Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 1
LA VOCAZIONE DELLA CHIESA
Capitoli
Un Collega , Un Amico, Un Pastore
Cardinale Christoph Schönborn
Arcivescovo di Vienna
Arrivato nel 1975 come giovane professore a Friburgo, ho fatto presto conoscenza di un collega che mi impressiono` subito: viveva in una casa con una decina di studenti; un professore che condivideva la vita quotidiana: preghiera ,studio, la tavola (aperta a tanti amici).
È piuttosto raro trovare un professore cosi’ vicino agli studenti; e indimenticabile la cena in questa comunità gioiosa e vivace. Non mi sorprendeva che il Vescovo Eugenio ebbe una tale vicinanza paterna paterna ed amichevole con i giovani della sua Diocesi.
Non posso dimenticare quella sera del 28 gennaio 2005, quando don Eugenio si alzo’ con difficoltà dal letto per andare in Cattedrale a salutare i giovani radunati in un gran numero. Fu un grande privilegio camminare con lui per questa sua ultima visita in Cattedrale. Dall’inizio del mio soggiorno a Friburgo ho conosciuto un canonista affascinante, con una visione del Diritto canonico come materia teologica propria, un Diritto che sorge dalla fonte viva del Vangelo, un Diritto la cui carta è la Costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II.
Ben presto abbiamo iniziato a sognare un nuovo curriculum teologico basato sul Vaticano II, con forte accenno sulla nuova evangelizzazione nel contesto europeo. Cosi’ nacque il progetto di una nuova Accademia, e quando fu nominato Vescovo di lugano non tardo’ ad operare con tutte le sue forze per la realizzazione di questo sogno, oggi diventato realtà nella Facoltà di Teologia di Lugano.
La sua malattia fu uno shock. Come il signore puo’ lasciar partire cosi’ presto un uomo di tale fervore per la grande visione del Vaticano II?
Quando Papa Giovanni II ha saputo della gravità della sua malattia, secondo la parola di un testimone, avrebbe detto <<tanto piu’ preghero’ per lui>>. La stima di Papa Giovanni Paolo II per questo teologo e pastore ci permette di valutare quale perdita è stata la sua morte. Nonostante, o meglio tanto piu’ questa morte è preziosa, poiché per un cristiano l’oblazione della vita è sempre seme di nuova vita. Cosi’ la morte di Don Eugenio rimarrà preziosa e feconda per noi tutti.
L’episodio di Emmaus rivela in anteprima l’atteggiamento che la maggior parte della gente assume di fronte al Mistero cristiano.
Discutevano tra loro degli avvenimenti accaduti nei giorni precedenti. E’ sempre stato così: coloro i quali si sono soffermati a discutere su di Lui non hanno creduto. Questo dato è drammaticamente vero anche oggi nella società moderna. È una società, nella quale si discute molto, e tutti possono giustamente discutere, ma guai a chi arriva ad una conclusione.
E dobbiamo pensare a noi stessi perché anche noi corriamo, lungo tutto il cammino della nostra vita, il pericolo di fermarci a ragionare, a discutere dentro di noi sul problema di Gesù Cristo, sul problema della Chiesa, sul problema della Religione sempre alla ricerca di argomenti: ma c’è sempre l’argomento contrario che finisce per essere psicologicamente più forte. E questo è l’errore che negli Atti degli Apostoli, San Luca ci mostra per farci capire l’atteggiamento che non dobbiamo assumere, quello dei due discepoli. Discutevano, ma i loro occhi come i nostri, furono incapaci di riconoscere Gesù Cristo.
La discussione non porta a conoscere, ad aderire alla persona di Cristo, perché Gesù Cristo non è una dottrina da discutere, ma un Mistero, una Persona alla quale possiamo solo incontrare ed aderire. 1
Per questo nel Vangelo dice: «Chi è contro di voi è contro di me». Anche l’ultimo giudizio è concepito in questi termini: «Io avevo fame e voi mi avete dato da mangiare, io avevo sete e voi mi avete dato da bere».
Egli non fa un esame di quello che abbiamo compiuto, ma del modo con il ci siamo rapportati con Lui.
Perché l’essenza della Fede non sta nella dottrina che dobbiamo professare, ma nella nostra adesione alla Persona di Cristo.
Solo se abbiamo dentro questa domanda sentiamo ardere dentro di noi il nostro cuore. Perché ciò che ha salvato i discepoli di Emmaus, che alla fine hanno riconosciuto Gesù Cristo, è il fatto che c’era qualche cosa che ardeva dentro il loro cuore.
E qualche cosa deve ard e re dentro il nostro cuore, perché è da questo calore,da questa passione che abbiamo dentro, da questo desiderio che nasce la domanda, nasce la curiosità, nasce la possibilità di incontro con la Persona di Gesù Cristo fine al punto di riuscire a dare del Tu a Gesù Cristo. Dobbiamo riuscire a dare dei. Tu a Gesù Cristo.
E ora che siete tutti adulti capite cosa significa dare dei tu ad una persona: quando si capisce che questa comincia a diventare importante, per la nostra vita.
Vi rendete conto come sia difficile fare il silenzio e la meditazione. Ma senza di essi la domanda non può nascere dentro di noi.
Cristo è una Persona che dentro di noi rifiutiamo oppure accettiamo. Se guardiamo bene la nostra storia personale ci accorgiamo come sia profondamente vero tutto questo.2 Siamo capaci di accettare, ma siamo capaci anche di rifiutare dentro di noi la Persona di Cristo, perché non abbiamo il coraggio di fargli il posto per vivere dentro di noi. Il Papa ha detto una volta che per conoscere Gesù Cristo, per aderire a Lui, dobbiamo essere capaci di stupore, di fare l’esperienza dello stupore che è l’esperienza più profondamente umana.
Lo stupore è forse l’atto più esaltante dal profilo psicologico che l’uomo possa produrre.
Ma lo stupore non nasce dai nulla, nasce sempre e solo da un cammino di ricerca. Nasce solo se abbiamo dentro un’inquietudine, abbiamo dentro un desiderio, abbiamo dentro una domanda.
Facciamo al Signore costantemente la stessa domanda che hanno fatto la Madonna e Nicodemo: «Ma come è possibile?».
E’ questa la domanda che dobbiamo fare a Gesù Cristo:
«Come è possibile?»
Per questo nel Vangelo dice: «Chi è contro di coi è contro di me». Anche l’ultimo giudizio è concepito in questi termini: «Io avevo fame e voi mi avete dato da mangiare, io avevo, sete e voi mi avete dato da bere».
Egli non fa un esame di quello che abbiamo compiuto, ma del modo con il ci siamo rapportati con Lui. Perché l’essenza della Fede non sta nella dottrina che dobbiamo professare, ma nella nostra adesione alla Persona di Cristo.
L’incontro con Gesù Cristo fino al punto dargli del Tu nasce improvvisamente, ma dobbiamo creare le condizioni perché questo possa avvenire.
Per questo facciamo dei pellegrinaggi, dei cammini come quello della speranza, il Tamaro , per questo dovremo riprendere a fare gli Esercizi Spirituali, perché queste sono le condizioni previe, insostituibili per far rinascere dentro il nostro cuore, nel frastuono della vita il desiderio di scoprire il Mistero di Dio attraverso la Persona di Gesù Cristo.
Siamo troppo soddisfatti nella vita, abbiamo tutto ed è più difficile porci la domanda religiosa e affrontare la Fede non riducendola ad una morale che ci consente di stare bene.
Dobbiamo saper testimoniare Cristo anche nella vita moderna. Dobbiamo uscire dal nostro nascondiglio e ridiventare pellegrini verso un orizzonte più grande del nostro orizzonte personale.
I pellegrini che ci hanno preceduti (quanti milioni con dentro un profondo desiderio di conversione, con una serietà incredibile – e la dobbiamo scoprire anche noi questa serietà nella vita! – al punto da lasciare la loro attività, i loro commerci,la loro casa in balia a chissà chi pur di intraprendere questo lungo cammino in cerca di un orizzonte diverso, nuovo per la loro vita) quei milioni di pellegrini ci devono far riflettere.
Dobbiamo avere anche noi questa serietà perché non diventi una passeggiata e basta.
Il consumismo della società moderna sta nel fare ogni cosa dando sempre un qualche carattere di serietà sportiva o turistico-culturale, ma ci manca la serietà dell’uomo medievale, che sentiva profondamente il bisogno della verità su se stesso e su Dio.
E solo se siamo capaci dì questa serietà riusciremo a sentire veramente l’invito all’incontro che il Signore ci fa, la vocazione che abbiamo dentro.
In quel momento, quando lo incontriamo veramente, riusciamo a capire cosa significa che Cristo è la strada, è Colui che dobbiamo incontrare se vogliamo capire il senso del nostro destino, del nostro vivere, del nostro respirare in modo cosciente.
Quando l’uomo si avvicina liberamente, scegliendo con serietà, a Cristo, Cristo rivela profondamente l’uomo a se stesso.
Noi riusciamo a capire il valore della nostra persona solo se pensiamo al Mistero dell’Incarnazione attraverso il quale il Figlio di Dio ha assunto la nostra storia,la nostra dignità, il nostro essere, la nostra natura è diventato – l’abbiamo letto ieri nella lettera ai Filippesi – è diventato uno di noi. Non ha ritenuto un privilegio quello di rimanere alla destra del Padre, ma si è fatte uomo per rivelarci il Padre e ci ha rivelato, morendo per noi sulla croce, la nostra dignità.
Solo se capiamo veramente queste cose riusciamo a capire il valore reale della nostra persona, che non è filosofico, non è affettivo, non è psicologico solamente, ma è l’essere stati amati da Gesù Cristo e dal Padre fino ai punto da mandare il Figlio affinché morisse in croce. In questo Gesù Cristo è la nostra Via: è la sola possibilità per capire veramente fino in fondo tutta la verità, il senso della nostra persona.
Qualsiasi uomo o donna che capisce questo è redento, salva la vita perché la vive in modo giusto, dentro l’orizzonte vero della verità e dell’essere di Dio.
Nell’Antichità dentro la croce i cristiani scrivevano due parole dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra: la prima parola era “fos” e che vuol dire “luce” la seconda parola era “zoè” che vuol dire “vita”.
Dunque Cristo è la luce e la vita, Cristo che è l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine delle cose.
E’ il riassunto globale: infatti Gesù Cristo ha rivelato tutto quello che Dio intendeva rivelare all’uomo. Dopo Cristo non c’è più stata rivelazione.
Per capire queste cose anche noi, come i discepoli di Emmaus, dobbiamo tornare indietro a Gerusalemme. Come i due che sono tornati dagli Apostoli per avere la conferma di quello che era successo.
Notate bere che hanno riconosciuto Cristo quando hanno spezzato il pane e anche noi ci riconosciamo come fratelli quando celebriamo l’Eucarestia: spezziamo il pane che è il segno attraverso il quale i cristiani si riconoscono, perché è il gesto di comune unione tra di noi con Cristo.
Facciamo la Comunione per significare che i Misteri li celebriamo per la nostra persona non per celebrare qualcosa di semplicemente oggettivo, ma qualcosa che dà significato, che deve incidere sulla nostra persona. (…) Non c’è gesto più vero e più profondamente unitivo del momento della Comunione.
Tornare a Gerusalemme significa che dobbiamo riscoprire la Chiesa come il luogo che ci permette di capire le cose.
Anche San Paolo, dopo la visione di Damasco, è andato a Gerusalemme dagli Apostoli perché la sua certezza interiore, che pur era grandissima, non gli è bastata. Ha dovuto avere la conferma che il suo Vangelo – quello che aveva ricevuto per illuminazione speciale a Damasco – fosse corrispondente a quello degli Apostoli.
Questo passaggio non possiamo saltarlo altrimenti diventa tutto soggettivo e la nostra Fede interiore è incapace di unirci tra di noi se non facciamo capo a quella realtà che è la Chiesa di cui gli Apostoli e Vescovi con il Papa sono i garanti indipendentemente dalla loro santità, garanti oggettivi della verità della nostra Fede. Dobbiamo imparare a tornare alla Chiesa se vogliamo veramente crescere nella Fede.
E tutto questo rigenera la nostra persona, dà nuova identità alla nostra persona che per i 4/5 si identifica con il mondo.
Dobbiamo identificarci con il Mistero di Cristo,che è dentro il Mistero, tante volte meno chiaro della Chiesa. Questa è la Redenzione, la possibilità data all’uomo di riscoprire la verità su se stesso e su Dio.
La Redenzione è questo dono perché Gesù Cristo ci ha rivelato il Padre e rivelando il Padre ha rivelato l’uomo a se stesso, come ha spiegato il Papa nella sua prima Enciclica Cristo Redentore dell’uomo.
1 Il Vescovo Eugenio disse in altra occasione:«Noi dobbiamo collaborare con tutti alla costruzione dei mondo, ma non possiamo lavorare solo per la pace, la giustizia, la salvaguardia del creato. Siamo chiamati prima di tutto ad annunciare Gesù Cristo, la fede in Cristo, unico Salvatore. Poi ci metteremo con il piccone a far la pace, la giustizia e la salvaguardia dei creato. Bisogna lavorare, ma il nostro compito prioritario e insostituibile è annunciare che è Cristo che ci salva.
L’uomo, dopo il suo lavoro dì costruzione della società, deve riconciliarsi comunque con Dio, attraverso Gesù Cristo, e andare a confessarsi lo stesso.
Quando ci saranno la giustizia, la pace e la salvaguardia del mondo, ci sarà ancora il peccato in noi, per cui non si tratta di non collaborare, ma si tratta dì essere coscienti che la missione sarà sempre il nostro compito fondamentale, affinché anche gli altri possano costruire il mondo in modo giusto». (da La missione nello Spirito Santo, 14/XII/1991)
2«Se Gesù Cristo non l’avete incontrato personalmente, se è solo un’idea, un’astrazione, non una persona alla quale ci rivolgiamo, non c’è sequela. C’è una dottrina da imparare. E non si lascia tutto, non si offre la propria vita per una dottrina». (da La moralità, 9 ottobre 1993)
Questa volta inizio ponendovi una domanda che già io e il vostro Assistente ci siamo posti: «Cosa succederà dei ragazzi, dei giovani che stanno seguendo questo corso?». E’ una domanda vera che voi stessi dovete porvi. Diversamente tutto potrebbe ridursi ad una liturgia che non ci cambia. E’ per questo che abbiamo deciso di fare oggi una pausa nella trattazione dei temi: perché possiate. riflettere su quanto sta accadendo in voi 3.
E ancora: «Provate ad affezionarvi a questi incontri del sabato, facendoli diventare qualcosa di irrinunciabile. Se non si fa così, tutto resta aleatorio, in balia del gusto personale. Non possiamo lasciarci determinare dal nostro gusto, dalle nostre voglie; dobbiamo decidere facendo credito ad un’affezione, che non è la voglia, ma tenere a qualcosa più che a tutto il resto» (da La fedeltà agli incontri, 21/IX/1991). verso i mass-media, che hanno il potere di far pensare la gente allo stesso modo, di imbrogliare il cittadino. Noi invece siamo chiamati ad una vita diversa: la conversione tocca questo punto della nostra persona, non è nella esteriorità del nostro comportamento, che pure, comunque, cambierà; ma solo perché ad un certo punto uno comincia a sentire il modo precedente dì comportarsi incompatibile con quello che è lui.
Questi incontri, quindi, devono diventare momenti di conversione, non solo momenti di ascolto. E questo lo diceva già Gesù alla gente che gli andava dietro da mesi, mentre lui predicava. E’ stato per questo che un giorno ha cominciato a narrare una parabola: «Il seminatore uscì a seminare. E mentre seminava una parte dei seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi intenda». (Mt 13)
E’ proprio lo stesso discorso che vi facevo prima: il Signore sentiva che non potevano celebrare delle liturgie di massa, che doveva avvenire un cambiamento nella gente, che la sua parola andava a vuoto per molta gente, oppure attecchiva un po’, ma poi appena sciolta l’assemblea, la massa che si riuniva con lui, ognuno rientrava nella logica dei mondo. Il mondo c’è sempre stato, infatti.
Non è solo la modernità che è contro la fede cristiana: il mondo è un modo di vivere, di agire, di organizzarsi, di strutturare la vita sociale e personale, incompatibile con la natura della nostra persona.
