui dobbiamo vivere la catechesi, sottolineando quattro momenti diversi.49
Prima di tutto il momento dell’apprendimento della dottrina della Chiesa, compendiata nelle formule del Credo. Si tratta in primo luogo di nutrire, a livello di conoscenza, il sensus fidei, cioè quel patrimonio quasi “genetico” di fede conferitoci con la consacrazione battesimale. Esso si radica profondamente nel bisogno innato, esistente nel cuore dell’uomo, di aprirsi a Dio. Solo se sviluppiamo in noi questo patrimonio e questa sensibilità iniziali, la fede può diventare progressivamente criterio reale, vita e logica che determina non solo in modo settoriale, ma globalmente la nostra esistenza.
Il secondo momento è quello in cui impariamo ad accogliere i contenuti intellettuali oggettivi della fede nella interiorità psicologica ed affettiva del nostro “io”. Non basta, infatti, conoscere le verità e le certezze della fede, poiché la fede, nella sua essenza, è anche un atto di sequela affettiva ed esistenziale della persona di Cristo. È un atto di natura intellettuale ed affettiva con il quale il cristiano fa fiducia a Cristo e consegna la sua persona e tutta la sua vita a Lui e al mistero della Trinità.
Il terzo momento è quello del confronto dei contenuti della fede con la prassi della nostra vita quotidiana. Ciò per evitare che s’insinui nella nostra persona un divorzio tra la verità creduta e il nostro modo reale di pensare, di agire e di operare.
Il quarto momento è quello della elaborazione di un giudizio sui fatti, sulle tendenze, sugli avvenimenti, sulle dottrine e sui comportamenti comuni e dominanti nella nostra società. Un giudizio sulla immagine del mondo che, riprodotto dai mass-media, da questi trae anche nutrimento. Un dialogo e un confronto con la cultura, nella consapevolezza che la fede ha una valenza culturale insopprimibile, come la storia ampiamente dimostra. La regola d’oro di condotta in questo sforzo critico è stata formulata già agli albori del cristianesimo da San Paolo: «Esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono».50 In una società come quella contemporanea, sempre pronta ad interrogare il cristiano e la Chiesa con implacabile esigenza, il nostro annuncio deve essere in grado di dare anche la ragione della fede, secondo la raccomandazione di San Pietro: «Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domanda la ragione della speranza che è in voi».51
9. La catechesi degli adulti
Nella prima lettera pastorale, cari fedeli cristiani, ho esortato soprattutto gli adulti a riprendere il cammino della catechesi, quale elemento ineliminabile dalla nostra esperienza cristiana ed ecclesiale. Ciò deve avvenire assieme ai presbiteri della nostra Chiesa particolare, alle religiose e ai religiosi, ai catechisti operanti nelle scuole, nelle parrocchie e nei movimenti.
Forse quel primo appello non è stato recepito in tutta la sua importanza e urgenza. Ciò dipende probabilmente anche dal fatto che la catechesi degli adulti, presupposto di ogni maturazione religiosa e, di conseguenza, della possibilità di annunciare la nostra fede agli altri, è andato pro g re ssivamente scomparendo dalla nostra coscienza comune.
Ci vorranno magari anni prima di ridare ancora alle comunità ecclesiali, parrocchiali o non, la consuetudine alla catechesi. È stato compiuto solo il primo passo e non dobbiamo scoraggiarci. Urge tuttavia continuare questo sforzo collettivo per far riacquisire a tutti gli adulti il desiderio di una formazione catechetica permanente.
Quando questo nostro desiderio e questa nostra consapevolezza sono autentici, si traducono spontaneamente in invito rivolto ai parenti, al marito, alla moglie, ai figli, giovani o adulti, ai colleghi di lavoro e agli amici a riprendere anche loro, con noi, il cammino della catechesi. La comunità cristiana è nata, fin dalle origini, e si è sviluppata, proprio grazie alla capacità dei cristiani di coinvolgere, credenti e non credenti, in una prassi catechetica. È un coinvolgimento, spesso molto più efficace delle prediche recepite dal pulpito; è una forma di annuncio.
Ha registrato invece grande successo la Scuola Diocesana di Catechesi, organizzata per tutte quelle persone desiderose di impegnarsi ad aiutare gli altri, oltre che se stesse, a riscoprire la fede cristiana, come criterio sul quale declinare la propria esistenza. Fatto estremamente positivo, perché rivela la presenza in Diocesi di alcune centinaia di persone decise ad impegnarsi per annunciare la fede attraverso l’insegnamento del catechismo agli altri fratelli e sorelle nella fede.
10. La catechesi della cresima
Un fenomeno, per contro, molto preoccupante è quello della catechesi ai ragazzi della Cresima. Non esiste più nessun dubbio che la cresima, chissà da quanti anni, è diventata, per la maggioranza dei nostri ragazzi, il sacramento di uscita dalla Chiesa. Una specie di cerimonia conclusiva di una fase della vita, quella della pubertà o dall’adolescenza, dopo la quale la pratica religiosa e l’appartenenza reale alla vita della comunità cristiana vengono considerate superflue.
I ragazzi e le ragazze abbandonano il campo, con la stessa disinvoltura con la quale la maggior parte di loro chiude i libri, dopo la scuola d’obbligo, con un senso di liberazione, per buttarsi nella vita e rincorrere altri interessi, senza dubbio legittimi, ma, con molta superficialità e immaturità, ritenuti estranei o incompatibili con l’esperienza cristiana.
La complicità dei genitori è gravissima. Sia perché pensano di aver compiuto tutto il loro dovere di educatori alla fede e alla vita, consegnando i loro figli alla parrocchia per la catechesi della cresima; sia perché non accettano di coinvolgere se stessi in questo momento decisivo per la crescita spirituale dei loro figli; sia perché si dichiarano troppo affrettatamente incapaci di continuare in seguito a dialogare con loro, non potendosi oramai più imporre con autorità sulla questione della loro pratica religiosa. Ciò significa che, nei genitori stessi, la fede e il senso della appartenenza alla Chiesa hanno toccato ormai il livello di guardia.
Sarebbe, ben inteso, ingiusto attribuire tutta la colpa ai genitori, senza menzionare i padrini e le madrine, che troppo spesso si presentano alla celebrazione della cresima come testimoni muti ed assenti, orgogliosi solo di svolgere un effimero ruolo sociale, spoglio di ogni significato ecclesiale. Padrini e madrine che non provano neppure un po’ di malessere di fronte al fatto di non accedere al Sacramento della Penitenza e della Eucarestia assieme ai loro pupilli.
È una situazione insostenibile per tutti, per i genitori, per i padrini e soprattutto per i cresimandi; che si sentono da loro così affettuosamente ingannati nel loro giovanile desiderio di autenticità, da non avere neppure il coraggio di eccepire.
Una grossa responsabilità grava, senza dubbio, anche sulla catechesi stessa. Sul modo con la quale la concepiamo. La catechesi non è una scuola in cui il ragazzo viene indottrinato su una materia, la religione, bensì un cammino che il ragazzo intraprende con i suoi compagni e le sue compagne di classe, per fare con loro una prima esperienza ecclesiale parrocchiale cui appartengono. È fondamentale dare ai cresimandi la possibilità di incontrare il fatto cristiano concreto, presente nella comunità ecclesiale locale, così da coinvolgerli in una realtà viva: quella appunto della comunità ecclesiale parrocchiale cui appartengono. Non basta perciò per il momento didascalico, esso deve essere accompagnato da incontri tra i cresimandi, da attività comuni, da momenti di preghiera, da ritiri spirituali ecc…
Solo così i ragazzi capiscono che la fede esige una conversione della loro persona, un cambiamento nel loro modo di essere, di vedere le cose e di comportarsi. Devono imparare a considerare la comunità cristiana e la Chiesa come punto di riferimento della loro persona. Solo così matura in essi la consapevolezza che la cresima è il sacramento che li conferma nella loro adesione al Cristo e alla Chiesa.
La catechesi sacramentale, a tutti i suoi livelli: prima comunione, cresima, matrimonio, deve saper offrire ai cristiani l’occasione non solo di un’istruzione, ma di un’autentica educazione ecclesiale.
Dobbiamo passare dalla nozione di preparazione ai sacramenti a quella, più globale ed efficace, di educazione alla fede, applicando in modo adeguato all’età i quattro livelli, intellettuale, esistenziale, etico e culturale, di cui abbiamo parlato a proposito della catechesi degli adulti. Si tratta di educare ad una fede percepita come criterio di esistenza e non semplicemente come contenuto mnemonico di alcune verità, che generalmente permettono ai cre s i m a ndi di uscire indenni da questo momento, senza essere toccati centralmente nella loro coscienza e nella loro azione.
11. L’insegnamento religioso nelle scuole
Un ultimo aspetto preoccupante nell’ambito generale della trasmissione e maturazione nella fede è quello dell’insegnamento religioso nelle scuole. Da una parte si registra il fatto, in se stesso molto positivo, che circa l’80% della popolazione del nostro Cantone vuole che l’insegnamento religioso continui ad essere impartito nelle scuole pubbliche; dall’altra il fatto che la percentuale della frequenza diminuisce progressivamente nelle scuole medie, fino a raggiungere tassi minimi nelle scuole superiori.
Le cause di questo fenomeno sono molteplici e dovranno essere esaminate e discusse con grande attenzione prima di tutto dalla Diocesi, assieme agli insegnanti stessi. In questa sede, tuttavia, non posso non rivolgermi ai giovani e ai genitori, prima di accedere a proposte dottrinali affrettate o a conclusioni poco realistiche di natura politica.
Le ragioni che spingono i giovani a fare uso del diritto di dispensa molto spesso non hanno nulla a vedere con il diritto alla libertà di coscienza, garantito dall’art. 49 della Costituzione Federale.
L’indifferenza religiosa, maturata in seguito ad un’educazione approssimativa alla fede; la pressione esercitata dalle scadenze scolastiche, dalla competitività, dai ritmi di lavoro, dalla corsa ai mezzi di trasporto; l’ora di religione non sempre collocata in momenti favorevoli della giornata, il desiderio legittimo di rientrare presto a casa o di avere momenti di libertà, il fatto che l’insegnante stesso non sempre corrisponde alle aspettative oggettive, o magari solo soggettive del ragazzo; l’essere non attrattivo della materia in un momento di sviluppo della loro persona, facilmente distratta da interessi spesso futili o puramente consumistici, sono tutti motivi troppo frequentemente confusi, nella mente dei ragazzi, con la vera e propria natura della libertà di coscienza.
Più che una libertà di coscienza per motivi confessionali o religiosi, si fa valere, inconsapevolmente, una libertà di non impegno e di non confronto con il dovere di istruirsi e formarsi dal profilo religioso e culturale.
Anche in questo caso le famiglie sono largamente responsabili, perché, troppo facilmente cedenti di fronte alla tentazione di disimpegno dei loro figli, concedono con leggerezza la dispensa o accettano, disarmate, il fatto compiuto.
