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Amici Corecco

Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 1

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A SERVIZIO: LAICI E PRESBITERI

Capitoli

Lettera dal Sinodo dei Vescovi, Roma, 14 ottobre 1987

C’è voluto qualche giorno, prima che i Padri sinodali riuscissero a cantare i salmi in latino e gregoriano senza inceppare e stonare. Trenta anni fa in Seminario eravamo tutti specialisti, poi sono fiorite nuove melodie su testi in lingua vernacola accompagnabili anche al suono della chitarra. I salmi in latino dell’ora terza, che dà inizio ai lavori tutte le mattine, hanno però ora, in compenso, acquistato nel cuore di tutti i Padri un sapore di ben altro spessore, rispetto agli anni del Seminario. Ma chi oserebbe introdurre la chitarra nella solenne aula sinodale, stracolma di prelati in filettato e con lo zucchetto rosso o paonazzo sulla testa?
Il latino, che aveva ancora retto così bene durante tutto il Concilio Vaticano II, è oggi quasi scomparso dai dibattiti. Al di sopra di tutte le lingue moderne domina ormai l’inglese, ed è questo il vero segno del mutare dei tempi. Magari uno mette la cuffia della traduzione simultanea (che è ancora un mezzo massacro) solo per distrarsi e sorridere un po’, in mezzo ad argomenti che diventano in ogni caso solenni quando prendono la parola i Vescovi latino-americani con la loro cadenza dolce e straordinariamente declamatoria, ma il fatto è che parecchi Vescovi devono mettere la cuffia per essere sicuri di capire bene i confratelli tedeschi che parlano un elaboratissimo latino.
Questa prima settimana ha messo tutti a dura prova: 170 interventi di 8 minuti spaccati, infilati uno dopo l’altro,
e interrotti inesorabilmente quando sull’insegna compare lo stop, luminosissimo e beffardo. Siamo stati costretti ad immagazzinare informazioni su tutto il mondo,come se fossimo un computer. Molti Padri, infatti, hanno scelto, prima di iniziare la discussione vera e propria che incomincerà solo la settimana prossima, di informare sulla situazione delle loro Chiese.
Il primo sintomo della grande evoluzione in atto è il fatto che, parlando dei laici, tutti hanno. parlato della Chiesa. L’identificazione tra laici e Chiesa è già avvenuta, come una volta tra gerarchia e Chiesa, e se si trattasse solo di fare un’operazione promozionale del laicato, l’obiettivo del Sinodo sarebbe già stato raggiunto. Abbiamo visto così snodarsi un grande documentario, con migliaia di sequenze. Anzi, un Vescovo dell’ America Centrale ha perfino avuto l’idea da Guinness, primato nella storia dei Concili della Chiesa, di far vedere un filmato vero, con “campesinos” variopinti che cantavano e suonavano la chitarra. Così, per la porta di servizio, è entrato in aula anche questo strumento della musica religiosa moderna che qualche volta è anche sacra, tra l’iniziale sbigottimento del Papa (ma probabilmente ha fatto solo finta di non saperlo!). Più per il suo fegato, che per la bellezza del filmato,gli abbiamo battuto generosamente le mani.
Le situazioni in cui devono vivere i laici sono ben diverse nel mondo. La Chiesa nel Pakistan, che rappresenta 11% di una popolazione di 9 milioni di musulmani; quella in India, che deve sfidare una cultura filosofica e religiosa di altissimo livello; i Vescovi americani, giunti al Sinodo con sotto il braccio grosse inchieste Gallup fatte su campioni di centinaia di migliaia di laici delle loro diocesi; gli africani, che raccontano con linguaggio aneddotico la storia dell’evangelizzazione dei loro paesi, incominciata tra la metà e la fine del secolo scorso, ma portata avanti fino ad oggi da una rete fittissima di catechisti laici: gente che ha imparato le parabole del Vangelo e il catechismo a memoria, non sapendo né leggere né scrivere troppo bene; i Vescovi neri dell’ Africa del Sud, che riferiscono in un inglese da Oxford (quasi pari a quello del primate d’Inghilterra card. Hume) sulla spirale esplosiva dell’apartheid; i fedeli laici dei Paesi d’oltre cortina, che hanno pochissime Sante Messe cui partecipare, e per di più in latino, sono senza traduzione dei testi liturgici, possono dire solo il Rosario e qualche altra antica preghiera del catechismo, e malgrado tutto ciò hanno conservato intatta la fede, salvando la presenza della Chiesa anche nel mondo comunista, in attesa di una risurrezione.
In mezzo a queste e ad altre descrizioni sulla situazione della fede dei laici e della Chiesa, alcuni temi sono diventati subito ricorrenti, come per esempio quello della donna e quello dei giovani. Della donna hanno parlato tutti, con grande convinzione, ma anche con grande sensibilità. Aprire alla donna tutti gli spazi possibili perché possa diventare più presente e attiva nella comunità cristiana. Unanimità sull’opportunità e necessità di poterle conferire tutti quei ministeri e quelle responsabilità, come ai laici uomini, che non implicano il conferimento dell’Ordine. Qualche Padre sinodale ha anche suggerito di riesaminare la questione storica e dottrinale del diaconato della donna, per sapere se le diaconesse esistite in qualche Chiesa particolare dell’antichità avessero veramente ricevuto il primo grado del sacramento dell’Ordine e se la Chiesa di oggi non possa conferire loro il sacramento del diaconato. Per contro nessuno si è spinto fino a superare la soglia del sacerdozio. L’impressione diffusa è che nessuno lo pensi realmente e che, malgrado i pronunciamenti di certa teologia femminile e di certe suore “made in USA” che sfilano davanti al Papa con il cartellone e scandiscono magari qualche frase scioccante, il problema stia diventando sempre più quello di come promuovere la donna, con estrema coerenza,
socialmente ed ecclesiasticamente, senza farle mettere per forza la tuta da manovale o la tonaca del prete.
L’urgenza sta piuttosto nello scoprire la vera identità della donna, in sé già sufficientemente spremuta nella sua femminilità dalla società industrializzata; nello sviluppare una sua specificità nella Chiesa, senza farla diventare la bella o brutta copia dell’uomo sacerdote. Se è un errore clericalizzare i laici, quelli al maschile, lo sarebbe doppiamente farlo nei confronti di quelle al femminile. Potrebbe essere l’ultimo modo di espropriarle di se stesse e di sottometterle ad una nuova gerarchia che «perpetuerebbe l’abuso maschilista», come ha scritto recentemente. Una giornalista su un cosiddetto autorevole quotidiano italiano. Senza dire che un Sinodo dedicato ai laici andrebbe fuori tema se si attardasse a disquisire troppo sul sacerdozio delle donne, perché a questo punto cesserebbero anche loro di essere ancora laiche!
Il secondo tema emergente è quello dei giovani. A noi europei, che di bambini sulle strade ne vediamo ben
pochi, pare di essere in un altro pianeta, quando si sente dire che in moltissimi Paesi, quelli ritenuti meno civili, i
giovani fra i 15 e i 25 anni .sono il 40-50% della popolazione.Altro che AVS!
In questi Paesi ed in queste Chiese i giovani non sono lo sparuto drappello delle “pastorali giovanili” ma il vero soggetto della Nazione e della Chiesa. I giovani, certo, ma la signora Antoinette Prudence delle Isole Rodriguez, una maestra d’asilo, ha intrattenuto i Padri per quasi 40 minuti, infrangendo il muro di tutti gli stop, sui bambini piccoli, facendoci capire che sono anche loro Chiesa «à part entière». Poco è mancato che fosse venuta al Sinodo con la sua classe, per farceli vedere, questi bambini dai quali è una vita che si fa spintonare, e il Papa, anche lui, che ascolta tutto il tempo e non dice mai nulla, salvo qualche breve saluto iniziale (o qualche gesto fugace, semi-clandestino, di riconoscimento all’uno o all’altro vescovo), anche il Papa ha seguito tutto con grande attenzione e bonomia.
Per parlare dei laici tutte le salse sono buone. Un Vescovo del Centro-America (è presente anche il Card. Obando Bravo di Managua nel Nicaragua, che mi ha domandato gentilmente se la mia diocesi era difficile e a
cui non ho saputo rispondere perché pensavo alla sua), ha preso lo spunto dei laici per parlare del flagello dell’ AIDS, visto che sono loro i più colpiti! Un celeberrimo religioso americano, leader del movimento dei carismatici, che raccoglie la bellezza di 20 milioni di fedeli che pregano lo Spirito Santo come sanno fare loro, con grande entusiasmo, con il cuore e con le braccia, ha spezzato una grande lancia per sostenere la necessità di ritornare ad una pastorale per soli uomini. Secondo lui, che almeno l’America la deve pur conoscere, se riempiamo le chiese solo di donne scatta il riflesso della timidità dei maschi, che arrischiano di rimanere lontani. Un po’ come da noi, una volta, quando gli uomini stavano fuori sul sagrato a parlare della prossima fiera, fino alla fine della predica, perché quella era roba da donne.
Donna, giovani, laici. Certo, promozione di tutti, ma il Sinodo è ben lontano dal cedere a qualsiasi forma di demagogia. Tutti sono perfettamente coscienti del fatto che la prima promozione deve avvenire nel cuore stesso
degli interessati. Nella Chiesa può essere promosso solo chi crede e vive la sua fede profondamente, altrimenti la parola «laico» non dice proprio niente; purtroppo, di solito, dice solo persona tiepida o lontano dalla Chiesa. Il problema non è evidentemente quello di aumentare il numero dei laici e delle laiche in giro all’altare, nei Consigli
pastorali di tutti i gradi o nelle università a studiare teologia, bensì di convincere i laici, uomini e donne, (la folla più numerosa e anonima), che tocca a loro prima di tutto identificarsi con la Chiesa. Ammesso e concesso che
il clero (vescovi e preti) e i religiosi (frati e suore) vivano la fede e la diffondano, adesso è giunta l’ora dei laici. Tocca a loro credere ed essere testimoni della loro appartenenza a Cristo in tutti gli ambienti, dove solamente loro, in fondo, possono arrivare: nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, negli affari, in politica, nei centri dove nasce la cultura o la non cultura di un popolo.
I Pastori devono aiutarli con nuove strutture capillari per la nuova evangelizzazione, che tocchino tutta la diocesi,
le parrocchie, i gruppi, le confraternite, i movimenti. È in preparazione anche un Catechismo per tutta la Chiesa Cattolica voluto dal Sinodo straordinario del 1985, come tutti sanno, ma anche il problema fondamentale è che i laici promuovano se stessi, frequentando nuovamente la catechesi e riprendendo in mano il proprio destino di cristiani. Questo, della formazione dei laici è, in effetti, diventato il terzo tema emergente del Sinodo. Tutti gli interventi dei Vescovi la raccomandano, ma nessun Vescovo o parroco la può fare se i laici restano a casa a guardare la TV o se nel fine settimana vanno solo a spasso o se ai loro figli sanno fare in modo consumistico solo l’equitazione, il balletto, il tennis, l’hockey o il pianoforte, come se ne dipendesse la felicità della vita e il prestigio sociale. Il primo prestigio e la prima felicità della vita è quella di credere in Gesù Cristo. Accanto a questi temi si sono delineati anche due problemi, ai quali fino ad ora i Padri sinodali girano intorno senza riuscire a centrare con esattezza il nocciolo della questione: il problema della definizione vera e propria di che cosa sia un laico e quella del rapporto tra l’istituzione ecclesiale ed il carisma. Il laico è solo il fedele comune, quello che non ha ricevuto l’ordinazione sacerdotale o non è andato in convento, oppure è qualche cosa di più? Perché il Concilio Vaticano II ha parlato della «indole secolare» come della loro caratteristica peculiare? Che cosa significa che il laico è il fedele che vive nel mondo? E’ solo un semplice dato sociologico o è qualche cosa di più profondo, cioè un fatto ecclesiologico? Anche sulla questione dei carismi, che sfocia oggi inevitabilmente nella questione dei movimenti ecclesiali e del loro rapporto coi piani pastorali delle diocesi e delle parrocchie, abbiamo assistito, fino ad ora, solo a qualche scaramuccia. Il Cardinale Lorscheider, brasiliano, ha aperto le ostilità con una mossa a sorpresa; altri grossi prelati stanno ancora amleticamente in silenzio, ma moltissimi Vescovi si sono dichiarati favorevolissimi ai Movimenti ecclesiali, anche se magari danno fastidio al tran tran di tutti i giorni e non si sa bene come inquadrarli.
E’ il carisma! Ed è sempre difficile inquadrare il carisma, come gli artisti ed i poeti. Ma di questi due problemi vi parlerò la prossima volta, nella certezza che il Sinodo riuscirà a schiarirsi le idee.

Terza lettera. Roma, 20 ottobre 1987

Cari fratelli e sorelle in Cristo, l’assemblea sinodale non è frequentata solo da Vescovi, Arcivescovi e Cardinali, ma anche da fondatori di movimenti ecclesiali, laici e preti. All’inizio tutti li guardavano con curiosità, mista a venerazione, come se appartenessero a una specie diversa. Persone in carne ed ossa, portatrici di un carisma, che evidentemente non si vede. Il carisma é una particolare presenza dello Spirito Santo che dona ai fondatori una particolare genialità nella fede, assolutamente non comune.
C’è chi sostiene che anche noi siamo tutti dei carismatici,ma non è vero. È vero che tutti i cristiani ricevono i doni
dello Spirito Santo, nel Battesimo, nella Cresima e negli altri Sacramenti (doni di sapienza, di intelletto, consiglio,
fortezza, di scienza, di pietà e di timore di Dio), ma il carisma è un’altra cosa. E’ una straordinaria capacità di comunicare con gli altri, a livello della fede, con gesti e parole che risvegliano immediatamente, nell’interlocutore attento, il desiderio di aderire con più entusiasmo a Cristo. Uno sente, tramite le parole dei carismatici, una particolare risonanza del desiderio di santità, che ha già dentro, e che lo Spirito Santo gli ha posto come seme nel cuore ilgiorno del battesimo; è disposto perciò a lasciarsi guidare dall’annuncio della fede messo in atto da un fondatore.
Evidentemente la cosa non è automatica, bisogna essere umili e accettare di seguire. Dovremmo farlo anche con il nostro parroco. E’ tuttavia un fatto, per esempio, che quando l’attuale Papa parla nei suoi viaggi provoca una risonanza particolare nel cuore della gente. Una volta era quasi più la sua persona che faceva impressione, oggi è sempre di più il suo messaggio in quanto tale.
Di veri e propri fondatori di movimenti ecclesiali al Sinodo ce ne sono quattro, e in tutti noi era viva l’attesa di sentirli parlare. Nel plenum hanno parlato solo in due: Chiara Lubich, che ha fondato i Focolari 40 anni fa, e don Giussani, un po’ impacciato ormai nella sottana da monsignore, fondatore di Comunione e Liberazione, 30 anni or sono.
Chiara Lubich è una donna fine ed esile con i capelli corti, fissati da una permanente in argento, sempre uguale.
È riservata. Ci vuole un po’ di tempo prima di riuscire a scambiare qualche parola, anche se è seduta proprio alle mie spalle. La sua voce è sottile, ferma, senza alcuna esitazione. Quando ha parlato, per dire, con quell’accento giusto, che il cristiano deve vivere la carità con tutti, tutti hanno capito perché è riuscita ad aggregare un milione di persone e perché 600 vescovi vanno a seguire i suoi ritiri spirituali.
È poi risuonata la voce roca, ma rispettosa, di don Giussani per spiegare, con il suo linguaggio esistenziale,
che l’evento cristiano è incontrabile, come ai tempi di Gesù con gli Apostoli, nell’impatto con una realtà di persone che cerca di vivere la fede in comune. Quando in seguito aggiunse che tutti, nelle nostre tribolazioni ecclesiali (da cui sono flagellati soprattutto i fondatori dei movimenti) troviamo l’ultima pace del cuore nel successore di San Pietro, tutta la sala si è voltata a guardarlo.
ll terzo fondatore è spagnolo, un laico. Tutti lo chiamano Kiko e nessuno sa che si chiama Kiko Argüello. Non
gliel’ho mai detto, ma assomiglia a certi santi spagnoli del ‘500. Viso asciutto, capelli e barba corti e ricci, camicia kaki a maniche rimboccate, cravattino di pelle. Non è stato scelto per parlare davanti a tutta l’assemblea sinodale e, a mio avviso, è sotto sotto un po’ deluso, perché la sua sarebbe stata una arringa tagliente come una spada; di quelle che fanno fremere lo spirito. Ha suscitato, infatti, in tutto il mondo un movimento di gente che va allo sbaraglio a predicare, provocando conversioni e un mare di vocazioni.
Il quarto è Jean Vanier, alto, dinoccolato; sembra tirato fuori da un dormitorio comune ed in effetti ha fondato l’ Arche. Dove mette in piedi le sue baracche, l’Arche diventa immediatamente un porto inesauribile di carità: il regno visibile e clamoroso dei miserabili che da soli, nei sobborghi delle grandi città, vivono nascosti, dormendo sotto i ponti, ignorati da tutti, ma che attorno a lui ridiventano persone.
Non è un caso che al Sinodo siano stati chiamati i fondatori viventi, assieme a decine e decine di Superiori generali di grandi Ordini e Congregazioni religiose, tutti suscitati, magari molti secoli fa, da chierici, laici o laiche diventati santi, perché un Sinodo come il nostro, che tenta di ridefinire lo statuto ecclesiale dei laici, sarebbe stato inevitabilmente percorso da una tensione di fondo.
Nella storia della Chiesa questa tensione è sempre emersa, ogni volta che è stato posto (come nella Riforma) il problema del rapporto tra i laici e i chierici. E’ la tensione esistente tra l’istituzione e il carisma, già presente nel Vangelo, quando Cristo polemizzava dicendo che la lettera uccide lo spirito.
Ma chi è il laico? Ecco la questione fondamentale. Il Concilio Vaticano II (per chi volesse andare a leggerne il testo, si tratta del n. 31 della Lumen gentium) aveva detto che il laico non deve essere definito negativamente, come se fosse solo quel fedele che non ha ricevuto l’ordine sacro, ma positivamente. Il laico è quel fedele che attraverso il battesimo appartiene a Cristo e partecipa alla sua missione di salvezza nel mondo. Non riceve da Cristo solo la salvezza a titolo personale, ma è chiamato anche a diventare, assieme a Cristo e con la forza dello Spirito Santo, protagonista della salvezza degli altri. In nome di Cristo e di tutta la Chiesa, deve annunziare agli altri la fede che ha ricevuto.
La fede è come la vita, ci è data per trasmetterla agli altri, non per tenerla egoisticamente per noi. A questo proposito, un Vescovo ha detto a tutta l’assemblea, colpendo visibilmente nel segno, che è una vergogna che i cristiani non abbiano più il coraggio mettere al mondo figli e che, se vogliamo salvare la dignità della donna, dobbiamo incoraggiarla ed aiutarla a ridiventare madre, perché nella maternità trova, più che in ogni altra cosa, la sua grandezza.
Ma il Concilio Vaticano II aveva aggiunto un’altra cosa, non meno importante, sui laici: che il laico si caratterizza,
rispetto ai preti e ai religiosi e religiose, per la sua «indole secolare». E qui sono incominciate le difficoltà. Quelle sulle quali il Sinodo sta chinandosi con la sapienza (che lo Spirito Santo dovrebbe darci), di tutti i Padri. Non è detto che la soluzione debba saltar fuori già questa volta, perché le questioni dottrinali hanno itinerari molto lunghi ed esigono un largo consenso.
C’è, infatti, chi dice che questa indole secolare, o secolarità (da non confondere però con il secolarismo o il laicismo), consiste nel puro fatto sociologico di vivere nel mondo. Il laico sarebbe il battezzato che vive nel mondo. Ma se si escludono le monache di clausura, tutti viviamo nel mondo, fino al collo. Dunque, non può essere così.
C’è perciò chi sostiene, e credo a giusta ragione, che la secolarità è qualche cosa di più profondo. Mentre i preti esercitano il ministero della predicazione e dei sacramenti e garantiscono l’unità della comunità dei cristiani, e mentre i religiosi vivono la fede, praticando i tre voti di verginità, di povertà (personale) e di obbedienza, i laici sono quei cristiani che devono vivere la fede assumendo le stesse condizioni naturali di vita di tutti gli uomini. Queste condizioni si cristallizzano nel matrimonio, nella proprietà dei beni e nella libertà di gestire la vita. Sono esattamente il contrario dei tre voti religiosi.
I laici vivono perciò il mondo dal di dentro e devono cercare di redimere con la fede, la speranza e la carità, le condizioni naturali di vita proprie al loro stato. Per questo i laici sono, nella Chiesa, quei fedeli che più degli altri (preti e religiosi) sono responsabili della trasformazione del mondo: della vita familiare, delle strutture economiche, sociali, politiche. Anche per loro il punto di riferimento è la fede, dalla quale devono sviluppare un giudizio sul modo di gestire la vita privata e sociale, a livello nazionale e mondiale.
Anche a questo proposito approfitto per dirvi che se qualcuno pensasse che la Dottrina sociale della Chiesa (quella delle grandi Encicliche sociali, per intenderci), sia superata, sbaglia. Dopo il Sinodo essa ridiventerà di grande attualità, perché tutti i Vescovi ne hanno parlato. E il grande manuale che insegna al cristiano (e lo dice soprattutto agli uomini politici) come tradurre in pratica i principi della fede nelle realtà sociali, economiche e politiche. Quelle realtà che i laici devono trasformare, affinché la loro eventuale fede privata non rimanga socialmente e politicamente lettera morta. In questo settore il laico è il primo responsabile e rappresentante di tutta la Chiesa di fronte al mondo.
Evidentemente, i voti o consigli evangelici, non li devono vivere solo i religiosi, ma anche i laici e i preti. Come atteggiamento di fondo, di distacco, di non egoismo e di non possessività nei confronti delle persone e delle cose.
Non per nulla anche i preti rinunciano al matrimonio, cui sono in realtà finalizzate sia la proprietà, sia la libertà di gestione della propria vita. La questione della «indole secolare» perciò non è una questione di lana caprina. Risolverla bene alla radice, senza pressappochismo, è il presupposto che permette ai fedeli laici (e a tutti gli altri) di capire fino in fondo le condizioni e le modalità esatte secondo cui devono vivere la loro fede nel mondo, per rendere presente in esso la Redenzione. Al cristiano laico spetta il compito primario di riscattare nel mondo il cattivo uso cui sono soggetti i tre rapporti fondamentali: uomo-donna; uomo-cose (con i suoi mille addentellati anche ecologici), uomo-società; che presuppone la libertà, così spesso sopraffatta da destra. o da sinistra, oppure sciupata perché confusa con il “fare quello che si vuole”, cioè l’istintivismo.
Sotto il problema della vera identità del fedele laico e del suo statuto teologico ed ecclesiologico, si agita l’altro problema, quello dei carismi. In questi ultimi decenni, infatti, sembra che ne siano stati investiti soprattutto i laici. I movimenti ecclesiali moderni sono tutti movimenti in cui predominano nettamente i laici.
Il problema è che i movimenti ecclesiali moderni (la cui origine carismatica non è messa in dubbio da nessuno), come quelli antichi, disturbano un po’ tutti, parroci, vescovi e cardinali, laici che non ne fanno parte, giornalisti, politici, sociologi, e chi più ne ha più ne metta. Si potrebbero definire tutte queste categorie (anche se un po’ impropriamente) come “istituzione”. L’istituzione è quel complesso di realtà, di strutture o di giudizi ritenuti acquisiti, fissi e dati per scontati, che di solito si sente minacciata dalla novità. Nella Chiesa sorge così la tensione tra l’istituzione e il carisma. Essa travaglia in profondità tutto il Sinodo. Ma di questo vi riferirò la prossima volta.