E questo c’è sempre stato; come ci sono sempre stati dei generosi che hanno aderito, che hanno tenuto duro per un po’, ma poi si sono lasciati progressivamente riassorbire dentro la quotidianità del mondo.
«Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta». Questo non dipende più da noi: è la misura di grazia che il Signore ci darà. E guardate che non è una parabola che dobbiamo ascoltare, ma una parabola che dobbiamo verificare dentro di noi, perché altrimenti sprechiamo la Parola di Dio, la sua grazia, la sua presenza, la sua vicinanza. Sarebbe profondamente triste se non riuscissimo a lasciarci invadere dalla Parola del Signore che ci chiama alla conversione. Ma come si fa a non sprecare? E’ certo che non cambiamo così, senza un nostro lavoro. Il lavoro primo, più importante, che precede tutto questo, è quello di cambiare la nostra persona, di diventare creature nuove, quello della nostra conversione intesa come nascita di un orientamento diverso, per cui uno è diverso dentro il suo cuore e quando parla non fa i discorsi che ha imparato a memoria, ma dice quello che sente, dice quello che lo determina, dice il suo modo di essere. Se diventiamo ideologici è finita, perché l’ideologia è un discorso che prescinde da quello che uno vive, è un progetto di vita per gli altri. Possiamo essere ideologici anche noi, non solo i borghesi che hanno messo su il comunismo. Possiamo anche noi fare discorsi cristiani, che però non escono dal nostro cuore, ma sono cose che abbiamo imparato e le diciamo perché ci siamo schierati da una parte. Dobbiamo dire, invece, quello che noi siamo, che noi sentiamo: la parola deve venire fuori dal nostro cuore, come le parole di amore che diciamo, che escono dal nostro cuore. Quello che diciamo all’altro deve uscire così, come espressione di un contenuto che ci siamo acquisiti con un lavoro.
Non basta venire a questi incontri. Il venire qui è l’inizio, il presupposto: poi tornando a casa dovete ripensare un po’ a cosa è avvenuto in voi, venendo qui, ascoltando. Dobbiamo saper percepire queste cose nella nostra vita, se vogliamo essere persone profonde, non superficiali; persone che lavorano su se stesse con determinazione. Dovete saper percepire quello che è avvenuto, che è passato dentro la vostra vita, il vostro cuore. Il discorso dell’ultima volta sulla confessione, ad esempio, in che modo vi ha toccati?
Non dico andare tutti a confessarvi, ma almeno pensare un po’ a quello che è stato finora il vostro modo di confessarvi! Vi siete almeno posti la domanda: «Cosa vuol dire per me confessarmi?»
Il “terreno buono” è proprio questo «cosa vuoi dire per me?» Se uno si pone questa domanda il suo cuore è il terreno buono dove nasce il cento o il sessanta o il trenta, dove nasce qualcosa di nuovo. L’esperienza cristiana (il termine “esperienza” indica quello che uno vive nella sua esistenza: quando di uno si dice che ha una grande esperienza, si vuol dire che facendo delle cose, queste sono diventate parte della sua vita.) vuol dire che la fede deve essere veramente parte della nostra vita, deve essere ciò. da cui noi ricaviamo la forza per vivere. L’esperienza cristiana significa ricavare la nostra vita non dalla società e neanche da quello che ci possono dire la maggior parte dei nostri genitori. E “ricavare la vita” vuol dire che uno vive con dentro qualche cosa che lo riempie, che è suo: la personalità è questa, non è l’essere violenti o stravaganti. La personalità è la capacità di ricavare la vita da una consistenza, da quel punto di appoggio di cui parlava Archimede:
«Datemi un punto di appoggio per la leva e io vi alzo la terra». La fede è la leva della nostra esistenza, è il modo diverso di vedere il nostro destino, i nostri rapporti, la nostra società, tutto: il modo “diverso”, illuminato dalla Rivelazione, dalla conoscenza che abbiamo dei mistero di Dio, del mistero della nostra persona. Perché avvenga tutto questo, però, ci vuole un lavoro, una scuola, la catechesi appunto, che è la scuola della fede, una scuola non fatta solo per apprendere intellettualmente, ma per verificare l’impatto che quello che impariamo ha sulla nostra coscienza, sulla coscienza che abbiamo di noi stessi, e perciò la coscienza che abbiamo degli altri e della vita. La personalità sta nella consapevolezza che abbiamo dei nostro essere cristiani. L’esperienza cristiana è questa; e il lavoro più importante che dobbiamo fare nella vita è il lavoro sulla nostra persona: possiamo avere tutto, ma se non abbiamo in mano noi stessi ci perdiamo, la nostra persona si perde. E questo lavoro dobbiamo cominciare a farlo oggi e non domani. La tentazione più grande,’ infatti, è sempre quella di rimandare; ma uno deve essere se stesso oggi.
E se poi è una scuola, cioè un lavoro, c’è anche un impegno, cioè un metodo. Non illudetevi: crescerete solo se diventate obbedienti ad un metodo di vita cristiana; perché ci vuole sempre un metodo per realizzare qualcosa; non c’è improvvisazione. Se uno non vive la fede, non può improvvisarla alla fine della vita! Una volta si parla-va della “perseveranza cristiana” , e in ogni caso la prima cosa è la fedeltà alle persone che abbiamo incontrato: non potete più considerarvi persone indifferenti fra di voi, estranee, che si trovano per caso e poi basta, altrimenti non nasce la Chiesa. Deve nascere, invece, una comunione fra di voi, una solidarietà fra di voi: è qui che dobbiamo rompere questa resistenza all’abbandono ad una compagnia.
Dal momento che ci siamo incontrati, non possiamo più fare come se non ci fossimo incontrati, perché il Signore ci ha donati gli uni agli altri, anche se è difficile accoglierci per il fatto che il Signore ci ha chiamati tutti assieme: qui c’è la resistenza del mondo, che ha degli slanci di generosità, sì, ma tutto si ferma lì. E questo non basta per i cristiani, per noi: deve nascere la Chiesa! E la Chiesa nasce dal fatto che delle persone capiscono questo che ho detto.
Formare la Chiesa, far nascere questa realtà umana e sociale e profondamente spirituale che è la Chiesa, è la nostra conversione. Con questo uno cambia ed esce dal vortice dei mondo in cui si trova e che lo trascina lo e domina. Il metodo cristiano per prima cosa è questo: la fedeltà all’Incontro che abbiamo fatto negli incontri che facciamo. Questa è la comunione dei santi, dei salvati, cioè. Perché siamo già salvi: dobbiamo solo prenderne coscienza. È importante la fedeltà, però; altrimenti non nascerà mai la Chiesa: nascerà la struttura, nascerà l’organizzazione. Le parrocchie sopravvivono anche se non ci sono cristiani. La struttura sopravvive. Ma noi non siamo una struttura: il cuore della Chiesa si gioca tra di noi.
Questa fedeltà, poi, si traduce in incontri di verifica tra di voi: perché dovete aiutarvi fra di voi a verificare il vostro cammino cristiano. Se non c’è il prete non importa: siete voi che dovete incontrarvi per verificare il vostro cammino, perché aiutarvi a diventare cristiani è il problema da risolvere assieme.
Dovete quindi incontrarvi fra di voi tra una lezione e l’altra, per riprendere quello che avete sentito, che avete scritto, che vi è stato inviato, per cercare di fare entrare tutto questo dentro la vostra vita e la vostra persona. E dovete farlo assieme. Questo cambia la conversazione fra di voi: non è più una conversazione mondana, una conversazione da cooperativa. La gente fa certi discorsi di una inconsistenza, di una meschinità di una immoralità da far spavento! Nessuno ha il coraggio di parlare di sé, della propria vita, dei problemi veri della vita. Certo: oggi c’è la disoccupazione, che è un problema vero; ma è il modo di viverlo che conta, perché uno finisce con l’abbandonarsi alla disperazione più o meno grande per la disoccupazione, in balia di un fatto che lo determina. Questo non è umano: il cristiano dovrebbe avere in mano lui la situazione! Anche il fatto di essere disoccupato. E’ vero: un padre di famiglia che è disoccupato si sente profondamente umiliato; ma, a partire dalla fede che gli permette di leggere la sua situazione, dovrebbe arrivare a tenerla in mano, capendo che quella situazione gli domanda di essere nella vita in modo diverso.
Insomma: dovete aiutarvi a vivere le situazioni, a dare un giudizio su di esse; diventare adulti, iniziare, cioè, ad avere un pensiero vostro; capire che quello che vi sto dicendo potete dirlo voi: ma perché lo sentite voi, non a memoria e per pura ripetizione. È necessario che diventia-te cristiani adulti, che ragionano in modo diverso dal mondo e ne sono consapevoli. Ma, ripeto, questo implica un lavoro su di sé, un lavoro da intraprendere con perseveranza, non si può improvvisare.
Il mondo parla di coerenza, mentre noi siamo e saremo sempre incoerenti, ma la cosa determinate è essere fedeli, perché il Signore è fedele con noi. È molto di più Lui alla nostra persona di quanto noi possiamo esserlo con Lui: in ogni caso. È questo il motivo per cui dobbiamo cercare di essergli fedeli: perché Lui lo è con noi. E ci risiamo col matrimonio che è immagine di tutta l’umanità. Il matrimonio vive di fedeltà! Il marito e la moglie sono chiamati alla fedeltà reciproca: non moralisticamente, ma per gratitudine a Dio di avergli fatto incontrare quella persona.
Quando questo avviene vuol dire che ci si è sposati bene.
Il rapporto tra di voi, allora, deve essere un rapporto di aiuto ad essere cristiani, a convertirvi, a far sì che quello che sentite vi entri nel cuore riempiendovelo di quella gioia, di quel calore che corrisponde al vostro bisogno profondo.
Quando si comincia un rapporto vero lo si sente:
attraverso tutte le forme; anche attraverso forme sbagliate, primitive, direi addirittura tribali. Sentiamo, ad un certo punto, che la Parola di Dio dà la risposta al bisogno più profondo di -vivere: una risposta non istintiva, ma su misura di quel bisogno spirituale più grande. Questo significa che l’esperienza cristiana è la risposta al nostro bisogno più reale. Qui è in gioco la nostra realtà: o siamo veri o non siamo veri! Se bariamo con noi stessi non succede niente: dobbiamo essere veri con noi stessi. Lo stesso sesso non è il primo bisogno: l’istintività è ancora al di sotto dei bisogno più vero dell’uomo, che è appunto quel-lo che dobbiamo scoprire. Dopo anche il sesso cambia.
In conclusione:
– aiutarvi a verificare la verità che vi è stata consegnata;
– avere una grande carità fra di voi;
– non lasciare le persone; avere invece un’attenzione grande e, quando qualcuno non comprende l’avventura che stiamo vivendo, occorre aiutarlo;
– trovarvi a pre g a re con una certa frequenza e regolarità.
Insomma, occorre un minimo di struttura. Se non vi date una struttura finite col non combinare niente, perché non trovate mai il tempo di compiere ciò che siete proposti. Occorre invece una perseverante fedeltà a momenti precisi: questo vale anche per la preghiera, che altrimenti finisce sempre con lo scomparire o con l’essere messa in coda a tutto quello che c’è da fare.
Il peccato sta nel non essere determinati nel lavoro che vi porta ad acquisire una personalità. Decidete di diventare veri in questo per prendere coscienza di quale avvenimento di grazia sta accadendo in voi. Il cristianesimo è un “avvenimento”: è accaduto che Dio ha mandato il suo Figlio nel mondo. E questo fatto dobbiamo assumerlo in noi, come un fatto sconvolgente il pensiero del mondo e che genera qualcosa di diverso nella nostra vita.
3 Il Vescovo insisteva molto nel suo metodo educativo con i ragazzi di ACR sulla fedeltà all’incontro fatto con gli amici di ACR; fedeltà che si concretizzava nei momenti di formazione che si tenevano regolarmente al sabato.«Questa presenza concreta si realizza anche nei nostri incontri. Voi vi siete incontrati perché il Signore lo ha voluto ed ora dovete capire che crescerete nella fede solo se rimarrete uniti tra voi. Nella Chiesa sì può scegliere un’altra compagnia, ma è essenziale trovarne una, perché la Chiesa è essenzialmente la compagnia, che nasce tra le persone che si sono incontrate concretamente e credono in Gesù Cristo. Questo può realizzarsi in tante piccole realtà concrete, come la nostra e dentro una situazione precisa come quella in cui ci troviamo in questo momento. (…). Se non saremo fedeli all’amicizia e alla comunione reciproca, generate da questi Il testo diceva: «Fa’ che la tua Parola e il tuo Corpo facciano nascere in noi creature nuove e ci ringiovaniscano continuamente». Se questo non avviene, è ultimamente peccato. E deve poi avvenire adesso; non dobbiamo, non possiamo rinviare al domani l’occasione più grande. La vita vale oggi e dobbiamo viverla intensamente oggi, non quando saremo più grandi; perché anche allora non lo faremo, se non lo abbiamo fatto oggi. Non ci convertiremo domani, se non è iniziato oggi il cambiamento che deve avvenire nella nostra persona. Convertirsi vuol dire cambiare qualche cosa dentro di noi, dare inizio ad un orientamento diverso della nostra persona: dare inizio ad un orientamento, non diventare subito più bravi.La conversione è qualche cosa di molto più profondo, che prescinde dalla capacità di diventare bravi subito: magari non lo saremo mai! Occorre però cominciare a orientarsi nella vita in modo diverso rispetto alle direttive del mondo: dobbiamo diventare “creature nuove”, che non pensano, non agiscono, non sperano, non amano, non guardano il futuro o il presente, come il mondo. È allora che c’è una novità di vita, altrimenti c’è l’abitudine, scompariamo dentro l’anonimato che il mondo ci domanda di praticare perché così va bene ai potenti, a quelli che sono più forti di noi, che sfruttano l’opinione pubblica, la gente, attraincontri di formazione, andremo dispersi».(da La fedeltà agli incontri, 21/IX/1991)
Se io vi domandassi cosa vuoi dire per voi lasciarsi educare? Che cosa rispondereste? Voi siete abituati ad obbedire o a disubbidire, però non avete mai pensato che voi siete persone in fase di educazione, per cui l’educazione è qualche cosa che deve interessare le vostre persone e dovete avere un’opinione su quello che voi dovete fare, sulla vostra partecipazione alla vostra educazione. C’è qualcuno che vuoi dirmi che rapporto lui ha con la propria educazione? Perché il problema non è solo dall’alto verso il basso: i vostri genitori educano voi, voi magari educate i bambini, i vostri fratellini o i piccoli della prima comunione, ma il problema è dal basso, da voi, verso l’altro, altrimenti l’educazione diventa un’imposizione, vi ribellate e non vi rendete conto di cosa succede: non vi partecipate. E questo non vale solo all’interno della famiglia, ma vale in larghissima misura soprattutto all’interno della Chiesa, qui, perché qui nessuno vi può imporre niente; tocca a voi capire che il Signore vi chiama e vi domanda di lasciarvi educare alla fede. Dovete rendervi conto che l’educazione è qualcosa che c’entra con la vostra persona, che è una cosa bellissima 4.
Se il maestro è grande, lasciarsi educare è una cosa bellissima, siete qui per questo. Cosa vuol dire credere, cosa vuoi dire essere cristiani, cosa vuol dire che siete Chiesa? Vuol dire che siete come nella famiglia,che siete membra della famiglia, e così qui siete qualcuno che appartiene alla comunità dei cristiani, alla Chiesa, e questo si raggiunge solo se si fa un lavoro, e qui stiamo lavorando. Avete lavorato tutta la mattina e stiamo lavorando adesso per fare un passo avanti nella vostra educazione. Dunque non è una conferenza sull’educazione: l’educazione è quello che avviene in voi se prendete sul serio questo momento, se state attenti a quello che avviene, e se quando andate via di qui è successo qualcosa che vi ha fatto cambiare, che vi ha fatto diventare più adulti, perché essere adulti vuoi dire essere persone che cominciano a capire. L’adulto è quello che dovrebbe capire e voi cominciate a fare l’esperienza e siete capaci di ragionare come il vostro papà e la vostra mamma. Quando avevo la vostra età, me ne sono reso conto anch’io, perché potevo capire le cose che capivano i grandi. Ecco, in quel momento uno diventa adulto. (…)
L’educazione è fondata su due cose: adesso qui parliamo della educazione alla fede, all’essere cristiani, soprattutto del sentire qualcuno e dello stare assieme. Perciò voi, quando pensate: ”Adesso cosa devo fare?”, è importante capire che dovete seguire e che in quel seguire voi crescete.