Le gravi responsabilità di cui le famiglie cristiane sono investite nei confronti della formazione della coscienza e del futuro dei loro figli, dovrebbero indurle a non lasciare nulla di intentato per aiutarli a comprendere che la vita non si esaurisce nella soluzione del problema dello studio, e della professione, vissuti e prospettati nell’ottica della carriera, perché è inscindibilmente legata al problema religioso, che tocca centralmente la crescita globale della persona stessa.
L’istruzione religiosa nelle scuole, infatti, non concerne solo il problema della fede in quanto tale, ma anche la crescita umana globale dei giovani, perché come abbiamo visto, la fede cristiana ha un’ineluttabile valenza culturale.
L’insegnamento religioso nella scuola, infatti, pur essendo distinto per la sua finalità e metodologia dalla catechesi – che tende primariamente a suscitare la fede -, ha come scopo quello di giustificarla, dando voce alla razionalità; in questo senso esso è complementare alla catechesi.
L’insegnamento religioso nella scuola, fatto da un punto di vista cristiano e cattolico, propone ai giovani un confronto razionale, e perciò critico nei confronti dei contenuti e della valenza culturale della fede, nel solco della metodologia scientifica propria dell’insegnamento teologico a livello accademico, sia pure proporzionale al grado di formazione intellettuale degli alunni delle medie.
Essa pone i giovani di fronte al problema di Dio, dell’interpretazione del mondo, del senso e del valore della vita, delle norme etiche dell’agire umano e sociale; li aiuta a rendere conto della loro fede per mezzo dell’intelligenza in un confronto culturale, che li prepara ad orientarsi in modo più maturo e più personale, fondato e responsabile, in rapporto alle altre confessioni e religioni, alle ideologie e al pluralismo delle visioni della vita e al problema della verità; fa crescere in loro la capacità di decidersi liberamente a livello esistenziale, così da arrivare ad una scelta consapevole di fronte alla fede e alla Chiesa.52
L’insegnamento religioso, assieme alla necessaria presentazione dei contenuti della fede, tende perciò alla formazione della persona dei giovani, offrendo una risposta, articolata e scientificamente commisurata all’età, agli interrogativi che essi incontrano e vivono, non solo all’interno della vita sociale, cui si schiudono progressivamente, ma anche all’interno della scuola stessa, dove sono confrontati, al contatto con le altre materie, con i mille problemi della vita e con le soluzioni spesso contraddittorie a loro date.
12. Conclusione
Carissimi fratelli e sorelle nel Signore. Concludendo questa mia lettera il 2 febbraio, festa liturgica della Presentazione del Signore al Tempio, vi ricordo che Maria di Nazareth quando si è recata da Elisabetta sua cugina, compiendo un duro cammino di 100 km, non intendeva semplicemente condividere con lei la gioia della sua gravidanza, bensì annunciarle il fatto che il Signore aveva iniziato nella sua persona l’opera della Redenzione di tutta l’umanità.
Maria di Nazareth ha sentito l’urgenza di comunicare la propria fede a Elisabetta ed ha fatto il primo annuncio cristiano della storia della Chiesa.
Anche per questo fatto dobbiamo guardarla come «figura perfetta» di ogni credente. Il vero credente, infatti è colui che annuncia agli altri il Vangelo e la propria fede.
In questa lettera ho volutamente sottolineato solo l’aspetto personale dell’annuncio: quello che incombe esistenzialmente come mandato a ciascuno di noi personalmente, chierici e laici, senza possibilità di deleghe agli altri.
Non possiamo tuttavia dimenticare che questo mandato non l’abbiamo ricevuto dal Signore Gesù Cristo solo individualmente, pur restando vero che tutto nella Chiesa comincia imprescindibilmente dalla conversione individuale di ciascuno di noi. La Chiesa si edifica tra di noi proporzionalmente alla conversione individuale delle nostre persone.
Il mandato dell’annuncio è affidato però anche, contemporaneamente, a tutta la comunità cristiana, cioè alla Chiesa, nella quale ognuno di noi è inserito con il Battesi- mo e gli altri sacramenti. E essenzialmente un annuncio anche comunitario, cioè della Chiesa in quanto tale. Di questo aspetto comunionale della nostra fede, tuttavia, vi scriverò diffusamente in un’altra lettera.
Il Signore vi benedica nel vostro desiderio di prepararvi, in questa Quaresima, alla Pasqua.
13 Cor. 10, 31
14 La Trinità 1, 1-2
15 Catechismo Cattolico, a cura di Pietro Gaspari, Brescia 1932. p. 26
16 Gv. 17,3
17 Gal. 2,16
18 1Gv. 2,20
19 1Gv.2,20
20 Rom. 10,14-17
21 Gv. 8,42
22 Gv.5,36
23 Lc.4,43
24 Is.61,1
25 Lc.4,18
26 Gv.20,21
27 Mc.16,15
28 Mt.28,19
29 1Gv.1,1-3
30 cap.III
31 1Cor.9,16
32 Lumen gentium, 11,2
33 J.Ratzinger, Trasmissione della fede e fonti della fede. Marietti 1985
34 34 Evangelii nuntiandi Esortazione apostolica di Sua Santità Paolo VI, 1975, (Abbr. EN), n.42
35 EN, 15
36 EN, 80
37 EN, 80
38 Rm 1,16
39 EN, 79
40 Rm.1, 14-16
41 Giovanni Paolo II, Allocuzione ai sacerdoti della Diocesi di Roma, 5.03.1981
42 Mt. 5,14
43 Missione e coscienza della Verità, Marietti 1974, 2.3.4.- 2.5.1.
44 Gv. 4,29
45 Atti, 2,14-41
46 Gv. 1,38-39
47 EN, 76
48 EN, 46
49 ibidem n.V
50 1Ts.5,21
51 1Pt.3,15
52 Sinodo nazionale della Germania Federale, Marietti 1974, 2.3.4- 2.5.1.
Cari genitori,
prima della fine dell’anno scolastico riceverete dalle Direzioni delle scuole, e per la prima volta anche dì quelle elementari, un formulario per l’iscrizione dei vostri figli all’insegnamento religioso. Un segno del mutare dei tempi.
Non era, infatti, così quando io andavo a scuola, e neppure quando ci andavate voi, venti o trent’anni più tardi.
1. L’ora di “catechismo”, una volta
Allora al catechismo scolastico assistevamo tutti obbligatoriamente, come per le altre materie. Pochissimi erano ì dispensati. Ai miei tempi, negli anni trenta e quaranta, praticamente solo qualche protestante-non tutti, peraltro – o i figli di quelle rare famiglie decisamente contrarie anche al catechismo.
Ma quando a scuola andavate voi, la situazione stava già cambiando. Sì diffondevano atteggiamenti di ribellione. contro i genitori e la società, e proprio la scuola era diventata il centro della contestazione. Nella lotta tra chi voleva conservarla com’era e chi voleva cambiarla, è crollata anche l’immagine dell’ora di religione.
Così, sono aumentate le dispense: chi era contro la religione nelle scuole perché la considerava, sia pure sottovoce, “oppio dei popoli”; chi credeva fosse giunto il momento opportuno per laicizzare ancora di più la scuola di Stato; chi, pur restando sul versante cristiano, pensava, per apparire anche lui moderno, che, per ì suoi figli, l’ora di religione non fosse più tanto importante.
Anche tra il clero non furono pochi quelli che si interrogarono sulla efficacia e l’opportunità del catechismo, nei ginnasi o nelle scuole medie.
In effetti, con i tempi, erano cambiate molte cose. Quando andavo a scuola, verso la fine degli anni trenta e durante la guerra, il mio catechista era un prete come quelli di una volta. Sì chiamava anche lui don Eugenio ed era arciprete; lasciava tutti a bocca aperta, soprattutto quando abilmente “tirava la presa” di tabacco, facendo scomparire la tabacchiera d’argento tra le pieghe della veste talare. con uno scatto.
Le famiglie modeste, come la mia, non avevano ancora la radio ci voleva poco per imparare il catechismo. Domande e risposte a memoria, alcuni episodi della storia sacra illustrata e le preghiere. che uno aveva già imparato a casa. La religione passava dai genitori ai figli. come la vita, con il conforto dell’autorità indiscussa del parroco, ascoltato da tutti, soprattutto se era uno importante come l’arciprete di Chiasso.
Tutto era ancora normale e dato per scontato, tant’è che anche della guerra e dei bombardieri della RAF che puntavano su Milano, si parlava come di una cosa giusta.
Poi è arrivata la generazione dei “baby-boomers”, la vostra, che si è inebriata, prima dei prodotti arrivati dall’America, poi. soprattutto nel mondo studentesco, delle parole uscite dalla bocca di Marcuse. Una generazione che ha sentito predicare la liberazione sessuale, che ha praticato il divorzio su larga scala, che ha incominciato a viaggiare in tutto il globo ed ha creduto, chi all’America e chi all’Unione Sovietica, come salvatori del nostro e del terzo mondo.
Una generazione che spesso si è accorta del Concilio Vaticano II solo per dire che anche la Chiesa stava cambiando “look”, perché aveva finalmente capito che tutto era diventato diverso e di catechismo, a scuola, se ne è imparato ben poco.
In effetti, in una scuola ricca di nuovi fermenti. in via di ristrutturazione, e agitata dalle ideologie. anche il catechismo aveva cambiato nome. chiamandosi insegnamento religioso: era il 1974.
2. I vostri figli, oggi
Se a questo punto facciamo un salto di generazione e passiamo ai vostri figli di oggi, allora restiamo quasi straniti.
Vanno a scuola quasi fossero sempre di corsa, incalzati e disorientati dalle materie sempre più numerose, portando sulle spalle zaini sempre più ricolmi di libri e possono anche passare le serate fino a tarda notte, tra uno spot e l’altro, davanti ai trenta canali della TV.
L’agenda del loro tempo libero è un “tutto esaurito”: calcio, disco su ghiaccio. musica, cavallo, balletto, tennis; per quelli più lunghi la pallacanestro: tutti possibilmente lo sci, il mare e vacanze in montagna, nella non infondata speranza di raggiungere traguardi di notorietà e di benessere, aperti dalle nostre e dai nostri campioni del circo bianco.
In questo ambiente, privilegiato rispetto ai quattro quinti di tutta l’umanità è surriscaldato di prospettive di per sé buone e apprezzabili, perché oltre tutto aiutano a salvare un po’ anche dalla droga.
Ecco arrivare nelle vostre case il formulario per l’iscrizione all’insegnamento religioso. Perché arriva e cosa dobbiamo fare?
A dire il vero non è la prima volta che lo ricevete, ma ora che la Convenzione sulla organizzazione dell’insegna – mento religioso, prevista dall’art . 23 della Legge della Scuola, tra il Consiglio di Stato e le Autorità religiose, cattolica e riformata, è stata felicemente conclusa, è giunto il momento di parlarne.