Quarta lettera. Roma 27 ottobre 1987

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore, se al Sinodo non ci fossero le Beatitudini sarebbe un vero peccato. Dominerebbe sovrana la tensione efficientista e qualche volta l’acribia concettuale, tipiche della cultura occidentale, antica e moderna. Le Beatitudini, invece, capovolgono tutto. Fanno ridiventare serena l’atmosfera, permettendo a un sole ridente di far capolino tra le nuvole. È il sole d’Oriente, portato dai Patriarchi, che assomigliano un po’ ai Re Magi e che come loro sono arrivati al Sinodo dall’Oriente. Non si fanno salutare con l’epiteto di «Eminentissimo» come i Cardinali latini (diventato un po’ troppo manageriale) ma con quello di «Beatitudine»: Vostra Beatitudine.
Il colore delle loro vesti non è fisso come quello dei signori Cardinali. Può essere il rosso, il verde, l’arancione o il nero. AI posto della croce pettorale mettono volentieri in mostra medaglioni (encolpion), fantasmagorici, con l’effigie della Madonna. In testa non insediano una semplice mitra, ma una tiara con qualche piano in meno di quella portata dai papi fino a Paolo VI, che se la tolse e la depose nei musei vaticani. Forse è per questo che durante il Concilio erano stati contrari a che anche i Patriarchi venissero creati Cardinali; lo sentivano come una “diminutio capitis”.
Ognuno di loro è un programma unico, religioso, rituale, teologico e culturale. Sono tutti molto poveri, malgrado i colori vivaci, perché vivono in paesi disastrati come quelli del Medio Oriente o in Abissinia. Nel ‘500 il duca di Kleve (in Germania), dopo aver rubato la spada spirituale al Vescovo, diceva che lui era Papa e Imperatore nel suo territorio: «Dux Cliviae, papa et imperator in territorio suo». I Patriarchi cattolici orientali riconoscono il Papa e gli sono molto obbedienti, ma nel loro territorio sono quasi-papi anche loro. Sono veneratissimi dal popolo cristiano e musulmano e tutti gli Arcivescovi e Vescovi di quei paraggi fanno loro profonde riverenze.
Di Beatitudini al Sinodo ce ne sono solo 6: il Patriarca dei Copti, dei Melchiti, dei Siri, dei Maroniti, dei Caldei e degli Armeni. Parlano raramente e qualche volta sembra vadano fuori tema. Fanno però sempre sfoggio di una ricchezza spirituale e dottrinale che fa bene al cuore di tutti, come un ricostituente. Non spaccano mai un capello in quattro come fanno spesso gli occidentali, nel solco soprattutto di S. Tommaso d’Aquino, che ha ridotto tutta la teologia. a «quaestiones», cioè ad un catalogo di problemi da risolvere. Ciò ha fatto spesso perdere ai teologi,
meno intelligenti di lui, il nocciolo della questione sulla fede.
Se qualche volta le loro Beatitudini, i Patriarchi, sembrano andare fuori tema, ma non fuori strada, non ci si deve meravigliare. Ditemi voi come si fa a parlare in un Sinodo tutto dedicato ai laici, senza far salti mortali, quando nelle Chiese orientali ortodosse e cattoliche non esiste neppure il concetto di “laico”.
In effetti, la parola “laico” viene dall’etimo greco “làos”, che non significa laico, ma popolo. Allora, parliamo del Popolo di Dio, cui appartengono tutti, chierici e religiosi compresi, oppure parliamo solo dei laici? In Occidente la nozione di laico ha preso via via diversi significati, qualche volta addirittura strani. Prima ha significato“popolo”, anche in Occidente; poi, passati un paio di secoli, ha incominciato a designare, nel Popolo di Dio, quelli che non erano chierici e religiosi, cioè i fedeli laici nel senso moderno. Nel Medio Evo i laici erano i re e le regine, i baroni e i baronetti (tutti, almeno sulla carta, perfetti cristiani), cioè coloro che al cinturone. Portavano appesa la spada secolare. La spada spirituale era portata invece dai chierici. Evidentemente, non dal basso clero, ma da quello alto, dai Papi e dai Vescovi… quando non se la lasciavano rubare, perché, da che uomo è uomo, chi ha una cosa vuole anche l’altra. E’ incominciata così una specie di altalena: una volta erano i laici (sono stati i periodi di gran lunga più lunghi) che rubavano la spada ai Vescovi, per comandare anche nelle cose spirituali; un’altra volta, 0erano i chierici che la rubavano ai laici per fare un po’ di politica. Questa, in sunto, la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato in Occidente; storia dalla quale non siamo ancora usciti del tutto.
Dopo di allora, la parola “laico” ha cambiato ancora significato almeno quattro volte. Nel secolo dei lumi (il
‘700) ha incominciato a designare i personaggi che non andavano più in chiesa. Da questa metamorfosi è nata la denominazione dei così detti partiti dell’area laica, di cui in Italia, molti sono orgogliosissimi. La Chiesa, se potessero, loro la sopprimerebbero, perché per loro il fumo delle candele non fa solo male, ma è addirittura l’oppio dei popoli.
Se si pensa alla prosopopea culturale di certi illuministi alla Voltaire, che sputava su tutti («Ecrasez l’infame!», diceva della Chiesa), non è senza una punta di ironia che nella storia si sia ripetuta la pena del contrappasso; quella con la quale Dante Alighieri, nella Divina Commedia, si era divertito un mondo. Pensate per esempio alle pene inflitte, giù nell’inferno, ai golosi e agli accidiosi. Infatti, il termine “laico”, è diventato, a poco a poco, sinonimo di ignorante. «lo sono laico in materia», significa, io non ci capisco proprio nulla!
Di questo fenomeno sono rimasti vittima anche i laici che andavano in chiesa, perché anche loro, più come categoria che presi uno ad uno, sono purtroppo diventati o rimasti ignoranti nelle questioni riguardanti la fede. La colpa non è certo solo del clero. Il Sinodo .sui laici, nel solco del Concilio Vaticano II, vuoI correre ora ai ripari. La parola “laico”, presa nel suo quarto significato, quello ecclesiastico antico e attuale, definisce quelle persone che, avendo ricevuto il battesimo, appartengono a Cristo e alla Chiesa. Il laico non dovrebbe però essere laico nel senso secolarizzato del concetto, cioè, ignorante circa il mistero di fede, da cui è determinata tutta la sua persona. Essere fedeli laici esige la consapevolezza di appartenere a Cristo Risorto, che nella storia è presente attraverso la comunità di tutti i cristiani, la Chiesa.
Questo senso di appartenenza a Cristo e alla Chiesa dovrebbe prevalere su ogni altro tipo legittimo di appartenenza: ad un’etnia, ad una razza, ad una cultura, ad una nazione, ad un partito. Non oso parlare dei club e delle associazioni di ogni genere, di cui oggi tutti, anche in Svizzera, diventano sempre più matti. Eppure questo è tutt’altro che scontato. In questa appartenenza a Cristo e alla Chiesa sta tutta la questione. Il fedele laico dovrebbe assumerne tutte le conseguenze, nella sua vita privata e familiare, nella vita pubblica, sociale, culturale e, soprattutto, nel suo modo di pensare. Altrimenti rimane “stupido”, in senso etimologico (dal latino stupere), cioè stupito, smarrito, attonito, di essere quello che è… senza saperlo.
Una delle conseguenze sarebbe anche di partecipare con più interesse alla vita della Chiesa e all’elaborazione delle sue decisioni. Su quest’ ultima questione, che nel Sinodo affiora un po’ marginalmente, perché il problema non si pone con la stessa focalizzazione di tutte le culture, come in quelle democratiche, non ho l’impressione che si intenda andare molto lontano, oltre le norme dell’attuale diritto canonico, che nei confronti dei laici non parla di voto deliberativo, ma di voto consultivo. Due termini questi, presi dalla cultura giuridica universale che comunque non esprimono con esattezza il rapporto ottimale di corresponsabilità che dovrebbe esistere tra laici e chierici nella Chiesa. Del resto è difficile, anche nella vita civile, trovare un giusto equilibrio di forza tra la maggioranza che vince e la minoranza che perde. Da ciò si vede che il problema di una corretta gestione del potere è la suprema arte dell’umanità. Mai risolta totalmente, poiché tutte le formule hanno il loro tallone d’Achille.
In sostanza però il problema fondamentale non è quello di affinare le modalità di partecipazione, bensì quello della consapevolezza, che tutti i laici dovrebbero avere di se stessi. Se fossero consapevoli della loro fede e dei loro doveri nei confronti del mondo, la sfida culturale, che il cristianesimo si appresta ad affrontare alla vigilia del terzo millennio, potrebbe avere un esito molto positivo per tutta l’umanità, poiché i laici cattolici sono quasi un miliardo. E una sfida in cui i problemi hanno assunto orizzonti sconfinati, non più del tutto riducibili alle quaestiones della Somma Teologica di S. Tommaso.
A sentire certi Vescovi, del cosiddetto Terzo mondo,
parlare del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest, del debito presso la Banca mondiale, del commercio delle armi reso possibile dal contrabbando della droga, dell’egoismo nazionale di tutti i paesi, industrializzati o meno, della borsa delle materie prime (anche noi ricchi ci indispettiamo della ruberia compiuta alla borsa del petrolio di Amsterdam); a sentire parlare questi Vescovi su queste cose e delle gravissime inadempienze dei laici cattolici, si ha quasi l’impressione che, per un po’ di tempo, sarebbero disposti a cingere loro la spada secolare, se i laici cattolici di tutto il mondo non si decidono a svegliarsi.
Su questo discorso si innesta quello dei carismi. E difficile trovare un comune denominatore da dare a questa parola. Alcuni parlano del carisma dell’uomo e della donna, della famiglia; altri lo confondono con la competenza professionale. Il rischio dell’inflazione è grande anche al Sinodo. Se non stiamo attenti a non “carismatizzare” tutto, potrebbe avvenire un crollo di borsa, come quello avvenuto nei passati giorni a New York. Ci si deve con-centrare su quei doni speciali ricevuti da certe persone, laici o chierici, uomini o donne, capaci di proclamare la fede con più forza di persuasione di altre. Si è constatato così che questo fenomeno, spesso legato a quello dei movimenti ecclesiali, mette in difficoltà l’istituzione. Il carisma è un dono quasi incommensurabile dello Spirito Santo. Dopo secoli che non se ne parlava quasi più, anche se sono di fatto sempre esistiti, il problema ora è stato messo finalmente a tema, in termini dottrinali.
Il carisma è un fatto di sovrabbondanza dello Spirito Santo, che può esserci, ma che potrebbe anche non esserci, oppure è un elemento che nella Chiesa non può mai mancare? In termini più rigorosi il carisma appartiene alla Costituzione, cioè all’essenza della Chiesa, oppure no? E fuori dubbio che all’essenza della Chiesa appartengono la Parola e i Sacramenti, da cui deriva tutta l’istituzione.
Questa coincide con tutte quelle realtà, come per esempio il Collegio dei Vescovi, il Papa, i singoli Vescovi, il Sinodo, il Presbiterio, i Consigli pastorali, le Parrocchie, i laici con i loro doveri-diritti religiosi, le suore e tutte le altre realtà fisse, che le norme di diritto canonico regolano e collegano tra di loro, per dare la garanzia che quando celebriamo l’Eucaristia (espressione culminante e totalizzante della Chiesa), tutti e tutto siano al posto giusto.  L’Eucaristia, infatti, deve essere espressione vera di quello che la Chiesa veramente è.
Se anche i carismi appartengono, come l’istituzione, all’essenza della Chiesa, cioè alla sua Costituzione, allora vuoI dire che i vescovi ne devono tenere conto: non possono ignorarli e tanto meno estinguerli, anzi li devono difendere e promuovere come tutto il resto.
Evidentemente il carisma non si giudica da se stesso: non tocca a lui dire se è autentico o no. Se fosse così, con i tempi che corrono, capiterebbe che tutti potrebbero dire di aver visto la Madonna o di aver ricevuto una rivelazione privatissima da Nostro Signore, in persona. Di fenomeni di questo tipo ce ne sono anche troppi, ma è carisma solo ciò che è vero e, purtroppo tocca ai Vescovi, prima da soli, poi collegialmente o con il Papa, tifar fuori le castagne dalla brace e dare un giudizio sulla loro autenticità.
Ma la vera questione dei carismi al Sinodo non è affatto quella delle apparizioni, bensì quella dei Movimenti ecclesiali, perché sono realtà che oggi mobilitano in massa soprattutto i laici. Visto che per loro natura disturbano l’istituzione, perché sono dati dallo Spirito Santo proprio per vivificare l’istituzione, la tentazione rimane identica a quella delle due spade del Medio Evo. L’immagine delle due spade è stata inventata da papa Gelasio nel quinto secolo per definire il rapporto tra Chiesa e Stato.
Ci sono Vescovi che vorrebbero tenere tutte e due le spade, quella della istituzione e quella del carisma, per poter controllare tutto, a puntino, sul piano giuridico e su quello pastorale; per poter inserire tutti i cristiani dentro un piano pastorale che spesso ha l’aria di un progetto di sviluppo di una grande azienda, dove nessuno può sgarrare, fino a quando si constata che è andata male.
Ci sono Vescovi al Sinodo che si accontenterebbero invece di avere la spada della istituzione, lasciando, con tutta magnanimità, quella del carisma a chi la possiede, cioè i fondatori, nella convinzione che, se è vero, come è vero, che i veri carismi possono venire solo dallo Spirito Santo, almeno Lui non cadrà in contraddizione. Oltretut-to nessuno contesta che l’istituzione (in questo caso i Vescovi) ha l’ultima parola da dire, quando si tratta di giudicare sull’autenticità del carisma, come avveniva già nel Medio Evo; perché già allora alla spada spirituale si riconosceva l’ultima parola in tema di fede e di morale, anche quando la spada temporale era brandita vigorosamente dai Principi.
Ma non è finita; ci sono teologi (che magari riescono a tirar dalla loro anche certi Vescovi) a sostenere che nella Chiesa tutto è carisma, anche l’istituzione. Allora, il pericolo di non capirci più nulla diventa veramente grande.
Su questi temi e su mille altri: definizione del laico; riscoperta della presenza della donna (magari le diaconesse, ma la quotazione è di 1 su 99); nuovi ministeri da introdurre accanto al lettorato e all’accolitato, come quello del catechista, degli assistenti pastorali, degli assistenti degli infermi, degli “operadores de la Palabra” (in America Latina), dei mokambi (in Africa); la questione della conferibilità di questi nuovi ministeri alla donna, giù giù fino alla chierichette, tutti questi temi il Sinodo, in questa terza settimana, si è diviso in 12 gruppi di studio linguistici, i cosiddetti “circuli minores”.
Tutti i “circoli” hanno steso lunghi rapporti, per un totale di almeno 500 pagine. In una notte il Segretario speciale del Sinodo, assistito da uno stuolo di periti, ha preparato un distillato di 30 pagine, scontentando, inevitabilmente, un po’ tutti, perché ognuno, almeno in un primo momento, si aspetta di trovare nella sintesi la frase che aveva dettato proprio lui. Questo rapporto di 30 pagine è ritornato nei “circoli” a farsi criticare e completare.  Durante il fine settimana il Segretario speciale (sempre attorniato da un nugolo di esperti) rifarà un compendio presentato ieri, lunedì 26, al plenum di tutti i Vescovi.  Questo secondo compendio prende il nome di “propositiones”.  Proposizioni che saranno votate una per una dai vescovi. In un primo «round» si può votare “placet”, oppure “placet iuxta modum” (significa “sì, ma presento un emendamento”), oppure “non placet”. Raccolti tutti i “placet iuxta modum”, con i relativi emendamenti, si passa alla seconda votazione: questa volta, però, solo con scheda secca: “placet” o “non placet” (cioè sì o no).
Il risultato finale sarà presentato nelle mani del Papa, che dovrà ricavarne un documento, ricuperando idee andate perse per strada, scritte su mille e mille fogli volanti.  Forse è ora di introdurre il computer, perché uno non abbia l’impressione che il suo intervento, passando da una sintesi all’altra, si sia volatilizzato. Se non ne trovasse traccia nel documento del Papa avrà almeno la consolazione di sapere che la sua idea è stata giudicata sbagliata.  Il Papa ci metterà forse un anno a rielaborare il tutto.
Noi Vescovi nel frattempo saremo già rientrati nelle nostre sedi, stanchi ma contenti di aver lavorato per la Chiesa e per i laici. Prima di partire però manderemo un messaggio, per dire a tutti voi laici nella Chiesa di Cristo e dello Spirito Santo: contiamo, oggi più che mai, su tutti voi, perché tutti assieme dobbiamo affrontare la nuova evangelizazione dell mondo, incominciando dalla nostra parrocchia o dal nostro ambiente di lavoro. Aveva infatti ragione Delannoy quando, all’indomani della catastrofe della seconda guerra mondiale, ha girato il film «Dio ha bisogno degli uomini».