1. Leggiamo un episodio del Vangelo che è chiarissimo da cui non possiamo scappare ed è di una chiarezza assoluta (Mt, 19, 16-22).
«Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: “Maestro”». Maestro è la base dell’educazione: qualcuno che insegna, che è bravo. Trovare un maestro bravo, a scuola, o un genitore, un parente, un ragazzo più grande che ci fa capire è una fortuna. «Maestro, che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?». Questo uomo aveva dentro il desiderio di capire che cosa doveva fare. Voi ce l’avete il desiderio di capire che cosa dovete fare? Questo è l’inizio di tutto, io devo diventare adulto/adulta, so che sono battezzato, ho ricevuto la Cresima, ho ricevuto lo Spirito Santo, ma adesso cosa devo fare? Il desiderio deve nascere in voi perché anche voi dovete chiedere al Signore che cosa dovete fare di buono per entrare nel regno dei Cieli. Se manca questo desiderio è finita. Il desiderio di sapere cosa dobbiamo fare assieme. Voi siete qui, ma potevate andare a sciare in una giornata così splendida. Ma siete venuti qui, dunque dentro voi c’è un desiderio.
Gesù rispose: «Perché mi fai una domanda su ciò che è buono? Dio solo è buono». È un passaggio un po’ difficile, perché Gesù vuoi far capire che non possiamo decidere noi, e neanche il maestro, che cosa è buono e che cosa è cattivo, perché sono cose che si trovano nel mistero di Dio.
Qui sentite una coda dell’episodio dei Paradiso Terrestre, dell’albero del bene e dei male: Adamo ed Eva pensavano che mangiando un frutto dell’albero del bene e dei male potessero decidere da loro cos’era il buono e cos’era il cattivo nella vita. È nel mistero di Dio che comprendiamo cosa è giusto e cosa non è giusto, non possiamo deciderlo secondo quello che ci piace di più, secondo un nostro ragionamento o tanto meno secondo un nostro capriccio. Solo Dio sa cosa è il bene e cosa è il male. Noi, semmai, dobbiamo impararlo da lui e dobbiamo metterci in ascolto, dobbiamo educarci.
Allora Gesù disse: «Se vuoi entrare nella vita osserva i Comandamenti». Puoi entrare in quel mondo dove si vive secondo la conoscenza della verità, non secondo le leggi della società; ma, per esempio, secondo le Beatitudini o i Comandamenti.
I Comandamenti sono il minimo per vivere civilmente tra noi, Perché se ci rubiamo a vicenda, se ci rubiamo le donne o gli uomini a vicenda, se ci mentiamo, se non preghiamo assieme, diventiamo dei barbari. In Bosnia sta succedendo esattamente questo fenomeno. Se vuoi entrare nel regno dei cieli, dunque se vuoi entrare nella vita e vivere ed essere felice nel vivere, osserva i Comandamenti: è il minimo per fare che la vita non diventi una cosa impossibile nella quale noi ci disperiamo. E l’uomo chiese:
«Quali Comandamenti?». Gesù rispose: «Non uccidere. non commettere adulterio. non rubare. non dire il fal-so contro nessuno. onora il padre e la madre. ama il prossimo tuo come te stesso».
[…] E il giovane disse: «Io ho sempre ubbidito a tutti questi Comandamenti: che cosa mi manca ancora?». Il giovane dunque capiva che ci voleva qualche cosa di più poiché egli osservava già i Comandamenti, E Gesù gli rispose: «se vuoi essere perfetto vai a vendere tutto quello che hai. e i soldi che hai dalli ai poveri». Voi avete un sacco di cose da vendere, anche se non possedete niente, Per esempio avete venduto una giornata di sci, oggi. Voi potete distaccarvi, lo sapete benissimo, da tante cose, potete essere liberi. Non vuol necessariamente dire buttarle via.
Continuò Gesù: «E avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». Vieni e seguimi: noi siamo chiamati a seguire il Signore, voi siete chiamati a seguire chi ha una fede più matura di voi, per imparare, Noi dobbiamo lasciarci fare, che è più che osservare i Comandamenti. Il fondamento dell’educazione è questo; quando vi accorgete che i vostri genitori non vi educano, è perché vi accorgete che non hanno molto da dirvi che possa essere imitato, quando a scuola vi rendete conto che i vostri insegnanti hanno poco da dirvi. è perché vi accorgete che loro non sono qualcuno.
Ma poi trovate quelle persone che sono qualcuno che hanno dentro una carica e che vi vogliono bene, perché il fondamento dell’educazione è voler bene. Vi rendete conto di cosa significa voler bene a qualsiasi persona che si incontra, anche se non ci piace? Appassionarvi alle persone, non lasciarvi tradire dalle simpatie o antipatie naturali. Questo soprattutto tra ragazzo e ragazza: prima di pensare al ragazzo o alla ragazza dovete imparare a volervi bene tutti. Dopo, magari, scattano delle scintille particolari. Volervi bene perché sentite di avere un destino comune nel Signore che vi chiama tutti assieme.
2. E così arriviamo al secondo elemento dell’educazione: lo stare assieme.
Adesso voi dovete rendervi conto che siete in fase di educazione, perciò dovete capire che è qualcosa che non vi impone nessuno, ma che è per voi. Voi dovete lasciarvi educare per diventare adulti, dovete seguire qualcuno, come i bambini hanno seguito Gesù. «Vieni e seguimi»: questo è il fondamento di ogni educazione umana ed è il fondamento dell’educazione alla fede, perché la fede non cambia la struttura delle persone.
La fede è per l’uomo, per cui, per educarvi alla fede dovete seguire qualcuno, così come il bambino segue sua madre. Avete già visto una mamma con un bambino a spasso? Che spettacolo! Il bambino è lì e guarda la mamma e se si allontana torna indietro, ma il punto di riferimento è la mamma. Abbiamo bisogno di lasciarci educare, e il Signore deve diventare il nostro maestro comune, Il nostro punto dl riferimento comune, anche quando stiamo facendo altre cose, quando studiamo, quando giochiamo, quando andiamo a sciare, non solo quando siamo qui. Quando siamo qui è come se dessimo la mano alla mamma, quando andiamo a sciare siamo come il bambino che si allontana e però sente che il punto di riferimento di quello che sta facendo è sempre la mamma. Possiamo fare tutto, possiamo andare a sciare, studiare, lavorare, educare, sposarci, far crescere una famiglia, però sempre restando mano nella mano col Signore. Il Signore deve diventare il punto di riferimento di quello che facciamo.
C’è l’episodio di Giovanni e Andrea, che erano discepoli di Giovanni il Battista, che aveva cominciato a predicare prima di Gesù per preparare la gente alla venuta di Gesù, perché fosse pronta interiormente per capire che Gesù non era solo un profeta. Un giorno Giovanni il Battista vide in mezzo alla folla Gesù che ascoltava, e disse a tutti che Egli era colui che doveva venire dopo di lui, il Messia, il Salvatore. «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29). Giovanni e Andrea andarono dietro a Gesù e quando Gesù uscì per tornare al proprio paese i discepoli gli corsero dietro e gli chiesero dove abitasse.. Gesù disse loro di andare con lui. Gesù non ha detto di essere il Messia il Figlio di Dio, bensì:
«Vieni e seguimi». I due andarono e restarono con lui fino alle quattro dei pomeriggio. Voi dovete capire e lasciarvi educare perché voi dovete educare gli altri, i vostri compagni, quelli che non sono venuti, quando sarete grandi educherete i vostri figli. Se volete bene alla gente dovete cercare dl educare chiunque. Educare vuol dire aiutare a diventare più grandi nella fede. il fondamento di tutto è:
«Vieni e seguimi».
Dovete lasciarvi coinvolgere. La gente che non si lascia mai coinvolgere da nessuno, sta sempre sulle sue, diventa gente strana, poco umana, perché non ha rapporti. La nostra umanità vuoi essere coinvolta da qualcosa di bello, perché ci piace essere coinvolti, Se andate ad una festa e siete tagliati fuori tornate via col muso, con la “depressione della domenica sera” Su questo punto dovete avere la chiarezza assoluta, e quando vi confessate dovete confessarvi di queste cose, non delle inutilità che esponete. Dovete confessarvi di queste cose fondamentali, di essere stati autonomi, di non aver ascoltato, di aver fatto di propria testa, come nella canzone insensata di Frank Sinatra: «I did it my way»,5 «Faccio di testa mia!» (al presente): un programma di autodistruzione della gente, e la nostra civiltà, è fatta su queste cose. Vi rendete conto che essere cristiani vuoi dire fare le cose in modo diverso da quello che capita? Poiché il Signore non ha detto: «Fa di tua testa», ma ha detto che se si vuole essere perfetti, se si vuole raggiungere il massimo della felicità e della goduria della vita bisogna andare e seguirlo. Questo è educare e lasciarsi educare, Voi vi dovete confrontare su questo: queste sono le cose da confessare, perché voi dovete imparare a confessarvi sulle cose vere della vita: è li che sbagliamo, non sulle cose marginali.
Secondo principio, dopo quello della sequela interiore dell’ascolto (perché non è l’obbedire, è l‘ascoltare dentro il cuore ciò che conta, essere attenti a captare la verità nelle parole che sono dette e capire se sono vere per noi stessi) è, dunque, lo stare insieme, perché la comunione tra di noi ci educa. È la migliore psichiatria dei mondo: se ci vogliamo bene, stiamo assieme e ci aiutiamo non abbiamo bisogno dello psichiatra, perché creiamo un ambiente umano. La Chiesa è il mistero della comunione che esiste tra le persone perché si sentono tutte partecipi dello stesso Signore che seguono.
Dentro a questa partecipazione nasce una sottile euforia di vivere che altrimenti non ci sarebbe. Questa è la felicità: noi vogliamo essere felici nella vita, e per raggiungere questo dobbiamo fare come i primi cristiani che si sono messi assieme, È spontaneo: tutti crediamo nello stesso Signore e maestro che seguiamo interiormente e da cui ci lasciamo guidare attraverso la Chiesa, dove c’è anche il Vescovo che vi guida, ci sono i. preti assieme e le persone più adulte che vi aiutano. Cosa c’è di più bello e di più sicuro di non sbagliare e di crescere nel regno dei cieli, nella dinamica delle cose vere, della verità sulla vita, sui rapporti umani, sui rapporti tra i nostri genitori, sui rapporti tra uomo e donna, tra ragazzo e ragazza?
4 Un giovane fece la seguente domanda al Vescovo: “Come animatore devo portare ai ragazzi la mia esperienza di vita oppure devo mettere davanti l’insegnamento della Chiesa?”. Il Vescovo rispose:”Tuti intellettualismi. Dell’esperienza della vita fa parte anche l’insegnamento della Chiesa.{…} Dovete coinvolgerli (i ragzzi) volendo loro bene e dando testimonianza di quello che siete, perché cambi tutto. Perché dopo la cresima molti chiudono con la Chiesa? Perché vogliono vivere e se durante la preparazione non gli abbiamo fatto incontrare un gruppo di amici dove loro possono loro possono vivere e vanno a cercare altrove. Anche noi vogliamo vivere e dobbiamo insegnare alla gente a vivere e a far vedere alla gente che la fede è una vita da trasmettere e non solo una dottrina da insegnare con contenuti diversi da quella della discoteca. I ragazzi vengono per trovare una compagnia che indichi loro un significato portatore di felicità”. (Testimoniare il Signore risorto, 8 febbraio 1992).
5 In altra occasione il Vescovo affermò: «Ci domandiamo: dov’è Cristo dal quale io devo lasciarmi prendere per cambiare e diventare un uomo, una donna diversa? Come posso incontrare veramente Cristo, oggi? Questo è il problema che la gente fatica a risolvere, perché, nella migliore delle ipotesi, riduce il suo rapporto con Cristo a un rapporto individuale, che gestisce come vuole. Così uno cessa di avere un rapporto oggettivo con Cristo, per rimanere determinato solo dalla sua sentimentalità e istintività personale. In questo siamo teleguidati dalla mentalità moderna, espressa nella celebre e stupida frase di Frank Sinatra: <<I did it my way>> («Ho fatto di testa mia».
La parola “Evangelizzazione” deve essere l’orizzonte all’interno dei quale ci muoviamo: è il compito della vita del Cristiano.
Compito che non si può ridurre a questa o quella iniziativa particolare ma deve dare il “senso della vita”, come era per i primi cristiani: altrimenti non coinvolge la nostra persona.
Intere generazioni hanno “evangelizzato” perché avevano capito che proprio in questo impegno consisteva la novità della loro esistenza. Erano una minoranza che si affermava diversa dagli altri, ma non hanno avuto paura, erano profondamente coscienti di dover cambiare il mondo annunciando la risurrezione di Cristo pur non avendo nessun potere, tagliati fuori come erano dalla società di allora e senza alcuna possibilità di favori esterni. Erano inseriti nell’infima fascia della società: ma sapevano benissimo di aver ricevuto da Cristo un mandato preciso:
«Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15).
E avevano compreso che dovevano prima di tutto lasciarsi convertire dalla Parola di Dio.
Ora, dopo quasi duemila anni di storia, l’urgenza dell’evangelizzazione riemerge nella Chiesa, che si rende conto di come sia enorme la sproporzione tra coloro che credono in Gesù Cristo e coloro che non lo conoscono: sproporzione dovuta in gran parte all’esplosione demografica.
All’inizio dei secolo c’era un cristiano su tre, oggi uno su sei. Ci troviamo, più o meno, nella situazione iniziale della Chiesa.
Ci si accorge inoltre che la maggioranza dei cristiani è diventata debole nella fede e incoerente, in balia del mondo. Specialmente in occidente si subisce profondamente l’influsso culturale non cristiano: è come se si assorbisse un modo di vivere che non ha più radici nel Vangelo.
Dobbiamo perciò prima imparare e poi operare in prospettiva della “nuova evangelizzazione”. Si tratta di essere e di vivere tenendo presente questa urgenza: nella famiglia, nella scuola, nei rapporti tra noi, nell’ambiente sociale: è il mandato che ci dà il Signore.
Quando mi trovai in ospedale per delle analisi, per tutto il giorno, tra un esame e l’altro, mi sono trovato solo: ho capito che lo spazio intorno a me si era incredibilmente ristretto e avevo l’impressione che nulla più potesse aiutarmi. E’ stato allora che mi sono detto che se non avessi conosciuto il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo mi sarei sentito smarrito, perché tutto quello che uno ha fatto e fa’ ha senso solo se gli ha permesso e gli permette di conoscere il Mistero. E se uno non lo sa, pur avendo realizzato molto nella vita, si ritrova “perso”.
Evangelizzare significa appunto voler far conoscere e riuscire a far conoscere all’uomo, alla gente, all’umanità l’esistenza del Padre, dei Figlio e dello Spirito Santo (penso alla prima domanda del catechismo), l’Unità e la Trinità di Dio, la Passione, Morte e Risurrezione di Cristo, con tutte le conseguenze che tale conoscenza può avere per la vita umana. Da questo e non viceversa deriva tutto il resto.
1. Nella Lettera ai Colossesi (Col 3, 1-17) l’Apostolo ci dice che, se siamo stati battezzati, il Battesimo ci ha uniti a Cristo Risorto, ci fa membra dei suo corpo: e lo può capire chi ne fa l’esperienza quando prega o riceve la Comunione, comprendendo e vivendo il significato delle parole e del gesto. Siamo uniti al Cristo Risorto, non al Gesù che percorreva la Palestina, siamo in una comunione con Lui che ci porta alla resurrezione.
«… cercate le cose di lassù» (Col 3, 1): cercate cioè il Mistero in cui siete coinvolti. Cristo, assiso alla destra di Dio, inserendoci in sé ci colloca vicinissimi al Padre, nel mistero di Dio. Chiamandoci a pensare “alle cose di lassù e non a quelle della terra” (Col 3, 2), l’Apostolo ci dice che se non conosciamo “le cose di lassù”, l’incarnazione, la morte e la risurrezione di Cristo sarebbero state inutili per la nostra persona e noi continueremmo a dare un senso alla vita in modo mondano, mentre il senso della nostra vita lo dobbiamo aprire nell’orizzonte della nuova evangelizzazione.