3. Un nuovo regime per l’insegnamento religioso
Ma prima, mi sia permesso di porre in risalto la portata storica dell’art. 23 della Legge della Scuola e della Convenzione applicativa.
Nel travagliato sviluppo dei rapporti tra Stato e Chiesa nel nostro Cantone, esse non hanno precedenti e costituiranno, ne sono certo, un sicuro riferimento in questo settore di interessi così primari per entrambi gli ordini, civile e religioso.
Sento perciò il bisogno di attestare il più vivo apprezzamento per le autorità politiche e in particolare per il Consiglio di Stato, per la determinazione manifestata nella ricerca di una normativa sul problema dell’insegnamento religioso, non solo rispettosa delle attese delle Chiese e più conforme alle esigenze dello sviluppo attuale della vita democratica e del suo pluralismo politico e religioso, ma anche più atta a rendere la nostra scuola efficace strumento di valori civici, morali e spirituali.
Se arriva un formulario di iscrizione, è perché il regime giuridico dell’insegnamento religioso nella scuola è cambiato.
Fino all’entrata in vigore della Legge della Scuola, del I. febbraio 1990, l’insegnamento religioso era previsto per tutti gli allievi, come obbligatorio. In altre parole, lo Stato stabiliva che tutti lo frequentassero, salvo ammettere che i genitori e gli alunni sopra i 16 anni potessero ricorrere alla dispensa, invocando la libertà di coscienza, garantita dall’art. 49 della Costituzione federale.
La nuova Legge della Scuola ha giustamente introdotto un altro regime, che sta a metà strada tra quello precedente della obbligatorietà e quello della facoltatività.
L’insegnamento della religione è materia obbligatoria, perché lo Stato dispone che essa sia necessariamente inserita nel programma scolastico; è facoltativa, perché le famiglie e gli allievi al di sopra dei sedici anni possono sceglierlo o non sceglierlo, servendosi, appunto, dell’apposito formulario che riceverete a casa.
Per capire questo nuovo regime può servire il confronto con le materie solo facoltative. A differenza dell’insegnamento religioso esse possono, ma non devono necessariamente essere inserite nel regolamento degli studi e i corsi hanno luogo, non solo se richiesti dagli allievi, ma anche se gli iscritti sono in numero sufficiente.
Lo statuto dell’insegnamento religioso, fissato dall’art. 23 della Legge della Scuola, non è il risultato di un verdetto salomonico e neppure il frutto spurio di un compro- messo, bensì l’esito di una più adeguata valutazione, sia dei compiti dello Stato, sia della natura della scuola e dell’insegnamento stesso della religione.
In nome di una maggiore neutralità confessionale delle strutture pubbliche, lo Stato non impone più agli allievi la frequenza all’insegnamento della religione come se fosse materia strettamente obbligatoria, ma dichiara necessaria la sua presenza nel programma scolastico, lasciando alle famiglie e agli allievi al di sopra dei sedici anni la libertà di iscriversi o meno.
Ciò significa che lo Stato riconosce l’insegnamento religioso come materia che contribuisce all’educazione ed alla formazione complessiva della persona ed a realizzare, così, le finalità stesse della scuola.
So benissimo che non mancano i malcontenti: chi dice che lo Stato, mantenendo la religione come materia di insegnamento, ha fatto troppe concessioni alle Chiese, dimenticando magari che esse non sono enti privati ma pubblici; chi dice, invece. che la Diocesi è stata acquiescente verso lo Stato laico, sacrificando il principio della obbligatorietà con dispensa e accettando quello della libera iscrizione per tutti.
Certo, nel regine precedente era più comodo, sia per voi genitori che per gli insegnanti di religione. Genitori, preti ed insegnanti laici, grazie alla Legge, si trovavano i figli e gli alunni iscritti alla classe di religione, senza aver fatto nulla. Ma il sistema non funzionava più da un pezzo, perché erano cambiati alcuni presupposti.
Prima di tutto, il fatto che il nuovo art. 1 della Costituzione cantonale aveva già tolto, nel 1975, ogni impronta confessionale attribuita allo Stato dalla Costituzione del 1830; per cui, non era più pensabile che lo Stato continuasse a imporre, come obbligatorio, l’insegnamento religioso.
In secondo luogo. la maturazione dell’idea che le famiglie devono collaborare attivamente alla gestione della scuola, perché di essa sono una componente essenziale: idea accolta e sancita dalla nuova Legge della Scuola.
Da questa collaborazione derivano per voi genitori responsabilità precise, come quella di fare la scelta della frequenza o meno all’ora di religione dei vostri figli.
In terzo luogo, l’evoluzione dell’immagine, che la scuola ha di se stessa. A ben vedere non è lo Stato che ha cambiato la scuola, ma è la scuola che ha cambiato le proprie aspettative nei confronti dello Stato.
4. Famiglia, scuola e Stato
Tale mutamento si è potuto realizzare grazie alla persuasione della necessaria circolarità del processo educativo, al quale sono chiamate le tre istituzioni “tipiche” dello sviluppo dell’uomo: la famiglia, la scuola, lo Stato.
Si tratta di entità che esprimono e soddisfano esigenze primordiali dell’uomo: quella della realizzazione affettiva e spirituale; della crescita intellettuale e dell’inculturazione; dei rapporti interpersonali e dell’ordine sociale.
Questi tre poli, coinvolti nel processo formativo, sono chiamati ad un’opera di necessaria collaborazione per favorire la crescita complessiva della persona. Tale opera esige il rispetto dei reciproci ambiti di competenza ed impone una piena solidarietà di intenti ed iniziative al servizio dell’uomo.
Per questa ragione, il monopolio dello Stato sulla scuola, oltre ad essere un regime paradossalmente illiberale, è ingiusto, perché espropria la famiglia e i gruppi di cui è costituita la società civile di una prerogativa primaria e irrinunciabile: quella di scegliere liberamente – e perciò senza oneri finanziari penalizzanti il modello di scuola che ritiene più utile per sé e più consentaneo.
Su questo problema. noi siamo ancora fortemente imbevuti di una mentalità che risale al secolo scorso. quando anche il nostro Cantone, seguendo altri Stati europei e altri Cantoni svizzeri, ha reso la scuola obbligatoria e gratuita per tutti. Ciò è potuto avvenire perché, per la prima volta nella storia, l’autorità pubblica ha potuto disporre dei mezzi finanziari necessari, grazie alla generalizzazione delle imposte, prelevate sul reddito e la sostanza di tutti, indistintamente.
Prima, non era obbligatoria, ma esisteva comunque anche da noi, tanto è vero che nelle parrocchie, anche più piccole, oltre al parroco, c’era spesso un cappellano con il compito di tenere, appunto, la scuola. Senza contare gli ordini religiosi che fin dal Medio Evo, hanno disseminato il nostro Cantone di Collegi.
L’obbligatorietà ha segnato, senza dubbio, un grande progresso culturale dal quale però è nato l’equivoco secondo cui la scuola appartiene allo Stato.
Che abbia potuto instaurarsi questo monopolio è storicamente comprensibile, ma che continui ad esserlo nel contesto europeo attuale, in cui molti Stati riconoscono ben altre libertà di autogestione alle scuole, lo è di meno. Tutti sanno, ormai, che il vero compito dello Stato è quello di organizzare e sorvegliare, non di occupare la scuola.
Con ciò non voglio dire che lo Stato abbia gestito male la scuola pubblica, che in realtà è una scuola dello Stato, ma solamente che, gestendola ha disatteso il diritto primario delle famiglie e il pluralismo della società, relegando la scuola pubblica non statale in un angolo, senza riconoscerle l’attenzione che merita.
Da noi la scuola non statale, quella pubblica (gestita da enti di diritto pubblico come le Chiese) e quella privata (gestita da enti o persone private), è come una figlia esclusa ingiustamente dall’eredità.
5. Le nuove finalità della scuola
Malgrado questo inevitabile grave appunto alla politica scolastica generale, mi preme, in questo contesto, sottolineare soprattutto che la Legge della Scuola del 1990 ha segnato un grande progresso sia nel definire le finalità della scuola, poiché ha collocato l’educazione e formazione globale della persona dell’allievo al centro della sua missione educativa, sia per il rapporto instaurato con le famiglie.
I primi due articoli della Legge afferivano, infatti, che la scuola pubblica, avvalendosi della collaborazione della famiglia e delle altre istituzioni educative. è al servizio della persona. La sua finalità è, perciò, quella di educare armonicamente la persona alla giustizia e alla libertà, affinché gli allievi, grazie alla trasmissione e alla rielaborazione critica, scientifica e pluralista, della cultura -compresa quella che radicava storicamente l’allievo nel nostro Paese-, possano scegliere in modo consapevole e responsabile il proprio ruolo nella società.
Poiché la Legge mette giustamente l’accento sul compito educativo e formativo della scuola, vale a dire sulla missione di promuovere lo sviluppo integrale della persona, allora è evidente che non avrebbe logicamente potuto escludere dal suo programma l’insegnamento religioso.
6. Dal “catechismo” all’insegnamento religioso
L’attuale insegnamento religioso non deve essere confuso con la catechesi. Questo spiega perché nella Legge non si utilizza il termine “catechesi”, bensì quello di “insegnamento religioso”.
La catechesi tende direttamente all’approfondimento e al radicamento del credente nella fede cristiana. Aiuta i fedeli a cogliere le verità della fede, i suoi contenuti e il rapporto esistente tra i singoli articoli del Credo. In particolare, prepara il fedele, in modo immediato o remoto, all’ascolto della Parola dì Dio e alla celebrazione dei Sacramenti.
La sua funzione ultima è quella di introdurre e accompagnare il cristiano nell’esperienza della vita sociale specifica della Chiesa, che è quella della comunione con gli altri credenti. L’ambito connaturale della catechesi è perciò la comunità cristiana: la Diocesi, la parrocchia, le associazioni, i gruppi e i movimenti ecclesiali.
L’insegnamento religioso nella scuola ha invece un’altra funzione, anche se ha un nesso evidente con la catechesi e non è sempre possibile distinguerlo da essa, soprattutto a livello di scuola elementare e delle prime medie.
7. L’insegnamento religioso interpella la persona a differenti livelli.
Prima di tutto ha il compito di educare gli allievi al senso religioso. Questo avviene proprio nel rispetto del metodo scientifico e delle finalità specifiche della scuola, che, come abbiamo visto – e per usare l’espressione di Papa Giovanni Paolo Il -, ha il compito di dare, attraverso la trasmissione del sapere, «una formazione umana integrale ».
Per raggiungere questo obiettivo, afferma ancora il Papa, essa deve saper proporre agli allievi una compiuta sintesi di nozioni intellettuali e morali, una visione del mondo fondata sulla giustizia e una ipotesi di comprensione del senso della vita.
La scuola non può essere e non è mai neutra, perché non può limitarsi a insegnare i nudi fatti della scienza e della storia, quasi che fatti non portino dentro di sé un significato, atto a interpellare la coscienza e la libertà dell’uomo.