Quinta lettera 3 novembre 1987

Carissimi fratelli e sorelle nel Signore,
È successo esattamente quello che uno poteva prevedere. Quando ieri sera i “cursores” (cioè i postini) hanno distribuito in aula sinodale il fascicoletto delle 54 proposte (le “propositiones”) definitive, elaborate dal Sinodo per il Papa, si è sentito un grande fruscio di pagine. Nessuno prestava attenzione al relatore del Sinodo, il Cardinale
Hyacinthe Thiandoum, Arcivescovo di Dakar, il quale, stravolto dalle fatiche notturne, ma con il suo grande zucchetto rosso, che troneggiava sulla sua testa nera, più rosso che mai, si sforzava di leggere in latino i criteri adottati dalla Commissione speciale nel passare al vaglio i 900 emendamenti inoltrati il giorno prima dai Vescovi. La sua voce passava sopra la testa di tutti i Padri sinodali, febbrilmente protesi a cercare nel fascicoletto l’esito delle proprie proposte di emendamento (i così detti “modi”). Il Papa si guardava in giro divertito, come un maestro quando vede tutta la sua classe silenziosa e china sul problema di aritmetica appena distribuito.
Durante tutto il mese una cosa è risultata chiara. Quando il Papa era presente in Sinodo (quasi sempre, tra un’udienza e l’altra o la firma di qualche documento importante fattogli scivolare sulla scrivania dall’impassibile Cardinale Casaroli, Segretario di Stato); quando il Papa, dicevo, era presente nell’aula, disposta ad anfiteatro, l’attenzione di tutti convergeva verso il centro ed era come se diventasse tangibile l’unità collegiale. In assenza del Papa, l’aula assumeva subito l’aria meno composta di un parlamento. I Padri si guardavano tra di loro (non in cagnesco come nelle assemblee degli azionisti, ma con grandi sorrisi di riconoscimento), senza prendere troppo sul serio il Cardinale o il Patriarca, presidenti di turno. Questo fenomeno è di natura teologica. L’unità tra i
Vescovi (la collegialità) non nasce dall’unità dei Vescovi tra di loro, ma dal fatto che tutti i Vescovi riconoscono il Papa come punto di riferimento comune.  Mentre si aspettava con impazienza l’arrivo dei “cursores” dalla Tipografia Vaticana, in ritardo ormai di un’ora sulla cena, il Cardinale Ivan Lubachivski, Arcivescovo Maggiore degli Ucraini (spedito evidentemente in esilio), ha chiesto venia al Papa per raccontare due barzellette in latino su Gorbaciov.  Sono convinto che i Vescovi, mentre ridevano, pensavano però al ferro da stiro, che, come tutti sanno, è uno strumento a doppio taglio: può essere usato per appiattire una tovaglia, oppure per mettere in forma un vestito nuovo.
Così è stato per il ferro da stiro usato dalla Commissione speciale (composta dai Relatori dei “circuli minores” e
dai periti), incaricata di spulciare gli emendamenti fatti alla prima edizione delle 54 “propositiones”. Alcuni emendamenti sono usciti appiattiti, altri invece messi in piega a dovere. Anzi, un’intera proposta (il n. 39) era addirittura scomparsa dal fascicoletto, bruciata dal ferro da stiro. Proponeva il tema del prossimo Sinodo, e la commissione l’aveva ritenuta estranea al contesto.
Tra le proposte più importanti schiacciate dal ferro da stiro, c’era quella sui ministeri dei laici. Nel circolo minore di lingua italiana, cui partecipavano altri 15 Padri non italiani, ero stato incaricato di preparare, per tutti, una proposta unica sui ministeri. Nessuno aveva voglia di farlo, perché bisognava girare in tutti gli altri “circuli minores” a sentire come andavano le cose. Fu allora che mi accorsi delle insidie inerenti al tema e della confusione ancora esistente in materia. Mi è capitato, per esempio, di imbattermi in un Vescovo canadese, sicuro di torn a re nel Québec con in tasca le diaconesse. Il risultato finale fu che la Commissione, stiracchiata da tutte le parti, ha pensato bene di togliersi d’impiccio passando la patata bollente al Papa.
Il Sinodo ha così proposto al Papa di provvedere lui stesso a rivedere il celebre Motu Proprio, che Papa Paolo VI, di sua iniziativa, negli anni ‘70, aveva emanato sui ministeri (Ministeria quaedam). Aveva fatto un bel passo avanti, Papa Paolo VI. Oltre a sopprimere tre ordini minori antichissimi, cioè l’ostiariato (con la funzione di portinaio ecclesiastico), l’esorcistato (per malefici minori, non proprio per quelli del demonio, perché per combatterlo ci vuole ben più di un semplice seminarista) e il suddiaconato, papa Montini aveva aperto anche ai laici, non candidati al sacerdozio, i due ministeri da lui non soppressi, cioè il lettorato e l’accolitato.
Tuttavia, da essi aveva ancora escluso la donna. Per via di una lunga serie di sottointerpretazioni, fatte dai più zelanti, si è giunti così alla conclusione che anche le chierichette erano proibite. In realtà le chierichette non sono, né “lettrici”, né “accolite”, perché i chierichetti e le chierichette non ricevono nessun ministero permanente, come si addice invece agli adulti. Sono così piccoli che hanno solo da imparare! Insomma, se è già troppo dire che in aula sinodale delle chierichette hanno parlato sì e no due vescovi, i giornali del giorno dopo hanno dedicato titoli cubitali alla questione, come se i Vescovi mangiassero i bambini. Calunnia evidente, per altro già largamente diffusa nel primo secolo, dal popolino romano, contro i cristiani delle catacombe, così come – salvo errore – riferisce Minucio Felice nel suo dialogo Octavius.
La stampa ha i suoi problemi. Se volete un altro esempio, vi porto quello dei giornali di ieri mattina, che stro mbazzavano con titoli in gigantografia «Lefebvre sì, donne no». Ora, il Sinodo non ha per nulla chiuso le porte ai ministeri delle donne e, su Lefebvre, non ha proprio deciso nulla. C’è stata solo una comunicazione del Cardinale Ratzinger che, quando parla, è come se tutti sapessero che ha ragione (anche per chi non vuole dargliela vinta). Lefebv re è venuto a Roma il 18 ottobre ed ha accettato un Visitatore Apostolico, che il Papa ha nominato nella persona del Cardinale Gagnon (canadese anche lui, ma in forze alla S. Sede). Nessuna decisione, solo una comunicazione e prudentissime verifiche. Il problema, comunque, è che la Chiesa, per un’eventuale riconciliazione, deve guardare a Lefebvre almeno con la stessa apertura di cuore con la quale deve guardare ai cristiani separati e ai non credenti.
E assodato che i giornalisti hanno i loro problemi. Questa volta hanno dovuto passare quasi due settimane a secco, aspettando come segugi affamati i Vescovi che uscivano dai cancelli del Vaticano per raccogliere qualche briciola caduta dalla mensa del ricco Epulone. Se in quei momenti ti scappa una parola imprudente, sei finito. Ti fanno dire quello che non hai detto; se cerchi di portare ragioni, non le vogliono sentire e credono di sapere che esistono macchinazioni incredibili; se ti considerano di destra e fai una piccola apertura, prevedono la palingenesi universale, cioè la trasformazione totale della Chiesa; se pensano che sei di sinistra e risulti troppo prudente, è perché hai preso una botta sulla testa dal Papa, e così via.
Ma il problema va visto anche dalla parte del ricco Epulone, che lascia cadere solo briciole e che secondo il Vangelo è giù a bruciare con una sete d’inferno. Non che si voglia dire che tutti i giornalisti andranno in paradiso; di certo si sa solo che in paradiso per intanto ci sta S. Francesco di Sales, loro patrono. Si fa per dire che, anche questa volta, c’è stata forse troppa paura di esporre i Sinodo alle pressioni della cosiddetta opinione pubblica, spesso gonfiata ad arte dai mass media. Dovremmo liberarci da questa paura. Non nel senso che bisogna dire tutto a tutti, in ogni circostanza, ma nel senso che uno deve essere forte a sufficienza per non lasciarsi troppo condizionare. Se poi tutti assieme si è 250 vescovi, non vedo proprio da chi bisognerebbe lasciarsi impressionare. Se durante i lavori dei “circuli minores” la sala stampa avesse lasciato cadere qualche briciola in più, tutti i giorni e regolarmente, per riferire telegraficamente sui temi trattati, gli addetti alla stampa avrebbero perlomeno avuto un motivo per esser più buoni (non nel senso di migliore, perché, oltre ad essere una scorrettezza grammaticale, non sarebbe sempre possibile). Invece è stato il blac-out totale di notizie ufficiali, e così ne sono successe un po’ di tutti i colori.
Era inevitabile che qualcuno lasciasse scappare la prima edizione delle “propositiones”. Non pensate subito a qualche Vescovo americano, che con la stampa sono più disinvolti di noi; pensate anche che, attorno al Sinodo, si muove un centinaio di altre persone, per tutti i lavori, come per es. quello di battere a macchina. Il fatto è che poche ore dopo la discussione in aula sinodale, i soliti furbi che circolano attorno ai chioschi della piazza S. Pietro e alla sala stampa, alla caccia di turisti, vendevano ai giornalisti fotocopie al dettaglio delle singole “propositiones”, per 3.000 lire l’una. Certo, anche per il Papa, come per tutti, non è piacevole lavorare con le finestre aperte e con tutti che guardano dentro, ma di paura di essere condizionato (questo è stato il motivo del black- out deciso da qualcuno), questo papa non dovrebbe proprio averne più di quel tanto.
Ma ritorniamo ai ministeri. Anche se il Sinodo ha girato la patata bollente al papa, non ha mancato tuttavia di stabilire almeno un principio importante. Quello per cui si vogliono introdurre nuovi ministeri (di catechista, di assistente pastorale, ecc.) conferibili anche alle donne. Non bisognerebbe introdurne troppi, per non squalificare tutti quei laici che fanno e possono fare mille cose (catechesi compresa) in forza del loro battesimo, della cresima e della fede che hanno, senza bisogno di ricevere nessun mandato conferito con solenni cerimonie liturgiche, in modo stabile, o addirittura a vita. Oltre che il pericolo della svalutazione, acuto anche in questo settore come in quello dei carismi, bisogna fare attenzione a non clericalizzare troppo i laici. Anzi, su questo punto i Padri sinodali sono stati categorici: non clericalizziamo i laici, non facciamoli diventare sacristi di lusso, conferendo loro troppi ministeri. I laici devono lavorare prima di tutto per quello che sono, nelle strutture del mondo e della società e lì portare la loro fede, se veramente ce l’hanno.
Questo è il vero problema.
Infatti, tra le “propositiones” uscite da sotto il ferro da stiro della Commissione messe bene in piega, assieme a tante altre proposte, come quella sui carismi (riconosciuti come un dato imprescindibile della vita della Chiesa), quella sulla parrocchia, che deve diventare molto più di quanto non lo sia, scuola di fede per tutti, (ma di cui si dice anche che è solo una struttura organizzativa di una realtà teologica previa e più importante, cioè della comunità eucaristica che, in quanto tale, esiste e vale anche se non è celebrata in parrocchia); accanto a queste proposizioni ed altre importantissime sulla politica, la cultura, ecc., è uscita bene anche la proposta sull’indole secolare dei laici. Più che una dimensione semplicemente sociologica del laico, è stata finalmente riconosciuta dal Sinodo come una dimensione a carattere teologico.
Dopo i primi 10 giorni del Sinodo, durante i quali tutti i Vescovi erano intervenuti in fila, ciascuno per 8 minuti, tirava aria fredda: pareva che tutti o quasi avessero paura dei movimenti ecclesiali. Poi, a poco a poco, il clima è diventato più temperato. Tutti hanno capito che il Concilio Vaticano II aveva garantito la libertà di associazione dei laici, diritto codificato a tutte lettere dal can. 215. Si è capito che erano venuti a Roma per promuovere i laici, non per soffocarli. Assieme a questa, si è capito anche che i carismi appartengono all’essenza della natura stessa della Chiesa; che il diritto dei vescovi di procedere al discernimento della loro autenticità, non è diverso né più impellente di quello di procedere al discernimento dell’autenticità della pastorale compiuta all’interno delle strutture istituzionali. Da ultimo, che bisogna distinguere, nel discernimento dei movimenti, tra la loro autenticità in fatto di ortodossia e disciplina ecclesiale e la libertà che godono i loro membri di impegnarsi a livello culturale, sociale e politico. Questa libertà non è diversa da quella che il Sinodo ha ribadito, senza colpo ferire, per tutti i laici.
Tra i molti risultati del Sinodo, uno è senza dubbio quello di aver dato la consacrazione ufficiale dei movimenti ecclesiali, riconoscendoli come realtà, parificati a tutte le altre forze associative già esistenti. Anzi, il Sinodo ha detto che i movimenti a carattere internazionale contribuiscono molto a creare la coscienza dell’unità della Chiesa universale. Adesso non vuoI dire che tutti possono mettersi a fare quello che vogliono. VuoI dire che tutti devono guardarsi in faccia, chi lavora nei movimenti e chi nelle strutture istituzionali, per compiere assieme l’opera dell’evangelizzazione, senza pregiudizi reciproci. Quando furono lette le due “propositiones” definitive riguardanti i movimenti, Chiara Lubich (quella della permanente d’argento) si è chinata verso di me e mi ha sussurrato: «Vedrà, Eccellenza, tra dieci anni nella Chiesa ci sarà una grande primavera».
Cari fedeli, questa è l’ultima lettera dal Sinodo. E’ stata per tutti i Vescovi un’esperienza grandissima. Alcuni, in aula non hanno esitato ad affermare che questo Sinodo sui laici sarebbe stato il più importante di tutti i sei precedenti. Non so ancora se siamo riusciti a dire cose trascendentali.
Il Messaggio che abbiamo mandato a tutti i fedeli, vescovi, preti, religiosi e laici, uomini e donne, almeno nella sua prima parte potrebbe anche non lasciarlo intravedere, perché non si voleva anticipare troppo quello che dirà il Papa nella sua Esortazione futura. Il Papa, comunque, ha detto che non esproprierà il Sinodo dei suoi diritti d’autore. Ma se leggete bene la seconda parte del Messaggio, potete sentire tutta la carica promozionale che questo Sinodo ha dentro di sé. Non è un caso che il Sinodo sui laici si sia rivolto con il suo Messaggio non solo ai laici, ma a tutti i fedeli, indistintamente, ai Vescovi, ai preti, ai religiosi e alle religiose, per sottolineare che il compito dell’evangelizzazione del mondo è affidato a tutti quanti “in solidum”, cioè a tutti assieme, perché tutti assieme formiamo un unico soggetto, la Chiesa.  Sono contento di avervi scritto queste cinque lettere usando un genere letterario un po’ insolito, che non è certo quello classico di una Lettera Pastorale, ma che in fondo è altrettanto serio.
Ringrazio tutti quelli che hanno pregato per i Vescovi e vi mando anche la mia benedizione. Desidero tuttavia aggiungere un’ultima cosa. Alla fine dei lavori, si è discusso molto sul tema del prossimo Sinodo. Una delle questioni emerse tra le più importanti, è quella dei mezzi della comunicazione sociale. Magari in futuro ci sarà il Sinodo sui mass media. Sento dire fino a Roma che la campagna abbonamenti del GdP “tira” molto bene. Vi esorto a sostenere personalmente e assieme ad altri il nostro giornale, con tutte le vostre forze e con tutta la vostra generosità. Grazie.

Cardinale Péter Erdö Arcivescovo di Esztergom-Budapest

Pur essendo presente sin dall’inizio, la concezione secondo cui è la totalità della Chiesa a proseguire la triplice missione di Cristo, le fonti dei primi secoli sottolineano  qualitativamente  e innanzitutto il compito degli Apostoli, dei Vescovi e delle altre persone ordinate per quanto riguarda le singole funzioni, ponendoli ad esempio di fronte alla Chiesa, come vicari di Cristo. Nei primissimi tempi non si hanno controversie tra “carismatici” e ministri 1 ,siccome i doni dello spirito sono ricevuti innanzitutto dalla Chiesa che li distribuisce, attraverso gli uffici e i compito vari , ai propri membri  e chi esercita per il bene di tutti. I carismi senza la Chiesa, al pari degli uffici senza lo Spirito, sarebbero altrettanto assurdi e pericolosi 2. Per i Padri della Chiesa non esiste una tensione ineliminabile  tra il carisma e l’istituzione. Essi avvertono che l’ufficio della direzione di una istituzione è un ministero che è anche un carisma. Percio’ i Profeti sono giudicati dalle comunità e dei loro responsabili (cfr 1 Cor 14,29-30). C’è un rapporto dialettico tra la comunità, cioè tra l’assemblea delle persone convocate dal Signore  (ecclesia) e i pochi cristiani che rivestono gli uffici delle responsabilità. Come afferma Angelo di Bererdino, dopo l’era apostolica è ormai chiaro che nella persona del Vescovo sono riunite le diverse caratteristiche dell’autorità, essendo lui la guida, il pastore, il maestro, il dirigente (sacerdote) della liturgia, il profeta, l’uomo dello Spirito ch’egli riceve tramite l’ordinazione, per mezzo della Chiesa 3. Già alla fine del primo secolo  San Clemente Romano motiva nella lettera  ai Corinzi l’obbedienza ai superiori ecclesiastici scrivendo che la loro autorità è fondata sugli Apostoli, inviati da Cristo. Come è evidente , Clemente fa qui esplicito riferimento all’idea della successione apostolica 4. Sant’Ignazio di Antiochia deriva la necessità dell’obbedienza ai ministri sacri , soprattutto i Vescovi , dal fatto che essi sono rappresentanti del Vescovo invisibile, cioè Cristo 5. Contraddire il Vescovo equivale contraddire Dio 6. Sant’Ireneo dichiara invece che bisogna obbedire nella Chiesa ai Presbiteri (Vescovi), perché sono i successori degli Apostoli, che avevano ricevuto nella successione episcopale il carisma della verità sicura, secondo la volontà del Padre 7. Per i padri della Chiesa l’autorità proviene ultimamente da una fonte divina. Cio’ vale in senso piu ampio anche per il potere dello Stato (cfr Rm 13, 1-2). Questa affermazione riguarda la Chiesa  in maniera del tutto particolare. Gli autori ecclesiastici dei primi tempi affermano in base a citazioni bibliche che il padre invia il Figlio che poi invia gli Apostoli  (Gv 20, 21; 17, 18). A questo schema iniziale vengono ben presto aggiunti i Vescovi. Questo è dato riscontrare sia nelle affermazioni già citate di San Clemente Romano , sia , ancor piu’, in Ireneo 8 e Tertulliano. Tertulliano si esprime addirittura cosi’: dobbiamo attenerci alle regole che la Chiesa ha ricevuto dagli Apostoli , gli Apostoli da Cristo e Cristo da Dio 9. Tutte le fonti dell’autorità della Chiesa sono fornite dagli Apostoli. Gli elenchi vescovili sono le prove per la forza legittimante della apostolicità. La redazione di questi elenchi è una tendenza del tutto consapevole a partire dal II secolo, a partire dall’attività di Egesippo che legge nella successione la garanzia della tradizione apostolica10.
Il Carattere apostolico è un criterio decisivo sia nell’insegnamento che nella prassi. Esso si collega strettamente con la successione legittima dei Vescovi; anzi. Le due realtà si presuppongono a vicenda. Il carattere apostolico si riferisce all’origine della Chiesa, all’insegnamento, all’ufficio dei Vescovi e alla fonte di questo. Gli elenchi sopra menzionati volevano essere le dimostrazioni storiche di tutto questo. È risaputo che le eresie di carattere gnostico facevano riferimento a tradizioni segrete. Il Cristianesimo , in lotta con esse, era costretto a sottolineare  la successione apostolica. L’opera intitolata Confutazione di tutte l’eresie, attribuita al Vescovo Ippolito, attivo all’inizio del III secolo, afferra la sostanza dell’essere i vescovi successori degli Apostoli nel fatto che essi partecipano (particolarmente e totalmente) alla triplice missione di Cristo. Scrive cosi’: “Noi (Vescovi) che siamo i loro successori (degli Apostoli), che partecipano la grazia del sacerdozio del magistero, noi  che siamo considerati le guardie della Chiesa” 11.
La successione sostitutiva di Cristo è un fatto dotato di forza normativa riguardante l’attività di successori degli Apostoli. Il vicario non agisce sovranamente, ma deve fare tutto secondo la volontà e l’esempio di Colui ch e sostituisce. Questo è per esempio. L’argomento di San Cipriano contro coloro che <<nel calice del Signore>> offrono solo acqua senza vino. << Dobbiamo domandare chi seguono queste persone . Se dobbiamo infatti seguire solo Cristo nel sacrificio offerto da Cristo, allora dobbiamo obbedire a fare solo quello che aveva fatto Cristo e che Lui ci aveva ordinato di fare. Dice cosi’ nel Vangelo: “se fate quel che vi comando, io non vi chiamo piu’ servi ma amici” (cfr Gv 15, 14-15). Opera sostituendo Cristo il sacerdote che imita davvero quel che aveva fatto Cristo ed egli offre un sacrificio a Dio Padre vero ed integro nella Chiesa  se lo offre come lo aveva offerto lo stesso Cristo>>12. Tutto questo vuol dire in termini piu’ ampi che la Chiesa, in quanto prosecutrice della missione di Cristo, deve attenersi strettamente alle norme e all’esempio di Ctristo. La missione, il mandato che la Chiesa dei primi tempi aveva ricevuto in maniera consapevole da Cristo e che concepiva come opera da compiere quale suo sostituto, costituisce il fattore principale dell’istituzionalizzazione. La partecipazione particolare a questa opera struttura la comunità, soprattutto a partire dal II secolo, in maniera piu` chiara e visibile. Il ruolo speciale dei successori degli apostoli, anche se non è concetto  separabile dalla missione  dell’insieme della Chiesa, è un principio in un certo senso diretto ed autonomo dell’organizzarsi originale della Chiesa e della sua realtà istituzionale.
Questo accento particolare che si trova nel materiale trasmesso dalla tradizione , concentrato sulla funzione dei successori degli Apostoli, è stato motivo per il Concilio Vaticano II, negli enunciati successivi del Magistero, nonché per le norme canoniche , per esprimersi sul mistero delle persone che avevano ottenuto il sacramento dell’Ordine e sulla qualità particolare di questo ministero in connessione con la triplice missione generale della Chiesa ,distinguendolo allo stesso tempo da essa.
Nella terminologia ecclesiale ufficiale moderna, << il ministero sacro>> (sacrum ministerium) sta a significare l’attività specifica delle persone ordinate (can.207 S1) o, con altre parole , delle persone che prestano il sacro ministero (ministri sacri). Il nuovo Codice Orientale dà anche una definizione della persone destinate al ministero sacro. Secondo questa, si tratta di <<fedeli eletti dalle autorità ecclesiali competenti e che tramite il dono dello Spirito Santo, ottenuto nel sacramento dell’Ordine, sono destinati a prestare ministero nella Chiesa , partecipando alla missione e al potere di Cristo Pastore>> (CCEO can.323, S1). Il significato del sacro ministero non si limita all’attività liturgica, ma comprende tutte le funzioni specifiche della persona che aveva ottenuto il sacramento dell’Ordine. Questo ministero, assieme al sacerdozio che esiste proprio per questo, fa parte degli elementi essenziali    (elementi costitutivi) della Chiesa, come sottolinea Papa Giovanni Paolo II nella Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis pubblicata nel 1992.

 

1 Cfr.p.es. A. Lemaire, Les ministères aux origines de l’Eglise , Paris 1971, pp.191-192
2 J Brosce, Charismen und Amter in der Urkirche, Bonn 1951, pp.144 -182
3 V Grossi-A. Di Bernardino, La Chiesa antica: ecclesiologica e istituzioni (Cultura cristiana antica), Roma 1984,122.
4 Clem. 44, 3; cfr. ibidem cap.42
5 Ign. Mg 3, 1-2; Ign Tr 3,1
6 Ign. Mg 3, 1-2; Ign Tr 3,1
7 Iren. Adv. Hear. IV, 6, 2.
8 Iren. Adv. Hear. III, 3, 3; IV, 26, 2-5.
9 Tertull .De Praescr.37, 1;cfr. 21, 4: Ed G.Rauschen, Florilegium patristicum, IV, Bonnae 1906, pp. 51-52; p.31.
10  Siamo a conoscenza degli elenchi di Vescovi Egisoppo dalla storia della Chiesa di Eusebio di Cesarea (HE IV, 22, 1) Cfr. Vanyo, Az okeresztény Egyhaz, pp.288-290. Di Berardino, in Grossi- Di Berardino, la chiesa antica, pp.124-125;J.Dubois, les listes épiscopales, témoins de l’organisation ecclesistique et de la trasmission des traditions, in Revue d’Histoire Ecclesistique de France 62 (1972),pp 9-23
11 Hipp. Elenchos (Philosophumena), praef.:Wendland (GSC 26), 3, pp.3-6. Cfr. p. Nautin, Ippolito, in Dizionario patristico II, 1795 – 1798.