Segue, nella Lettera, una serie di precetti: la descrizione di come vive il cristiano. Dobbiamo capire che queste cose sono possibili solo se noi viviamo dentro la conoscenza del Mistero di Cristo: sono possibili solo con la forza che scaturisce dall’adesione a Gesù Cristo che ci possiede.
«Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra… vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito l’uomo nuovo che si rinnova in una conoscenza superiore ad immagine dei suo creatore…»: questa vita nuova in Cristo è possibile se la persona è veramente presa dalla sua appartenenza a Gesù Cristo. Da soli non ne siamo capaci: dobbiamo andare alla radice perché è di lì che nasce in noi un modo diverso di giudicare e di vivere.6
C’è chi si spaventa quando sente questo discorso, perché si domanda come potrà riuscire. Prima di pensare ai poter o non poter riuscire, si tratta di accettare la necessità di quel cambiamento che avviene nel cristiano che si alimenta della convinzione di essere stato concepito nel mistero del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: la persona così cambia, si evangelizza, diventa cioè conforme al Vangelo. Bisogna concepire e vivere la vita non come scelta di decisioni e di atteggiamenti, ma come adesione totale alla persona di Cristo Risorto. La vita consiste in questo rapporto con Lui, da questo, progressivamente scaturiscono le varie conseguenze che magari nemmeno sappiamo condurre fino in fondo. Non tutti infatti raggiungiamo la perfezione alla quale il Signore ci chiama.
La partecipazione ad un ritiro spirituale offre la possibilità di cogliere il punto dal quale partire, di migliorare la coscienza di sé, di scoprire l’importanza dell’incontro con Gesù così come è avvenuto nella propria vita, dell’incontro con Gesù comune a tutti e di chiedersi in che modo quest’incontro con Gesù sia stato accolto.
L’incontro con Gesù deve diventare determinante per noi: e lo diventa nella misura in cui ci abbandoniamo allo Spirito Santo per lasciarci guidare da lui. E’ un cammino da fare insieme, perché, come vi ho detto al “Cammino della Speranza” il Signore ha dato il suo mandato a coloro che lo avevano seguito, non individualmente. Da ciò, tra i Dodici è nata un’unità che continua coi Vescovi, i quali hanno in comune Io stesso mandato di evangelizzare. Anche i cristiani hanno ricevuto il mandato in comu-ne, per cui l’unità tra voi, la solidarietà profonda, sono fondamentali per vivere l’esperienza cristiana. Ognuno deve realizzare questo mandato per se stesso ma non da solo. Attorno a Gesù, infatti, si è formata la comunità dei fedeli, la Chiesa, generata dalla sua persona, in cui sono annullate tutte le divisioni: «non c’è più né greco né giudeo… », ma unicamente la nostra appartenenza a Cristo che va oltre la nostra individualità e che, rispettandola nella sua integrità, anzi esaltandola, tanto meglio la profila quanto più si integra dentro la comunione di tutti i cristiani.
Da un ritiro deve quindi nascere la coscienza di unità tra voi più forte di prima, oltre che una coscienza più profonda della vostra appartenenza a Gesù Cristo, da qui scaturisce poi un progressivo cambiamento nel modo di vivere, che fa del cristiano una persona diversa e nuova nei confronti di chi vive nel mondo.
Evangelizzare vuol dire tutto questo: e noi dobbiamo essere i primi a cambiare mentalità e vita per poter evangelizzare gli altri. Lo scopo della vita è viverla su questa base, cercando di diffondere attorno a noi e di comunicare agli altri tale atteggiamento.
Non abbiamo tempo da perdere, perché ciò che non avviene oggi non possiamo rinviano a domani. Dovete sentire l’importanza di questo momento di vocazione che non si può sprecare, perché è momento di grazia nel quale una persona decide cose grandi e inizia un cammino che la porta chissà dove, magari diritta alla santità. Vivete la vita il più intensamente possibile.
I Santi l’hanno vissuta con la massima intensità, con la più ricca carica spirituale, al di là di manifestazioni che possono piacere o meno. La santità si manifesta con volti diversi secondo la particolare spiritualità del tempo: ma tutti i Santi hanno in comune un’unità interiore e una tensione spirituale che ha reso fortissima e determinata la loro vita nel modo unitario più possibile. E questo è accessibile a tutti.
Nella sua citata lettera, San Paolo dà dei lineamenti di condotta morale. La nostra morale deriva dalla fede: se non viviamo di fede, non possiamo vivere moralmente. La gente ha l’impressione che la Chiesa domandi innanzitutto un comportamento morale, mentre il Signore ci chiede innanzitutto di aver fede in Lui. Solo di qui può nascere un comportamento morale. Comportamento morale che può avere e ha più o meno gravi deviazioni: la fede ci offre il sacramento della penitenza e ci ricupera. E’ il momento nel quale diciamo a Gesù Cristo «credo in Te ma sbaglio, sono debole perché ho poca fede».
Il primo peccato è non cercare Gesù Cristo, non approfondire la sua presenza nella nostra vita: è questo il “peccato originale” che genera la mancanza di unità nella nostra vita e dal quale tutto il resto deriva, provocando una degenerazione progressiva.
La condizione per lasciarci evangelizzare è prima di tutto ricevere in noi la Parola di Dio, vale a dire la persona di Cristo. Ma per aprirci alla Parola di Dio, alla persona di Cristo, bisogna mettere in atto un metodo che ci cambi. Non è facile che la gente lo comprenda: ma è a questo che deve servire un ritiro spirituale, che non è valido soltanto per determinate persone, ma per ogni cristiano che voglia essere cristiano.
In voi quale rinuncia comporta impegnarvi in questo ritiro? Potreste essere altrove, impegnati in cose che potrebbero sembrarvi più importanti e più interessanti, ma siete qui per vivere giornate di vita piena e contenta, giornate felici. Non è forse la felicità che desideriamo nella nostra vita? Ma occorre trovare la strada per arrivare alla felicità e questa strada è appunto in una moralità che si attua progressivamente nella vita: è felice solo la persona che vive bene.
2. L’episodio, raccontato in Atti 3-4, della reazione degli anziani, dei sacerdoti rappresentanti del potere in quel momento in Palestina, rimane impresso nella gente. Di fronte alla franchezza di Pietro e di Giovanni, la reazione è quella di metterli a tacere. Il potere ha paura del fatto cristiano, perché potenzialmente cambia, non si piega alle sue leggi. I cristiani sono – devono essere – sempre i primi a sollevarsi di fronte alla dittatura, perché se uno crede veramente in Gesù Cristo si ribella, sente che ciò che conta è Cristo. In effetti, Pietro e Giovanni dicono: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a Lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». (At 4,19-20)
Questa è parola che viene detta per la prima volta nella storia. Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini: questo il potere lo sa; ne ha fatto mille volte l’esperienza nel corso della storia, da quando questa frase, che ha cambiato la cultura, ha messo in dubbio che l’imperatore, il p o t e re, abbia il diritto di vita o di morte sui suoi sudditi.
Dopo il peccato originale è avvenuta questa involuzione:
l’uomo si è impadronito dell’uomo. E’ la tentazione di sempre: anche nei paesi democratici si cerca di far tacere chi afferma il primato di Dio, o comunque si cerca di stendere un velo di silenzio su tale voce perché disturba.
«Non possiamo tacere ciò che abbiamo visto e ascoltato »: è l’affermazione della priorità di Dio su tutte le cose. E ciò che è capitato in quella circostanza si ripete continuamente, perché è la reazione del mondo di fronte al fatto cristiano. Ve ne potete accorgere anche voi: ieri un ragazzo ha detto che a scuola lo disturbano perché va a Messa.
II mondo ci vuole tutti uguali, per poter meglio imporre la sua concezione di vita, la sua gestione della società.
II diverso disturba e il cristiano, inevitabilmente è diverso:
se non lo è ha perso la sua identità. E’ stato così sin dall’inizio: il mondo ha avuto paura che questa diversità si propagasse e facesse fallire la sua concezione di vita. II potere è anonimo, è la maggioranza, e detiene il potere economico che decide le sorti dell’umanità. Le grandi Società, cominciando dalla Fondazione Rockfeller, hanno finanziato tutte le “Sette” attive in America Latina, per trasformare il cristianesimo in un fatto innocuo. Le sette, infatti, non disturbano più, sono disincarnate dal mondo, invece il cristiano è dentro il mondo, è dentro la società. II cristiano applica il principio dell’Incarnazione: come il Verbo si è fatto carne, così il cristiano deve diventare presenza nel mondo. La setta ha la caratteristica di sottrarsi a questa presenza per rifugiarsi nella preghiera disincarnata da una presenza. E’ questo che ha capito il potere, e ha finanziato le sette, indebolendo la forma più autentica del cristianesimo, che per sua natura finisce sempre col ribellarsi al potere. Gli apostoli l’hanno capito e l’hanno affermato come principio che progressivamente ha cambiato le sorti del mondo. II principe cristiano sapeva benissimo che non poteva assolutamente disporre della vita e della morte dei suoi sudditi, concezione che invece il potere pagano si portava ben radicata dentro. Dico questo per rendervi attenti alla situazione in cui, in modo più o meno esplicito ci troviamo. A volte la gente non vuol sentire parlare di certi argomenti perché disturbano. La gente non capisce cosa ha a che vedere la Persona di Cristo con la vita quotidiana, come se si trattasse di qualcosa che va bene in chiesa o in sagrestia e non oltre, perché disturba. Anche noi, in fondo, ne siamo infastiditi, perché questa presenza contesta quella parte di mondanità, di naturalismo e secolarizzazione, di cui c’è ancora traccia nel nostro modo di vivere. Ieri un ragazzo ha detto che, almeno tra di noi, dovremmo parlare di Gesù Cristo come si parla di calcio. Questo perché la fede riempie la vita, dà contenuti anche alla conversazione. Dovete saper affrontare gli avvenimenti quotidiani a partire dalla fede, imparando ad assumere progressivamente uno stile di vita cristiano, perché c’è molta gente che se ascoltasse la parola giusta che fa sentire la verità, reagirebbe. Ancora ieri, un ragazzo ha detto che quando sente qui gli altri che testimoniano, si chiede perché anche lui non può provare. E se io dicono i ragazzi è vero, perché loro intuiscono cose grandissime e aiutano noi tutti a capire la verità. Infatti il Signore diceva: «Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). Ora “entrare nel regno dei cieli” significa entrare nella conoscenza dei Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, nel mondo della verità su Dio, nell’orizzonte della Rivelazione. E se una persona non è semplice nel cuore, non fa il passo dell’adesione ai contenuti della fede.
6 A Denver il Vescovo affermò: «La prima riflessione ci è proposta da S. Paolo nella II lettera ai Corinzi, 5, 17: “Chi è in Cristo è una nuova creatura. Dobbiamo capire che significa questa frase. Se non comprendiamo questa parola e se questa parola non ci dice nulla, nella vita ci trascineremo a fare i cristiani in qualche modo, ma non saremo quali dobbiamo essere. Confonderemo l’essere cristiani con l’essere tolleranti, bravi ragazzi, ma non saremo cristiani, non avremo dentro dì noi quella specificità e quel tocco per cui chi ci avvicina si accorge: “Questo non è solo un bravo ragazzo, una brava ragazza; questo ha una personalità diversa; ha dentro di sé una umanità affascinante”
Perché i bravi ragazzi sono come quelli che ci sono dappertutto, che non vanno in prigione per la droga o altro, ma non hanno dentro niente che permetta di riconoscere che sono cristiani, che sono stati toccati veramente nella storia della loro persona dall’incontro con Gesù Cristo. Il cristianesimo ci chiama a diventare nuove creature, persone diverse, che hanno dentro all’animo una risonanza, una luce e una forza che si trasmettono agli altri; chi incontra un cristiano veramente radicato nella fede capisce che qualcosa è capitato alla sua persona; qualcosa che “a me non è capitato, perché io non sono così”. “Chi è in Cristo è una nuova creatura”.
Chi è radicato in Cristo? Essere in Cristo vuol dire essere tralci vivi di Lui che è il ceppo; ricevere da Lui la linfa delle nostre energie spirituali e psicologiche, ricevere da Lui una vitalità nuova. La chiamata interiore la riceviamo da Lui. Solo se rispondiamo alla sua chiamata diventiamo creature nuove. Possiamo essere tutti bravissimi, ma dobbiamo diventare cristiani, il che è un’altra cosa.».(da Chi è in Cristo è una nuova creatura, Denver, 11 agosto 1993).
Proviamo a riflettere ed a immaginare l’incontro della Samaritana con Gesù al pozzo di Giacobbe, che esiste ancora oggi, però essendo in territorio occupato, non si può visitare. E’ qua!cosa di straordinario l’incontro. La Samaritana era una poveraccia, però era religiosa e si mette a discutere con Gesù, perché vuol sapere dove si adora Dio. C’era infatti la disputa fra Samaritani e Giudei su questo argomento.
Questa curiosità di capire dove si adora Dio la dobbiamo avere dentro anche noi, per comprendere il mistero nel quale siamo immersi attraverso il Battesimo. La Samaritana vuoi saperlo perché sa che, al di là della sua condotta, questo è ciò che conta e non può sbagliare. Questa passione per la verità, così forte in lei, le permette di scoprire Gesù, quell’uomo che ha osato interrogarla contraddicendo ogni consuetudine. Egli è il Messia. Quell’incontro ha cambiato la sua vita, in quanto ha capito il suo errore.
Questo vale per tutti noi, perché pure noi stiamo incontrando il Signore; la situazione è analoga. La nostra tentazione è di credere che quello che è avvenuto nelle persone citate – Apostoli, Samaritana, Zaccheo, tutte persone che hanno creduto in Gesù – sia una situazione diversa. Invece noi dobbiamo interrogarci, perché lei ha capito dove stava sbagliando, così pure noi dobbiamo capire se l’incontro con Lui è vero e dove dobbiamo cambiare, perché la fede è quella forza che il Signore ci dà se aderiamo alla sua persona; se quando l’incontriamo crediamo in Lui e sentiamo che la cosa più importante dei mondo, come per questa donna, è sapere dove adorare Dio e sapere che la fede è quella forza che deve cambiare la nostra vita.
Dobbiamo essere sinceri con il Signore e capire dove, dentro di noi, non Lo seguiamo, perché abbiamo dentro tanti punti di resistenza, che non sono così gravi come quelli della Samaritana. Questi punti sono: la nostra libertà, la nostra autonomia, il voler fare quello che vogliamo, il voler tentare di conciliare la Sua Persona con il mondo che abbiamo addosso, con il naturismo che abbiamo addosso. Questi sono i punti più profondi di resistenza che abbiamo nei confronti del Signore.
Fatevi sempre venire in mente questa donna, perché è l’esempio di cosa vuoi dire credere. La fede nasce da una curiosità che abbiamo dentro, da un desiderio di capire. Se una persona non è sana dentro di lei e non ha il desiderio di verità, di vivere in modo giusto, non può arrivare a conoscere Gesù Cristo. Questo è il presupposto, ma lo dobbiamo curare, dobbiamo essere sinceri con noi stessi, non basta appartenere a un gruppo per essere veri, dobbiamo sentirci veri dentro la situazione che abbiamo incontrato. Da questo desiderio di verità nasce la possibilità di incontrare il Signore. L’avete già incontrato, dovete solo ripetere questo incontro fino a quando diventa determinante, fino a quando capite che è la cosa più importante della vostra vita. Altrimenti come possiamo dire agli altri ciò che non abbiamo vissuto noi?
Lei, questa donna, è tornata in città dicendo che aveva incontrato il Messia; l’ha detto in modo così pulito, così credibile, da far constatare alla gente che era già cambiata, era già un’altra persona. Hanno creduto al punto da poter dire che ora credevano anche loro, non perché l’aveva detto lei, ma perché loro stessi l’hanno incontrato.
Pensate se tutti i ragazzi che voi incontrate potessero dire che non siete più voi che fate loro credere, ma credono perché in loro l’incontro con Cristo è diventato certezza?
Questo non ha diminuito il rapporto di comunione tra questa donna e tutto il paese, anzi l’ha rafforzato, perché tutti hanno creduto. Lei è stata solo l’occasione. Il prete e voi con i ragazzi dovete essere l’occasione per far nascere l’incontro degli altri nella persona di Gesù Cristo. E’ l’intenzione che vi occuperà in ogni cosa che fate.