Come scrive il Cardinale Martini, anche chi ritiene che si diano solo i fatti e che la scienza e la cultura siano senza rapporto con la vita e con il destino ultimo dell’uomo, sceglie una concezione della vita che non è più neutra, poiché «prende già una posizione, fa una teoria della realtà, mette in gioco in qualche modo la propria persona».
Perciò, la scuola non può non educare a rispettare le interpretazioni serie e sofferte date dagli uomini ai fatti scientifici, quando cercano di metterli in rapporto con il valore della vita e del destino dell’uomo.
8. Contributo dell’insegnamento religioso alla realizzazione delle finalità della scuola
L’insegnamento religioso, accanto e in dialogo con le altre materie, alle quali non deve adeguarsi, ma da cui deve differenziarsi, svolge un grande servizio alla scuola. Contribuisce, infatti, a realizzarne la finalità: quella di dare una formazione compiuta e globale alla persona, educandola ad ascoltare la coscienza e a fare buon uso della sua libertà.
Da un confronto con la coscienza e la libertà emerge inevitabilmente il problema del senso della vita e quello dei valori universali e fondamentali dell’esistenza.
Il senso religioso sta appunto nella capacità della nostra coscienza di percepire i fini ultimi dell’uomo, dai quali la nostra persona si sente interpellata e invitata a rispondere attraverso la sua libertà.
L’insegnamento della religione, sviluppando negli allievi il senso religioso e innestandosi, attraverso il risveglio della loro coscienza e della loro libertà, nelle finalità stesse della scuola, crea e sviluppa i presupposti per ogni forma di fede nella trascendenza divina e, perciò, anche di quella espressione della fede che è tipica ed esclusiva del cristianesimo.
L’insegnamento della religione, scrive ancora il Cardinale Martini, sollevando in chiave religiosa le questioni decisive sui fini ultimi della vita, aiuta tutta la scuola come tale, di cui è parte, «a porre correttamente il problema» dell’esistenza umana.
Svolge perciò un mandato culturale, come è culturale il compito della scuola.
9. Funzione culturale dell’insegnamento religioso
L’insegnamento religioso svolge un compito culturale anche ad un altro livello: quello di educare a capire ed apprezzare il valore della religione cristiana, nel contesto delle voci di tutte le altre religioni, degli altri sistemi filosofici e delle altre teologie.
Assolvendo questo compito, assume anche un impegno ecumenico, in senso lato e in senso stretto della parola; senza dire che, attraverso l’insegnamento religioso, i vostri figli imparano anche a capire quella tradizione cristiana, in cui sono nati, e che ha segnato in modo indelebile la storia e la cultura europea. quella del nostro Paese e di tutto l’Occidente, ispirandone le espressioni artistiche più alte e anche moltissime forme di organizzazione sociale e politica.
Non possiamo certo pretendere che la nostra scuola porti gli allievi a capire tutte le espressioni dell’arte a livello mondiale: musica, pittura, architettura, eccetera, come, per esempio, quelle dell’Impero Celeste o del Sol Levante. Ma sarebbe grave se. visitando la Cappella Sistina, i vostri figli e i nostri giovani, vedendo Cristo dipinto assieme alle Sibille, rimanessero di stucco, o davanti alla Crocifissione del Luini, in S. Maria degli Angeli a Lugano, provassero solo un’emozione estetica.
Capire i capolavori della cultura occidentale e locale non è, infatti, solo una questione di gusto o di erudizione, ma anche di cultura cristiana.
Tempo fa, qualcuno mi ha detto che, senza l’insegnamento religioso nella scuola, aumenterebbe, anche da noi, l’area di quelle persone “colte-ignoranti”, attrezzatissime in molti campi del sapere, ma atrofizzate mentalmente di fronte alle creazioni più intense e profonde dello spirito umano, che, dall’esperienza cristiana, ha ricavato linguaggi simbolici tra i più ricchi e più esaltanti del mondo.
Il problema, perciò, non è solo quello del compimento spirituale e religioso dei nostri giovani, ma anche quello della loro capacità di vivere la convivenza sociale nella comprensione reciproca.
I commenti diffusi, per esempio, dai mass-media sul nuovo Catechismo della Chiesa cattolica permettono, infatti, di dubitare quasi che una comprensione reciproca tra persone di estrazione culturale, anche da noi diversa, sia ancora possibile.
10. L’insegnamento religioso, necessario per tutti
Tutti hanno bisogno di essere confrontati con i fini ultimi della vita, poiché il senso religioso, cioè l’anelito di scoprire le ragioni profonde della nostra esistenza, è iscritto nella natura razionale dell’uomo.
Ne hanno bisogno i vostri bambini, che dovrebbero risvegliarsi ai palpiti di questa aurora nell’atmosfera della vostra famiglia; ne hanno bisogno i fanciulli, precoci esploratori del mondo esterno e sensibili ai primi sussulti del loro piccolo mondo interiore; ne hanno bisogno gli adolescenti, fragili e contraddittori nella ricerca della propria identità e sicurezza; ne hanno bisogno i giovani, ormai impegnati in una sofferta – oggi disincantata – costruzione di un progetto globale per la loro vita.
Ne abbiamo bisogno noi adulti se vogliamo lasciare un segno indelebile nell’animo dei nostri giovani.
Ne avete bisogno voi genitori, chiamati ad accompagnare i vostri figli nell’itinerario della loro vita, per aiutarli ad aderire ai valori universali e supremi dell’esistenza. sperando in cuor vostro che possano incontrare anche il Dio trascendente e la persona di Cristo. Salvatore e Redentore dell’uomo. Voi che l’avete incontrato lo potete capire. ma perché. chi tra voi non l’ha incontrato, non potrebbe disporsi a farlo assieme a loro? L’insegnamento religioso, commisurato all’età dei vostri figli e alla loro progressiva esigenza di serietà intellettuale, dà un contributo essenziale per aiutare i vostri figli a raggiungere quella maturità umana, culturale e cristiana, che è fonte di coerenza interiore e di realizzazione armonica e integrale della loro persona.
Senza aver percorso queste tappe dell’educazione scolastica al senso religioso, che apre la niente e il cuore dei vostri tigli a un orizzonte culturale più vasto, ponendo in loro le basi di una personalità religiosa radicata in una solida conoscenza del cristianesimo, è ben difficile che la catechesi sacramentale, impartita dalla comunità ecclesiale, possa oggi ancora attecchire veramente.
Rimarrebbe alla superficie della loro coscienza e ai margini della loro vita; non diventerebbe mai, come l’esperienza insegna, fonte di un’esperienza di fede cristiana consapevole e gratificante.
E per questo motivo che, tre anni or sono, raccogliendo un preciso volere del nostro clero e del Consiglio Pastorale Diocesano, ho stabilito, nella Lettera pastorale sulla Cresima che i ragazzi e le ragazze, che disattendono l’insegnamento religioso nella scuola, non possono essere ammessi alla preparazione e alla celebrazione del Sacramento della Confermazione.
Cari genitori, anche voi vi rendete conto che, rispetto al tempo in cui bastava il fascino di un arciprete per mediare l’adesione di un bambino o di un ragazzo alla Chiesa, molte cose sono cambiate.
Sono cambiate anche rispetto alla vostra infanzia e alla vostra adolescenza. Infatti, guardando alla vostra esperienza e a quella dei vostri amici o conoscenti, potete con- statare che il mancato serio confronto con il problema religioso a scuola ha avuto non poche conseguenze.
Non è certo semplice coincidenza se, alla fine di questo nostro secolo, che ha visto dissolversi molte ideologie e illusioni della cultura contemporanea, refrattaria alla trascendenza, e aprirsi un vuoto profondo di valori, la Chiesa cattolica abbia ritenuto urgente diffondere un nuovo Catechismo.
È come un gommone di salvataggio, offerto a tutti, ma forse soprattutto a quella generazione di adulti che, come la vostra, sente la propria fede vacillare.
La vostra fede spesso vacilla, perché, senza una sufficiente conoscenza delle verità cristiane e una partecipazione assidua all’esperienza ecclesiale in una comunità, non in modo astratto, genericamente riferito alla Chiesa universale, ma ben concreto e preciso, come nella vostra comunità parrocchiale, nelle associazioni, nei gruppi e nei movimenti ecclesiali, è ben difficile resistere al fascino della mentalità corrente.
Ancora una volta, essa, come da sempre, ma con la forza persuasiva dei moderni mezzi delle comunicazioni sociali, propone di conciliare il Battesimo e la nostra appartenenza a Cristo con le molteplici mode del mondo e della società contemporanea.
11. Il dovere di iscrivere i figli all’insegnamento religioso
In questo contesto, in cui, secondo il giudizio dei Papi più recenti, urge una nuova evangelizzazione, ecco arrivare nelle vostre case il formulario scolastico per l’iscrizione dei figli all’insegnamento religioso.
Che fare? Iscriverli, non iscriverli? Domandare o non domandare ai vostri figli?
L’atteggiamento meno serio sarebbe quello di affrontare il formulario con mentalità burocratica.
L’atto di iscrivere, o di non iscrivere, i vostri figli è inevitabilmente un atto educativo, lo si voglia o meno.
Il problema non può essere neppure risolto ributtando la palla nel campo dei vostri figli. Potrebbero essere contrari, ma ciò non toglie che voi genitori dovete assumere una posizione personale, perché il problema non è solo quello dei vostri figli e della loro frequenza, ma è un problema eminentemente vostro.
In gioco è il vostro ruolo di primi e insostituibili educatori. Se siete cristiani, avete il dovere di provvedere e di garantire la loro formazione al senso religioso e all’interesse per la fede cristiana.
L’insegnamento religioso nella scuola si propone, sempre più, di essere un’informazione seria, progressiva, scientificamente e storicamente fondata del cristianesimo. E di questo, oltre che della catechesi ecclesiale vera e propria, i vostri figli hanno bisogno, oggi più che mai, poiché proprio nella scuola sono confrontati con mille orientamenti critici, quando non addirittura ostili alla fede in Dio e in Gesù Cristo, per non parlare poi della Chiesa.
Per rispondere a questa esigenza, è chiaro che la Diocesi, anche nel rispetto della recente Convenzione con il Cantone sull’insegnamento religioso nella scuola, intende promuovere, soprattutto attraverso il nuovo Istituto Accademico di Teologia, una formazione degli insegnanti di religione sempre più adeguata.
Anche se non foste più praticanti o non aveste più alcun rapporto con la fede cristiana, il problema non cambia. Nella misura in cui siete aperti alla verità, vi deve sommamente interessare, infatti, che i vostri figli non crescano nella ignoranza religiosa.
Nessun genitore, credente o non credente, può permettersi di privare i propri figli della possibilità di un confronto con i temi fondamentali della vita e con le finalità che la persona umana sente iscritte dentro di sé. L’ignoranza coincide sempre con una forte riduzione della libertà e voi genitori, prendendo decisioni che limitano la libertà, assumete la responsabilità di compromettere nei vostri figli la possibilità di fare, già in età scolastica, ma anche più tardi, scelte debitamente maturate, fossero pure eventualmente contrarie alle vostre attese.