12 Cypr. Ep. 63, 14, 1.4: Campos 609

Le intenzioni del Sinodo, ora che tutti i Vescovi hanno parlato, non sono ancora chiare. La parola magica, pronunciata al Sinodo, in tut­te le accezioni, è la parola “spiritualità”. Tutti hanno spezzato una lancia in favore di una maggiore spiritualità del prete, ma, a dire il vero, non si è ancora capito se si tratta di intensificare la spiritualità di prima o se, invece, si è alla ricerca di una spiritualità nuova.

E poi, quale spiritualità è quella specifica del presbitero? Qualche volta i discorsi rasentano le assolutizzazioni. Non sono pochi i Vesco­vi intervenuti con discorsi di questo tipo: la vera spiritualità del prete è quella dell’umiltà, oppure quella dell’obbedienza, della povertà, del­la verginità, della paternità, della preghiera, e via dicendo.

Ma come si fa a dire, per fare un solo esempio, che per rafforzare la spiritualità del clero bisogna che il prete diventi più umile, più obbediente, più povero! E chi tra i fedeli non deve diventare più umi­le e più povero? Chi non deve pregare di più?

Il fatto è, che i Vescovi sono impressionati da certi fenomeni, come quello delle critiche feroci e tapageuses, come ha detto un confratello del Togo, che i preti, non solo perciò in Svizzera, ma un po’ su tutta la terra, si permettono, a quanto pare di lanciare nei confronti dei loro Vescovi.

Il fatto è, che oggi, uno se si prescinde dai salotti o dalle capanne di bambù, dove può farla franca, può andare anche alla TV e dirne di tutti i colori. Se poi il Vescovo ha la brutta idea di reagire, la prossi­ma volta quello si ripresenta in TV con la faccia del martire. Ed anche se fosse vero, che cosa ha ottenuto? Non certo una fede più pura nel cuore dei fedeli, ma un millimetro di fede in meno in tutti quelli che lo hanno ascoltato, perché anche lui, probabilmente, una bella figura non l’ha proprio fatta.

Mi sembra che la strada imboccata da molti, per rinnovare la spi­ritualità del clero non sia quella buona, perché il prete non è prete solo per essere un cristiano migliore degli altri. Per tanto così, cioè per dare solo il buon esempio, basta qualsiasi fedele, con una personalità cristiana vera e propria, oppure bastano i monaci e le monache.

Il prete deve essere prima di tutto una persona, che nella sua vita realizza le ragioni per cui gli è stato affidato il ministero sacerdotale.

La sua spiritualità specifica deve trovare alimento nel fatto oggettivo del Sacramento dell’Ordine, che ha ricevuto e che lo distingue da tutti gli altri fedeli. Anche se è vero che tutti i fedeli, indistintamente, sono chiamati alla santità, ma secondo modalità ed itinerari diversi.

Non sto dicendo che il prete non debba dare il buon esempio, mancherebbe altro, ma che il buon esempio, di per sé, lo dovreb­bero dare tutti, chi più, chi meno. Chi non va in chiesa o non vuol più credere, perché il prete sbaglia, o pensa abbia sbagliato, sba­glia a sua volta. Nell’ipotesi che non sia rimasto psicologicamente un bambino, di attenuanti, un adulto, in questo caso ne ha pro­prio poche.

Certo, c’è il Santo Curato d’Ars, il cui esempio è stato sventolato più di una volta nell’aula sinodale. Era, manco a dirlo, un uomo di grande preghiera e di grande umiltà, ma è stato soprattutto un gran­de prete. Se è stato proclamato patrono di tutti i parroci, non è tanto perché pregava e digiunava e se la vedeva con il diavolo, che, per non dargli tregua, gli sfasciava il letto anche di notte, ma perché passava la sua giornata in confessionale.

E diventato Santo perché ha esercitato fino all’eroismo il suo mini­stero sacerdotale; cioè, la missione apostolica ricevuta con il Sacra­mento dell’Ordine. Se non fosse stato per questo non sarebbe diven­tato il patrono dei preti, ma di un’altra categoria di persone, suppo­niamo degli anacoreti. Il suo essere prete non era, malgrado certa agiografia, un contorno della sua persona.

Il prete non è un monaco chiamato a fare anche un po’ di ministe­ro. Il sacerdozio ministeriale, infatti, non è conferito primariamente in vista della santità personale, bensì perché uno diventi apostolo. Deve perciò perseguire e rincorrere la propria santificazione persona­le, attraverso l’esercizio del sacerdozio ministeriale.

Ciò che il prete deve salvare ad ogni costo, per diventare una per­sona capace di affrontare la grande sfida della nuova evangelizzazio­ne della società contemporanea, senza andare in crisi, è l’unità tra la sua spiritualità e la missione apostolica.

Una spiritualità fondata sull’idea di una santificazione personale soggettiva, più che sulla necessità di santificarsi attraverso l’esercizio del sacerdozio ministeriale, ingenera un dualismo pernicioso. La pre­occupazione di proteggere e salvaguardare da ogni macchia il proprio stato di vita, per quanto giusta, diventerebbe più importante dell’im­pegno missionario stesso ed ingenererebbe, inevitabilmente, inflessio­ni di natura clericale.

È nella fedeltà alla vocazione apostolica e missionaria, e non a lato di essa, con tutte le sue implicanze umane, psicologiche ed affettive, che il presbitero deve trovare gli spunti della sua interiorità religiosa ed autorealizzarsi nella fede, come uomo.

La preghiera, le pratiche di pietà, l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, sono necessari per tutti i fedeli, poiché in essi tutti devono attingere le risorse spirituali necessarie a vivere, in modo specifico, il loro stato di vita, anche quello laicale e matrimoniale. Non c’è dubbio che, con i tempi che corrono, la preghiera e tutte le altre virtù le deve intensifica­re anche il prete, se vuol essere capace di resistere come una quercia.

Prescindiamo pure dal fatto, non controverso, che il Curato d’Ars fosse un confessore così d’eccezione, da attirare attorno al suo confes­sionale tutta la Francia, ma se noi preti oggi dovessimo stare in con­fessionale tutto il giorno, staremmo freschi; non potremmo neppure più fare i Santi, per mancanza di penitenti, perfino sotto Pasqua. I fedeli, infatti, hanno ormai imparato, con la nostra evidente compli­cità, oltre a molte altre cose, anche a non più confessarsi ed a presen­tarsi alla Santa Comunione freschi come rose.

Ciò significa che oggi, se vogliamo ancora trovare penitenti attor­no al confessionale, come al tempo del Curato d’Ars, dobbiamo met­terci in una posizione dinamica di rievangelizzazione. Abbiamo rice­vuto il ministero per questo e in questo impegno dobbiamo trovare la realizzazione della nostra vita spirituale.

Prima (si tratta, evidentemente, di una priorità logica e non crono­logica) d’invitare i fedeli a confessarsi ed a ricevere gli altri Sacramen­ti, dobbiamo far riscoprire loro la fede. Renderli di nuovo consapevo­li di appartenere a Cristo ed alla Chiesa, come nei bei tempi antichi, quando i cristiani erano peccatori tanto quanto noi uomini del vente­simo secolo, ma con la differenza che sapevano ancora di esserlo.

Evangelizzando nuovamente le nostre comunità e riaccendendo il lumicino di fede ancora palpitante dentro il cuore della stragrande maggioranza della nostra popolazione, rievangelizzeremo anche la società in quanto tale, o almeno parte di essa.

L’identità specifica del prete è dentro la fedeltà a questo impegno di missione, ricevuto da Cristo attraverso la Chiesa. Un impegno, ha detto il Cardinale Daneels di Bruxelles, che esige di cambiare registro e non più indulgere alla scappatoia della predicazione omeopatica.

Non possiamo più lasciare il monopolio dell’annuncio del kerigma alla stravaganza delle sette. Il kerigma è l’annuncio, chiaro e tondo, che Cristo è l’unica salvezza dell’uomo e del mondo. Dobbiamo impa­rare di nuovo a parlare ai cristiani e ai non credenti nello stesso modo diretto di San Paolo, quando scriveva ai Corinzi. Quando, invece, ha tentato discorsi più suadenti, come ha fatto con gli Ateniesi, ha dovu­to andarsene con le pive nel sacco.

Al Sinodo, questo episodio dell’Acropoli l’ha ricordato proprio Nico­laos Foscolos, l’Arcivescovo di Atene. Ha pensato anche di far ridere tut­ti, ricordando che il Papa, la sera prima, con un mezzo sorriso sulle lab­bra, aveva affermato, in chiusura dei lavori, che il Sinodo graviter pec­cai contra linguam latinam. Ha pensato così di tenere alto il prestigio delle lingue antiche e di misurare il nostro q.i. (quoziente intellettuale) esprimendosi in greco, per almeno un minuto. Il bello fu che non tutti hanno capito se avesse parlato in greco antico o in quello moderno.

Sempre a proposito di spiritualità apostolica, il Cardinale Giaco­mo Biffi, di Bologna, ha lamentato che la cultura ecclesiastica con­temporanea è preoccupata soprattutto del come parlare, cioè del come farsi capire, affidandosi spesso in modo sconsiderato alle scien­ze psicologiche. In realtà, ha detto, ciò che più conta non è il «come», bensì il «che cosa» diciamo alla gente. Il Cardinale di Bologna, che, già quando studiava con il sottoscritto al Seminario Lombardo di Roma, era un cervellone, tanto che aveva inventato una macchina piena di lampadine per trovare i numeri primi, ha sostenuto che il problema più grave del nostro tempo è quello del non-linguaggio, cioè del nostro essere muti e reticenti su Gesù Cristo.

Il prete, in sostanza, oltre che dare ragione a se stesso, deve saper dare ragione agli altri della propria fede. Non possiamo «uccidere il desiderio religioso del popolo, anche quando ci sembra distratto», ha gridato con enfasi un giovane Vescovo ausiliare della Nigeria, dall’al­to della sua statura impressionante, di quelle che capita di vedere alla

TV durante le Olimpiadi. Noi dobbiamo credere pili che mai alla for­za ed al potere della Parola di Dio. Così come è annunciata spesso dai Movimenti, ha tenuto a precisare assieme ad altri, ma con un registro soave e cantilenato, il Vescovo giapponese Fukadori.

Il prete deve ridiventare profeta. Non perché, in un mondo di maghi e di stregoni come il nostro, debba anche lui far credere di pre­vedere il futuro, ma perché dando un giudizio chiaro e preciso, in nome di Cristo, sul bene e sul male del tempo presente, anticipa ine­vitabilmente anche l’esito di quello futuro. Questa affermazione lapi­daria, che ha scosso la sala sinodale, è stata fatta dal Cardinale Mei- sner; quello che il Capitolo della Cattedrale, puntando i piedi per resi­stere meglio, e per la gioia dei mass-media, non voleva fosse trasferi­to dal Papa, da Berlino, dove era Vescovo, a Colonia.

Il primo, fondamentale problema del Sinodo è quello di definire l’identità teologica del presbitero e perciò quella della sua spiritualità specifica, rispetto a quella di tutti gli altri fedeli. Stiamo ancora oscillan­do tra due poli: quello della pratica soggettiva dei consigli evangelici e quello della santificazione attraverso l’impegno oggettivo dell’apostola­to, iscritto nel Sacramento dell’Ordine, senza arrivare ad una sintesi.

Evidentemente, altri problemi agitano i nostri spiriti, ma di quelli vi informerò nella prossima lettera.

Ora non posso non raccontarvi che giovedì è arrivato anche Ale- xandru Todea, l’Arcivescovo metropolita greco cattolico di Fagaras ed Alba Julia. Ffa fatto una testimonianza agghiacciante sui cinquan­tanni di persecuzione della Chiesa cattolica in Romania. Nove Vesco­vi morti in prigionia, dove si sono dati da fare per formare alla fede nuovi seminaristi, insegnando loro la teologia, a memoria. I preti ed i laici martiri non si contano. Hanno realizzato la quinta nota della Chiesa, perché la Chiesa non è solo una, santa, cattolica ed apostoli­ca, ma sempre anche martire, in qualche parte della terra.

Ai primi cristiani i giudici romani domandavano di bruciare l’in­censo alla statua dell’Imperatore; ai cristiani rumeni l’unica doman­da, quella decisiva per la vita o per la morte, era: “Sei disposto ad abbandonare il Papa?”.

Trattenendo a stento il singhiozzo l’Arcivescovo ha confessato che la Madonna ha concesso la grazia del martirio solo ai migliori, lasciando indietro quelli come lui (scampato però per puro caso alla condanna a morte), poi si è alzato a salutare ed a benedirci tutti, in mezzo alla sala sinodale, alto e robusto, un po’ ricurvo: sembrava la copia del Papa. Noi l’abbiamo applaudito a lungo, ma ci siamo sen­titi un po’ più piccoli nelle nostre poltrone.

A Roma ormai tira aria di Concistoro. Nelle bische clandestine dei pettegolezzi, piazzate un po’ in tutti gli uffici dei palazzi vaticani, i brokers lo danno dieci ad uno per la porpora: è il colore del sangue, quello dei martiri e dei confessori della fede.

 

* Seconda lettera dal Sinodo dei Vescovi, Roma 15 ottobre 1990

Terza lettera, Roma 22 ottobre 1990

Quando il pulcino, dopo una lunga sfacchinata, sta per rompere il guscio, si ha sempre paura che possa ancora morire.
E stato così anche l’altra mattina, quando il Cardinale Moreira Neves, dell’Ordine dei Padri Domenicani e relatore al Sinodo, ha letto, con aria stanca, in latino, la «Relatio post disceptationem», cioè la grande sintesi dei 230 interventi fatti dai Vescovi nelle due settimane precedenti. Si era arrossato gli occhi passando la notte in bianco, davanti alla scrivania.  L’idea del «presbiterio» pareva non volesse nascere. Finalmente, dopo quasi due ore di lettura, è venuta fuori,come un pulcino bagnato, in una delle quindici domande finali, formulate dal relatore per preparare le discussioni dei tredici gruppi linguistici (circuli minores), in cui si è ripartita l’assemblea sinodale.
Che l’idea del presbiterio stenti a passare nella mente dei Padri sinodali non sorprende più di quel tanto. Nella teologia tomista, che ascende fino a San Tommaso d’Aquino (XIII secolo) e di cui i Padri Domenicani furono i grandi campioni, il presbiterio non esiste.  Questa curiosa dimenticanza ha creato un equivoco, che dura da quasi un millennio. I fedeli hanno incominciato a pensare che il presbiterio coincida con quello spazio attorno all’altare, dove una volta avevano accesso solo il clero ed i chierichetti. Le chierichette, quelle, sono un fiore della fine del XX secolo.
In realtà, il nome di questo spazio architettonico deriva dal fatto che in una diocesi, attorno al Vescovo esiste sempre anche un collegio di presbiteri, che, prima ancora che si costruissero chiese, è stato chiamato presbiterio. Ora che i preti del presbiterio non vivono più tutti assieme, come una volta, nella città episcopale, ma si sono dispersi per andare nelle singole parrocchie (lasciando nella Cattedrale, come retroguardia, un minuscolo drappello di canonici), chi desidera vedere ancora fisicamente questo corpo presbiterale dovrebbe recarsi in Cattedrale per la Liturgia Pontificale del Giovedì Santo. Lì, durante la Messa crismale, in cui vengono consacrati il crisma del Battesimo, della Cresima e delle Ordinazioni, oltre che gli oli idei catecumeni e degli infermi, si può ancora ammirare il Vescovo, con mitra e pastorale, attorniato da tutti, o quasi, i preti della diocesi: insomma, la fotografia di gruppo del presbiterio.
A dire il vero, da che tempo è tempo, sono sempre esistiti preti che si sono fatti vanto di non farsi mai vedere alla Messa crismale. Una delle tentazioni più antiche dei presbiteri, infatti, è quella di porsi in alternativa al Vescovo. Ma al presbiterio, volere o no, appartengono anche loro.
Il presbiterio è simile al collegio universale dei Vescovi. A quest’ultimo, in forza del Sacramento dell’Ordine,appartengono tutti i Vescovi cattolici, con il Papa; anche quelli afflitti dal complesso antiromano, che è pure antico quanto la Chiesa. L’unità è sempre stata difficile per tutti, non solo per i fedeli, ma anche per i Vescovi ed i preti.
Il collegio universale dei Vescovi ed il presbiterio diocesano sono entrambi un soggetto sinodale, cioè un soggetto collegiale. Ciò significa che i presbiteri di una diocesi (come i Vescovi per la Chiesa universale), oltre ad avere una responsabilità apostolica personale, portano anche una responsabilità pastorale in solidum (cioè tutti insieme) nei confronti della loro Chiesa particolare. Attraverso questa appartenenza al presbiterio, anche il ministero dei preti si apre verso una sollecitudine per tutta la Chiesa universale.
La differenza tra questi due soggetti sinodali (o collettivi) sta nel fatto che, nel collegio episcopale, tutti i membri, Papa compreso, sono Vescovi. Nel presbiterio, invece, non tutti partecipano al Sacramento dell’Ordine, allo stesso modo. I sacerdoti ricevono il Sacramento dell’Ordine in un grado inferiore. La conseguenza è che il Vescovo emerge, nei confronti dei preti, come capo del presbiterio diocesano, con una responsabilità sacramentale e pastorale personale più grande di quella che il Papa stesso ha nei confronti dei Vescovi sparsi sulla terra.
Tra il Vescovo ed i presbiteri esiste un duplice legame; sia perché il Vescovo ed i preti, attraverso il Sacramento dell’Ordine, sono direttamente partecipi dello stesso ed unico sacerdozio di Cristo; sia perché i presbiteri partecipano in forma derivata e subordinata al ministero pastorale del Vescovo stesso, unico ad avere la pienezza del Sacramento dell’Ordine.
Da questo doppio legame, sacramentale ed interiore, quello comune dei presbiteri e del Vescovo con Cristo, e quello dei presbiteri con il ministero del Vescovo, nasce e si configura quel corpo sacerdotale, o soggetto collegiale, che si chiama presbiterio.
Mi rendo perfettamente conto che non è facile capire queste cose. Qui al Sinodo fanno fatica anche i Vescovi a capire l’importanza teologica del presbiterio. Tuttavia, la difficoltà nel comprendere questo mistero sacramentale e di comunione non dispensa nessuno dal fare un piccolo sforzo.
Durante le discussioni nei circoli minori, un Cardinale (sarebbe superfluo dire che è nato a Milano), per farla breve, quando ha l’impressione di aver detto cose troppo complicate, tira sempre fuori un esempio concreto. Cerca di tradurre, dice lui, la sua teologia in “soldoni”.
Tradotto in “soldini” il presbiterio significa che, in Diocesi, il Vescovo ed i preti hanno una responsabilità comune e che perciò devono lavorare assolutamente assieme. Un Vescovo australiano, con stile da campione di “cricket” inglese, ha detto che i preti ed il Vescovo dovrebbero fare “gioco di squadra”, cioè lavorare d’amore e d’accordo. Per male che possa andarmi, avrete comunque capito che questa comunione o fraternità sacramentale, esistente tra il Vescovo ed i preti del presbiterio, non può essere paragonata all’unità di nessun corpo politico di questo mondo, monarchico o democratico che sia. È un mistero che uno capisce solo con la fede.
A questa fraternità sacramentale del presbiterio devono essere educati i seminaristi. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il Sinodo ha come obiettivo quello di ridisegnare l’itinerario educativo dei candidati al sacerdozio; non, invece, in primo luogo, quello di criticare i Vescovi ed il clero, così come siamo adesso, usciti dai seminari di una volta.
È forse per questo che qui,a Roma, tra i Vescovi, esiste una grande voglia di rinnovare i Seminari. È un fatto che, negli ultimi 25 anni, i vecchi Seminari diocesani, bisognosi comunque di riforma, per cambiare si sono volatilizzati un po’ ovunque in mille esperienze alternative: tipo piccoli gruppi autogestiti, appartamenti, “équipes” universitarie, ecc., ecc.
I frutti di queste esperienze, qualche volta avventate, dicono i più focosi, come il Cardinale Lustiger di Parigi, anche se tentate a fin di bene, sono lì da vedere. Non solo sono andate perse mille vocazioni, ma è anche successo che molti preti usciti da queste esperienze, dopo qualche anno di ministero, abbiano buttato (come si diceva una volta, ma oggi non si fa solo per dire), “la veste alle ortiche”. Come se ciò non bastasse, sono venute a mancare anche le vocazioni.
Ma qui il discorso si complica. Prima di tutto perché il ritornello della mancanza di vocazioni è vero solo per i Paesi occidentali, mentre i seminari delle Chiese extraatlantiche straripano di seminaristi. Non parliamo poi dell’Est europeo, dopo la «perestrojka». Il Vescovo di Minsk, Mons, il primo nominato dal Papa in Bielorussia dopo 50 anni, ha raccontato, per fare solo un esempio, che da lui si presentano candidati a dozzine, tutti i momenti.
Il bello è, che hanno frequentato, con apparente successo, tutte le scuole atee del regime, per cui, così ignoranti come sono in religione, non sanno quasi fare il segno della croce. Vogliono però diventare preti, perché sentono che la società ha bisogno di loro, ed ha bisogno di qualche cosa di nuovo, e sperano che la Chiesa possa aiutarli.  E inutile dire, che devono essere rieducati da cima a fondo, anche dal profilo umano, perché il marxismo (dicono i Vescovi dell’Est) ha distrutto la stessa natura umana, mettendo sul mercato, dopo l’uomo «di Neanderthal», l’uomo «sapiens» e l’uomo «faber», anche l’uomo «sovieticus ». Ma intanto sono lì e vogliono diventare preti.
Se poi guardiamo ai Paesi del Terzo Mondo, allora fa quasi invidia vedere come i Vescovi indiani ed africani siano orgogliosi dei loro Seminari e dei loro nuovi conventi.  Sembrano tutti salmisti intenti a cantare la lode del Signore per la manna piovuta dal cielo sulle dune del deserto.
Qualcuno, nel mio circolo minore, si è lasciato sfuggire, quasi per trovare una scusa (ma si è subito morso la lingua) che secondo lui le vocazioni in certi Paesi, come la Polonia, hanno carattere “culturale”. Voleva dire che nascono più da una situazione socio-culturale e politica favorevole, che da un impulso veramente religioso?
Ma allora noi, dell’Europa (per non parlare degli USA) non dovremmo forse dire, a maggior ragione, che anche la nostra scarsità endemica di vocazioni è di origine culturale?  Tutto, infatti, nel bene e nel male, è culturale: conseguenza, cioè, del modo di pensare e di vivere della gente.
Se mancano le vocazioni, ha osservato giustamente il Cardinale Danneels di Bruxelles, non è perché ai giovani di oggi manchi la generosità o non sentano più i valori ideali orizzontali, ma è perché nelle nostre parrocchie il tasso verticale della fede è troppo basso. Eppure, ha aggiunto, con una certa rassegnazione, «le mie parrocchie in Belgio sono tutte organizzate alla perfezione».
In un modo o nell’altro le vocazioni sono sempre culturali.  Il problema è, infatti, quello di sapere se in una cultura c’è ancora un po’ di quel sale e pepe che è la fede cristiana.  E non è detto, come qualcuno potrebbe disinvoltamente pensare, che le vocazioni dei Paesi occidentali siano necessariamente migliori di quelle dei Paesi dell’Est o del Terzo Mondo, per il semplice fatto che spuntano malgrado un ambiente sociale ostile.
Il discorso sulla crisi o l’abbondanza delle vocazioni è terreno minato. Bisogna procedere con grande cautela.  Ognuno deve studiare le radici culturali e religiose del proprio giardino per capire come coltivare i fiori, senza alzare troppo la testa oltre la siepe, per guardare come fanno gli altri.
Sulle vocazioni gli interventi in sala e le discussioni nei circoli sono state innumerevoli. È un discorso che ha però ammansito anche quei Vescovi che, una volta, erano i più irriducibili contro i movimenti ecclesiali.Certo, i nuovi Movimenti ecclesiali hanno provocato e qualche volta provocano ancora emicranie, ma di vocazioni al sacerdozio ed alla vita religiosa (se si tiene conto della piccola percentuale di cristiani aderenti ai Movimenti ecclesiali, rispetto a tutti gli altri fedeli sparsi nel mondo) ne hanno prodotte (si fa per dire, perché le vocazioni sono ultimamente opera dello Spirito Santo) così tante, che l’atmosfera di questo Sinodo nei confronti dei Movimenti, paragonata a quella di tre anni fa, quando il tema del Sinodo 1987 era quello dei laici e delle associazioni laicali, sembra essersi capovolta, quasi di 180 gradi.
In ogni caso nessuno, anche i più accaniti anticlericali di questa terra, deve ridere sotto i baffi. La curva delle vocazioni al sacerdozio sta riprendendo quota ovunque, anche in Europa e nei Paesi anglosassoni. Non c’è celibato che lo possa impedire. Ma sul celibato ritornerò la prossima volta.
Dai mass-media avrete sentito che in mancanza di bombe, due eminentissimi Cardinali hanno pensato bene di far scoppiare un paio di petardi. I petardi, si sa, più che danno fanno rumore.
Il fatto è, che il peso specifico dei Cardinali, sia che dicano cose giuste, sia che ne dicano di meno azzeccate, è sempre superiore a quello degli altri. Di questa legge di Newton, ossia della gravità, ne facciamo l’esperienza anche noi, Vescovi e periti, tutti i giorni nelle discussioni dei circuli minores, soprattutto in quelli dove i Cardinali abbondano, come nel gruppo linguistico italiano, che per finire, rappresenta però ben undici nazionalità.