Per ogni persona che incontrate abbiate l’intenzione profonda di portarla ad incontrare Gesù Cristo. E Cristo lo si incontra nella preghiera, nei Sacramenti. Lo si incontra nell’unità. Diceva il canto all’inizio: «Come tu nel Padre e il Padre in Te, rendici perfetti nell’unità», infatti, dalla nostra unità la gente capisce che abbiamo incontrato veramente Gesù Cristo.7
L’unità non è possibile senza porre Cristo al centro, senza lasciarci guidare, ognuno personalmente, da Lui. L’unità è il segno più grande della presenza di Cristo in mezzo a noi: l’unità è il segno più sicuro, inequivocabile.
Ogni rottura che avviene tra di voi, ogni piccolo dissidio, ogni rivalità, è segno che qualcuno non ha ancora incontrato Gesù Cristo veramente, perché Egli ci chiama all’unità perfetta, non a un volerci bene generico, bensì all’unità perfetta, vale a dire a un’esperienza che vale più di ogni altra cosa, per realizzare la quale siamo disposti a sacrificare tante altre cose, altrimenti se nessuno sacrifica non è possibile l’unità stessa.
Se ognuno tiene per sé qualche cosa: la propria autonomia, la propria opinione a oltranza, l’unità non è possibile.
Questa sera voi dovete rendervi conto che tutto quello che facciamo dipenderà dalla vostra unità. Se voi sarete uniti, in comunione, non come sono uniti i tifosi di una squadra, ma in comunione in nome di Gesù Cristo, allora quello che state facendo vale la pena e troverete tanti altri ragazzi che vi seguono. Perché il soggetto che annuncia è la Comunità Cristiana, nella quale c’è anche il prete, c’è anche il Vescovo, ma il soggetto che annuncia è la Chiesa. Voi siete un’espressione della Chiesa; quanto più l’unità sarà grande tra di voi, tanto più sarete capaci di far conoscere Gesù Cristo agli altri.
Questo, guardate, è difficile capirlo, ma è il nocciolo di tutta l’esperienza cristiana. Se l’esperienza cristiana non porta all’unità tra i credenti vuoi dire che l’incontro con Gesù Cristo è stato sciupato.
Perciò consegnandovi il Catechismo vi do una missione: quella di andare ad annunciare.
Il Signore nell’ultima Cena prima di inviare gli Apostoli ad annunciare aveva detto: «Dall’unità che ci sarà tra di voi il mondo capirà che il Padre mi ha mandato».
Prima di darvi questa missione ecclesiale, dato che non lo fate per conto vostro come se Cristo vi appartenesse, ma unicamente in nome della Chiesa, di tutti i cristiani, io vi dico: Dovete essere uniti, altrimenti sciuperete ogni cosa.
Purtroppo arriveranno, come sono già arrivate, le difficoltà della comunione tra di voi, sono inevitabili. Non c’è nessuna situazione che ci mette al riparo dalla prova. Allora uno, quando sente la sensazione di disunirsi, deve guardare a Gesù Cristo e domandargli, come ha fatto la Samaritana implicitamente: «Cosa devo fare?» La donna ha capito, l’ha detto lei stessa a Cristo: «Io devo lasciare i miei cinque mariti». Ognuno prima di rompere con l’altro o con gli altri o di dividere deve guardare a Gesù Cristo e domandargli, se l’ha incontrato veramente, cosa deve fare. Se lo interrogate su come comportarvi, significa che lo avete incontrato veramente.
Se lo interrogate per guidarvi, per lasciarvi giudicare allora vuoi dire che la vostra persona ha incontrato Gesù Cristo, perché diventa il suo punto di riferimento. L’incontro con Cristo diventa vincolo di unione con gli altri che l’hanno incontrato, diventa la forza per farlo incontrare alle altre persone, diventa la missione.
La consegna del Catechismo è il gesto di mandare qualcuno, mandare voi in missione nelle vostre parrocchie, nei vostri gruppi ad annunciare Gesù Cristo.
Ma questo è illusorio se, dietro alla persona che annuncia, l’interlocuzione non sente la presenza di una realtà più grande, che fa l’esperienza di Cristo, dunque se non sente che c’è veramente una comunione di persone che si vogliono bene in nome di Gesù Cristo, di quel Cristo che hanno incontrato.
7 Il Vescovo ritorna quasi sempre nella sua pedagogia alla realtà dell’in-contro. L’incontro, quello che riguarda Cristo in particolare, è quel fenomeno esistenziale dove verità, libertà e decisione personale s’incontrano:
«Ma noi non possiamo limitarci, nella migliore delle ipotesi, a pregare individualmente Gesù Cristo, perché Cristo lo incontriamo in un fatto anche più concreto. La nostra preghiera a Gesù Cristo deve inserirsi in un rapporto più globale con Lui.
Non fraintendetemi. Non sto dicendo di non pregare Gesù Cristo, ma che, se facessimo solo questo, non saremmo qui assieme, perché ognuno lo potrebbe fare per conto proprio, equivocando sul suo pregare. L’incontro con Gesù Cristo avviene attraverso la comunione dei cristiani. Non vi siete mai chiesti perché Gesù Cristo non ha scritto una riga, non ha lasciato nessun libro? Noi non siamo una religione fondata sul libro, come invece l’Islam o il Buddismo. C’è una profonda diversità tra il Cristianesimo, l’Islam e il Buddismo. Maometto e Budda non si pongono di fronte ai loro discepoli come la Via, la Verità e la Vita, come persone dal-le quali possiamo attendere la felicità della nostra vita. Sono maestri che hanno insegnato una dottrina da vivere, da praticare, ma loro, personalmente, non c’entrano con la vita dei loro discepoli. Non sono risorti per vivere ancora un rapporto di amicizia con loro. Anche loro hanno cercato “a tentoni” quello che poi hanno insegnato ad altri. Gesù, invece, ha posto la sua Persona come punto di riferimento vivo e reale. Qui sta la differenza profonda. Per questo diciamo che noi non siamo la religione del libro, anche se il libro c’è. Ciò che vale è la persona di Gesù Cristo. Certo, il libro ci aiuta ad incontrare Cristo, che nella concretezza è presente nel gruppo di quelle persone che gli sono diventate amiche.” Da noi il libro è stato scritto dai discepoli, che hanno incontrato Gesù Cristo in carne ed ossa. Gesù ha predicato ed ha riunito attorno a sé e fra loro alcune persone, chehanno avuto l’idea di fissare quello che ricordavano della vita e della predicazione di Cristo. Lui non ci ha lasciato un libro, ma alcune persone: gli Apostoli. E’ nella vita in comune con Lui che negli Apostoli è avvenuta una trasformazione profonda. I Vangeli e gli Atti degli Apostoli certificano, infatti, come il cambiamento dei discepoli sia avvenuto attraverso l’amicizia nata tra loro e Gesù Cristo. Questa è l’originalità assoluta dei Cristianesimo. Anche noi siamo diventati cristiani perché quel primo incontro è andato avanti, infinite volte in modo chiarissimo, altre volte in modo meno chiaro, ma sempre grazie al coinvolgimento di persone in amicizia con altre persone, finché la fede è arrivata a noi e ha toccato la nostra persona.
Dentro questa comunione, noi incontriamo ancora la concretezza oggettiva della persona di Gesù Cristo, garantita, nella sua oggettività, da quanto gli Apostoli hanno scritto, e garantita dalla Tradizione orale della Chiesa, che ha continuato a interpretare in modo autentico ciò che Gesù ha detto e che gli Apostoli hanno scritto». (da Voi che prima eravate non popolo, ora siete popolo di Dio, Denver 12 agosto 1993)
Carissimi giovani,
il Signore chiama sempre. Questa è la prima certezza che ognuno di voi dovrebbe acquisire. Non come principio dottrinale astratto, ma come intima coscienza personale.
Se esistiamo è perché il Signore ci ha chiamati a vivere, ma non genericamente, come semplici emergenze della specie umana. Ci ha chiamati come persone singole ed irripetibili. Ciascuno di noi con il suo volto ed il suo sorriso; con il nome che gli è proprio.
Quando recitiamo il Credo e diciamo «Credo in Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra», non dobbiamo pensare soltanto alla luna. Dobbiamo renderci conto che il cielo e la terra sono stati collocati nello spazio da Dio per permettere a noi uomini di vivere. Non a caso è stata usata nella Bibbia l’immagine del giardino. Il Libro della Genesi, in cui è codificata la memoria più antica dell’umanità, prospetta la creazione dell’uomo come punto culminante della creazione dell’universo.
A questa coscienza stanno arrivando, poco a poco, anche gli scienziati: quelli che una volta parlavano solo del Big-Bang (non quello della City di Londra), come se tutto fosse stato il risultato casuale di un’esplosione iniziale, che poi non si sa bene da dove fosse venuta.
Chissà quanti Big-Bangs hanno fatto trasalire la storia dell’universo, ma quello più intenso è avvenuto ed avviene quando dentro un essere si illumina la luce folgorante della coscienza. La coscienza di esistere.
La psicanalisi cerca disperatamente di scoprire anche in un piccolo feto umano le prime tracce di un’autocoscienza. Senza questa coscienza, attraverso la quale l’uomo si accorge di esistere e di poter parlare con gli altri, perché vede che anche loro sono coscienti, il cielo e la terra sarebbero inutili. Che importa della luna ad un piccolo puddle, al quale ormai siamo soliti mettere anche il corsetto?
La teoria scientifica più recente è quella antropica, perché mette l’uomo al centro di tutto. Sostiene che non è possibile che l’uomo sia nato per una serie infinita di combinazioni casuali e fortunate della materia. Se all’inizio le prime reazioni della materia non fossero state predeterminate da una volontà precisa e consapevole, anche la più piccola diversità nel processo di evoluzione di quegli elementi avrebbe prodotto, sull’arco di miliardi di anni, un esito del cosmo inevitabilmente diverso da quello, che ha permesso all’uomo di svegliarsi un mattino, sorridente, nel paradiso terrestre.
E stato un atto predeterminato di amore del Creatore. San Paolo, infatti, scrive che Dio ha amato, scelto e chiamato, ognuno di noi, anche se siamo miliardi e miliardi, già prima della creazione del mondo stesso. Andate a leg-gere il primo capitolo della Lettera agli Efesini, poiché la Bibbia è il libro più grande della letteratura umana. Da essa possiamo ricavare quello che ognuno di noi deve sapere di se stesso.
Se Dio fin dall’eternità ci ha amati, così da chiamarci a vivere nel tempo, vuoI dire che il valore della nostra esistenza personale coincide con la risposta che noi gli sappiamo dare. Uno vive la pienezza della sua umanità quando prende coscienza del fatto che Dio lo chiama, per entrare in comunicazione con Lui.
La domanda più sbagliata è quella che ripetiamo costantemente ai nostri bambini: «E tu, cosa farai quando sarai grande?». Come se il valore della vita dipendesse dalle nostre scelte, fatte in modo arbitrario ed autonomo nei confronti di Dio. Purtroppo neppure noi cristiani non sappiamo più come porci di fronte ai nostri bambini.
La vera domanda da porre e da porci è quella su cosa il Signore vuole da noi. E la domanda che cambia la nostra vita; cambia il nostro modo di andare in giro in motorino ed il nostro modo di andare a scuola. Uno impara a rincorrere non più solo se stesso, i propri progetti o le proprie voglie, ma ad avventurarsi sulla strada di chi cerca di capire cosa il Signore vuole da lui.
Nessuno, con questi discorsi, deve lasciarsi prendere dal panico, non sapendo, di primo acchito, come trovare la risposta. Potrebbe anche sembrarvi difficile, ma è solo una questione di metodo. Se uno non vive secondo la logica del mondo, ma accetta la logica della fede, che ha ricevuto, e della sua appartenenza alla Chiesa, la risposta, ve lo garantisco, la troverà anche lui.
Il Sinodo, pur avendo a lungo discusso delle vocazioni al sacerdozio, non ha fatto esplicitamente questi discorsi. Ha però esortato tutti i Vescovi ed i preti ad educare la gente a prendere, prima di tutto, coscienza che Dio chiama ognuno di noi alla fede cristiana, sempre ed in qualsiasi luogo.
Quando uno ha progressivamente acquisito la percezione esistenziale e religiosa di essere chiamato da Dio, allora un giorno si accorge che il Signore chiama magari anche lui a diventare prete, oppure a consacrarsi a Dio nella vita religiosa. Parlo anche della vita religiosa consacrata, perché, parlando delle vocazioni sacerdotali, non vorrei che le ragazze credessero di poter farla franca.
Il Signore chiama inevitabilmente anche voi, ragazze, non solo alla fede, ma anche alla vita religiosa. Le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata vanno sempre di pari passo. Quando mancano le une, non ci sono neppure le altre, e viceversa.
Se l’appello interiore di Dio rimane così spesso senza risposta, è perché voi giovani, e noi adulti, manchiamo manchiamo vergognosamente di fede. Nella migliore delle ipotesi riduciamo la vita cristiana all’esigenza estrinseca di praticare una certa morale, e poiché abbiamo, ovviamente, paura della morale, non sentiamo neppure il Signore che, attraverso la Chiesa e come dietro le quinte delle circostanze della vita, ci chiama. Qualche volta basta un incontro, un libro, una compagnia, un attimo di autocoscienza profonda, un bisogno della Chiesa o della società, che emerge in mezzo alla gente che incontriamo; un ideale che balena nel nostro cuore, il desiderio di essere qualche cosa di più, la voce di un Vescovo o del Papa che invitano a vivere in modo più generoso e più grande.
Dio chiama tutti e sempre, verso strade diverse, compresa, evidentemente, anche l’autostrada del matrimonio. Non perché sia più facile, ma perché è quella del grande traffico degli uomini.
Adesso, però, al Sinodo, il tema è quello delle vocazioni al sacerdozio e non di quelle al matrimonio, di cui ha parlato in abbondanza il Sinodo sui laici del 1987.
Se qualcuno credesse che fra venti o cinquant’anni la Chiesa rinuncerà al celibato, è meglio che lasci stare. Rimarrebbe insicuro di se stesso per tutta la vita. Il celibato, a dire il vero, non è né una legge ingiusta, come pensano troppi cristiani, né un valore che può essere messo o tolto come un soprammobile, a seconda dei gusti. State pur certi che è irreversibile.
La Chiesa latina ha avuto il dono di capire il valore del celibato meglio di tutte le altre Chiese. E ormai chiaro, infatti, che anche nelle Chiese cattoliche di rito orientale, così come hanno ripetutamente testimoniato i loro Vescovi, la figura del prete sposato è in via di lenta, ma inesorabile, estinzione.
Si fa sempre più strada l’idea che la testimonianza coerente, nella rinuncia al matrimonio, è a tutte le latitudini il modo più efficace per intaccare la cultura moderna nella banalità del suo edonismo. Un edonismo, le cui espressioni di erotismo sono ormai tali, da intaccare la stessa immagine dell’amore umano. Stiamo, infatti, distruggendo anche il matrimonio, quale unica forma capace di salvare, nella sua integrità, la dignità stessa dell’amore tra l’uomo e la donna.
Non vi siete mai chiesti, perché i vostri genitori hanno divorziato e divorziano in massa? Le statistiche in Svizze-ra parlano ormai di 1 divorzio su 3 matrimoni. Probabilmente non avevano capito fino in fondo che, anche la scelta del partner, deve essere fatta di fronte a Dio, come risposta ad una vocazione: alla chiamata di amare l’altro fino al dono totale della propria persona.
Il prete, poiché accetta, attraverso il Sacramento dell’Ordine, di essere reso partecipe al sacerdozio stesso di Cristo, così da poter agire addirittura in suo nome, deve vivere come Cristo. Gesù ha amato di un amore personale e particolarissimo tutti, indistintamente, fino al sacrificio totale della sua vita, e senza circoscrivere il suo amore e la sua missione in favore di nessuna persona singola.
Le testimonianze dei Vescovi di rito orientale, dell’Est europeo, sono state chiarissime. Hanno confessato che i preti sposati sono stati i primi a non reggere alle oppressioni del regime comunista ed a cedere nei momenti più atroci della paura e della tortura. Avevano moglie e figli cui pensare, e la paura, si sa, è l’esperienza umana più terribile. E per questo che dobbiamo saperli perdonare.