Non è del resto diventato quasi corrente e indice di spirito illuminato, sentir dire, a proposito del Battesimo o dell’educazione religiosa dei figli: «decideranno loro quando saranno grandi»?
Questa apparente libertà concessa ai vostri figli nasconde un disimpegno e una dimissione di fronte alla responsabilità che portate verso di loro.
Come faranno a decidere liberamente se, neppure nel corso del loro curriculum scolastico, hanno avuto l’occasione di riflettere e preparare una decisione grazie anche all’insegnamento religioso?
12. L’iscrizione all’insegnamento religioso, gesto di responsabilità verso la scuola
Cari genitori, prima di decidervi per il si o per il no, permettetemi un’ultima riflessione. Voi portate verso la scuola una precisa responsabilità. Una responsabilità che, oltre tutto, vi è affidata anche dalla Legge della Scuola, del 1990.
Non si onora questa responsabilità solo frequentando le riunioni dei genitori, o iscrivendosi alle relative associazioni.
Se è vero, come abbiamo visto, che l’insegnamento religioso dà un contributo essenziale alla realizzazione delle finalità formative della scuola – portando gli allievi a riflettere sul problema della coscienza e della libertà – allora con l’iscrizione dei vostri figli all’ora di religione compite anche un gesto di chiara collaborazione con la scuola.
Dovete oltre tutto rendervi conto che l’avvenire dell’insegnamento religioso nella scuola, e, per chiara conseguenza, l’avvenire della scuola stessa è in larga misura nelle vostre mani.
L’esito positivo della missione educativa e formativa globale, affidata alla scuola, dalla quale non possiamo pretendere solo garanzie di successo professionale per i nostri giovani, ma verso la quale dobbiamo anche avere reali aspettative per la loro crescita umana, morale e spirituale, dipende in larga misura dalla determinazione con la quale voi genitori assumete, nei suoi confronti, le responsabilità che vi incombono.
Prima di concludere, ma solo per offrirvi un elemento di confronto, mi permetto di ricordarvi che, un tempo, moltissime diocesi in Europa e in America, per sottolineare senza equivoci la responsabilità, prima e irrinunciabile, della famiglia nei confronti dell’educazione religiosa, stabilivano che solo il Vescovo potesse assolvere i genitori dal peccato di non aver mandato ì figli al catechismo della scuola. Oggi, certo, non è più così, ma questa grave responsabilità rimane ed è una delle più importanti della vostra missione dì genitori cristiani.
Nel valutare l’iscrizione dei vostri figli all’insegnamento religioso, voi genitori dovete inoltre tener conto del dovere che avete di dare l’esempio e dì dare una testimonianza, anche in quanto cristiani, di sostegno alla scuola nella sua finalità educativa, incoraggiando così le altre famiglie a iscrivere anch’esse i loro figli.
Ciò vale anche se i vostri figli dovessero già beneficiare dì altre occasioni preziose e apparentemente sufficienti, in famiglia o nell’ambito delle organizzazioni ecclesiali, di istruirsi e formarsi religiosamente.
La prima forma di testimonianza delle nostre convinzioni ed eventualmente della nostra fede viene sempre dalla presenza.
13. La libertà di coscienza
Ne consegue che voi genitori dovete riesaminare la prassi, invalsa troppo facilmente, di sottrarre i vostri figli all’insegnamento religioso, per qualsiasi motivo apprezzabile, sia non iscrivendoli, che togliendoli dopo l’inizio dei corsi.
Il bisogno di riposo tra un’ora e l’altra; il treno che parte; l’insegnante di religione che non incontra; la riluttanza, magari anche comprensibile, dei vostri figli, perché attraversano la crisi; la speranza di tenerveli più facilmente stretti, accondiscendendo ai loro capricci e alle loro voglie, non sono ragioni valide per sgravarvi dalle vostre responsabilità. E una responsabilità che portate, non solo verso i vostri figli, ma prima di tutto di fronte a voi stessi.
Queste scuse non hanno, oltre tutto, nulla a che vedere con l’applicazione della libertà di coscienza, garantita dall’art. 49 della Costituzione Federale.
La libertà di coscienza, garantita dalla Costituzione non svincola dai doveri morali e religiosi, ma protegge solo da eventuali interferenze indebite del potere politico. Non è perciò una cambiale in bianco, come invece troppo spesso si crede, sulla quale uno può iscrivere in suo favore qualsiasi cosa.
Non dovete pretendere che sia la Direzione della scuola a rendervi attenti sul vero significato dell’art. 49 della Costituzione Federale e sulla legittimità della sua applicazione.
La retta valutazione dell’applicabilità del principio della libertà di coscienza, in rapporto alla frequenza dei vostri figli all’insegnamento religioso, dovete farla prima dì tutto voi genitori, davanti, appunto, alla vostra coscienza e, per chi è credente, anche davanti a Dio. E questo vale anche per i vostri figli oltre ì 16 anni.
Poiché il sistema del formulario recapitato a casa garantisce ampiamente la vostra libertà di decisione nei confronti della scuola, I’applicazione del principio della libertà di coscienza entra praticamente in causa solo quando, dopo l’inizio dei corsi. vorreste togliere i vostri figli dall’insegnamento religioso.
Infatti, la Convenzione conclusa tra il Consiglio di Stato e le Autorità religiose, in applicazione dell’ars. 23 della Legge della Scuola, e che entrerà in vigore solo con l’inizio del prossimo anno scolastico, prevede che, dopo l’iscrizione degli alunni all’insegnamento religioso, la frequenza diventa obbligatoria fino alla fine dell’anno, salva la possibilità di far valere l’art. 49 della Costituzione Federale.
14. Il modello della Sacra Famiglia
Poiché tra le novità di quest’anno è arrivato anche il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica, desidero ricordarvi quanto esso dice al n. 2223, in merito alla responsabilità dei genitori per l’educazione dei figli.
Ne vale la pena perché. attraverso questo nuovo Catechismo, non vi raggiunge la voce di un solo vescovo, bensì l’insegnamento di tutti i vescovi della terra con il Papa: è la voce della Chiesa universale:
«I genitori sono i primi responsabili dell’educazione dei loro figli. Testimoniano tale responsabilità anzitutto con la c reazione di una famiglia, in cui la tenerezza, il perdono, il rispetto, la fedeltà e il servizio disinteressato rappresentano la norma. Il focolare domestico è un luogo particolarmente adatto per educare alle virtù. Questa educazione richiede che si impari l’abnegazione, un retto modo di giudicare, la padronanza di sé, condizione di ogni vera libertà. I genitori insegneranno ai figli a subordinare «le dimensioni materiali e istintive a quelle interiori e spirituali». I genitori hanno anche la grave responsabilità di dare ai loro figli buoni esempi. Riconoscendo con franchezza davanti ai figli le proprie mancanze, saranno meglio in grado di guidarli e di correggerli: «Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta… Chi corregge il proprio figlio ne trarrà vantaggio» (Sir 30, 1-2). «E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore» (Ef 6, 4).
Cari genitori, non è la frusta, come raccomandata il Vecchio Testamento e come magari si usava ancora all’inizio di questo secolo, ma sono la vostra fermezza e la vostra serietà di intenti che contano.
Ho citato il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica anche per rammentare a tutti i genitori credenti che, da quattro anni, la nostra Diocesi ha introdotto una catechesi per gli adulti: la cosiddetta Scuola della Fede.
II tema proposto quest’anno è quello della Chiesa. Un aiuto per tutti a capire che la Chiesa, contrariamente all’immagine divulgata facilmente dai media, e non solo da essi. non è, prima di tutto. un fatto sociologico o un’istituzione; non è una società esterna alla nostra persona o alla nostra famiglia, alla quale bisogna eventualmente rendere conto.
La Chiesa, nella sua essenza, è un fatto spirituale che, in forza del Battesimo e della fede in Gesù Cristo, avviene nella nostra persona e nella nostra famiglia, così come nelle persone e nelle famiglie degli altri credenti.
Da questa fede comune in Gesù Cristo nasce un rapporto di comunione tra tutti i credenti, che assume forme visibili e istituzionali. Nasce una socialità nuova e diversa da quella semplicemente umana o civile, perc h é ha carattere soprannaturale.
Grazie al sacramento del Matrimonio, la Chiesa trova la sua prima forma di realizzazione nella famiglia. Il Concilio Vaticano Il ha detto che la famiglia è, per cos dire, la “Chiesa domestica”.
In tutto questo si realizza ed esprime il mistero della salvezza in Gesù Cristo, nel quale siamo inseriti attraverso il Battesimo e la nostra fede. Il vostro compito specifico, se siete cristiani, è quello di educare i vostri figli, dopo aver trasmesso loro il dono incommensurabile dell’esistenza, alla fede e alla vita nella Chiesa, già realmente presente nella vostra famiglia. Siete chiamati, perciò, ad accompagnarli, in questo itinerario pedagogico ed educativo, anche fuori dall’ambito familiare, garantendo la loro frequenza, sia alla catechesi parrocchiale o non parrocchiale, sia all’insegnamento religioso scolastico, malgrado abbia, come abbiamo visto, finalità proprie. Per il suo carattere culturale particolare, esso svolge, infatti, una funzione previa e perciò complementare anche alla catechesi.
Il modello che dovete tener presente voi genitori cristiani è quello della Sacra Famiglia di Nazareth; non per quanto la differenzia dalla vostra, ma per quanto è uguale. Giuseppe e Maria hanno saputo educare Gesù, grazie al fatto di aver accettato la missione ricevuta da Dio nella totale disponibilità alla Sua volontà.
Ciò ha permesso a san Luca (2, 52) di annotare nel suo Vangelo che, con Giuseppe e Maria, Gesù cresceva «in età, sapienza e grazia».
Anche voi genitori siete chiamati, in quanto cristiani, a far crescere i vostri figli «in età, sapienza e grazia».
Perciò, ogni strumento di aiuto per realizzare questa missione, che in ciò non è differente da quella di Giuseppe e di Maria, come per esempio, la catechesi parrocchiale e l’insegnamento religioso scolastico, è per voi di importanza capitale. Non solo la catechesi parrocchiale, ma anche l’insegnamento religioso scolastico sono strumenti concreti per realizzare la volontà di Dio in rapporto al vostro dovere di educare i vostri figli al senso religioso e alla fede cristiana.
15. Gli insegnanti di religione e i vostri figli di 16 anni
A questo punto però potreste domandarmi: «Perché allora non scrive anche ai nostri tigli, quelli che hanno compiuto ormai i 16 anni?».
Dovrei piuttosto scrivere agli insegnanti di religione, ai preti e ai laici, che devono gestire il corso forse più difficile di tutto il programma scolastico.