Lettera ai membri del Presbiterio Diocesano, Giovedì Santo 1988

Carissimi con fratelli nel sacerdozio,
in questo Giovedì Santo, in cui facciamo memoria dell’istituzione del sacerdozio ministeri aIe della «nuova ed eterna alleanza», è mio vivo desiderio esprimervi una parola di sostegno e di ringraziamento. Ogni vescovo svizzero è stato invitato a fare altrettanto dai vescovi, vicari generali ed episcopali svizzeri, assieme a un gruppo di sacerdoti in rappresentanza dei diversi presbitèri diocesani, riuniti nell’aprile del 1987 a pregare e riflettere sul modo di aiutarsi ed aiutare i propri confratelli a vivere la verginità nell’ esercizio del ministero sacerdotale.
Come ben sapete, la Chiesa latina ha progressivamente abbinato il sacerdozio ministeriaIe con l’impegno di rinunciare allo stato matrimoniale e di assumere, conseguentemente, quello della castità perfetta 13.
Ciò si è tradotto nella prassi di scegliere, tra i candidati al sacerdozio, solo quelli disposti ad abbracciare liberamente la verginità «per il regno di Dio».14 In questa chiamata oggettiva del Vescovo si è configurato e precisato concretamente, anche per tutti noi, il desiderio personale di accedere al ministero sacerdotale.
Tanto la disciplina ecclesiale di legare il ministero sacerdotale alla scelta del celibato, quanto la vocazione personale alla verginità nell’esercizio di tale ministero, sono oggi travagliate da una crisi diffusa. Le ragioni sono molteplici ed è perciò opportuno analizzare brevemente quelle d’ordine dottrinale e quelle d’ordine esistenziale.

I – Le ragioni dottrinali dell’abbinamento del sacerdozio alla verginità

1) Il significato teologico della tradizione ecclesiale latina

I motivi che hanno indotto la Chiesa latina a fare questo abbinamento tra sacerdozio e verginità e ad imporlo, dal secolo XII in poi, come imprescindibile nei confronti di tutti i candidati al sacerdozio ministeriale, furono di natura e di valore diversi. 15 Non v’è dubbio tuttavia che, anche se in modo non sempre lineare, su tutte le motivazioni storiche, sociologiche, ascetiche e pratiche, è prevalsa la convinzione dell’esistenza di un rapporto di reciprocità profonda tra il sacerdozio ministeriale e lo stato della verginità, comunemente definito «celibato», anche se non senza qualche rischio riduttivo.
Il fatto che non tutte le grandi tradizioni ecclesiali, in Oriente come in Occidente, siano arrivate in merito alla stessa conclusione e alla stessa disciplina non deve sorprendere.  Anche su molte altre questioni dottrinali, presupposti culturali diversi hanno favorito il formarsi di tradizioni teologiche differenti. All’interno di queste ultime, sia a proposito del sacerdozio del clero diocesano, sia a proposito del matrimonio, si sono sviluppate sensibilità teologiche ed ascetiche diversamente accentuate, che hanno in seguito determinato in concreto l’esperienza cristiana dei rispettivi fedeli, chierici e laici.
Per noi cattolici latini, il binomio sacerdozio-verginità rappresenta uno di quei settori della conoscenza del mistero cristiano in cui è avvenuto un approfondimento specifico della fede. In quanto conoscenza rimane perciò irreversibile.  In effetti, anche guardando alla nostra vita sacerdotale, nella misura in cui la nostra scelta è stata libera, ci accorgiamo come la verginità sia stata, ed è, un dono di Dio, al quale non potremmo più rinunciare senza mettere profondamente in discussione il nostro destino personale;16 destino dal quale ci siamo lasciati determinare e al quale vorremmo poter sempre essere in grado di corrispondere in modo responsabile.
È a partire da questa riflessione sulla modalità concreta secondo cui ha avuto origine la nostra vocazione personale al sacerdozio ministeriale, che dobbiamo contare per superare e vincere, con l’aiuto della Grazia, le difficoltà di ordine dottrinale e pratico con le quali siamo costantemente confrontati.
Tra le più importanti difficoltà, la prima è di natura teorica. Deriva dal fatto che l’accettazione coerente della reciprocità inerente al sacerdozio ministeriale e alla verginità, affermata progressivamente dalla Chiesa latina, senza essere riuscita fino ad oggi a giustificarne in modo teologico compiuto la necessarietà intrinseca ed assoluta, implica la disponibilità di far credito alla intuizione di natura carismatica del Magistero. Ciò è tanto più difficile in quanto sembra sminuire in qualche modo il valore, ecclesiale della tradizione orientale, ortodossa e cattolica.
E tuttavia un fatto che su questo problema specifico, come su molti altri, diversamente recepiti e approfonditi nelle due Tradizioni, è avvenuta in Occidente una evoluzione, sfociata in una comprensione dottrinale sempre più organica, come dimostrano i più recenti e sempre più frequenti documenti del magistero papale 17. L’universalità implicita di questa dottrina cattolica è già stata ampiamente documentata dal fatto che, in Oriente come in Occidente, è riconosciuta la imprescindibilità della verginità nel ministero episcopale, che, secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II, è l’espressione più totale del sacerdozio stesso 18.
Inoltre, non va dimenticato come non siano poche le verità teologiche, come per esempio i dogmi mariani, la cui formulazione dottrinale è avvenuta, sia a partire dall’affermazione della loro convenienza intrinseca all’interno del Nexus mysteriorum, sia a partire dal fatto che la devozione e il sensus fidei dei fedeli hanno anticipato la loro evoluzione dottrinale definitiva.

2) La verginità di Cristo: fondamento della verginità del presbitero

Se il secolo XVIII ha assistito al tentativo massiccio dell’illuminismo di smantellare il celibato dei preti, tradottosi in una produzione di almeno 1000 pubblicazioni pro e contro, non deve sorprenderci il fatto che anche oggi la questione della soppressione del carattere obbligatorio del celibato venga di nuovo apertamente discussa.
I motivi possono essere in parte diversi da quelli emersi nel secolo dei lumi, perché ricavati da un’esigenza non solo naturalistica, ma anche pastorale e perciò, presumibilmente, di origine ecclesiologica. Tuttavia, è innegabile che anche oggi assistiamo ad una flessione nell’opinione pubblica ecclesiale, in cui si è insinuata la mentalità pragmatistica contemporanea. Essa tende a ridurre il sacerdozio ministeriale a semplice funzione.  Questa mentalità, purtroppo sempre più diffusa anche nei nostri ambienti, dimentica che il sacerdozio ministeriale si costituisce prima di tutto come configurazione ontologica, e non solo etica, del soggetto alla persona di Cristo. Questa configurazione a Cristo è essenzialmente diversa da quella conferita dal sacerdozio comune 19. Infatti, il presbitero partecipa al mistero della persona di Cristo non solo come tutti i fedeli laici, attraverso il sacerdozio comune conferito dal battesimo, ma anche attraverso Il sacramento dell’ordine .L’ordine sacro, a sua volta, conferisce una nuova configurazione a Cristo che per sua natura postula una adeguazione strutturale ed esistenziale sempre più profondatra la persona del sacerdote e la persona stessa di Cristo.  Se la partecipazione ontologica del presbitero al mistero della persona di Cristo è totale dal profilo sacramentale, ne deriva che anche la sua testimonianza, non solo soggettiva, ma anche oggettiva, dipendente cioè dal ministero ecclesiale ricevuto e legata al suo statuto strutturale di vita, dovrebbe essere totale.
La verginità di Cristo tocca l’essere stesso della Sua persona. Egli è una cosa sola col Padre e con lo Spirito.  La Sua esistenza umana è tutta informata da questa verità ontologica, anche nei suoi aspetti morali; da essa emerge con particolare evidenza la logica della «kénosi», che trova nel «non possesso», o donazione totale e verginale della propria vita, la sua massima espressione. La verginità di Cristo consiste perciò sostanzialmente nella Sua donazione totale e diretta al Padre, senza alcuna mediazione creata. Come tale dovrebbe riflettersi anche nella verginità del sacerdozio ministeriale.
Il significato ecclesiologico di questa verità cristologica risulta più chiaro nel paragone con quello del sacramento del Matrimonio.

3) La specificità ecclesiologica dei sacramenti dell’ ordine e del matrimonio

La comprensione teologica del sacramento del matrimonio ha assunto in questo ultimo secolo un approfondimento tale, da parte della teologia latina, che supera di gran lunga lo sviluppo avvenuto nei quasi due millenni precedenti. Ha infatti messo in evidenza con determinazione sempre più penetrante, non solo il fatto che il sacramento del matrimonio consiste in una partecipazione ontologica al mistero dell’amore di Cristo per l’umanità, ma anche che esso possiede un suo significato ecclesiologico specifico.20 Grazie alla assunzione del matrimonio naturale nell’ambito sacramentale, specifico della Chiesa in quanto tale, il matrimonio rappresenta il punto in cui avviene il nesso più penetrante tra la Chiesa e la storia, la cui sopravvivenza e la cui evoluzione sono legate al rapporto tra l’uomo e la donna nel matrimonio.21 Se il sacramento del matrimonio rappresenta l’espressione più compiuta della secolarità del cristiano, conferitagli già con il sacramento del battesimo, ci si deve domandare in che misura il significato e !’impegno del fedele laico sposato possa essere compatibile con il significato e l’impegno inerente alla ministerialità sacerdotale, tutta tesa a garantire l’unità sacramentale della comunità cristiana. Di conseguenza una domanda si impone immediatamente: è possibile che nella stessa persona si realizzino entrambe le vocazioni ecclesiologiche e a pari titolo di impegno prioritario? Da una parte, il significato ecclesiologico totale del sacramento del matrimonio che – proprio perché in esso l’economia della grazia si manifesta come indissolubilmente vincolata a quella della natura – è totalmente orientato verso la realizzazione della presenza missionaria della Chiesa nel mondo, dall’altra, la ministerialità propria del sacerdozio, la cui specificità ecclesiologica è invece quella di predicare la Parola e celebrare l’Eucaristia, affinché i fedeli laici possano costituirsi come presenza di Chiesa nel mondo.
Dal profilo esistenziale, tuttavia, decisiva non è l’assoluta stringenza delle argomentazioni teoriche, cui ricorrere per giustificare l’abbinamento tra sacerdozio e verginità, bensì il dato di fatto che all’inizio della nostra vocazione abbiamo assunto liberamente nella nostra persona questo stato di vita cristiana. Con questa scelta libera è coincisa, storicamente e concretamente, la nostra vocazione ecclesiale al sacerdozio ministeriale.

II – Le ragioni della fedeltà alla nostra vocazione personale

1) La memoria della vocazione personale originaria

Il problema ultimo è e rimarrà sempre quello della nostra fedeltà alla vocazione, originaria e personale, rivoltaci da Cristo attraverso la chiamata oggettiva della Chiesa.  E di fronte a questa esigenza di fedeltà concreta alla nostra vocazione, più che sul piano della giustificazione teorica, che spesso emergono le nostre vere difficoltà di fronte allo statuto di verginità assunto con il sacerdozio ministeriale.
La società moderna, con la sua diffusa permissività, non ci viene certo in aiuto nell’affrontare le difficoltà intrinseche al nostro stato di vita. Tutti sappiamo quanto sia difficile vivere senza scompensi una vocazione come la nostra, in un ambiente culturale e sociale dove essa è tanto meno capita, quanto meno è valorizzato, dal profilo teorico e pratico, lo statuto stesso del matrimonio.
Il supporto culturale è evidentemente diventato minimo, in un ambiente socio-culturale in cui, malgrado la forte e quasi esasperata personalizzazione del matrimonio, la tendenza inequivocabile è quella di scindere l’esercizio della sessualità dal rapporto determinato da un amore totalmente vincolante. Un amore, la cui nozione dovrebbe, per definizione stessa, essere molto più forte e totalizzante, anche dal profilo affettivo, di quello superficialmente propinato dalla pubblicità e dalla prassi, di cui anche noi, sebbene critici, siamo diventati in qualche modo, come tutti gli altri, consumatori forzati.
L’effetto disgregatore, nel profondo della nostra persona, di questa immagine di sessualità umana, giustapposta o scissa dall’amore, è inevitabile. Ciò rende più difficile capire come anche la personale fedeltà alla nostra vocazione originaria non può essere realizzata prescindendo da un’adesione e da un amore personale per Cristo, che riassuma in sé stesso anche le energie immanenti alla nostra sessualità.
Anche in noi, infatti, potrebbe avvenire una giustapposizione tra la sessualità e l’amore. Quando l’amore per Cristo e per la Chiesa non è totalmente vincolante, non riesce a garantire l’unità in noi stessi. Saremmo divisi nel-la nostra persona, perché nella sessualità e nell’affettività troveremmo l’impedimento ad una donazione totale di noi stessi, attraverso l’esercizio del nostro ministero, alla persona di Cristo e alla comunità dei fedeli.

2) L ‘irrevocabilità del nostro «sì» a Cristo

L’aiuto più grande per non cedere alla tentazione del compromesso e della divisione, o a quella di vincolare la nostra sessualità ad un amore umano affettivamente totalizzante, o con una riduzione equivoca del medesimo, al punto da farci rinunciare alla stessa vocazione sacerdotale, lo possiamo, e lo dobbiamo trovare, ritornando costantemente all’origine di noi stessi e della nostra identità personale, segnata irreversibilmente dal sacerdozio che abbiamo ricevuto. Quanto più riusciamo a ritornare alla profondità di noi stessi per riscoprire con la chiarezza originale il significato della nostra vocazione, tanto più sapremo riudire in noi quel «tu» che Cristo ha pronunciato rivolgendosi alla nostra persona. Scopriremo così sempre di nuovo che il «sì» pronunciato il giorno dell’ ordinazione sacerdotale, in cui !’intuizione e la certezza di essere chiamati al sacerdozio era grande, era un «sì» che comprendeva come contenuto essenziale anche l’assunzione della verginità. Infatti, quanto più riaccade in noi l’inizio, tanto più è vicino il compimento.
Questo «sì» vissuto responsabilmente nell’esercizio quotidiano del ministero pastorale, anche se non senza fatica, ma con una consapevolezza sempre più grande, è stato, ed è, un dono elargitoci dallo Spirito Santo. Un «sì» che la nostra persona ha pronunciato e può ripetere solo perché mossa dallo Spirito Santo. E un dono dello Spirito Santo, di cui, nella nostra esistenza quotidiana, abbiamo spesso potuto sperimentare tutta la grandezza e la magnificenza.
E alla verità profonda di questa nostra esperienza personale, emersa in noi tante volte con tutta la sua forza e la sua sensazione liberante, che dobbiamo ricorre re ogni qualvolta non riusciamo più a cogliere e valutare lucidamente, non tanto le giustificazioni teoriche dell’abbinamento sacerdozio-verginità, quanto piuttosto le motivazioni concrete e personali per non cedere di fronte alla tentazione di re n d ere reversibile il «sì» che abbiamo detto a Cristo. Un « sì » pronunciato nello Spirito Santo e deposto, assieme a Maria di Nazareth,22 nelle mani della Chiesa, in cui era immanente tutta quella comunità di fedeli che ci sarebbe stata affidata più tardi, nel corso del nostro ministero.
Di fronte a questa comunità di fedeli e alle loro aspettative – che solo in superficie si atteggiano secondo una noncurante tolleranza di fronte al prete che lascia il proprio ministero, oppure che è diviso e in difficoltà a vivere la propria vocazione – dobbiamo saper sviluppare una affettività umana carica di responsabilità, a partire dalla nostra adesione personale a Cristo e dal nostro amore indiviso per Lui.
Questo affetto vissuto nella fede, ricco di vibrazioni umane e di senso di responsabilità nei confronti di tutte le persone che il Signore ci ha affidato nel ministero, come membra vive del nostro corpo, è in grado di sostenerci nella lotta quotidiana per mantenere e sviluppare la nostra identità sacerdotale originaria.

3) L’irreversibilità del nostro «sì» al presbiterio diocesano

Esiste, tuttavia, un secondo ambito di persone, che nella misura in cui diventano veramente punto di riferimento reale della nostra esistenza, possono rivelarsi di aiuto incalcolabile per conservare in noi intatta la verità della nostra vocazione sacerdotale, che implica un’esperienza affettiva, in nome del Signore, capace di trascendere ogni limitatezza insita in ogni «tu» particolare, rivolto ad una sola persona. Mi riferisco all’ambito del presbiterio diocesano, costituito da tutti quei sacerdoti che, insieme al Vescovo, sono chiamati ad assumere in comune la responsabilità pastorale di una Chiesa particolare. Il presbiterio diocesano è quella realtà sacramentale ed ecclesiale che definisce la natura della nostra vocazione sacerdotale stessa. Non siamo stati, infatti, chiamati al ministero per un destino solo individuale, ma per essere inseriti in una comunione, costituita da tutti gli altri confratelli nel sacerdozio, partecipi allo stesso modo della pienezza del ministero del Vescovo.23
Il presbiterio è il primo ambito destinato per sua natura a garantire al singolo sacerdote quella compagnia umana e quella solidarietà ministeriale, necessarie per superare l’esperienza della solitudine nell’esercizio del ministero.
Il fatto che la coscienza della nostra appartenenza al presbiterio, per mancata o non adeguata educazione, non incida realmente sulla nostra identità sacerdotale, è la ragione ultima della nostra incapacità di sentirei responsabili «in solidum», non solo nella pastorale diocesana o regionale, ma anche, e soprattutto, del destino personale di ogni singolo nostro fratello del sacerdozio.
Il problema, evidentemente, non è prima di tutto quello di creare strutture di vita comunitaria, il più delle volte poco realistiche nella organizzazione attuale di una diocesi, incorrendo facilmente nel rischio di illuderei di poter scaricare sulla loro mancanza la responsabilità della nostra incapacità interiore a vivere la comunione; il primo reale problema è quello di recuperare alla radice la vera identità della nostra vocazione sacerdotale, la quale, per sua natura, implica un coinvolgimento globale della nostra persona con tutti gli altri membri del presbiterio.
L’esatta coscienza della nostra comune appartenenza a questa realtà sacramentale ed ecclesiologica, in cui emerge a livello della Chiesa particolare la struttura sinodale della Chiesa universale, oltre ad infondere un respiro ecclesiale più vasto e meno individualistico alla nostra persona, ci assicura una compagnia e un’amicizia umana generata dalla comunione vicendevole con Cristo.
La chiara consapevolezza psicologica di appartenere irreversibilmente a un presbiterio ci aiuta oltretutto a capire, più in profondità, le ragioni teologiche ultime della nostra vocazione ad una esistenza vissuta nella verginità radicale. Lo aveva perfettamente intuito S. Agostino quando ha raggruppato attorno a sé in vita comunitaria i presbiteri della sua Chiesa particolare.
Il matrimonio e la famiglia del sacerdote costituirebbero un impedimento strutturale alla realizzazione di un presbiterio, non concepito in chiave puramente funzionale, ma secondo tutta la sua potenzialità ecclesiologica. Anco-ra una volta si verifica il fatto, già precedentemente sottolineato, che non è possibile ad una stessa persona realizzare un’appartenenza totale, e a pari titolo, a due ambiti sacramentali e a due vocazioni ecclesiali diverse.