Ma è altrettanto vero che, anche nella nostra società occidentale, le esigenze della famiglia rischiano, compre n s ibilmente, di prevalere sull’esigenza del dono totale della nostra persona in favore degli altri, ad imitazione di Cristo.
Volere o no, la nuova evangelizzazione della nostra società occidentale ormai così profondamente radicata nel bisogno assoluto di sicurezza sociale e nella sua esigenza di possedere, più che di essere, è possibile solo se il clero riscopre fino in fondo la coscienza di essere chiamato a dare una testimonianza di donazione apostolica totale verso tutti.
Cari giovani, la nuova evangelizzazione è il compito che la Chiesa vi assegna oggi. Ha bisogno di voi, perché voi avete tra le mani il futuro dell’umanità. I Vescovi del Sinodo vi ricordano che Dio, alla vigilia del terzo millennio, vi chiama a realizzare questo compito della storia. Un compito che ha bisogno di persone anch’esse grandi nel loro cuore e nella loro mente.
La verginità nel celibato non dovete viverla come una legge imposta dall’alto, ma come scelta della Chiesa, più sicura che mai, di ritenere idonee al presbiterato, per la verità ultima della testimonianza che devono rendere a Cristo, solo quelle persone cui il Signore concede il carisma della castità. E una testimonianza di amore personale e collettiva; una questione di principio, che, come tale, non è distrutta dalle inevitabili e magari troppo frequenti contro-testimonianze date dai singoli. Carisma significa dono dello Spirito Santo. Il Sinodo non ha lasciato nessun dubbio in proposito. Un dono che implica la vocazione ad essere grandi e forti.
La verginità dell’anima implica, senza coincidere con essa necessariamente, la verginità fisica del corpo. Può essere vissuta come virtù, anche da chi non avesse più la verginità del corpo. Virtù deriva dalla parola latina “virtus” che significa “forza”.
Per diventare preti, o consacrarsi a Dio nella vita religiosa, bisogna essere forti nell’anima. Bisogna essere grandi e pieni di ideali. Bisogna avere una grande passione per l’umanità, saper amare la gente che ci circonda, senza voler possedere in proprio nessuna persona, senza deificare tutti i nostri desideri.
È per questo che il celibato, senza gli altri due consigli evangelici dell’obbedienza e della povertà, fatica a reggere. E come essere zoppi e disporre di un’unica stampella.
Il carisma della verginità il Signore lo concede, come dono, a chi lo ascolta. Voi, appartenete ad una generazione di giovani, alla quale il Signore ha dato il dono della preghiera. Vent’anni fa, per convincerne uno a pregare, bisognava fare una lunga battaglia ideologica. Oggi avete un cuore più aperto. Basta che qualcuno abbia il coraggio di invitarvi a partecipare ad un gruppo di preghiera e voi siete lì a vedere cosa succede a pregare.
E stato così ai pellegrinaggi di Santiago e di La Salette; è quanto avviene in certi vicariati ed in certe parrocchie. Avviene da anni nei movimenti ed ora nell’ Azione Cattolica. Vi prego di unirvi a tutti questi gruppi, dove si prega, perché la preghiera è il modo più vero e più semplice per entrare in contatto con il Signore e per scrutare il disegno che Lui ha su di voi.
Nella lettera precedente inviata da Roma e indirizzata a tutti i fedeli, avevo promesso di parlare di due episodi, un po’ confusi, provocati da due alti prelati, che, facendo dichiarazioni sul celibato, hanno riacceso improvvisamente l’interesse dei mass-media per il Sinodo, che in mancanza di scandali era nel frattempo scemato.
Ora, che scrivo a voi giovani, mi sembra tutto superfluo, perché quello che vi ho detto è molto più importante. Vi tocca al centro dell’aspirazione più profonda del vostro cuore: quella di fare qualche cosa di grande.
Mi pare che il Papa abbia citato una volta questa frase di L. Staff: «La libertà è la fatica della grandezza».
La vocazione al sacerdozio ed alla vita religiosa è qualche cosa di grande: coinvolge la vostra libertà e costa perciò la fatica di qualche sacrificio.
Ciò che è certo, è che la natura dell’uomo, quella che sentite così giovane e generosa palpitare dentro il vostro cuore, è incredibilmente ricca; così ricca, che l’esperienza della rinuncia, se fatta per un ideale più grande, le fa toccare i vertici della sua pienezza. Una pienezza umana incomparabile, che si realizza non solo nella vita eterna, ma anche in quel «centuplo quaggiù», che Gesù Cristo ha promesso, nel Vangelo, a chi ha dentro la libertà e la forza d’animo di seguirlo.
Il Signore vi benedica.
In una singolare, ma rallegrante convergenza di vedute con l’ONU, che ha proclamato l’Anno Internazionale della Famiglia, la Chiesa cattolica, attraverso Papa Giovanni Paolo II, ha indicato il tema della famiglia come una delle tappe più importanti della nuova evangelizzazione, in vista del prossimo millennio.
L’attenzione internazionale, tuttavia, è stata paradossalmente monopolizzata, soprattutto in questi ultimi mesi, da altri problemi, come quello dell’aborto o dell’emancipazione femminile, venuti alla ribalta alla Conferenza del Cairo.
Con l’intento di rimanere fedeli al tema, dell’ONU e del Papa, sulla famiglia, l’Unione Internazionale dei Giuristi Cattolici, assieme alla Facoltà Teologica di Lugano, ha organizzato questo Congresso, nella speranza di dare un contributo ad una più precisa comprensione di questa istituzione originaria, assediata ormai da tante altre forme concorrenziali.
In questa prospettiva permettetemi di aprire il nostro Congresso con una breve riflessione.
Da quando, nel XII secolo, è prevalsa la tesi romanistica, sostenuta dalla Sorbona e recepita dal magistero papale contro quella di ascendenza germanica dell’Università di Bologna, secondo cui l’elemento costitutivo del matrimonio non è la copula, bensì il consenso, il pensiero cattolico ha costruito un monumento dottrinale e giuridico che ha quasi i tratti del capolavoro.
In questo secondo millennio della sua storia, la Chiesa ha concentrato l’attenzione legislativa e giurisprudenziale sui contenuti, le finalità e le proprietà del consenso matrimoniale, privilegiando così il matrimonio in fieri, vale a dire l’esame delle condizioni intrinseche ed estrinseche, psicologiche e legali dei coniugi, per contrarre validamente un matrimonio.
Anche il matrimonio in facto esse, in cui, dopo la dichiarazione del consenso sponsale, si sviluppa la famiglia, è sempre stato interpretato da una angolatura che mette in primo piano non il fatto sociale come tale, bensì le singole persone dei coniugi.
Pur secolarizzandone le valenze e sostituendo anche qualche contenuto fondamentale, come quello della indissolubilità con la scindibilità del vincolo, le codificazioni statuali moderne, a cominciare da quella di Napoleone, affascinate dall’impianto normativo canonico, l’hanno preso come modello di riferimento per regolare il matrimonio civile.
Negli ultimi decenni, tuttavia, la normativa statuale sul matrimonio nel mondo occidentale sta allontanandosi sempre più dal modello di riferimento canonico, per assumere come criterio non più il diritto naturale, nei confronti del quale lo stato moderno sente una sempre più grande estraneità, bensì il dato sociologico.
Lo stato moderno, soprattutto quello sociale, ha spostato le priorità. Non è preoccupato di approfondire la natura dell’istituzione del matrimonio in quanto tale, bensì di affrontare il problema della sicurezza e della parità giuridica e socio-economica di altre forme di convivenza umana o di responsabilità parentale, che possono avere parvenze di essere una famiglia.
Di fronte alla rapidissima e spesso stravolgente evoluzione sociale e giuridica in atto nella società civile, anche la Chiesa è chiamata ora, per fedeltà alla sua missione, a chinarsi con attenzione molto più grande, rispetto al passato, sul problema della famiglia in quanto tale, affrontando problematiche nuove e complesse. Tenendo conto del fatto che la famiglia è un’istituzione propria a tutta l’umanità, sia cristiana che non cristiana, la Chiesa, così come ha fatto formulando la propria dottrina sociale, interroga prima di tutto il diritto naturale, espressione della razionalità umana, anche se fosse sorretta dalla fede.
Nelle variegate e spesso penetranti definizioni della famiglia, utilizzate soprattutto dal più recente Magistero papale, emerge quest’ottica giusnaturalista, che potrebbe offrire un punto di convergenza per altre forze intellettuali e politiche della società civile, malgrado la evidente eterogeneità del discorso filosofico e antropologico sviluppatosi nell’età moderna.
Mi si permetta qualche esempio, preso dai documenti del Magistero: la famiglia “è la cellula vitale della società umana”; “il santuario della vita”, “la società primordiale e in un certo senso sovrana”; “l’istituzione fondamentale per la vita di ogni società”; “il primo ambiente umano per la formazione anche interiore dell’uomo”.
La Chiesa, oltre ad esprimersi sul terreno del diritto naturale, è tuttavia chiamata ad off r i re al mondo anche una riflessione più propriamente teologica e perciò profetica.
Ne consegue che essa deve capire prima di tutto cosa è la famiglia all’interno della sua stessa realtà soprannaturale e sociale.
La dottrina canonistica sul matrimonio in fieri o in facto esse e la teologia vera e propria del matrimonio, che sorprendentemente è iniziata, con grandi approfondimenti biblici e dogmatici, solo dopo la prima guerra mondiale, grazie al teologo tedesco M. J. Scheeben, sembrano, tuttavia, non più essere adeguate per affrontare il problema più ampio e complesso della famiglia in quanto tale. Si è trattato, infatti, di una teologia esclusivamente sacramentaria, che, nella linea di S. Paolo, concerneva primariamente le persone dei coniugi. Il nocciolo di questa teologia sta nella affermazione paolina, che, con la loro donazione reciproca e indissolubile, i coniugi cristiani sono chiamati a realizzare nella storia l’amore di Cristo per la Chiesa, per porre nel mondo un segno efficace della Nuova Alleanza.
Il Concilio Vaticano II ha lasciato intravedere una dimensione teologica più ampia, che esplicita comunque la prima. Ha affermato, pur nella precarietà della espressione, che la famiglia è «quasi una Chiesa domestica» (LG 11, 2). Ha così spostato il discorso dal livello sacramentale a quello della realtà sociale della Chiesa, cioè della ecclesiologia.
Il matrimonio non è solo un sacramento, che suggella l’amore personale dei coniugi e in questa finalità quasi si esaurisce, ma è anche una realtà che, sfociando nella famiglia, assume una dimensione socioecclesiale, anche indipendentemente dall’esistenza della prole.
Si tratta di capire cosa significhi che la famiglia è «quasi una Chiesa domestica». Siamo solo agli inizi di questa riflessione, ma alcuni elementi sembrano già delinearsi con chiarezza.
Non si può certo affermare che la famiglia cristiana sia la cellula costitutiva della Chiesa, così come vale per la società civile e per lo Stato.
A differenza della famiglia naturale o civile, dove la vita si trasmette con assoluta certezza, la famiglia cristiana non trasmette necessariamente la fede, poiché quest’ultima rimane sempre un dono gratuito di Dio, fatto ai singoli componenti.
La famiglia non è neppure il luogo in cui si realizza la Chiesa, allo stesso modo in cui la Chiesa universale si invera “nelle e dalle” Chiese particolari (LG, 31, 1); non è, infatti, un nucleo ecclesiale di persone, nel quale la Chiesa è presente con tutti i suoi elementi costitutivi.
La Ecclesia domestica, pur rendendo presente nella quotidianità della vita il segno efficace dell’amore di Cristo per la Chiesa, non è in grado, da sola, di realizzare né la struttura gerarchica della Chiesa, né la dimensione escatologica della stessa, garantita solo dalla pratica radicale dei consigli evangelici con la professione dei voti.
È vero, per contro, e questo è l’elemento fondamentale per il dibattito contemporaneo sulla famiglia, che la famiglia, nella unicità ed esclusività di forma che le è propria, è un’istituzione necessaria e imprescindibile per l’esistenza stessa della Chiesa, pur non essendone il nucleo allo stesso modo che lo è per lo Stato.
La Chiesa, infatti, non esisterebbe senza il sacramento del matrimonio. Non tanto perché il matrimonio è uno dei sette sacramenti istituiti da Cristo, ma perché il matrimonio, che genera la famiglia, è l’unico tra i sette sacramenti a non essere, come ha intuito San Tommaso d’Aquino, unsacramentum tantum. È, in effetti, l’unico tra i sacramenti che ha un precedente reale già esistente nella economia della creazione. Gli altri sacramenti del Nuovo Testamento (se si prescinde forse dal sacerdozio), non hanno, nel Vecchio Testamento o nella storia dell’umanità, una realtà che li precede: sono realtà nuove ed esclusive della economia della redenzione.
Secondo il libro della Genesi l’unione tra l’uomo e la donna è l’evento verso il quale è finalizzata tutta la creazione. Un evento che ha già una dimensione sacra in se stesso, essendo in grado di preannunciare il fatto che l’unione sponsale tra l’uomo e la donna, voluta esplicitamente da Dio creatore, prefigura l’amore di Cristo per la Chiesa.
Il matrimonio in facto esse, cioè la famiglia, è l’unico evento antecedente a Cristo che nella economia della redenzione non avrebbe potuto non diventare sacramento.
La restaurazione in Cristo della natura umana, corrotta dopo il peccato originale, implica in modo imprescindibile la restaurazione, attraverso il sacramento, della istituzione fondamentale verso la quale è finalizzata tutta la creazione dell’uomo e quella della donna, il cui rapporto sponsale è il centro della vicenda umana. «In principio», ha risposto infatti Gesù ai farisei, «non era così» (Mt. 16).
Ciò significa che già dal principio l’istituzione del matrimonio sfugge alla disponibilità dell’uomo, perché è stato posto in essere per diventare segno della incarnazione di Cristo e della redenzione.
Senza il matrimonio l’umanità sarebbe destinata ad estinguersi. Se il matrimonio non avesse assunto la forza e fficace del sacramento, la Chiesa rimarrebbe disincarnata dal mondo e in posizione estrinseca rispetto alla storia della umanità, poiché il sacramento del matrimonio rappresenta il punto di sutura tra la natura e la “sovranatura”.
L’elevazione del matrimonio a sacramento non può, perciò, essere intesa in modo volontaristico, come gesto che Cristo avrebbe potuto anche non compiere. Redimendo l’umanità Cristo ha redento anche l’unione sponsale tra l’uomo e la donna, cui è finalizzata tutta la creazione, conferendo al matrimonio garanzia assoluta di efficacia per la salvezza.
Poiché è l’evento umano in cui avviene la compenetrazione tra l’economia della creazione e quella della redenzione, il matrimonio tra i coniugi redenti dal battesimo assume inevitabilmente lo spessore salvifico del sacramento.
L’imprescindibilità, l’unicità e l’esclusività del sacramento del matrimonio in seno alla esperienza della Chiesa, come unica forma di rapporto spirituale e coniugale totale ed esclusivo tra l’uomo e la donna, è il patrimonio culturale che i cristiani oggi devono saper affermare di fronte all’umanità. Ciò non significa che possano esimersi dall’entrare in merito ai problemi legislativi attuali, che mirano a concedere la parità e la protezione giuridica ad altre forme parentali, o di convivenza, tra persone di sesso diverso o uguale. Convivenze che, non originando dal matrimonio, non possono essere omologate alla famiglia.
Si tratta di ricordare alla memoria dell’umanità il nocciolo del messaggio biblico ed evangelico. La Chiesa, infatti, non è una realtà sociale estrinseca al mondo, ma una realtà sociale immanente all’umanità stessa: una parte dell’umanità, che crede però di essere stata creata da Dio, ha la coscienza di essere stata restaurata e redenta dalla Incarnazione di Cristo e cerca di vivere e rendere plausibile a tutti gli uomini questo mistero di salvezza.
Rammentare, anche nelle riflessioni dottrinali socio-politiche, interreligiose e biotecniche, la collocazione centrale della famiglia nel disegno redentivo di Dio può certamente essere di grande aiuto per una sempre più precisa valutazione della sua natura, delle sue finalità e, perciò, della sua funzione ineliminabile in seno alla società umana.