Difficile, perché non sempre hanno il sostegno collegiale degli altri insegnanti; difficile, perché non sempre sentono l’appoggio dei genitori; difficile, perché i ragazzi sono stressati dalle preoccupazioni scolastiche, in un ambiente diseducativamente competitivo; difficile, perché i vostri ragazzi sono distratti da mille prospettive, e, man mano che crescono, sono resi fragili dalla crisi dell’adolescenza; difficile, perché alla religione è riservata un’ora sola; difficile, perché, nel caso di insegnamento a tempo pieno, agli insegnanti di religione nelle scuole medie tocca l’onere didattico di alcune centinaia di allievi; difficile, perché la cultura di massa, dominante, è troppo spesso qualunquista e invita al disimpegno morale.
Se non scrivo agli insegnanti, è perché hanno altre occasioni per riflettere sulla loro missione e sul loro compito ecclesiale e civile nella scuola.
Ma, allora, ai vostri figli, che non vi ascoltano più e credono di affermare la loro personalità staccandosi da voi ed hanno, eventualmente, già fatto la scelta di non iscriversi all’ora di insegnamento religioso?
Certo, potrei scrivere anche a loro, e magari un giorno lo farò, ma sono dispersi e non rappresentano una categoria di persone afferrabile come la vostra.
E poi, penso che, quelli dai 16 anni in su, sono ormai grandi: capacissimi di capire tutto quello che ho scritto a voi, anche perché ormai non pensano più solo ad essere ragazzi, ma guardano già avanti e intuiscono che presto si troveranno anche loro ad essere genitori.
Quello che ho scritto a voi, in fondo, vale anche per loro e allora, come prima cosa, perché non date a loro questa lettera da leggere? Forse potrebbe nascere un dialogo tra di voi e forse capiranno che quanto ho scritto a voi vale anche per loro, sia che guardino il loro presente, sia che guardino il loro futuro.
Non potrebbe essere allora un’occasione d’oro per parlare con loro dell’insegnamento religioso e prendere una decisione comune?
È un invito, che desidero accompagnare con l’affetto di un Vescovo e con la promessa di ricordarvi al Signore, perché vi aiuti ad assumere la vostra responsabilità educativa.
Ma prima di finire, posso proporvi una preghiera per la scuola?
Introduzione
Cari confratelli nel sacerdozio
e cari fratelli e sorelle nel Signore,
il Concilio Vaticano II, trattando dell’ufficio pastorale dei Vescovi nella Chiesa (Decreto Christus Dominus, 16), raccomanda una particolare attenzione all’attività di governo del popolo di Dio, affinché il messaggio evangelico fruttifichi nel modo più pieno: «Per essere in grado di meglio provvedere al bene dei fedeli, secondo il bisogno di ciascuno, (i Vescovi) si adoperino di conoscere a fondo le loro necessità, e le condizioni sociali nelle quali vivono, ricorrendo, a tale scopo, a tutti i mezzi opportuni».
Tra tali mezzi, lo stesso documento segnala la revisione dei confini territoriali delle diocesi e, di conseguenza, anche quelli delle entità territoriali minori, quali i Vicariati foranei e le parrocchie.
Da alcuni anni il Consiglio del Clero e il Consiglio Pastorale Diocesano si sono posti il problema della suddivisione della Diocesi in zone pastorali, per renderle più funzionali alle esigenze della nuova evangelizzazione.
Al pari di qualsiasi altra azione pastorale, anche la definizione delle zone pastorali deve essere intesa come servizio alla fede. Come tale richiede da parte di tutti i Parroci una disponibilità ed un impegno del tutto particolari per realizzarne le finalità a vantaggio dei fedeli.
La diffusione della fede e la realizzazione della comunione ecclesiale hanno da sempre, e in modo ricorrente, provocato trasformazioni territoriali, il cui scopo è stato quello di offrire nuovi presupposti ambientali, atti a favorire e incrementare la presenza della Chiesa nelle diverse situazioni socio-culturali. Non vi è dubbio che queste, negli ultimi quarant’anni, hanno subito profondi mutamenti anche nella nostra Diocesi.
Un’analisi di questi mutamenti di ordine generale e nell’identità dei cristiani è stata pubblicata nel 1974 nel volume Partecipazione religiosa e immagine della Chiesa nel Ticino, completato, per il problema giovanile, dalla ricerca di Don Claudio Laim, La religiosità dei giovani ticinesi (Roma, 1985).
Benché non abbiano la pretesa di essere necessariamente esaurienti, queste analisi offrono molti elementi utili di giudizio, validi anche per la realtà attuale.
Tuttavia, per quanto riguarda lo specifico riordino del territorio diocesano in zone pastorali, mi sembra si debba tener conto, come movente immediato, di due fenomeni diversi: quello della urbanizzazione e quello della così detta “post-cristianità”.
L’urbanizzazione è il risultato sia dell’aumento della popolazione, sia della sua emigrazione verso il fondo valle e dell’insediamento nei grandi centri urbani.
L’epoca post-cristiana, che coincide con la fine della modernità e l’inizio del post-moderno, non significa certo, come alcuni pretendono, la fine della missione della Chiesa, bensì il fatto che larghi strati del popolo cristiano, pur mantenendo un legame con la fede e l’istituzione ecclesiale, hanno assimilato in modo più o meno consapevole criteri secolari di vita quotidiana, che evidenziano sempre di più la loro inconciliabilità con una concezione cristiana della vita. Per un’analisi di questo fenomeno, che coinvolge tutto l’Occidente rinvio alle prime due lettere pastorali, Siate forti nella fede del 1987 e Annunciate il Vangelo del 1989.
1. Le trasformazioni territoriali della Chiesa in Svizzera e nella nostra Diocesi.
La Chiesa dopo essersi adeguata territorialmente alle circoscrizioni provinciali dell’Impero romano, per far fronte alla nuova situazione sociale e politica, creata dall’irrompere sulla scena europea dei popoli germanici, ha assunto anche altre forme di organizzazione territoriale di natura nazionale, più corrispondenti all’identità dei nuovi popoli.
Questi ed altri esempi di duttilità organizzativa, dettati, quando non furono imposti dal potere politico, dall’esigenza di creare condizioni territoriali più adatte alla diffusione del Vangelo e al radicarsi delle istituzioni ecclesiali, ci offrono un quadro, sia pure ridotto ad alcuni elementi sommari, per capire anche la storia della Chiesa, non solo nella nostra Diocesi, ma anche nella Confederazione.
In Svizzera esiste una profonda esigenza di ridefinizione del territorio ecclesiale delle attuali sei Diocesi. L’assetto in vigore risale in parte alla prima metà del secolo scorso, quando, nel 1821 è stata soppressa l’immensa Diocesi di Costanza, con l’attribuzione dei suoi territori sulla sponda sinistra del Reno, alle Diocesi di Basilea, San Gallo e Coira.
L’esigenza di aumentare sensibilmente il numero delle Diocesi, di cui la residenza di Vescovi ausiliari a Ginevra, Losanna e Zurigo è solo un prodromo, nasce dall’urgenza di stabilire contatti più intensi e visibili tra i Vescovi e il clero e tra il popolo cristiano e i Vescovi.
Per molti aspetti la crisi emersa nella Diocesi di Coira affonda le sue radici nella provvisoria assegnazione, dettata da imperativi più politici che ecclesiali, alla Diocesi stessa, dei territori appartenuti a quella di Costanza. Zurigo e i Cantoni primitivi, infatti, per fare un solo esempio, non hanno legami geografici e non hanno mai avuto tradizioni culturali e politiche comuni con l’antica capitale della Rezia.
L’art. 50/4 della Costituzione svizzera ha sempre impedito, fino ad oggi, di porre rimedio a questa situazione.
Circostanze politiche particolari hanno per contro permesso nel 1884 la scorporazione del nostro attuale territorio diocesano dalla Diocesi di Como e dall’Arcidiocesi di Milano. Un esito felice, che, tuttavia, risaliva già, come esigenza, al XVI secolo. Infatti, malgrado le grandi difficoltà e le fatiche affrontate dagli Arcivescovi di Milano, in modo particolare da San Carlo Borromeo, che in venti anni di episcopato è venuto fino da noi ben cinque volte (senza contare qualche altra visita, come al Collegio di Ascona e alla Pieve di Bellinzona), e dai Vescovi di Como, per tenere un contatto con le nostre popolazioni, esse hanno sempre accusato, come elemento molto negativo, la lontananza dai propri Vescovi.
Profonde trasformazioni territoriali sono comunque avvenute all’interno della nostra Diocesi già nei secoli scorsi e nel corso di questo secolo, sia a livello parrocchiale che vicariale.
Nel XVII e XVIII secolo, grazie alla penetrazione estremamente capillare del cristianesimo nelle nostre terre, di cui le innumerevoli chiese e cappelle ancora esistenti nel nostro territorio sono il segno più che evidente, si è formata la maggior parte delle nostre attuali 256 parrocchie. Le comunità locali, che già possedevano una chiesa o che, con grande fede, entusiasmo e sacrifici, la ristrutturavano o la costruivano, hanno ottenuto dai Vescovi di Como e di Milano di costituirsi in più parrocchie autonome, facendosi distaccare con Decreto episcopale dalle antiche e vaste parrocchie plebane.
L’abbondanza di clero di quell’epoca ha reso possibile questa profonda e decisiva trasformazione pastorale, con il risultato che ogni piccola parrocchia, spesso, oltre al patrimonio per mantenere il parroco, creava dei fondi (o benefici) per permettere a un cappellano di tenere aperta almeno la scuola elementare.
Progressivamente queste parrocchie vennero riunite in piccoli Vicariati, simili ai circoli politici, così da permettere al clero, in un tempo di scarsi mezzi di trasporto, di incontrarsi, sia per coltivare la conoscenza reciproca, l’amicizia e la comunione, sia per aggiornarsi sui problemi, tradizionali o emergenti, della teologia morale, dogmatica e pastorale.
Dopo la costituzione della nostra Diocesi, nel 1884, sotto forma di Amministrazione Apostolica, la situazione territoriale è rimasta per molto tempo quasi immutata rispetto a quella precedente: circa 250 parrocchie raggruppate in 19 Vicariati, diventati 24 nel 1910.
2. I Vicariati foranei
Con decreto 1 settembre 1969, Mons. Giuseppe Martinoli, constatando, da una parte che la mobilità del clero era sostanzialmente migliorata, con la diffusione dei mezzi motorizzati, ma soprattutto per promuovere, a livello diocesano, una pastorale d’assieme attraverso una realizzazione concreta a livello regionale, ha ridistribuito il territorio della Diocesi (eretta formalmente anche agli effetti civili nel 1971), in cinque Vicariati foranei. In seguito, con decreto 29 novembre 1975, venivano costituiti gli attuali sei Vicariati, la cui estensione non è più modellata sui circoli, ma simile a quella dei distretti politici.