III La preghiera: risorsa fondamentale della vocazione e della comunione

Cari confratelli nel sacerdozio:
sia il senso di responsabilità nella comunione nei confronti dei fedeli assegnatici di volta in volta dal Signore attraverso la Chiesa – fedeli che dobbiamo saper amare profondamente con tutto l’accento della nostra affezione umana -, sia la consapevolezza dottrinale e psicologica della nostra appartenenza sacramentale a tutti i confratelli del presbiterio diocesano, sono il presupposto naturale per vivere il nostro sacerdozio secondo la sua duplice dimensione: quella ministeriale e quella profetica, costituita dalla verginità in quanto criterio fondamentale del nostro rapportarci con le persone.
Tuttavia non sarà possibile superare la solitudine ultima, insita nella nostra anima, come nel cuore di qualsiasi persona, se non cercassimo la nostra compagnia e il nostro abbandono nel seno stesso di Dio. È ancora S.  Agostino a ricordarci che il nostro cuore è inquieto fino a quando non trova in Dio il suo riposo.24
Posso esortarvi, in questo contesto, a riscoprire la preghiera quale dimensione essenziale dell’esistenza? Una preghiera, tanto più vera quanto più nasce da un bisogno profondo di rapporto con il mistero della Trinità e quanto più è libera dall’assillo di adempiere formalmente un dovere di stato, impostoci dalla disciplina ecclesiale.  La preghiera è il respiro più liberante della nostra persona e la modalità più profonda per entrare in contatto con tutti i membri del Corpo Mistico di Cristo, di cui il presbiterio diocesano rappresenta una emergenza particolare e per molti aspetti prioritaria della nostra esistenza sacerdotale.

IV – Carattere escatologico della verginità

Prima di terminare questa mia esortazione, fatta nel desiderio di parlarvi da fratello a fratello, consapevole del bisogno presente in tutti voi, perché vive in se stesso tutte le precari età dell’esperienza cristiana e sacerdotale, permettetemi un’ultima osservazione sulla verginità.
Ho intenzionalmente privilegiato questo termine rispetto a quello di celibato, connotato da una valenza primariamente negativa. Non mi sembrerebbe giusto non riproporvi il valore della verginità, in quanto tale, in questo Anno Mariano, in cui Maria di Nazareth, nella sua perfetta verginità, è posta dal Papa come modello di ogni credente.25
quanto consiglio evangelico, la verginità è vivibile da tutti i fedeli, anche nel matrimonio, perché si definisce come distacco e come non possessività nei confronti quelle cose e delle persone con le quali entriamo in rapporto.
E un ‘possesso in Cristo che implica il distacco secondo la «forma» della Croce. Diventa stato, o struttura, di vita cristiana quando assume la forma radicale della rinuncia al matrimonio, per il regno di Dio. Ciò avviene nella vita religiosa e nel ministero sacerdotale; stati di vita che nella Chiesa esplicano una funzione profetica nei confronti di tutti i fedeli.
Proprio perché, in modo diverso da Maria, Vergine e Madre di Dio, la verginità, come consiglio evangelico, non è imprescindibilmente legata ad un fatto fisiologico, essa può essere continuamente rivissuta e riconquistata. Nessuno deve sentirsi preclusa questa possibilità, perché Cristo, che ci ha chiamati agli albori della nostra storia personale, ci richiama ogni giorno, offrendo a tutti la Grazia di rispondergli secondo ritmi e tempi personali, da Lui solo accolti e giudicati nella Sua infinita misericordia verso di noi. Noi presbiteri siamo chiamati a vivere in modo eminente, vale a dire, secondo lo statuto della rinuncia al matrimonio, ciò che l’Apostolo Paolo raccomandava a tutti i cristiani in quel testo, così vibrante di prospettiva escatologica, che noi tutti rileggiamo sempre tanto volentieri: «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo…questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni».
Come S. Paolo, desidero solo che «viviate in modo conveniente », perché la vostra gioia nell’esercizio del ministero sacerdotale sia grande.27
E quanto ci augura, del resto, Papa Giovanni Paolo II nella sua Lettera a tutti i sacerdoti in questo Giovedì Santo.  Mi auguro possiate trovare il tempo di leggerla, malgrado tutti gli impegni di questa Settimana Santa.
I Vescovi svizzeri indirizzeranno oggi una lettera a tutti i loro presbiteri per ringraziarli di essere rimasti e di rimanere fedeli alla loro vocazione: quella di vivere nella verginità, dello spirito e nel corpo, il loro ministero. Anch’io vi ringrazio, a nome di tutta la Chiesa, ben sapendo quanta forza d’animo è a tutti richiesta.

13 Cfr. Optamam totius, 10 e Presbyterorum Ordinis, 16
14 Cfr. Mt 19, 12
15 Presbyterorum Ordinis, pp. 16, 1-2
16 Ordinamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale, 1974, n.16
17 Cfr. Paolo VI, enciclica Sacerdotalis Coelibatus; il documento Sinodo dei vescovi del 1971 de Sacerdotio ministerialis; le lettere ai Sacerdoti, del Giovedì Santo, di Giovanni Paolo II.
18 Lumen gentium 21-22.
19 Lumen gentium 10, 2
20 Gaudium et spes, 47-52
21Cfr. Gen.1,28
22 Cfr. Lc. 1,26-38
23 Lumen gentium, 28
24 Cfr. Confessioni I,1
25 Giovanni Paolo II, enciclica Redemptoris Mater, n. 42 e 44
26 Cfr. 1 Cor. 7,29-31.35
27 Cfr. Gv 15, 11

Omelia nella Mess a crismale 1987

Permettetemi, cari fratelli, di esporvi qualche considerazione sul sacerdozio in questo Giovedì Santo, che per la prima volta celebriamo assieme “il Giovedì Santo”, scrive il Papa nella sua lettera ai sacerdoti, pubblicata ieri, «è il giorno natale del nostro sacerdozio ed è, perciò, anche la nostra festa annuale».
Il nostro sacerdozio consiste in una partecipazione particolare al sacerdozio di Cristo. Non si tratta di una partecipazione estrinseca, puramente funzionale, in ordine all’assunzione di un ruolo, bensì di una partecipazione di natura ontologica.
Quando San Paolo faceva la constatazione che «non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal. 2, 20) non intendeva dire solo che si sentiva di vivere totalmente determinato a livello psicologico dal suo incontro con Cristo, ma che aveva la consapevolezza, in quanto era investito del ministero apostolico, di possedere nella sua natura umana un’aderenza ontologica alla persona di Cristo.  L’espressione più esauriente di questa aderenza, che si declina anche come partecipazione all’ufficio magisteri aie e profetico di Cristo, è, secondo la Lettera agli Ebrei, l’ufficio sacerdotale. Possediamo una dipendenza di natura ontologica e una partecipazione nel nostro essere all’essere di Cristo, sommo ed eterno sacerdote. È Cristo che vive in noi attraverso il sacramento dell’ordine.
Per riuscire a capire in cosa consiste il nostro sacerdozio, rispetto a quello che abbiamo in comune con tutti gli altri fedeli, dobbiamo risalire al sacerdozio di Cristo. Non possiamo rimanere alla superficie del problema, limitandoci alle affermazioni teologiche più correnti, perché ci fermeremmo a metà della comprensione.
L’affermazione secondo cui il nostro sacerdozio ministeriale si traduce nella funzione specifica di rappresentare Cristo in quanto Capo del Corpo Mistico, è vera, ma, poiché è difficile precisare in che modo i laici rappresentano Cristo, pur ‘non rappresentandolo come Capo del Corpo Mistico, non permette in se stessa di andare a fondo della comprensione di quello che siamo noi in quanto presbiteri.
Anche la constatazione che il sacerdozio ministeriale è conferito dall’ordine sacro, mentre quello comune dal semplice battesimo, non è sufficiente per chiarire la differenza; rimane infatti da spiegare la ragione in forza della quale l’ordine e il battesimo sono due sacramenti diversi.
Infatti, né l’ordinazione sacerdotale è uno sviluppo del battesimo, né il battesimo è una derivazione dell’ordine sacro. Sono due fonti autonome e dirette di partecipazione al sacerdozio di Cristo, anche se l’ordine presuppone il battesimo.
Dobbiamo perciò risalire alla causa ultima, alla natura stessa dell’unico sacerdozio di Cristo, per capire dove sta la di fferenza tra il sacerdozio comune e quello ministeriale.
In effetti, nel sacerdozio di Cristo possono essere distinti due aspetti (formali) diversi, che dalla teologia sono stati convenzionalmente definiti come aspetti soggettivo e oggettivo.
“Nell’essenza della sua struttura personale Cristo è colui che si dona nell’amore. e offre se stesso, totalmente e fin dall’eternità, al Padre, che lo genera. Accanto a questo aspetto soggettivo, originario e primario, di autodonazione spontanea del Verbo al Padre nell’amore, o di offerta spontanea di se stesso in sacrificio di amore al Padre che lo genera, esiste un secondo aspetto, che ha una connotazione più oggettiva.
Cristo è colui che dà tutto se stesso, in obbedienza al P a d re, senza tener nulla per sé, come ci rivela il Nuovo Testamento nel suo linguaggio analogico. Può rinunciare, infatti, come dice la Lettera ai Filippesi (2, 6-11), al privilegio della divinità perché può depositarla presso il Padre al momento di diventare uomo; può rinunciare alla sua natura umana, perché può perderla con la morte sulla croce.
Per amore del Padre, Cristo può rinunciare perfino, come sulla croce, alla certezza di essere da Lui assistito nel momento della morte: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?  » (Mt 27, 46).
Questa rinuncia, o perdita totale, si realizza anche, nella misteriosa discesa negli inferi. In essa Cristo tocca, infatti, l’abisso dell’abbandono assoluto, pur di testimoniare tutto il suo amore per il Padre.
Questo aspetto oggettivo di obbedienza non è additivo.  Non è aggiunto in Cristo dall’esterno e in modo acciden-tale ma, assieme al primo aspetto (quello dell’auto-donazione di se stesso), costituisce l’essenza stessa dell’unità della persona di Cristo. Questa obbedienza del Figlio sulla croce all’autorità del Padre è stata peraltro prefigurata dall’autorità sacrificale di Abramo su Isacco. Compiendo il gesto estremo della morte sulla croce per obbedire al Padre, Cristo ha voluto inequivocabilmente affermare davanti al mondo intero l’autorità suprema e assoluta del Padre.
In questi aspetti (formali) diversi del sacerdozio di Cristo, coesistenti nell’unità perfetta della Sua persona, hanno origine i due sacerdozi diversi e complementari del Nuovo Testamento: quello comune di tutti i fedeli e quello ministeriale dei presbiteri.
Al momento del passaggio dal sacerdozio di Cristo a quello della Chiesa, questi due elementi, pur rimanendo strettamente complementari e non estrinseci, si separano.
Nel sacerdozio comune conferito con il battesimo, il cristiano partecipa alla prima forma del sacerdozio di Cristo: quello soggettivo della donazione di se stesso nell’amore.  In effetti il sacerdozio comune dei fedeli, secondo i capitoli 34-36 della Lumen gentium (LG) (dove si parla della partecipazione dei laici ai tre uffici di Cristo), si esprime, non nel predicare con autorità la Parola, bensì nel dare testimonianza al mondo con la fede (n.35); nel partecipare (senza presiedere) al sacrificio spirituale di Cristo con la preghiera, le opere, le iniziative missionarie, la vita coniugale e il lavoro giornaliero (34); da ultimo, nel partecipare alla vita della Chiesa, non attraverso il potere sacro, ma compiendo in santità le loro opere ecclesiali e secolari (36).
II sacerdozio ministeriale per contro, sempre secondo il Vaticano II (LG 25-27) consiste nel predicare con autorità la Parola (25); nel presiedere l’eucaristia (26); nel governare la Chiesa con la sacra potestas (27). In esso si realizza la seconda forma del sacerdozio di Cristo, quella oggettiva.
Conferendo la propria autorità alla Chiesa, Cristo dà la possibilità ai fedeli di vivere compiutamente la dimensione (formale) soggettiva del loro amore al Padre, nell’obbedienza oggettiva al sacerdozio ministeriale, di cui la pienezza si realizza nei Vescovi con il Papa. Nel sacramento dell’ordine Cristo conferisce al ministro l’autorità che il Padre ha su di lui.
Affinché il cristiano, che nel battesimo partecipa ontologicamente all’amore stesso di Cristo per il Padre, possa realizzare questa sua obbedienza sacerdotale secondo tutta la radicalità postulata dall’amore, ha bisogno, all’occasione, di un’autorità oggettiva e legittimata a provocarlo in modo imprescindibile. Così, come il Padre ha provocato il Figlio all’obbedienza, fino alla morte della croce.
La totalità della donazione soggettiva del cristiano al Padre nell’amore, per essere garantita nella sua autenticità, ha bisogno dell’autorità oggettiva che lo può richiamare all’obbedienza: obbedienza alla Parola predicata con autorità; obbedienza alla presidenza della celebrazione dell’eucaristia; obbedienza al potere pastorale che si esprime nella sacra potestas.
Questa autorità ha una funzione non di dominio, ma di servizio: quello, appunto, di rappresentare Cristo come Capo, in funzione dell’unità della Chiesa.
L’unità in Cristo dei due elementi del suo sacerdozio, quello soggettivo e quello oggettivo, trova un riscontro analogico nel fatto che il sacerdozio comune dei fedeli continua a sussistere nel ministro ordinato. Il battesimo infatti non è eliminato dall’ordine e sussiste nel ministero ordinato.
Questa continuazione del sacerdozio comune anche nel sacerdozio ministeriale ha come scopo di impedire che il ministro ordinato possa credersi dispensato dal realizzare nella sua persona l’esigenza della donazione di se stesso nell’amore al Padre, sull’esempio di Cristo, che la realizza fin dall’eternità.
Anche noi presbiteri, come tutti i fedeli, dobbiamo realizzare in noi stessi l’aspetto del sacerdozio comune, che nella sua sostanza consiste nell’oblazione e nel dono della nostra persona a Cristo.
Se dovessimo rinunciare a questa ascesi personale, di donazione a Cristo, creeremmo in noi una profonda spaccatura.  La nostra persona sarebbe divisa in se stessa e il nostro sacerdozio ministeriale si trasformerebbe in dominio sugli altri.
Dell’ascesi, in quanto espressione della nostra donazione a Dio nell’amore; cioè del sacerdozio comune immanente al nostro sacerdozio ministeriale, la preghiera è l’espressione più totale e totalizzante. Infatti, la preghiera è la dimensione di fondo della nostra vita ed è nella preghiera che tutti i fattori della nostra vita vengono a galla e si decidono.
È per quello, cari Confratelli, che voglio ritornare alla lettera inviata dal Santo Padre a tutti noi preti in questo Giovedì Santo. È una lettera sulla preghiera del sacerdote, che, mi auguro, sapremo tutti leggere e fare oggetto di riflessione.
Non dobbiamo considerare la nostra preghiera semplicemente come una semplice pratica di pietà e, tanto meno, come un dovere da compiere. E in ultima analisi una necessità strutturale. Se non la praticassimo, la nostra partecipazione totale al sacerdozio di Cristo, attraverso il sacerdozio comune e quello ministeriale, cesserebbe di essere vera. Vivremmo il sacerdozio ministeriale avulso da quello comune, creando una grave spaccatura nel nostro essere e nella nostra identità di preti.
La preghiera del Getzemani, quella che si inserisce tra l’ultima cena e la morte in croce, scrive il Papa nella sua lettera di ieri, rappresenta il momento più decisivo della vita di Gesù. I Vangeli ricordano più volte che Gesù ‘pregava, che, anzi, «passava le notti in orazione» (Lc 6, 12), ma nessuna di queste orazioni è stata presentata nei Vangeli in modo così profondo e penetrante come quella del Getzemani. Nessun’altra preghiera rientrava così appieno in quella che doveva essere la «sua ora», cioè il suo destino sacerdotale o vocazione di obbedienza al Padre.
Questa preghiera così intensa e drammatica, in cui Cristo trasuda sangue, segna il passaggio dall’istituzione dell’Eucaristia alla Croce, che è l’atto di obbedienza radicale di Cristo al Padre. Atto che realizza il suo sacerdozio oggettivo, quello cui partecipiamo con il nostro sacerdozio ministeriale.
Difatti, se il Figlio era sacerdote fin dall’inizio della sua esistenza, cioè fin dall’eternità, divenne tuttavia – come scrive il Papa – in modo pieno, l’unico sacerdote della nuova Alleanza, mediante il sacrificio redentivo, che ebbe inizio nel Getzemani e si consumò sulla Croce. Questo inizio è segnato dalla grande preghiera nel giardino degli ulivi.
In Cristo, il compimento del passaggio dal sacerdozio soggettivo al quale tutti i fedeli indistintamente partecipano ontologicamente in forza del sacerdozio comune conferito loro dal battesimo – al sacerdozio oggettivo, avviene con l’interposizione della preghiera del Getzemani.
Questa preghiera «è come una pietra angolare posta da Cristo alla base del servizio alla causa affidatagli dal Padre»; è alla base della redenzione del mondo attraverso la Croce.
«Partecipi del sacerdozio (oggettivo) di Cristo, che è imprescindibilmente connesso con il suo sacrificio, anche noi sacerdoti e presbiteri dobbiamo porre alla base della nostra esistenza sacerdotale la pietra angolare della preghiera ». «Essa» – continua la lettera del Papa – «ci permette di sintonizzare la nostra esistenza»: quella di uomini battezzati, chiamati ad offrire se stessi a Dio in forza del sacerdozio comune, che determina in modo primario la nostra posizione di fedeli, con il «servizio sacerdotale» ministeriale.
Solo se conserviamo intatta in noi stessi «l’identità e l’autenticità» della vocazione al sacerdozio comune, saremo in grado di vivere in modo autentico il nostro sacerdozio ministeriale, che non ci è dato primariamente per la nostra santificazione, ma per la salvezza degli altri: «pro hominibus constituti».
Questa solidarietà nei confronti degli altri fedeli battezzati, affidati al nostro ministero pastorale, non la dobbiamo vivere solo in modo estrinseco, pur prodigando ci per loro nel nostro servizio. È una solidarietà che corre costantemente il rischio di svilirsi a un semplice livello di generosità umana.
La nostra solidarietà con tutti i fedeli deve pescare più in profondità, vivendo cioè assieme ad essi il sacerdozio comune; vivendo con gli altri e anche più degli altri il sacerdozio comune, di cui la preghiera è l’espressione più significativa e riassuntiva. Essa include, infatti, sia la coscienza del nostro essere uomini, creati come tutti gli uomini ad immagine e somiglianza di Dio; sia di essere, come tutti i credenti, configurati a Cristo attraverso il battesimo e il sacerdozio comune; sia di essere, come uomini e credenti, sacerdoti ordinati, ministri di Cristo.
La preghiera è la fonte esistenziale dell’unità, nella nostra persona, tra il sacerdozio comune e quello ministeriale.  È la radice dell’unità realmente vissuta dalla nostra stessa persona.
Cari fratelli nel sacerdozio, solo attraverso la testimonianza del fatto che nella nostra persona si realizza l’unità delle due dimensioni del sacerdozio di Cristo possiamo diventare segno della presenza di Cristo nel mondo, di quel Cristo il cui sacerdozio è uno e unico.
Per essere questo segno di unità per tutti i fedeli, la cui salvezza è legata alla realizzazione dell’unità in loro tra il fatto di essere uomini e quello di essere cristiani, partecipi, attraverso il sacerdozio comune, dell’amore eterno di Cristo per il Padre, abbiamo bisogno, come ci raccomanda oggi il Papa, di una preghiera «profonda ed organica».
Organica, nella misura in cui non la viviamo come una sovrapposizione al nostro essere ministri ordinati, ma la viviamo come esigenza strutturale insopprimibile: l’esigenza di essere in unità sia con tutti gli uomini, creati a immagine e somiglianza di Dio, sia con tutti i cristiani che, attraverso il sacerdozio comune, partecipano anch’essi all’unico sacerdozio regale di Cristo, di cui la pienezza ci è conferita ontologicamente con il sacerdozio ministeriale.