Cari fratelli e sorelle nel Signore,
I tentativi del pensiero cristiano di trovare un rapporto tra la Santissima Trinità, mistero centrale della nostra fede, e la famiglia sono stati molteplici.
Maurice Blondel ha pensato, per fare un solo esempio, che la specificità della donna nel matrimonio è, per analogia con lo Spirito Santo in seno alla Trinità, quella di porsi come amore unificante tra il padre e i figli.
Per altri, la donna, segno non solo della recettività, ma anche della fecondità, concorre, sempre secondo le nostre timide prospettive umane, alla generazione dei figli, così come, secondo il sentire specifico della teologia cattolica, il Figlio, generato dal Padre, procede in seno alla Trinità anche dallo Spirito Santo.
La coscienza cristiana comune è consapevole, sia pure confusamente, della ascendenza trinitaria della famiglia umana, benché non sia possibile trovare nella stessa un riscontro perfetto della struttura del rapporto tra le persone divine in seno alla Trinità, riscontro evidentemente irripetibile nelle creature.
Dobbiamo accontentarci di un approccio di conoscenza, in cui le uguaglianze e le disuguaglianze tra il mistero del Dio trino e la realtà familiare umana possono essere colte solo per similitudine, poiché, come constata S. Paolo «ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia». (1 Cor 13, 12).
Se la mente umana può procedere solo per analogia, la Scrittura ci offre, per contro, indicazioni preziosissime sul rapporto esistente tra il Mistero trinitario e la famiglia.
Poiché l’unione sponsale tra l’uomo e la donna è il punto culminante verso il quale Dio ha fatto convergere, secondo il racconto biblico, tutta la creazione, essa è investita fin dall’origine di una sacralità che la rende capace di diventare segno da cui l’uomo può risalire alla conoscenza del Dio uno e trino.
Questa struttura sacra e trasparente, insita nell’animo profondo della realtà della famiglia umana, non deriva, infatti, da una semplice partecipazione dell’uomo e della donna alla potenza creativa di Dio, inteso quale ente metafisico supremo, conoscibile anche dalla ragione umana, bensì da una loro partecipazione intima alla fecondità del mistero trinitario, conoscibile solo per fede.
Al di là di tutti i tentativi di trovare in seno alla famiglia umana un riscontro dei rapporti, specifici e irripetibili, esistenti tra le persone della Trinità, è tuttavia profondamente vero che la famiglia racchiude e custodisce in se stessa l’impronta del Dio Uno e Trino: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza».
Nella recente Lettera alle Famiglie (n. 6), Papa Giovanni Paolo II afferma che «Il modello originario della famiglia va ricercato in Dio stesso», poiché «il “Noi divino” costituisce il modello del “noi” umano; di quel “noi”, anzitutto, che è formato dall’uomo e dalla donna, creati a immagine e somiglianza divina».
Anche se questo dovesse essere l’unico elemento rivelato dalla Sacra Scrittura, sarebbe già sufficiente per aiutarci a capire che la nostra esperienza familiare quotidiana non si esaurisce in un rapporto umano di amore tra i suoi membri, ma si inserisce in un orizzonte di dignità e di responsabilità molto più vasto, che lo fa ascendere fino alla trascendenza delle tre persone divine. Il mistero della Trinità è la realtà viva e l’orizzonte in cui prende significato e si svolge il destino della nostra vita personale e familiare.
Esiste, tuttavia, un altro momento centrale della storia della salvezza, in cui il rapporto tra il mistero della TrinItà e la famiglia diventa ancora più esplicito e stringente, rispetto alla primigenia rivelazione della Genesi. La sacra famiglia di Nazareth, infatti, è il primo ambito umano in cui la Trinità si è rivelata al mondo in modo immediato ed esplicito.
Nell’episodio dell’annunciazione, l’angelo Gabriele, per la prima volta in modo inequivocabile nel corso della storia della salvezza, rivela a Maria l’esistenza della Trinità.
L’evangelista Luca mette, infatti, sulle labbra dell’angelo queste parole: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te … perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, e lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo… Lo Spirito Santo scenderà su di te… colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (cfr. Lc 1, 28.30.31-32.35).
Questa stessa rivelazione trova riscontro nel Vangelo di S. Matteo, di cui celebriamo oggi la festa.
Mentre Giuseppe meditava di licenziare segretamente Maria incinta, un angelo di Dio in sogno gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, come tua sposa, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1, 20-21).
Questa appartenenza del figlio di Maria al mistero della Trinità emerge ancora in seno alla famiglia di Nazareth, prima della predicazione pubblica di Gesù. Nell’episodio del suo ritrovamento nel Tempio Gesù risponde a Giuseppe e Maria: «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2, 49).
Pur nella sua specificità e straordinarietà umana, la famiglia di Nazareth è stata il primo ambito in cui la TriniTà ha manifestato la sua esistenza, distinguendo in se stessa l’esistenza di tre Persone. Il mistero dell’esistenza delle tre Persone divine è entrato così, inequivocabilmente, nella storia degli uomini, attraverso la famiglia. Ma ciò non vale soltanto per la famiglia di Nazareth.
Abbiamo già constatato, infatti, che la realtà interpersonale della famiglia umana nasce dal rapporto reciproco di amore e di donazione delle persone che la costituiscono, in cui possiamo intravedere l’immagine del mistero stesso della Trinità.
Poiché la famiglia è il referente umano per conoscere, sia pure «come a tentoni», per ripetere l’espressione usata da S. Paolo sull’Areopago (At 17, 27), il mistero dell’esistenza in Dio di tre Persone, e poiché la famiglia di Nazareth è stata il luogo in cui la comunione delle tre persone divine si è storicamente rivelata, per noi cristiani diventa più che mai evidente, nella situazione di profondo disorientamento della nostra società sull’esperienza familiare, che la famiglia deve riappropriarsi del compito di annunciare ai suoi membri questo mistero, educandoli inoltre a vivere la presenza delle tre Persone divine nella loro esistenza.
Da sempre, l’educazione cristiana in seno alla famiglia è iniziata invitando i bambini al segno della croce: è il segno attraverso il quale il bambino apprende che la sua persona trova la sua origine ultima nel mistero della Trinità.
È il momento nel quale la famiglia esplicita il sacramento del battesimo, attraverso il quale l’uomo viene assunto a partecipare misteriosamente, ma realmente, al mistero del Dio vivente in tre persone: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28, 19).
Il fatto che nella condizione concreta della nostra vita questa consapevolezza non sia certo frequente, non significa che essa possa essere considerata d’importanza secondaria rispetto allo sforzo che tutti i cristiani, degni di questo nome, compiono per vivere una vita morale.
Alla famiglia, nel solco sia pure irripetibile di quella di Nazareth, è affidata, per riprendere quanto scrive Papa Giovanni Paolo II nella Familiaris Consortio (n. 17), «la missione fondamentale di custodire, rivelare e comunicare l’amore agli uomini». E l’amore ha la sua origine nel rapporto delle tre persone divine, in cui trova significato tutta la realtà creata e l’esistenza stessa del genere umano.
La nostre famiglie devono perciò riscoprire questa loro fondamentale missione educativa. Esse sono al servizio della reciproca edificazione dei loro membri.
L’Esortazione apostolica Familiaris Consortio esorta i genitori cristiani ad educare i figli proponendo loro «tutti i contenuti che sono necessari per la graduale maturazione della loro personalità cristiana ed ecclesiale» (n. 39).
Questi contenuti sono riassunti nel segno della Croce, in cui non si rivela solo l’esistenza dei Tre-che-sono UNO e la nostra appartenenza ad essi, ma anche l’incommensurabilità del loro amore per noi uomini.
Se l’Anno della Famiglia aiutasse tutti gli uomini di buona volontà a comprendere la responsabilità che essa comporta per la reciproca educazione dei coniugi e dei figli, non solo dal profilo dello sviluppo naturale, ma anche religioso e cristiano, allora anche per noi credenti non sarà stata una celebrazione inutile.
Si è aperto a Lugano il Congresso sulla Famiglia. Tra i temi più delicati della discussione vi è quello delle molte, crescenti situazioni eterogenee di convivenza, nelle quali il legislatore si sforza di introdurre provvedimenti di tutela, giuridici, economici e morali.
A questi tentativi dobbiamo guardare con attenzione, ma con la consapevolezza nella fede che queste unioni non saranno mai omologabili alla famiglia, e sono perciò una non-famiglia, perché in esse manca radicalmente l’impronta insopprimibile della Trinità.
Da due anni in occasione della celebrazione del Sacramento della Confermazione vi ho resi attenti, cari fratelli e sorelle, al fatto che, per una forte percentuale dei nostri giovani, la Cresima è diventata l’ultimo tributo pagato alla loro formazione religiosa e alla loro partecipazione attiva alla Chiesa.
È ricorrente il fenomeno dei nostri ragazzi e ragazze che, già la domenica dopo aver ricevuto la Confermazione, cessano di frequentare l’assemblea eucaristica. Quasi con noncuranza entrano così a far parte della massa di tutti quei cristiani adulti che, non solo riducono la loro appartenenza alla Chiesa a qualche gesto saltuario, ma vivono inevitabilmente orientati, nel loro comportamento e nelle loro scelte di vita personale. familiare, professionale, culturale e sociale, dai criteri dominanti nella società secolarizzata in cui siamo immersi.
Di questo fenomeno siamo tutti responsabili. Forse i più non se ne rendono conto, perché ritengono di aver compiuto tutto il loro dovere -quello di trasmettere la loro fede ai figli- per il fatto di aver compiuto lo sforzo di portarli fino alla Cresima; altri, pur constatando con delusione i fatti, non hanno il coraggio di reagire.
Non possiamo tuttavia guardare a questo fenomeno della Confermazione, diventata per la maggioranza dei nostri ragazzi Sacramento di abbandono della vita attiva nella Chiesa, isolandolo dal contesto generale.
Ha le sue radici in fatti precedenti, come per esempio il Battesimo, e si manifesta anche in momenti posteriori alla Cresima stessa, come per esempio quando gli sposi, dopo aver scelto di celebrare il Matrimonio davanti alla Chiesa, si allontanano da essa, aspettando il prossimo appuntamento: il Battesimo o la Cresima dei loro figli.
Questo fenomeno è un elemento particolarmente significativo di quel processo di scristianizzazione, nel quale siamo tutti coinvolti e che si propaga rapidamente, approfittando della nostra fede debole.
Una fede che rimane ai margini della nostra vita, anche se spesso, magari più per acquiescenza alla nostra tradizione culturale che per una decisione personale consapevole e profonda, non osiamo staccarci completamente da essa.
II modo con il quale facciamo battezzare i nostri figli rappresenta già il primo atto del quale dovremmo discutere. Spesso, già in questa prima scelta, la nostra coscienza ecclesiale di genitori e di padrini e madrine non ha più la chiarezza necessaria. Ciò si manifesta, o nella mancanza di riflessività e serietà con la quale molti genitori lo affrontano, oppure nel fatto che le famiglie, dopo aver battezzato i loro figli, non si impegnano più ad educarli nella fede. Molti genitori non sanno neppure da che parte incominciare.
Anche dopo la Prima Comunione, che spesso riesce ancora a mobilitare religiosamente le famiglie, i genitori lasciano i loro figli in balia di se stessi, senza offrire nessuna catechesi familiare o extra-scolastica.
Molti genitori, pur avendo dimostrato, anche recentemente, di desiderare l’insegnamento religioso nella scuola, non si preoccupano affatto di accompagnare i loro figli lungo questo difficile cammino. Delegano tutta la loro responsabilità agli insegnanti della scuola, preti e laici, quando non preferiscono addirittura concedere loro la dispensa avvalendosi di motivi spesso banali e contingenti. Con la dispensa spesso così facile, dimostrano di non attribuire all’insegnamento religioso quel valore che lo renderebbe prioritario rispetto ad altre esigenze particolari, poco importanti, come per esempio gli orari scomodi delle lezioni, la scelta dei temi, il disaccordo con l’insegnante di religione.
Con questi precedenti i nostri giovani arrivano al momento della Cresima. E un momento difficile, per l’età e per il fatto che esso coincide con il loro progressivo inserimento nella vita sociale. Una vita sociale che, dal consumismo generale, è preordinata e destinata ad invadere e ad accaparrare tutto il loro tempo libero, così da non più lasciare spazi sufficienti per la formazione religiosa.
In questa situazione, che cosa possiamo ancora sperare, per i nostri figli e per noi, dalla celebrazione della Cresima?
L’anno scorso il Consiglio del Clero e il Consiglio Pastorale Diocesano si sono occupati a lungo della questione.
È risultato evidente che la preparazione a tutti i Sacra- menti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Eucarestia e Confermazione), ma anche al Sacramento del Matrimonio, per il quale negli ultimi dieci anni la Diocesi e i Vicariati hanno fatto indubbi progressi, per fare un salto qualitativo deve essere inserita in uno sforzo più coerente e preciso di nuova evangelizzazione delle nostre comunità ecclesiali. Esse, infatti, stanno perdendo progressivamente la fede, per cui la preparazione ai sacramenti viene spesso affrontata in modo troppo superficiale.
Non potendo affrontare questi problemi contemporaneamente in tutti i settori della pastorale sacramentale, i Consigli diocesani hanno suggerito di incominciare dal Sacramento della Confermazione, ritenuto esposto, più degli altri, ad una pratica troppo superficiale. sia da parte dei ragazzi che delle famiglie.
Ho raccolto i risultati delle riflessioni del Consiglio del Clero e del Consiglio Pastorale nella presente Lettera Pastorale. La affido a tutti voi fedeli, nella speranza di provocare un profondo esame di coscienza.
Qualcuno avrà, senza dubbio, una reazione negativa e proverà molta resistenza, appellandosi alla fin troppo facile e ricorrente domanda: ma perché cambiare se tutto è sempre andato bene così? Il fatto è che, da decenni, la preparazione alla Cresima, nonostante l’impegno profuso, ha mostrato tutti i suoi limiti. Magari non ce ne siamo accorti subito. I risultati emergono però oggi con tanta evidenza che non possiamo più non intervenire.
Nella speranza di aiutarvi a comprendere meglio, farò prima qualche considerazione essenziale sulla natura del Sacramento della Confermazione; poi sulla catechesi e sul modo di impartirla; in seguito sulle responsabilità delle persone adulte, coinvolte nella preparazione e nella celebrazione; da ultimo, sul modo di celebrare la liturgia del Sacramento stesso.
1. La natura del Sacramento della Confermazione
Il dono particolare dello Spirito Santo, promesso da Cristo Signore ed effuso nel giorno di Pentecoste sugli Apostoli, fu dagli stessi Apostoli e dai Vescovi loro successori trasmesso a tutti i battezzati per mezzo del Sacramento della Confermazione.
Con l’aiuto della grazia ricevuta attraverso il Sacramento, i cresimati sono chiamati e aiutati a compiere e a perseguire il cammino della iniziazione cristiana e a diventare veri testimoni di Gesù Cristo, nelle parole e nei fatti: a vivere di conseguenza in modo più intenso anche la loro appartenenza alla Chiesa.
Solitamente la Confermazione viene conferita da noi dopo i primi due Sacramenti dell’iniziazione cristiana: il Battesimo e l’Eucarestia. Deve perciò essere preparata e celebrata tenendo conto del fatto che in essa i nostri giovani compiono, di fatto, l’ultima tappa sacramentale della loro progressiva introduzione all’esperienza della fede e dell’appartenenza ecclesiale.
La Cresima è, infatti, il Sacramento nel quale, grazie al dono dello Spirito Santo, la cui importanza si manifesta nel carattere sacramentale, sono chiamati ad assumere nella loro vita, in modo più cosciente e maturo, il mistero della partecipazione battesimale di tutti i cristiani alla morte e risurrezione di Cristo.
È esigenza fondamentale che, nel lungo cammino di introduzione dei giovani a vivere tutta la loro esistenza terrena e futura immersa nel mistero della salvezza, non avvengano rotture di continuità.
La catechesi impartita dai genitori e dai padrini nell’età infantile, dopo il battesimo, dovrebbe perciò continuare nella famiglia anche dopo la Prima Comunione, ricorrendo in modo sempre più consapevole all’aiuto della Chiesa, attraverso il ministero dei presbiteri e l’opera dei catechisti, fino al momento della preparazione e celebrazione della Confermazione.