Prima del Concilio Vaticano II, la pastorale d’assieme nasceva come risultanza spontanea di una prassi pastorale unitaria a livello locale, dettata e imposta dalla minuziosa regolamentazione prevista dal Codice di Diritto Canonico del 1917 e dai due Sinodi Diocesani che hanno preceduto il Concilio Vaticano II: quello di Mons. Peri Morosini del 1910 e quello di Mons. Angelo Jelmini del 1946.
Il presupposto di questa unitarietà pastorale è stato per molti decenni la stabilità e la continuità della pratica religiosa, acquisita nei secoli immediatamente precedenti e fermamente ancorata all’ambito della vita parrocchiale. Essa assumeva una dimensione diocesana vera e propria attraverso le giornate vicariali o diocesane celebrate in modo ricorrente dall’Unione Popolare Cattolica Ticinese, espressione del movimento dell’Azione Cattolica, che, dagli anni trenta in poi, era diventata il perno, a livello propriamente diocesano, dell’attività formativa alla fede.
Le istanze di rinnovamento formulate dal Vaticano II, che da noi ha avuto riscontro nel Sinodo Svizzero e Diocesano del 1972-75, e il fenomeno dell’invecchiamento del clero e della sua insufficienza numerica, non certo assoluta, ma solo relativa ai bisogni delle nostre innumerevoli piccole parrocchie, sono gli elementi che hanno suggerito questa prima trasformazione territoriale, assieme alla ridefinizione dei compiti pastorali dei Vicariati foranei.
Questa prima importante trasformazione territoriale è stata pensata in funzione della aggregazione e formazione del clero, ma soprattutto per creare, con la costituzione di un Consiglio pastorale vicariale, un centro propulsore per la diffusione del Vangelo, al quale cooptare anche laici, uomini e donne, disposti a impegnarsi pastoralmente su una base territoriale più vasta di quella della parrocchia.
Questi Consigli pastorali hanno ricevuto il compito di sviluppare una pastorale comune tra le parrocchie del loro territorio, abbozzando anche una pastorale specializzata, avente come referente alcune categorie di fedeli, quali i giovani, o determinate attività specifiche, quali la preparazione dei fidanzati e la realizzazione a livello regionale delle direttive pastorali diocesane, definite dal Sinodo Diocesano del 1972-75.
L’esito di questa ristrutturazione territoriale e pastorale è stato soddisfacente e insoddisfacente allo stesso tempo. Positivo, sia pure con risultati alterni, per quanto riguarda la formazione permanente del clero e i suoi ritiri spirituali; meno positivo, per quanto riguarda la possibilità di introdurre una pastorale diversificata secondo le categorie di persone (se si eccettua la preparazione dei giovani al matrimonio) e la possibilità reale di coinvolgere i laici assieme al clero nel mandato di evangelizzazione.
Perché questo potesse avvenire, la condizione previa sarebbe stata di creare in ogni singola parrocchia un Consiglio pastorale parrocchiale nel quale i laici, impegnati anche nel Consiglio pastorale vicariale e in quello diocesano, potessero operare e trovare un riscontro.
Le parrocchie che hanno creato un Consiglio pastorale parrocchiale, vero e proprio, con precise responsabilità nell’evangelizzazione, sono state, purtroppo pochissime. In troppe è avvenuta invece una osmosi con i Consigli parrocchiali, le cui prerogative non sono pastorali, bensì amministrative e civili. Questa assunzione quasi inevitabile da parte dei Consigli parrocchiali delle prerogative ecclesiali spettanti ai Consigli pastorali parrocchiali, assieme al sempre più crescente fenomeno della dipendenza economica delle parrocchie dai comuni, ha provocato una sottile subordinazione della Chiesa a una logica dettata non solo da criteri economici, ma anche politici.
Non è facile coinvolgere i laici in prima persona e in modo pastoralmente efficace quando neppure a pochi – se si prescinde dagli insegnanti di religione nelle scuole medie e superiori – è possibile affidare, per ragioni finanziarie, compiti ecclesiali a pieno tempo. D’altra parte, se il numero dei laici che lavorano su una base di pura vocazione e dedizione ecclesiale, rimane esiguo e se, in seno alle parrocchie che rappresentano nel Vicariato foraneo, non esiste un Consiglio pastorale vero e proprio, o questo rimane comunque chiuso ai problemi della pastorale vicariale e diocesana, anche l’efficienza pastorale dei Vicariati si riduce a un minimo.
I nuovi Vicariati si sono così rivelati sul filo degli anni troppo grandi per assumere i compiti pastorali loro affidati. In pratica potrebbero essere altrettante piccole diocesi, senza il vantaggio di avere un vescovo proprio e con lo svantaggio di avere un vicario foraneo che, nella situazione attuale di insufficienza del clero, è difficile che possa esercitare la sua funzione a pieno tempo, mantenendo anche la responsabilità diretta di una parrocchia.
Se nella stragrande maggioranza delle parrocchie non sono costituiti e non si costituiscono i Consigli pastorali è dovuto anche al fatto che molte di esse sono prive del parroco residente o, dove è presente, ha spesso raggiunto un’età troppo avanzata per assumere compiti troppo gravosi. E vero che l’amministrazione dei sacramenti può sempre essere assicurata anche da un prete anziano (in particolare quello della Penitenza, che, dopo il Concilio, è stata irresponsabilmente e troppo diffusamente accantonata), ma la catechesi sacramentale, quella per gli adulti, l’aggregazione dei giovani, molte iniziative, come gite, feste, attività caritativa e altre innumerevoli attività possibili, esigono energie che spesso superano quelle ancora in possesso del clero anziano.
Questi ed altri fatti hanno consigliato di tentare una soluzione nuova, che tenga tuttavia conto di quegli elementi che nel passato si sono rivelati efficaci: quella cioè di lasciare intatta l’attuale struttura dei sei Vicariati foranei, quale base territoriale per riunire il clero, in vista della sua formazione permanente, spirituale e culturale, e quella di costituire zone pastorali più piccole, rispettando le diverse e specifiche esigenze delle zone urbane e di quelle non urbane.
Per meglio individuare i punti di convergenza e attrazione della popolazione, è stato consultato anche l’Ufficio Cantonale di Pianificazione del Territorio. Tuttavia, solo l’esperienza dirà quali dovranno essere le circoscrizioni territoriali definitive delle zone. Il problema centrale non è quello della ristrutturazione territoriale in quanto tale, bensì quello del compito pastorale da assegnare, sia al clero della zona, sia ai laici.
Essenziale è incominciare da subito un lavoro, per trarne indicazioni utili per il futuro, ma nello stesso tempo per non rimanere con le mani in mano.
3. Le zone pastorali
Le zone pastorali, essendo relativamente piccole, tendono a creare una realtà sovra-parrocchiale in cui svolgere alcune attività pastorali. All’interno delle zone, le parrocchie non sono evidentemente sottovalutate, ma devono accettare di superare i propri limiti, prendendo coscienza del fatto che alcune attività e incombenze pastorali richiedono di essere sviluppate in comunione con le parrocchie della stessa zona pastorale.
La lista di questi compiti pastorali può essere variabile secondo le situazioni specifiche ad ogni zona, ma è tempo di fare il tentativo di assolvere alcune attività pastorali, mettendo in comune le forze e le iniziative di tutti gli operatori pastorali locali, cioè del clero e dei laici.
Tra queste priorità vanno elencate, a esempio, la catechesi per gli adulti, la pastorale giovanile e quella scolastica, la pastorale degli anziani, la catechesi in preparazione ai sacramenti, specialmente della Confermazione e del Matrimonio, l’intercambiabilità per la celebrazione dell’Eucaristia domenicale fra parrocchia e parrocchia – con l’evidente esigenza che anche la popolazione non urbana impari a spostarsi da una chiesa all’altra-, i momenti di aggregazione popolare all’interno delle zone, le missioni parrocchiali eventualmente estese alla zona, la visita pastorale, la possibilità di vita anche comune dei presbiteri, qualora fosse possibile costituire piccoli gruppi di preti, che, oltre a collaborare assieme e a praticare un intenso rapporto di comunione reciproca, avessero anche la volontà reale di vivere assieme.
a) La catechesi per gli adulti
Le zone pastorali favoriscono l’evangelizzazione e la catechesi in un determinato territorio, perché permettono di mettere in comune risorse di singole competenze; di un numero di partecipanti sufficientemente rappresentativo, spesso invece poco significativo nelle singole parrocchie; di talenti personali, di energie creative e di programmazione pastorale, difficilmente reperibili in ogni singola situa- zione locale. Nel Consiglio pastorale diocesano è stata richiesta la costituzione di una équipe di presbiteri e di laici (preparati dalla Scuola diocesana di catechesi), che, se anche non potranno essere inizialmente molto numerosi, potranno evidentemente trovare un impiego più efficace, in una zona piuttosto che in ogni singola parrocchia.
b) La pastorale giovanile scolastica
Molti sacerdoti hanno già iniziato a promuovere uscite o ritiri a livello interparrocchiale. Basta prenderli come esempi cui ispirarsi. Le sedi scolastiche consortili (elementari) o regionali (medie e medie superiori) devono essere accostate, più di quanto avviene, con la finalità di sviluppare, in mezzo a questo grande popolo di ragazzi e ragazze, una pastorale giovanile e scolastica.
Prima o poi bisognerà anche coinvolgere, in modo più determinato, di quanto avvenuto finora, gli insegnanti di religione.
c) La pastorale degli anziani
Occorre tener conto del fatto che le nostre parrocchie sono comunque molto vicine tra loro. Ciò facilita gli spostamenti per le visite negli istituti per anziani, che hanno spesso carattere consortile e interessano non solo una singola parrocchia, bensì tutta la zona.
A questo proposito vorrei richiamare al clero più anziano il fatto che, invece di legare indissolubilmente la propria identità sacerdotale e il proprio ministero all’ufficio di parroco, potrebbe dedicarsi, libero da impegni parrocchiali magari troppo gravosi per la sua età, all’assistenza degli anziani. Questo ministero è diventato più urgente che mai a seguito del forte invecchiamento delle persone sole in queste case ormai dorate. A quante potremmo portare ancora il conforto della fede?
4. Preparazione al Sacramento della Confermazione
Poiché occorre in ogni caso potenziare la formazione immediata e l’accompagnamento dei catechisti e delle catechiste laici, spesso lasciati troppo in balia di se stessi, la zona pastorale può diventare il luogo per convocarli regolarmente attorno ad uno dei presbiteri. Ciò, non solo fa risparmiare tante energie, ma infonde nei catechisti stessi una consapevolezza più grande delle dimensioni della Chiesa, del loro compito in essa e della necessità di un servizio ecclesiale non legato esclusivamente alla dimensione parrocchiale. Permette inoltre lo scambio di esperienze e l’incoraggiamento reciproco.
La prassi ormai invalsa, ma non ancora del tutto coerente, di raggruppare a livello sovrapparrocchiale la celebrazione della cresima, mostra che le zone esistono già di fatto, anche se non coincidessero ancora con i confini delle nuove zone.