Omelia nella Messa crismale 1992

Il nostro radunarci questa mattina per la celebrazione della Messa Crismale è segnato da un’urgenza epocale: quella della “nuova evangelizzazione”.
Poco più di un anno fà, Giovanni Paolo II, pubblicò la sua lettera enciclica sulla missione: laRedemptoris missio (RM).
In essa, tra l’altro, si legge: «Quanto fu fatto all’inizio del cristianesimo per la missione universale conserva la sua validità ed urgenza anche oggi.
La Chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e di esteriore, ma raggiunge il cuore stesso della Chiesa. Ne deriva che tutta la Chiesa è inviata alle genti….Come il Signore risorto conferì al collegio apostolico,con a capo Pietro,il mandato della missione universale, così questa responsabilità incombe innanzitutto sul collegio dei vescovi con a capo il successore di Pietro» (62-63).
Con i vescovi sono implicati sacramentalmente,per la loro partecipazione all’ordine episcopale stesso,sacerdoti del presbiterio.
Abbiamo ricevuto perciò questo mandato in comune.  Anzi è un mandato che, attraverso la responsabilità del ministro ordinato, è affidato a tutta la comunità dei cristiani.
Sabato scorso, al Cammino della Speranza, ho detto alle centinaia di giovani, che il Signore, prima di dare alla Chiesa il suo mandato di andare a predicare il Vangelo a tutte le nazioni, ha radunato sul Monte degli Ulivi tutti i discepoli; voleva che tutti prendessero coscienza di essere stati interpellati assieme. Non li ha sollecitati separatamente, ma ha voluto che tutti si sentissero coinvolti in questa responsabilità comune.
Non vedo perché quello che possiamo dire ai giovani, colti, così, nella loro globalità verso un orizzonte che apre loro un fascino e una prospettiva cristiana della vita, non dobbiamo dircelo anche tra di noi. Se siamo riuniti quest’oggi è per diventare meglio consapevoli che siamo implicati, in forza dell’identità e uguaglianza sacramentale della nostra stessa persona, in un mandato comune: quello della nuova evangelizzazione. Non possiamo dire agli altri se non quelle cose di cui abbiamo totale consapevolezza e convinzione per noi stessi. E’ una questione di verità, ma solo oggettiva, bensì della nostra stessa persona.
La natura della Chiesa, la sua ragione di essere e di operare è l’annuncio del Vangelo. Di conseguenza la nostra ragione di esistere,di lavorare,di muoverei,la ragione della nostra passione per l’uomo, per le persone che incontriamo, per la giustizia e per la verità,è la missione.  La missione è il nostro esser stati scelti, eletti, fatti parte-cipi di quella stessa missione, che il Padre ha affidato al Figlio nel mondo e che Gesù Cristo,centro del cosmo e della storia e redentore dell’uomo, ha affidato alla comunità dei suoi discepoli.
Siamo costituiti dalla missione che abbiamo ricevuto: quella di partecipare alla missione o mandato affidato dal Padre al Figlio, nello Spirito Santo.
Come ho già avuto modo di ricordare nell’omelia della notte di Natale, il momento storico che stiamo vi vendo ci provoca ad annunciare nuovamente, con forza e chiarezza, l’assoluta unicità di Gesù Cristo quale Salvatore di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
E’ difficile rimanere fermi su questo, punto anche per noi, immersi in una società la cui cultura sembra tanto più umanizzante e capace di liberare l’uomo, quanto più riesce a convincere della relatività dei valori. Ma il Logos trascende le leggi della relatività cosmica scoperta dalla scienza moderna: è l’unico Figlio di Dio. Non dobbiamo confondere le nostre eventuali presunzioni personali con le certezze interiori, che la fede domanda alla nostra persona. Cristiani e missionari, se non credessimo all’unicità della salvezza di tutti in Cristo, anche se non sapessimo formularne di volta in volta le ragioni profonde, rimarremmo privi di prospettiva nel nostro agire: paragonabili all’uomo che non ha più il bastone per appoggiare la sua persona; saremmo “in baculum” o “in bacillum” cioè senza bastone e soffriremmo, etimologicamente parlando, di una imbecillità interiore che ci offuscherebbe nella nostra identità, cesseremo di essere utili al mondo, in ordine al mandato di evangelizzare la società. Cosa avremmo di fondamentalmente altro da dire agli uomini e alle persone che incontriamo?
Che cosa significa questo per noi presbiteri; quale s a rebbe il nostro apporto originale ed insostituibile all’opera della nuova evangelizzazione? La risposta a questa domanda è possibile solo alla luce dello scopo stesso dell’evangelizzazione.
«Tutto il senso missionario del Vangelo di Giovanni, scrive ancora la Redemptoris missio, si trova espresso nella ‘preghiera sacerdotale’: la vita eterna è che ‘conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17, 3). Scopo ultimo della missione è di far partecipare gli altri della comunione che esiste fra il Padre e il Figlio: i discepoli devono vivere l’unità tra loro,rimanendo nel Padre e nel Figlio, perché il mondo conosca e creda (cf. Gv 17,21-23). Questo testo fa capire che si è missionari prima di tutto per ciò che siamo realmente, dentro di noi, e in quanto comunità di apostoli, prima di essere ciò che diciamo di essere o di fare» (RM 23).
Evangelizzare significa dunque dare la propria vita per fare conoscere al mondo l’unico vero Dio e colui che ha mandato Gesù Cristo (Gv 17, 3).
Permettetemi, cari fratelli, di riferirvi un’esperienza che ho appena fatto, in un momento in cui ho provato una particolare lucidità sul senso della vita.
Dieci giorni fa, man mano che le indagini mediche procedevano nel corso di tutto un pomeriggio, per identificare la natura dell’intervento operatorio, e sentivo che il transito da uno strumento all’altro, da reparto a reparto, stringeva lo spazio attorno alla mia persona, dentro una spirale sempre più stretta fino a provare un senso preciso della finitudine, mi sono trovato solo con me stesso.
In quel momento il medico non avrebbe potuto offrirmi altro che un thé: era tutto quello che poteva ancora fare per aiutarmi. L’uomo, cui rimane un thé da bere come ultimo riferimento esterno. Un cristiano ridotto ad un semplice punto, quello della sua persona e della sua coscienza, non può non pensare in quel momento che l’unica cosa vera della sua vita è quella di aver conosciuto l’unico vero Dio e Colui che ha mandato Gesù Cristo nello Spirito Santo.
Come potremmo presentarci al Signore, nell’ipotesi della fine della vita terrena, senza averlo realmente riconosciuto e incontrato prima, come Padre, Figlio e Spirito Santo. Presentarsi a Dio senza averlo conosciuto realmente, così come si è rivelato alla nostra persona e al mondo, equivarrebbe aver sbagliato tutto. La missione ha questo mandato: quello di far conoscere a tutti l’esistenza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Per questo la vita del presbitero non può avere altro scopo che quello proclamato dal Vangelo di Luca che abbiamo appena ascoltato: dire agli uomini che la promessa del Padre si è adempiuta, che Gesù Cristo è presente qui, oggi nella vita della sua Chiesa, con lo Spirito Santo, liberazione per l’uomo prigioniero del peccato e della morte.
Annunciare, con fermezza e letizia, che non c’è altro da attendere perché «in lui soltanto siamo liberati da ogni alienazione e smarrimento, dalla schiavitù al potere del peccato e della morte» (RM11).
La nostra vita deve essere consumata in questo compito: l’edificazione della Chiesa; cioè di quella comunità di fedeli che conosce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e aderisce a loro nell’interiorità delle persone e nella preghiera.
Ogni nostra energia, ogni fibra del nostro essere è chiamata a questo supremo sacrificio, vissuta nell’operosità quotidiana, nella celebrazione dei sacramenti, nell’annuncio della Parola di Dio, nelle molteplici forme in cui la carità pastorale è chiamata ad esprimersi, nell’ incontro con le persone, che deve avere la priorità su ogni altra preoccupazione di efficienza pastorale. Non possiamo dimenticarci delle parole semplici ed efficaci del profeta Isaia:«Portare il lieto annunzio ai poveri,fasciare le piaghe dei cuori spezzati… consolare gli afflitti, dare loro olio di letizia invece dell’abito di lutto, canto di lode invece di un cuore mesto». (cfr. Is 61,1-3)Tutti gli uomini e tutto l’uomo attendono questa consolazione, attendono di incontrarla nella compagnia concreta delle nostre comunità cristiane, da noi guidati sulla via della nuova evangelizzazione, cioè sulla via dell’annuncio chiaro, lieto e forte della novità assoluta che è Gesù Cristo morto, risorto e presente nell’uniti di coloro che egli ha scelto e consacrato mediante il battesimo.
Non c’è vita vera se non nel sacrificio e questo è il nostro sacrificio: spendere la vita per l’opera di un Altro, cioè Gesù Cristo, come Egli ha dato la vita per l’opera del Padre: «Mio cibo è fare la volontà del Padre».
Per questo siamo stati unti, consacrati, fatti prigionieri del Vangelo, posseduti dallo Spirito Santo: perché la nostra esistenza non abbia altra ragione, altro scopo, altra passione che la ragione, lo scopo e la passione che hanno dominato la vita di Gesù. Siamo qui oggi per fare memoria della nostra identità: uomini chiamati a vivere «in piena docilità allo Spirito, … a lasciarsi plasmare interiormente da lui, per divenire sempre più conformi a Cristo.
Non si può testimoniare Cristo, scrive ancora il Papa nella Redemptoris missio (87), senza riflettere la sua immagine la quale è resa viva in noi dalla grazia e dall’opera dello Spirito santo».
È con questo augurio che mi avvio con voi, cari Confratelli, a celebrare il triduo pasquale. Colgo comunque l’occasione per ringraziarvi della sollecitudine con la quale avete guardato al mio breve scompenso di salute, per altro non grave e drammatico, ma per grazia del signore occasione di una riflessione personale più profonda del solito, che sono lieto di avervi comunicato.

Omelia nella Messa crismale 1993

Cari fratelli nel sacerdozio di Cristo, oggi, in tutto il mondo, le 2526 comunità presbiterali latine e orientali si riuniscono in cattedrale attorno alloro vescovo per celebrare la Messa crismale.
Oggi ogni presbitero è invitato a ripetere in cuor suo, come Gesù nella Sinagoga di Nazareth: «Lo spirito del Signore è sopra di me… mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri il lieto messaggio…  Oggi si è adempiuta in me questa Scrittura». E’ la profezia di Isaia.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me». E’ su di me, perché in Lui sono stato consacrato per celebrare i sacramenti e per annunciare agli altri la Parola di Dio, cioè Gesù Cristo Salvatore. E’ una vocazione che ho ricevuto come dono personale.
Tuttavia, questo «su di me» è anche un “noi”, perché tutti abbiamo ricevuto la stessa unzione, con la quale siamo stati, assieme, resi partecipi dell’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio che abbiamo ricevuto è uno solo. Non esistono tanti sacramenti, quante sono le persone che lo ricevono: esiste un unico sacramento dell’Ordine Sacro. In forza di questo unico sacramento, siamo legati in un mistero di comunione. Una comunione sacramentale che ci lega indissolubilmente come se fossimo, in Cristo, un’unica persona. Ciò rimane vero anche se le nostre affettività, i nostri personalismi, le nostre piccole e grandi ideologie, i nostri interessi personali, le nostre presunzioni e preclusioni, i nostri preconcetti e la nostra incapacità di obbedienza a questo fatto sacramentale comune, tendono costantemente a dividerci.
Nell’ultima cena, Gesù, consapevole di quanto sia difficile la comunione, ha pregato per noi, perché potessimo sempre rimanere uniti tra di noi, come Lui è unito al Padre. Sapeva che il demonio, già presente in Giuda, avrebbe seminato tra di noi la menzogna, il dissidio e il dissenso anche sistematico.
In rapporto alla vocazione, nella quale siamo stati consacrati, le nostre disunioni sono il peccato più grave. Contraddicono il fatto fondamentale della nostra vita, che va oltre lo stesso battesimo: quello di essere stati indissolubilmente uniti, attraverso l’unzione dello Spirito Santo, nell’unico sacerdozio di Cristo, che abbiamo ricevuto come dono comune.
La comunione, prima di essere un’espressione di carattere affettivo, è un fatto ontologico e sacramentale. Consiste nell’immanenza degli uni negli altri grazie al vincolo sacramentale che ci lega, tutti assieme, alla persona di Cristo e al suo stesso sacerdozio ministeriale.
Questa immanenza reciproca, tra il vescovo e i presbiteri, nasce dalla partecipazione sacramentale di ciascuno  di noi all’unico sacerdozio di Cristo e dal fatto che il ministero presbiterale è una derivazione dal ministero del vescovo, che ha ricevuto la pienezza dell’Ordine.
Cari confratelli in Cristo, di fronte a questo mistero sacramentale dobbiamo renderci conto di quanto grande sia la nostra responsabilità di fronte a tutti gli altri cristiani e di fronte al mondo. La nostra inadempienza nel realizzare l’unità, che ci è stata donata, offusca nei loro occhi l’immagine stessa di Cristo e della Chiesa.
Nessuno di noi può dire, da solo e con verità, assieme a Cristo: «Lo Spirito del Signore è sopra di me». Perché lo Spirito del Signore ci ha investiti tutti quanti, vincolando ci in coscienza all’unità. Alla realizzazione di questa unità è affidata la verità stessa del nostro ministero.
Questa vocazione all’unità, intrinseca al nostro ministero, non è astratta: dobbiamo renderla concreta, confrontando ci seriamente, di volta in volta, con gli imperativi pastorali più urgenti, cui dobbiamo far fronte.
Oggi l’impegno più urgente è quello della nuova evangelizzazione, di cui la nostra società ha un immenso bisogno.
L’urgenza di una nuova evangelizzazione deve nascere in noi da una duplice motivazione.
Da una parte, dal mandato ricevuto dallo Spirito Santo, che ci ha consacrati sacramentalmente per annunziare ai poveri il lieto messaggio, nel rispetto della profezia di Isaia, già realizzatasi in Cristo e in ciascuno di noi.
I poveri sono anche gli uomini e le donne della nostra società che, pur avendo ricevuto il battesimo e gli altri sacramenti, si lasciano assimilare al mondo nel loro pensiero e nel modo di vivere la quotidianità. Sono poveri, come gli ebrei, che al tempo di Isaia vivevano nell’infedeltà al patto dell’Alleanza. Anche noi sacerdoti, se disattendiamo la nostra vocazione all’unità reciproca, viviamo, come il popolo ebraico: nell’infedeltà al patto della Nuova Alleanza, che il Signore ha stabilito con noi sulla croce.
L’annuncio di Cristo al mondo, tuttavia, non lo dobbiamo proporre solamente in forza della coscienza di aver ricevuto il mandato dello Spirito Santo, che è sopra di noi e che Gesù ha riconfermato prima della sua Ascensione, invitando ci ad andare «in tutto il mondo a predicare il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15).
L’urgenza di annunciare di nuovo con chiarezza Gesù Cristo al mondo deve nascere in noi anche come risposta ad una necessità interiore. Un’urgenza che deve essere soddisfatta ad ogni costo, anche se comportasse sofferenza e martirio, come si è verificato puntualmente per gli Apostoli e per innumerevoli altri discepoli, fino al tempo presente, noti o sconosciuti, ricordati e celebrati, oppure nascosti nell’ombra della storia.
L’annuncio lo dobbiamo fare perché scopriamo dentro di noi la stessa esigenza che Pietro e Giovanni provarono davanti al Sinedrio, quando affermarono, quasi come una sfida: «Non possiamo tacere quello che abbiamo visto ed ascoltato» (At 4,20).
La sola coscienza di aver ricevuto il mandato ci legittima e ci sprona, ma può perdersi facilmente nel labirinto delle nostre innumerevoli mondanità, se non fosse accompagnata e fortificata dall’esperienza interiore, che facciamo di Cristo nella nostra persona.
Alla fine della sua vita S. Giovanni Evangelista, dopo decenni di fede, di impegno apostolico e di meditazione, ha scritto il testo che ogni volta scende nel nostro cuore come un balsamo: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato (come noi nell’Eucaristia), ossia il Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta» (cfr. 1Gv 1, 1-4).
Ma quale comunione annunciamo, se noi stessi non ne facciamo l’esperienza tra di noi, e quale gioia possiamo suscitare nei nostri fedeli se neppure tra di noi viviamo con gioia nella comunione con il Padre e con il Figlio? Come possiamo certificare agli altri battezzati di essere consacrati nello Spirito, se questa consacrazione non determina in profondità la nostra coscienza?
Questa testimonianza personale è condizione di salvezza eterna per tutti, non solo per gli altri, ma anche per le nostre stesse persone. Ogni persona che incontriamo dovrebbe intuire in noi la passione e il desiderio di trasmettere la conoscenza interiore, che noi stessi abbiamo di Cristo.
«Guai a me – scrive, infatti, San Paolo – se non predicassi il Vangelo!». (1 Cor 9, 16).
Ma guai anche a noi, se l’annuncio non lo facciamo nell’unità, perché solo dalla nostra unità il mondo ricono-scerà che «Tu mi hai mandato» (Gv 17, 23).
L’unità tra di noi dobbiamo viverla attorno ad alcune cose fondamentali.
Permettetemi allora, cari confratelli nel sacerdozio di Cristo, di indicarvi, quest’oggi, alcuni punti di riferimento per la nostra vita pastorale nei prossimi anni.
Prima di tutto, il dovere di fare la catechesi e di collaborare con gli altri presbiteri nel realizzarla. Non c’è speranza di riuscire nella nuova evangelizzazione, se non intraprendiamo uno sforzo comune per rieducare i fedeli alla necessità di frequentare la catechesi. Oggi, la pratica, anche frequente, della Messa domenicale non è più sufficiente per educare ad una vera identità cristiana le persone, che il Signore ci ha affidato.
Tutti i germi di rinnovamento, presenti nella Chiesa contemporanea, sono nati dalle fatiche compiute per la catechesi: quelle dei preti e quelle dei fedeli.
Se noi presbiteri viviamo la catechesi solo come un mandato o un dovere dall’esterno, ma non come una passione interiore, che nasce dal desiderio di incontrare gli uomini, affinché incontrino anch’essi Gesù Cristo, non riusciremo mai a convincerli della necessità di riprendere il cammino della catechesi.
La catechesi, accanto alla celebrazione dei sacramenti, è il primo e più importante impegno pastorale perché, a differenza della celebrazione sacramentale e dell’annuncio della Parola, essa permette di coinvolgere i fedeli in un dialogo; di risolvere i loro dubbi; li costringe ad una riflessione sul loro modo di pensare; li abitua ad essere critici nei confronti della mentalità corrente, di cui sono imbevuti; precisa il pensiero della Chiesa; risolve molti equivoci e pregiudizi; li aiuta a prendere coscienza comune della loro appartenenza alla Chiesa; li accomuna nell’affronto delle difficoltà in cui tutti si dibattono; fa crescere la loro fede e la loro coscienza ecclesiale; crea comunione tra i fedeli.
Vorrei pregarvi, cari confratelli, di leggere la lettera del Papa ai sacerdoti per questo Giovedì Santo, poiché in essa invita tutti a servirsi del Catechismo della Chiesa Cattolica, come «mezzo privilegiato per approfondire la conoscenza dell’inesauribile mistero cristiano»; come «sicuro punto di riferimento per il compimento della missione affidataci nel sacramento dell’Ordine, di annunciare in nome di Cristo e della Chiesa, la Buona Novella»; come «norma autentica e sicura per la nuova evangelizzazione», perché «ciò che contiene e ciò a cui serve è in modo particolare legato con la nostra vita sacerdotale e con il ministero pastorale nella Chiesa».
La catechesi dobbiamo viverla come dimensione personale, prima che come strumento per gli altri. Nella recente assemblea del Consiglio Presbiterale e del Consiglio Diocesano Pastorale riuniti, sono emerse, oltre all’indicazione di continuare a stampare come sussidio il libretto diocesano della Scuola della Fede, diverse iniziative sperimentate da alcuni tra voi, per rilanciare la catechesi. Sono iniziative che dobbiamo saper ascoltare senza pregiudizi; così come quella di impostare tutta la pastorale parrocchiale sulla catechesi; di introdurre la catechesi dopo la Messa domenicale; di discutere il Vangelo della domenica la sera della domenica stessa.
Ognuno è libero di prendere e di tentare nuove iniziative, ma nessuno può sottrarsi all’imperativo di affrontare questo lavoro con grande senso di responsabilità di fron-te allo Spirito del Signore che è su di lui e di fronte a Gesù Cristo, che lo ha mandato, offrendogli come dono il vincolo dell’unità e della comunione reciproca.
Prima di terminare, vi prego di non voler disattendere due altre raccomandazioni. Anch’esse contribuiscono a rendere più concreto l’impegno pastorale dell’unità sacramentale che ci unisce e vi unisce.
La prima, è quella di fare uno sforzo capillare, secondo le indicazioni che vi saranno date nei vicariati, per sensibilizzare i genitori e i ragazzi al problema dell’insegnamento religioso nella scuola. Tutti, noi per primi, dobbiamo renderci conto che l’avvenire dell’istruzione religiosa nella scuola dipende da noi, dalla nostra capacità di renderlo, non solo plausibile, ma anche apprezzato. La recente lettera pastorale ai genitori vi può e deve essere di grande aiuto.
La seconda raccomandazione è quella di assecondare lo sforzo che si sta facendo per offrire un inserto comune a tutti i bollettini parrocchiali. Non esito a dirlo, anche nei confronti dei più renitenti tra di voi, e ad affermare che proprio le parrocchie più importanti portano una grave responsabilità per l’esito positivo di questa iniziativa.  Un’iniziativa discussa anch’essa ripetutamente, sia nel Consiglio Presbiterale, sia nel Consiglio Pastorale, sia nelle riunioni vicariali in occasione dei ritiri predicati dal Vescovo.
La stampa minore, per la sua grandissima capillarità, è uno strumento privilegiato della nuova evangelizzazione.  Prego perciò tutti, cordialmente, di rivedere le proprie posizioni e di non esitare a rimettere in discussione scelte fatte magari da sempre, in nome dell’individualismo o di considerazioni magari solo economiche. Lo spettacolo di disunione che diamo in questo settore è miserevole.
L’unità costa sacrificio e rinuncia a certe scelte individuali, anche quando avessero delle giustificazioni. L’unità è frutto dell’ascesi personale, ma deve essere soprattutto il frutto della gioia che nasce in noi per la consapevolezza che «Lo Spirito del Signore è sopra di noi e ci ha consacrati con l’unzione, per mandarci ad annunziare ai poveri il lieto messaggio». (Lc 4, 18).
Non ci ha consacrati perché ognuno faccia quello che vuole, credesse pure di fare la cosa migliore.
Cari confratelli, rinnovandovi l’invito di leggere la lettera del Papa a tutti i sacerdoti, e ringraziandovi per l’immenso lavoro pastorale da voi compiuto e per la vostra disponibilità nei confronti del Signore e nei miei confronti, desidero augurarvi, dal profondo del cuore e con amicizia nel Signore, Buona Pasqua.