5. Preparazione al Sacramento del Matrimonio
Di regola oggi è fatta a livello vicariale. In alcuni casi però il Vicariato sembra inadeguato. Nuovi impulsi vengono dal ricostituito Centro Diocesano per la Pastorale Familiare. Le zone potrebbero favorire non solo la frequenza ai corsi di preparazione per i fidanzati, bensì anche l’incontro delle famiglie che hanno seguito i corsi, per iniziare capillarmente un movimento che le coinvolga in una coscienza diocesana e permetta una pastorale della famiglia su una scala più grande, vicariale e diocesana.
6. Intercambiabilità delle parrocchie per la celebrazione dell’Eucaristia domenicale
E’ una evoluzione già in atto nelle valli, oltre che nei centri urbani. Ma essa, dove non è spontanea come nelle città, deve essere preparata con i fedeli, prima che sopraggiunga l’emergenza. E’ assolutamente certo che già forse dall’anno prossimo ci saranno parrocchie di una certa importanza, che non avranno più un parroco residente. L’allargamento della nozione della parrocchia verso quella della zona può aiutare i fedeli a capire che, se vogliono accedere all’Eucaristia e formarsi ad esprimere la loro vita cristiana, i confini entro cui devono spostarsi, non sono più quelli tradizionali e che certe parrocchie possono essere affidate a laici o a comunità di suore per la preghiera infrasettimanale, per la comunione e la visita agli ammalati. Non è una questione inerente di per sé alla zona, ma il saper imprimere alla zona una nuova funzione pastorale, creerà prima o poi il presupposto per profondi mutamenti nella mentalità pastorale di tutti, del clero e del popolo di Dio.
7. Momenti di aggregazione popolare
I nostri fedeli hanno bisogno di capire che l’esperienza cristiana, se non è un’esperienza individuale, non è neppure un’esperienza comunitaria circoscritta entro confini troppo angusti. La cultura della gente è cambiata, rispetto alla struttura agraria e cittadina precedente. Pensa sempre meno in categorie locali, perché i mezzi delle comunicazioni sociali hanno spezzato e allargheranno sempre di più l’ambito della propria collocazione nella società. Anche la Chiesa deve assecondare e favorire questa evoluzione con gli strumenti che le sono propri, anche se diversamente efficaci.
I fedeli devono essere educati a capire che il luogo della loro presenza ecclesiale potrebbe essere quello di un’intera regione, a esprimere la loro fede attraverso la partecipazione alla vita ecclesiale di parrocchie vicine, di zone, di Vicariato, fino a toccare con realismo l’esperienza vera e propria della Chiesa particolare, che non è la parrocchia, bensì la diocesi.
Chi non è educato a vivere la propria fede, avendo come orizzonte la Chiesa particolare in quanto tale, con il Vescovo come pastore, non riuscirà mai a intuire la ricchezza dell’appartenenza alla Chiesa universale e corre il rischio di ridurre la dimensione ecclesiologica della sua esperienza, ad un’esperienza riduttivamente moralistica, neppure propriamente cristiana. Noi sacerdoti da questo punto di vista portiamo la grande responsabilità di offrire ai cristiani la possibilità di gustare la fede in Cristo in tutta la sua universalità.
8. Le Missioni
Non è certo un’idea nuova quella di organizzare forme di missioni più ampie di quelle tradizionali delle parrocchie. E a ritentare questa esperienza vi esorto caldamente, perché non dobbiamo lasciare nulla di intentato per riportare il Popolo di Dio alla coscienza della nostra gente.
Le zone potrebbero diventare ambito adatto per le missioni, perché permettono di raggruppare nuclei di persone più consistenti che nelle piccole parrocchie, secondo categorie.
9. La Visita pastorale
Esistono due diversi aspetti della visita pastorale: quello amministrativo, che può essere compiuto, a scadenze di 5 anni, dai Vicari foranei, e quello dell’incontro del Vescovo con il popolo.
La frequenza dei contatti del Vescovo con i fedeli, grazie alla maggiore mobilità di tutti, grazie ai mezzi della comunicazione sociale e alla celebrazione, almeno ogni due o tre anni, della Confermazione, conferisce un carattere diverso alla visita pastorale rispetto al passato. Ciò che bisognerebbe organizzare oggi, non sono, in primo luogo, incontri generici con i fedeli, che non mancano, bensì incontri più specifici, finalizzati a orientare e sostenere il lavoro pastorale di gruppi che operano in settori particolari.
Le zone possono offrire questa possibilità, dando alla visita pastorale del Vescovo una funzione sempre più specifica, meno legata alle scadenze tradizionali e ripetibile più facilmente, secondo le esigenze, sia del Vescovo, sia degli operatori pastorali della zona, presbiteri e laici.
Ciò che vale per il Vescovo e per chi lo dovesse sostituire, vale anche per i responsabili delle commissioni, dei centri e degli uffici diocesani.
10. Vita comune dei presbiteri
Esistono gradi diversi di vita comune. Dal ritrovo di presbiteri della zona più volte alla settimana, ad esempio per i pasti, alla convivenza vera e propria in una stessa casa parrocchiale. Quest’ultima forma è stata realizzata in parecchi casi, specialmente, ma non in modo esclusivo, tra presbiteri della stessa famiglia religiosa. Le strutture logistiche in genere sono di grosso ostacolo così come lo è la Legge sulla Libertà della Chiesa del 1886 e la mentalità della popolazione, che pure vedrebbe ben volentieri il porsi del segno dell’unità tra il clero.
Le zone, consolidandosi, potrebbero indurre a concludere degli accordi tra le parrocchie per i restauri delle case parrocchiali, trasformandole in sedi adatte per più sacerdoti. Ogni situazione ha le sue particolarità di cui non si può non tenere conto, tuttavia non bisogna fare della convivenza vera e propria una aspirazione tale da diventare quasi utopica. L’essenza della questione sta nella comunione e nella collaborazione reale tra i presbiteri. Non è neppure pensabile che si possano far confluire in una sola zona, solo i presbiteri disposti a vivere assieme o a collaborare con lealtà d’animo e dall’inizio con gli altri. Ne consegue che l’ideale della vita comune, se non è retta da una precisa coscienza della comunione reciproca, nella responsabilità comune del Presbiterio, non sarà mai realizzato neppure nella sua forma più semplice.
Conclusione
Questa trasformazione pastorale, che non è stato possibile realizzare nei Vicariati in modo coerente, dal 1975 in poi, deve diventare ora una realtà imprescindibile. La costituzione perciò di Consigli pastorali di zona, con la partecipazione del clero locale e di tutte le forze laicali disponibili, presenti nel territorio, diventa lo strumento indispensabile per iniziare. Vi domando perciò di costituirli quanto prima.
Il Consiglio pastorale di zona non ha bisogno di essere organizzato con norme troppo strette, per non correre il rischio di creare un’altra struttura formale, che a causa della sua rigidità potrebbe assorbire troppe energie organizzative e svuotarsi rapidamente nel suo interesse. Deve rimanere una struttura aperta. Non è la pratica delle regole formali della democrazia, in quanto tale, in seno a questi Consigli che darà un contributo reale alla nuova evangelizzazione, bensì la volontà di comunione, l’adesione alla Chiesa, l’assunzione della sua presenza nel territorio come compito imprescindibile della vocazione cristiana, la passione per la diffusione tra gli uomini della verità fondamentale che Dio ci ha rivelato: vale a dire, l’annuncio che la Salvezza della nostra vita viene da Cristo e non, come oggi moltissimi, anche tra i cristiani, possono essere indotti di fatto a pensare, dal benessere materiale, da noi largamente assicurato, almeno alla stragrande maggioranza della popolazione, in tutti i settori della loro vita quotidiana.
In quanto poi alle attività pastorali da sviluppare nelle zone, le 10 proposte indicate sopra non sono, né vincolanti, né esaustive. Ogni zona deve decidere, scegliendo magari poche attività, ma anche sviluppandone eventualmente altre non elencate.
Del resto le zone, essendo territorio nel quale realizzare l’attività pastorale e non strutture prevalentemente organizzative e amministrative, come invece i Vicariati, sono profondamente diverse tra di loro. Una grossa parrocchia è evidentemente più autonoma nelle possibilità di esprimersi secondo tutte le forme di annuncio della Parola. Le parrocchie medie sono meno autonome, mentre quelle piccole sempre di più quasi totalmente dipendenti dalla necessità di aggregarsi ad altre. Tutto dipende quindi dalle possibilità reali esistenti nelle zone e dalla creatività degli operatori pastorali, clero e laici. La libertà perciò è grande per tutti, purché non si trasformi in un nulla di fatto.
Resta da valutare il rapporto tra la struttura organizzativa dei Vicariati foranei e quella pastorale delle zone.
L’opinione nettamente prevalente nei Consigli diocesani è stata quella di mantenere i Vicariati per l’organizzazione del clero (ritiri, formazione permanente) e per le elezioni ricorrenti in seno al Consiglio del Clero e al Consiglio pastorale diocesano, per cui i Vicariati continuano ad esistere. Ogni Vicariato deve capire se il Consiglio vicaria- le, oltre ai compiti organizzativi, cui abbiamo accennato, mantiene ancora realisticamente una funzione pastorale in vista dell’annuncio del Vangelo.
Le situazioni possono essere diverse, da Vicariato a Vicariato. Solo quando, e dove, le zone pastorali diventeranno effettive, in funzione della nuova collocazione territoriale delle attività pastorali, sarà possibile prendere decisioni più precise in merito ad un’eventuale continuazione della funzione pastorale dei Vicariati stessi. Il primo passo da compiere, comunque, è quello di dar corpo, in seno alle zone definite dallo schema allegato a questa lettera, a un nuovo modo di pensare la nostra presenza apostolica nel territorio.
Questa lettera pastorale sostituisce un Decreto formale. Le zone, con i loro confini e i loro compiti pastorali, entrano in vigore, a partire dal 4 novembre di quest’anno, festa di San Carlo, per i prossimi cinque anni ad experimentum, ma possono essere ritoccate anche prima, secondo le necessità.
Cari confratelli e cari fedeli. Le zone pastorali, già esistenti e diffuse in molte altre Diocesi, provocheranno inizialmente, anche nella nostra Chiesa particolare, nuove difficoltà, soprattutto forse per il clero. Devono essere perciò affrontate in nome della fede, non in nome della semplice speranza di raggiungere una migliore organizzazione della Diocesi.
Poiché è in gioco la nuova evangelizzazione, vi esorto ad affrontare questa nuova fatica, che comporta inevitabilmente una conversione interiore, non tanto in forza di un atto di autorità del Vescovo, che peraltro è stato accompagnato e incoraggiato in tutto lo studio del problema dal Consiglio del Clero e dal Consiglio Pastorale diocesano, ma in nome del mandato apostolico che nostro Signore ci ha dato.
Il Signore ci benedica e aiuti tutti.