Omelia la giornata ecumenica. Lugano, 21 gennaio 1990

Quasi al termine della sua missione apostolica e probabilmente durante la prima prigionia romana, l’Apostolo delle Genti ha redatto, o fatto redigere da un discepolo, la Lettera agli Efesini, che forse, in realtà, fu indirizzata a più comunità dell’Asia minore.
Intuendo che la fine della sua missione apostolica era vicina, ha voluto sviluppare in forma più sistematica e completa il tema della sovranità universale di Cristo, già esposta nella Lettera ai Colossesi.
Quasi come in un testamento finale San Paolo ha sintetizzato il vertice del suo pensiero sul disegno divino della salvezza, in cui tutti, indistintamente ebrei e pagani, sono salvati in Cristo, mediante l’inserimento nel suo corpo, che è la Chiesa.
La chiave di volta di questa Lettera è quella della vocazione di tutti gli uomini in Cristo. In Lui, il Cristo, Figlio di Dio, siamo stati scelti dal Padre, prima della creazione del mondo (cfr. Ef 1, 4), perché facessimo parte di quell’edificio che è la Chiesa (cfr. Ef 3, 21), che ha per fondamento gli Apostoli e i Profeti, mentre Cristo stesso è la pietra angolare (cfr. Ef 2, 20).Nel contesto di questo insegnamento dobbiamo anche noi ascoltare il grido di San Paolo, in catene per amore di Cristo, rivolto ai cristiani da lui stesso generati alla fede, grido con il quale propone a tutti il criterio supremo della vita cristiana: vi invito a condurre una vita degna della vocazione alla quale siete stati chiamati.
La consapevolezza di essere stati chiamati da Dio è il presupposto e il fondamento imprescindibile di ogni esperienza cristiana. Un’autentica vita cristiana è possibile solo se possediamo la coscienza che il valore della vitacoincide con la risposta data da ognuno alla propria vocazione personale. La santità cristiana nasce dalla corrispondenza della nostra vita con la chiamata che ci è stata rivolta.  Un principio totalmente estraneo alla cultura moderna che ha dichiarato l’uomo artefice autonomo della propria vita e del proprio destino personale e collettivo.
II capitolo 17 di Giovanni ci aiuta a capire fino in fondo questo elemento fondante e misterioso del significato della nostra vita. Nella preghiera dell’ultima cena Cristo afferma che il Padre ci ha consegnati a Lui; «erano tuoi e [tu] li hai dati a me» (17, 6). Apparteniamo al Padre che, nella creazione, ci ha chiamati alla vita; ma il Padre ci ha affidati al Figlio: «Erano tuoi e li hai dati a me».
La coscienza di appart e n e re al Padre, in forza della sua creazione, non basta per conferire un significato compiuto alla nostra vita e al nostro destino. Il Figlio è stato mandato nel mondo per rivelare all’uomo che il Padre ha consegnato tutta l’umanità a Cristo, nel quale, del resto, tutti siamo già stati antecedentemente creati. Il Padre, infatti, ci ha scelti in Cristo, prima della creazione stessa del mondo.
La salvezza implica la coscienza di questo fatto originario: quello della nostra appartenenza al Padre attraverso il Figlio, «tutto è stato fatto per mezzo di lui senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3). Il Figlio, infatti, è venuto nel mondo proprio per rivelarci che il Padre ci ha consegnati a Lui, fin dall’inizio della nostra esistenza. Con la sua incarnazione Cristo ha rivelato questo mistero ed è per questa ragione che nell’ultima cena dice al Padre: «Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo… glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te, prima che il mondo fosse… tutto le cose mie sono tue… e io sono glorificato in loro» (Gv 17,3).
La vocazione compiuta dell’uomo è perciò di appartenere, non solo al Padre, ma anche al Cristo, per mezzo del quale siamo stati creati: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 1.5.10). La vita eterna sta dunque nel prendere coscienza della nostra appartenenza a Cristo, e noi cristiani abbiamo in comune proprio questa missione: quella di far conoscere agli uomini questo mistero: «Come tu mi hai mandato nel mondo, [così] anch’io li ho mandati nel mondo» (Gv 17, 18). Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per farci conoscere la nostra originaria elezione in Cristo, così anche noi siamo stati mandati nel mondo da Cristo, per far conoscere a tutti gli uomini la verità totale del nostro destino, quello della nostra appartenenza a Cristo, fin dal momento della nostra creazione.
Condurre una vita degna della vocazione alla quale siamo stati chiamati significa, prima di tutto, condurre una
vita consapevole di questo nostro radicamento in Cristo, precedente dal profilo storico e cronologico la redenzione stessa.
Questa coscienza ci deve aiutare a capire anche le modalità imprescindibili, secondo cui dobbiamo vivere per rimanere inseriti degnamente in questo mistero. Nel testo di Efesini 4, San Paolo, riprendendo il discorso sulla fede, la speranza e la carità, già sviluppato nella Prima Lettera ai Corinzi (cap. 13), ribadisce il fatto che il metodo per vivere la nostra vita in modo degno della nostra vocazione è quello di viverla inserendoci nella dinamica conoscitiva e operativa delle tre virtù teologali: della fede, della speranza e della carità.
Tutte le culture religiose e tutte le filosofie hanno individuato e sistematizzato alcune virtù fondamentali secondo cui l’uomo deve operare per vivere in modo degno la sua esistenza. Lo schema più celebre è quello elaborato dallo stoicismo. Per Seneca l’ideale etico è quello dell’uomo che vive fondandosi sulle quattro virtù cardinali: della giustizia, della fortezza, della prudenza e della temperanza.
Anche se questo prodotto della filosofia naturale è stato recepito dal cristianesimo, non rappresenta tuttavia la base per una vita cristiana autentica. Il cristiano è chiamato a vivere non secondo le quattro virtù cardinali, ma secondo le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità: virtù infuse da Dio e per cui si invera nell’uomo il dono della redenzione. San Paolo ci rivela nella Lettera agli Efesini che siamo stati chiamati a credere in un solo Signore, a ricevere un solo Battesimo e a pensare secondo una sola fede; siamo stati chiamati ad una sola speranza ed a conservare la nostra unità nella carità. «Esistono queste tre cose», afferma nella Prima Lettera ai Corinti, «la fede, la speranza e la carità, ma la più grande di esse è la carità» (13, 13).
Se noi cristiani viviamo prescindendo dalla pratica di queste virtù teologali, nelle quali possono essere riassunte tutte le virtù umane, così come nella carità si riassumono tutti i dieci Comandamenti, non viviamo in modo degno della nostra vocazione. Come cristiani non possiamo più retrocedere al livello di una vita vissuta con la pratica delle virtù naturali, perché invece di vivere inseriti nel mistero soprannaturale della nostra vocazione, rimarremmo imbrigliati nella dinamica dell’uomo carnale, cioè dell’uomo che vive nel mondo secondo i criteri del mondo.
La preghiera di Gesù nell’ultima cena, riferita dal cap.
17 di S. Giovanni, affronta esattamente questo problema.  «Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che [tu o Padre] mi hai dato, perché sono tuoi… Io ho dato a loro la tua Parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo… Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi, [infatti], non sono del mondo, come io non sono del mondo. Consacrali nella verità». (cfr. 17,9.14.15.).
La verità nella quale Cristo domanda al Padre di consacrarci è di vivere, non secondo i criteri del mondo, cioè della nostra natura umana, ma secondo i criteri soprannaturali della fede, della speranza e della carità.
Ogni qualvolta i cristiani hanno rinunciato a vivere secondo la logica specifica delle virtù teologali, hanno provocato una rottura del tessuto ecclesiale. Le spaccature all’interno della cristianità hanno sempre avuto origine nella mondanizzazione e nella secolarizzazione della Chiesa di Cristo.
Il peccato del cristiano e il nostro peccato personale hanno sempre origine in una retrocessione dal livello esistenziale specifico del cristiano, della fede, della speranza e della carità, al livello di una vita vissuta secondo i criteri di una filosofia della sola ragione umana naturale; di una vita, cioè, non redenta; di una vita vissuta secondo i criteri del mondo.
L’eresia, infatti, è sempre il frutto di una mondanizzazione della fede o della speranza; nasce quando i cristiani vivono in modo subordinato rispetto alle posizioni culturali e filosofiche del mondo, oppure quando la speranza cessa di essere l’attesa, nella certezza, che la storia del mondo si realizzi all’interno della storia della salvezza, per trasformarsi in un tentativo umano di determinare il corso della storia, a partire da progetti messianici fondati sulla capacità della ragione umana di guidare scientificamente la storia.
Lo scisma nasce quando i cristiani invece di cercare e conservare l’unità della Chiesa e del mondo nella carità, si lasciano guidare ideologicamente da una concezione mondana dell’unità e del potere.
Se la rottura dell’unità dei cristiani ha sempre la sua radice ultima in una mondanizzazione dell’esperienza ecclesiale, dobbiamo essere consapevoli, cari fratelli e sorelle nel S i g n o re, che anche la ricostituzione di questa unità perduta è possibile solo attraverso una conversione personale e comunitaria ad una vita sempre più profondamente vissuta secondo la dinamica specifica delle virtù teologali, che determinano esistenzialmente l’identità del cristiano.
Prima della sua glorificazione, attraverso la morte e la Risurrezione, Cristo ha pregato il Padre di consacrare i suoi discepoli, e con essi tutti noi, nella verità. «[Padre], per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (17, 19).  La verità, in cui Cristo ha voluto porci e consacrarci con la sua morte e Risurrezione, non abbraccia solo l’aspetto intellettuale della fede; ma implica esistenzialmente tutti gli aspetti e tutte le dimensioni della vita. La verità si realizza totalmente solo quando i cristiani vivono in modo degno e globale la vocazione, alla quale sono stati chiamati. Ciò implica che il cristiano creda sempre più profondamente alla necessità di non vivere secondo i criteri del mondo, ma secondo la logica della sequela di Cristo.
Ogni nostro incontro ecumenico, cari fratelli e sorelle nel Signore, è efficace nella misura in cui ci aiutiamo a capire, con sempre maggiore trasparenza e convinzione, che l’unica strada sicura per ricomporre tra di noi l’unità, che è il valore supremo della Redenzione, è quella della nostra rispettiva conversione ad una vita di fede, di speranza e di carità, all’interno della nostra rispettiva tradizione ecclesiale.
In questo si avvera il principio fondamentale del dialogo ecumenico, che afferma la necessità per ogni Chiesa e confessione di essere prima di tutto impegnata in una profonda purificazione e in un profondo processo di conversione di se stessa.
L’emergere in questo momento all’appuntamento con la storia dei popoli dell’Est europeo, con la profondissima testimonianza di fede delle loro Chiese, sopravvissute per intere generazioni ad un regime di persecuzione e di catacombe, non può non scuotere la nostra coscienza cristiana ed ecclesiale fin nelle sue fondamenta.
Queste Chiese sono un dono che il Signore fa alle nostre Chiese occidentali, perché sappiano riscoprire la necessità di vivere in modo più degno la vocazione alla quale sono state chiamate.

Omelia per la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani domenica 19 gennaio 1992

Questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani si apre richiamando alla nostra memoria il mandato, affidato da Gesù agli apostoli, e, con loro, a tutti i cristiani, di annunciare il Vangelo a tutti i popoli. «Andate dunque ed ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28,19-20)
Questo mandato ha assunto negli ultimissimi anni un’attualità nuova ed una stringenza, alla quale è difficile sottrarsi in buona fede. L’idea della necessità e dell’urgenza, per tutti noi cristiani, d’intensificare il nostro impegno, non nasce certo da un equivoco millenarista, anche se è vero che la scadenza del secondo millennio del cristianesimo è una ricorrenza che invita tutte le Chiese e tutte le Comunità ecclesiali ad un esame di coscienza e ad un bilancio delle rispettive responsabilità di fronte al mondo ed alla storia.
Due mi sembrano essere gli elementi che costringono ad una riflessione sul modo con il quale tutta la cristianità sta onorando il suo impegno missionario nella storia contemporanea: da una parte, la constatazione fatta da Papa Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio che «il numero di coloro che ignorano Cristo e non fanno parte della Chiesa di Cristo è in continuo aumento», anzi dalla metà degli anni sessanta, che per noi cattolici coincide con la fine del grande avvenimento del Concilio ecumenico, è quasi raddoppiato».
Per questa umanità immensa, amata dal Padre, che per essa ha inviato il suo Figlio, è evidente l’urgenza della “missione”. Questa umanità attende la prima evangelizzazione.
Il secondo elemento è la situazione nella quale le Chiese si trovano in Europa. L’Europa, ora riunita dall’Atlantico agli Urali, rivela, da questo punto di vista, una doppia configurazione: all’Est una stragrande maggioranza della popolazione che non ignora ma non crede in Gesù Cristo, all’Ovest una società che si trova in situazione di profonda scristianizzazione.
Urge una seconda evangelizzazione, ed è per questo che il mandato dato da Gesù è ridiventato di estrema attualità per la nostra coscienza di cristiani.
Il programma di una rievangelizzazione della società europea, che mira unicamente alla ricostruzione delle coscienze alla luce del Vangelo di Cristo, è stato accettato, in quanto impegno di fronte alla storia, da altre Chiese al di fuori di quella cattolica e significa oggettivamente che la nuova evangelizzazione della società, al di là di come la si voglia chiamare, non può più avvenire con gli stessi strumenti o criteri della prima evangelizzazione, poiché il clima culturale con il quale siamo confrontati nell’annuncio del Vangelo è profondamente diverso da quello in cui si è attuata la prima.
Per ripensare in termini nuovi l’evangelizzazione della nostra società dobbiamo renderci conto di quattro fatti, che hanno reso radicalmente diverso il clima culturale rispetto al tempo del primo annuncio del Vangelo.
Il primo elemento sta nel fatto che, nel mondo pagano greco-romano, il cristianesimo rappresentava un avvenimento nuovo e quindi capace di suscitare interesse ed attese.  Oggi in Europa non è più una novità. Più o meno, tutti gli europei, anche quelli educati nel materialismo ateo, ne conoscono qualche cosa; moltissimi anzi ritengono di conoscerlo sufficientemente per poterlo giudicare in termini negativi. Moltissimi fra questi sono perciò poco disposti ad ascoltare il messaggio cristiano.
Sanno già di che cosa si tratta. Il nuovo, per i popoli europei, in fatto di religione sta nelle religioni orientali, nell’Islam, nella New Age.
Il secondo elemento sta nel fatto che, mentre nella prima evangelizzazione dell’Europa il cristianesimo aveva di fronte un mondo religioso, poiché la religione era una realtà pacificamente ammessa, oggi l’annuncio cristiano si trova dinnanzi ad un mondo e ad una cultura che non sono più strettamente religiosi, perché rifiutano la religione come una superstizione, o come oppio dei popoli, oppure come elemento culturalmente residuato di un’epoca non ancora illuminata dalla ragione; un mondo in cui si ritiene che la scienza abbia ormai scalzato i fondamenti della religione e che, al massimo, le riserva un posto marginale, riducendola a fatto puramente privato. La società è laica anche quando non è decisamente ostile alla religione.  Il ritorno del sacro, cui assistiamo, è appannaggio soprattutto delle religioni meditative orientali, teosofiche, dell’esoterismo. Si fa sempre più strada perciò l’idea che tutte le religioni si equivalgano.
Il terzo elemento è il fatto che negli ultimi tre secoli sono state messe in discussione dalla cultura moderna le basi razionali del cristianesimo, della nostra fede e della verità cui crediamo.
È stata negata la possibilità per la ragione di conoscere Dio, l’esistenza dell’anima spirituale e la sua immortalità, la possibilità della rivelazione, per cui il cristianesimo è stato ridotto a religione creata dall’uomo; non si ammette l’ispirazione delle Scritture, la credibilità storica dei Vangeli, la divinità di Cristo, la Sua e la nostra risurrezione, il carattere soprannaturale della Chiesa. Questa critica, fatta in ambienti prima ristretti e di élite, è diventata in larga misura patrimonio diffuso, anche se non sempre esplicito e consapevole, della cultura popolare.
L’annuncio del Vangelo si trova di fronte ad un muro di pregiudizi ed alla convinzione che la ragione, la storia e la scienza hanno dimostrato che la fede non ha nessun fondamento razionale. Non è un caso che un noto pubblicista abbia potuto rimpiangere dalle colonne di un diffusissimo rotocalco italiano la fine del comunismo, perché il marxismo dava un grande contributo alla disintegrazione delle religioni ed in particolare del cristianesimo.
Il quarto elemento di cui dobbiamo tener conto, di fronte al compito della rievangelizzazione, è il fatto della nostra divisione tra cristiani. E certo che essa rappresenta, assieme alla debolezza della nostra fede individuale e comunitaria ed al nostro pensiero cristiano debole, uno degli ostacoli intrinseci più gravi per l’annuncio del Vangelo al mondo. Esso si aggiunge agli ostacoli culturali estrinseci, che si frappongono all’ascolto, da parte del mondo, del messaggio portato dalle nostre Chiese.
La ricerca dell’unità è perciò, assieme alla ricerca dell’essenza dell’identità cristiana di ognuno di noi, personalmente e comunitariamente, uno degli obblighi fondamentali derivanti dalla nostra fede in Gesù Cristo.
La premessa di questa ricerca ci è data dal brano della lettera di S. Paolo agli Efesini, che abbiamo appena ascoltato.  Cristo ci ha già costituiti nell’unità, indipendentemente dalla nostra volontà, «per mezzo della sua morte in croce ci ha uniti in un solo corpo sulla croce; sacrificando se stesso egli ha distrutto ciò che separava gli uomini. Ha fatto diventare un unico popolo i pagani e gli Ebrei, ha demolito il muro che separava gli uomini costituendoci nell’unità». (cfr. 2,13-15)
L’unità ci è già stata data ed è già presente alla radice di noi stessi, con il battesimo. L’unità è un dono che ci è già stato dato. Non possiamo pensarla come se fosse l’esito del nostro sforzo umano. Dobbiamo solo cercare di scoprirla e riconoscerla, domandando l’aiuto, la forza, la perseveranza, oltre che la luce dello Spirito Santo.
Questa unità, preesistente nel mistero dell’unica Chiesa di Cristo e offertaci come dono da Lui stesso, non possiamo scoprirla e riconoscerla, tuttavia, senza la nostra cooperazione.  Ognuno deve cercare di scoprirla a livello delle proprie possibilità.
Credo si possano distinguere tre livelli di questa ricerca: quello del dialogo teologico, quello dell’approccio psicologico ed affettivo nella carità, e quello della preghiera.
In questi ultimi cinquant’anni i progressi del dialogo teologico sono stati enormi. Temi fortemente controversi, come il battesimo, la giustificazione, il ministero e l’euca-ristia, hanno registrato, come per esempio nel “Documento di Lima”, convergenze significative. Con le Chiese ortodosse i cattolici possono addirittura affermare una comune comprensione sacramentale della Chiesa.
Il frutto positivo di questo dialogo non è stato solo quello delle convergenze, ma anche quello di riuscire ad enucleare con più chiarezza le differenze ancora esistenti ed a circoscriverle. Tra queste, non possiamo sottacere alcune questioni etiche. Quest’ulteriore chiarezza ci permette di avanzare, con più determinazione, verso il cuore stesso delle nostre divisioni.
Il secondo livello è quello dell’approccio psicologico.  Benché sia innegabile che la divisione tra le confessioni sia di natura prevalentemente teologica, è evidente che gli aspetti psicologici e le realtà sociopolitiche hanno esercitato e continuano ad esercitare un influsso negativo sulla possibilità di avvicinamento reciproco.
Molte esperienze storiche conflittuali, provocate dalla estraneità vicendevole, dalla ignoranza e dai pregiudizi, da circostanze culturali e locali, restano un’eredità pesante, come lo hanno dimostrato le recenti incomprensioni avvenute tra le Chiese nell’Europa dell’Est. L’unità dobbiamo perciò favorirla anche a questo livello: quello della conoscenza reciproca, della visitazione gli uni degli altri, dell’ospitalità, della pratica in comune della carità verso i più deboli, dell’aiuto vicendevole nel bisogno e nella collaborazione per risolvere i grandi problemi del mondo, della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato.
Il terzo e ultimo livello del nostro impegno e lavoro ecumenico è quello che è stato definito “ecumenismo spirituale”, le cui sfaccettature sono molteplici: la conversio-ne del cuore, la santità di vita, il rinnovamento interiore, la purificazione dai nostri peccati, la preghiera personale e comune.
Questo livello è l’anima di tutto il movimento ecumenico e la vera forza dinamica, soprattutto nei momenti nei quali si può avere l’impressione che in certi settori e circostanze sia subentrata la stasi.
L’unità, infatti, è un dono di Dio come la santità. L’una e l’altra devono essere implorate nella preghiera. È quanto stiamo compiendo oggi, nella consapevolezza che nella nostra situazione concreta, assieme al secondo livello del nostro impegno, quello della pratica della carità vicendevole, la preghiera, cioè l’“ecumenismo spirituale”, sono probabilmente il livello nel quale, in modo realistico, possiamo dare il nostro contributo migliore alla causa dell’unità.
Pretendere di poter eliminare questo impegno e questo lavoro, che pone, comunque, le basi per eliminare almeno una parte dello scandalo della nostra disunione di fronte alla società in cui viviamo, affermando la possibilità di appartenere contemporaneamente a più confessioni cristiane, equivarrebbe a rispolverare il mito del dio Giano, di romana memoria, il quale, pur avendo un solo capo, era bifronte: aveva la pretesa di poter guardare contemporaneamente davanti e dietro se stesso. Nella sua irrequieta doppiezza è diventato il simbolo della falsità. Oggi non basterebbe diventare quadrifronti, tante sono le confessioni diverse.
Una delle prerogative dell’uomo moderno è quella della verità.
Magari in termini esasperati e confondendo spesso la verità con l’arbitrio di qualsiasi espressione, l’uomo moderno non tollererebbe che le Chiese, le Comunità ecclesiali e i cristiani, si presentassero come annunciatori della verità del Vangelo e con la pretesa di rievangelizzare e di proporre l’unità, camuffando le proprie divisioni.  Sono convinto che sarebbe un ostacolo in più, rispetto a quelli enunciati; questa volta di natura estrinseca e intrinseca allo stesso tempo, per una nuova evangelizzazione dell’Europa.