Ogni interruzione di questo itinerario educativo alla fede, nei giovani. compromette in loro l’esito spirituale stesso del Sacramento della Confermazione.
La Confermazione non è un punto di arrivo, ma l’inizio di un cammino spirituale ed ecclesiale che impegna per tutta la vita. Quando è conferita, come da noi, in età non più infantile diventa una scelta consapevole, che implica per il cresimando ed esige da lui una conversione personale, ossia un cambiamento nel suo modo di riferirsi a Dio e alla Chiesa proporzionato all’età (cfr. Lettera Pastorale Annunciate il Vangelo 1989, n.10). A questa conversione i cresimandi devono essere progressivamente preparati.
E illusorio sperare che il Sacramento della Confermazione possa da solo, cioè per il semplice fatto di essere ricevuto, provocare automaticamente nella persona del cresimato quella conversione per la quale è conferito lo Spirito Santo.
Egli è chiamato e deve essere aiutato a prendere coscienza, in modo commisurato alla sua età, che la Cresima esige da lui, sia una adesione a livello conoscitivo ed esistenziale al mistero della salvezza in Cristo, sia una decisione più profonda di appartenere alla Chiesa e di coinvolgersi nella vita della comunità cristiana in modo che diventi realmente l’ambito primario della sua esistenza umana e religiosa.
Quando mancano nel cresimando i presupposti e la volontà necessari per ricevere questo Sacramento in modo adeguato alla sua natura e alla sua finalità la Confermazione può essere differita oppure eventualmente anche rifiutata.
D’altra parte, soltanto sei cresimandi diventano più consapevoli del fatto di appartenere alla Chiesa e quindi di poter vivere pienamente la loro fede solo se la vivono in comunione con gli altri fedeli, diventano capaci di realizzare gli impegni assunti nella Confermazione: quelli di diffondere e difendere con le parole e le opere la loro fede, per diventare autentici testimoni di Cristo nella Chiesa e nel mondo.
2. La catechesi ai cresimandi
Nella situazione attuale della nostra Chiesa particolare, in cui la continuità formativa non è di fatto più garantita, se non nei limiti dell’Istruzione religiosa nella scuola, i giovani arrischiano, tra la Prima Comunione e la Cresima, di essere lasciati in balia di se stessi, sia dalla famiglia che dalla comunità cristiana.
In attesa di affrontare anche questa situazione e nell’intento di correre, sia pure provvisoriamente, ai ripari, una catechesi di almeno due anni in preparazione al Sacramento della Confermazione diventa imprescindibile. In ultima analisi ciò che con queste norme dei due anni dobbiamo perseguire è una più profonda istruzione catechetica dei nostri giovani, per supplire almeno in parte alla mancanza di continuità nella catechesi tra la Prima Comunione e la Cresima. Se una tale catechesi parrocchiale esistesse, è evidente che la preparazione immediata alla Confermazione richiederebbe meno tempo.
È ovvio perciò che i cresimandi, nel corso di questa catechesi, devono essere confrontati con una sintesi di tutta la dottrina cristiana, proporzionata alla loro capacità di comprensione e alla loro esperienza di vita sociale. Non devono perciò essere semplicemente istruiti a capire la natura del Sacramento della Confermazione in quanto tale.
È inoltre fondamentale riuscire a rendere i cresimandi coscienti che la fede non è solo un fatto di conoscenza intellettuale e mnemonica dei contenuti del Credo, ma implica per sua natura una nostra adesione affettiva ed esistenziale alla persona di Gesù Cristo. Solo così la fede diventa in noi una fonte di energia e di forza che ci aiuta a vivere in modo diverso tutti gli impegni della nostra esistenza umana.
I cresimandi devono inoltre essere invitati a porsi con libertà e responsabilità, non solo di fronte ai contenuti della fede e perciò verso la persona di Cristo, ma anche a prendere coscienza di essere chiamati a dare testimonianza, come missionari, a Cristo stesso, nella Chiesa e nel mondo.
Questa provocazione dei giovani ad aderire, nel loro intimo, a Gesù Cristo, con un atto che li tocchi interiormente nella loro libertà più profonda, è possibile solo se vengono educati a fare anche un’esperienza concreta di vita ecclesiale. In questa esperienza possono fare la verifica che la fede, per essere vera, deve esprimersi anche secondo quella forma specifica e diversa della vita sociale, propria della comunità cristiana.
Durante i due anni di catechesi i cresimandi devono imparare a partecipare, con i loro compagni e con gli adulti, della parrocchia o di qualsiasi altra comunità, alla vita concreta della comunità ecclesiale.
La catechesi della Confermazione non è perciò riducibile a momenti di apprendimento dottrinale. Deve superare i limiti particolari dell’istruzione religiosa nella scuola, per esigere dai cresimandi di partecipare anche a momenti di preghiera, a ritiri spirituali, a gesti ricreativi e di condivisione della propria vita con quella degli altri ragazzi e ragazze e ad iniziative di carità cristiana.
3. Gli adulti coinvolti nella preparazione
Se i cresimandi sono il primo soggetto di questa iniziazione, da essa non devono restare esclusi i genitori, responsabili principali della educazione alla fede; i padrini e le madrine, corresponsabili di questo itinerario di fede e di vita ecclesiale dei cresimandi, oltre che i responsabili della catechesi sacramentale.
I genitori
Chiedendo il Battesimo dei figli, i genitori si sono impegnati ad essere i loro primi educatori nella fede. Questo compito fondamentale, di per sé, non può essere delegato a nessuno.
I genitori devono perciò essere coinvolti in questo momento così significativo della maturazione umana e cristiana dei loro figli. II loro coinvolgimento dovrà esprimersi nel frequente contatto con il parroco o il sacerdote che segue da vicino la preparazione dei loro figli al Sacramento della Confermazione.
Poiché ogni azione educativa ritorna a vantaggio, prima di tutto, di chi la compie. per molti genitori la Confermazione dei figli deve diventare l’occasione per riprendere più consapevolmente e responsabilmente il loro personale e comune cammino di fede.
Una collaborazione dinamica da parte dei genitori può anche rendere più equilibrata l’eventuale decisione, da parte del parroco assieme ai responsabili della preparazione alla Confermazione, di soprassedere temporaneamente all’ammissione di un candidato alla celebrazione della cresima.
I padrini e le madrine
I padrini e le madrine sono anch’essi, secondo la più antica tradizione ecclesiale, garanti della fede e della decisione dei cresimandi di aderire, tramite il Sacramento della Cresima, a Cristo e alla Chiesa.
Vanno perciò scelti con criteri di ecclesialità e non di pura convenienza familiare o di prestigio, poiché sono chiamati a collaborare con i genitori.
L’autenticità del loro impegno esige che la loro vita risulti esemplare per il giovane, anche nella pratica sacramentale e nella partecipazione alla vita ecclesiale.
Se non si possono reperire persone disposte ad assumere questi impegni. la presentazione dei cresimandi può essere affidata ad un rappresentante della comunità cristiana come, per esempio, ai catechisti.
La Chiesa, nella sua saggezza pastorale, espressa anche in norme canoniche, esige non solo che i padrini e le madrine siano «cattolici», ma che «conducano una vita conforme alla fede e all’incarico che assumono» (can. 874 par. 3).
Dal profilo oggettivo, non è conforme alla vita di fede la situazione dei padrini e delle madrine conviventi o divorziati risposati civilmente. Ne consegue che la loro ammissione a questo compito, che è ecclesiale e non semplicemente familiare, non può essere presa in considerazione.
I responsabili della catechesi
Il primo responsabile della preparazione alla Cresima è il parroco o il presbitero incaricato. Ciò significa che il presbitero, oltre che organizzare ed impartire la catechesi ai cresimandi, seguendoli da vicino, per poter dare una valutazione sulla loro preparazione, deve seguire anche i catechisti, assumendosi la responsabilità della loro preparazione immediata spirituale e dottrinale.
I catechisti e le catechiste devono essere consapevoli di svolgere un ministero affidato loro dalla Chiesa. il mandato conferito dalla Chiesa esplicita, nella loro persona, la responsabilità missionaria ricevuta nel Battesimo e nella Cresima. Oltre ad insegnare la dottrina cristiana ai cresimandi, devono sentirsi chiamati a comunicare loro la propria esperienza di fede ed il loro amore per la Chiesa. È indispensabile che agiscano in stretta collaborazione con il presbitero. condividendone la responsabilità.
ll rapporto di comunione e collaborazione di tutte le persone coinvolte nella catechesi familiare e sacramentale è il primo modello e la prima proposta concreta per iniziare i cresimandi alla fede e alla vita ecclesiale.
La comunità parrocchiale
Anche la comunità parrocchiale deve, in quanto tale, essere educata attraverso la predicazione, o altri mezzi, a sentirsi responsabile dei cresimandi. Deve guardarli con simpatia, interessarsi di loro e sostenerli nella preghiera, aff i nché la Confermazione diventi un evento parrocchiale. atto a inserire i cresimati nella vita cristiana propria degli adulti.
Il parroco o il sacerdote responsabile suscitino perciò l’interesse di tutta la comunità:
– sottolineando l’inizio della preparazione dei cresimandi in una particolare celebrazione domenicale, fatta possibilmente coincidere con l’inizio diocesano e parrocchiale della Scuola della Fede per gli adulti;
– presentando a tutta la comunità i giovani che iniziano questo cammino;
– inserendo, di quando in quando, nelle preghiere dei fedeli un richiamo alla prossima Confermazione;
– diffondendo tra i fedeli sussidi, anche stampati, con riflessioni sul Sacramento.
4. Norme per l’ammissione alla Cresima
Nella situazione attuale di accentuata scristianizzazione, ma anche di mancanza di strumenti pastorali più organici e completi, è tanto più necessario che ogni azione pastorale, anche se settoriale. sia rispettosa della pastorale comune nella prospettiva di una nuova evangelizzazione globale della Chiesa particolare. Ciò domanda una maggiore responsabilità nell’applicazione delle norme o dei criteri elaborati, per i singoli settori pastorali, dai Consigli Diocesani e proposti dal Vescovo, nell’esercizio della sua autorità.
Per l’ammissione al Sacramento della Confermazione le norme pastorali proposte sono le seguenti e vincolano i parroci e i presbiteri incaricati, i catechisti, i genitori, i padrini e le madrine.
– L’età minima dei candidati in linea di principio è quella corrispondente al secondo biennio della scuola media. I parroci, che per motivi rilevanti ritenessero. con i genitori ed i catechisti, di scegliere, nella loro situazione particolare, un altro momento dello sviluppo psicologico ed affettivo dei giovani, possono optare, con il consenso del Vescovo, per il primo biennio della scuola media.
– Non sono ammessi alla catechesi di preparazione alla Cresima i ragazzi e le ragazze che non frequentano l’insegnamento religioso nella scuola.
– I cresimandi, una volta intrapreso liberamente e consapevolmente il cammino di preparazione, dovranno partecipare in modo assiduo alla celebrazione eucaristica domenicale e ad ogni altra iniziativa catechetica, caritativa e comunitaria, prevista dal cammino di preparazione alla Confermazione.
– Il tempo di preparazione si svolgerà, obbligatoriamente per tutti, sull’arco di due anni, con un minimo di 15 incontri catechetici all’anno. La prudenza pastorale dirà se sia meglio conferire il
Sacramento a metà del percorso, oppure al termine di esso.
– I genitori e i padrini, quest’ultimi nella misura del possibile, si faranno carico. con ogni sollecitudine, di tutto ciò che verrà proposto ai loro figli cresimandi, in particolare i ritiri spirituali. Invece di farsi troppo facilmente complici delle loro assenze o dei loro capricci, li aiuteranno a maturare nella fede e a compiere quei sacrifici che potrebbero essere necessari per rinunciare ad eventuali vacanze o ad altri impegni di natura sportiva o sociale.
In modo particolare, i genitori saranno presenti agli incontri organizzati per loro, così da poter partecipare e prepararsi, anche in prima persona, al cammino educativo dei loro figli, dando per primi l’esempio e integrando così meglio tutta la loro famiglia nella comunità cristiana.
La scelta è possibile, sia fatta in accordo con il Vescovo. Il colore dei paramenti sia adeguato.
– I testi biblici vengano spiegati ai cresimandi negli incontri di catechesi.
– I lettori, come in tutte le celebrazioni liturgiche, devono essere adulti, e non bambini, perché la proclamazione della Parola di Dio deve essere seria, dignitosa e comprensibile per l’assemblea.
– La festosità della celebrazione si esprime anche nei canti dell’assemblea, segnalati a tutti. Particolarmente indicati sono quelli del Lodate Dio: i salmi responsoriali e i ritornelli (310 e 311, 614, 204, 735, 773); le acclamazioni al Vangelo (637); la preghiera per i candidati (781); quelli allo Spirito Santo (635, 771, 789, 798, 810. 812, 822, 827, 830, 831, 832); altri canti sono possibili (759, 802, 807, 794, strofe 1 e 3).
– Si preparino, sempre per iscritto, brevi monizioni, per sottolineare il significato dei momenti salienti della celebrazione (alla chiamata dei cresimandi. alla professione di fede, all’imposizione delle mani).
– Dopo la proclamazione del Vangelo e prima dell’omelia, i cresimandi vengono chiamati per nome (anche quando sono molti). Ognuno risponderà biblicamente: «Eccomi!» (e non «presente»), in modo udibile da tutta l’assemblea e alzandosi in piedi.
– La professione di fede non sia ridotta a semplice formalità. Si preceda una monizione che evidenzi lo stretto legame tra Battesimo e Confermazione. Le risposte alle domande del vescovo per il rinnovamento degli impegni battesimali, vengano date unicamente dai cresimandi; l’assemblea confermerà la propria fede con l’Amen conclusivo.
– L’imposizione della mani da parte del Vescovo e dei concelebranti avvenga in grande silenzio e raccoglimento.
Per la crismazione, i candidati si accostino con i padrini e le madrine. che tengono la mano destra sulla loro spalla. Il nome del cresimando venga detto, con voce distinta, dallo stesso o dai padrini. I cresimandi possono anche accedere all’altare per gruppi, chiamati e accompagnati dai rispettivi catechisti.
II canto della crismazione venga iniziato solo dopo che l’assemblea ha sentito ripetere qualche volta la formula sacramentale che l’accompagna.
– Le preghiere dei fedeli siano preparate secondo l’ordine indicato dal messale (per le necessità della Chiesa, per i governanti e la salvezza di tutto il mondo, per quelli che si trovano in difficoltà, per la comunità locale (cfr. M R. n. 46) e siano in armonia con il tempo liturgico e tenendo presente la particolarità della celebrazione.
– L’Ufficio Catechistico Diocesano si preoccuperà di segnalare ai Parroci e ai catechisti i sussidi catechistici adeguati.
– Luogo proprio della celebrazione della Confermazione è la chiesa parrocchiale. Esperienze pastorali già in atto o altre situazioni concrete (numero ridotto dei cresimandi, parroco con responsabilità di più parrocchie, sede scolastica che favorisce già la conoscenza e la solidarietà reciproca dei ragazzi,…) suggeriscono una celebrazione interparrocchiale, quando il numero dei cresimandi e degli accompagnatori non risultasse eccessivo rispetto al luogo della celebrazione.
– In casi particolari e solo con l’esplicito consenso del Vescovo, può essere ammessa la preparazione alla Confermazione ed eventualmente anche la celebrazione del Sacramento, nell’ambito di comunità in grado di garantire le condizioni previste da questa Lettera Pastorale.
5. Norme per la celebrazione liturgica
– L’accoglienza del Vescovo venga organizzata in modo semplice, ma sempre confacente alla circostanza, ad esempio: davanti alla chiesa; in un locale dove lo attendono tutti, o parte dei cresimandi, per accompagnarlo in processione verso la chiesa; oppure con il saluto di un cresimando.
– In chiesa i cresimandi occupino un posto da dove possano seguire attivamente e senza distrazioni tutta la celebrazione. Partecipino anch’essi attivamente alle acclamazioni e al canto. I padrini siano perciò posti, o dietro al gruppo dei cresimandi, o nella fila di banchi del lato opposto, in modo da non nasconderli o distrarli, soprattutto in vista dell’omelia.
– Ai padrini si raccomandi la semplicità e la dignità dell’atteggiamento e del vestito. E auspicabile che si accostino al Sacramento della Penitenza e della Comunione eucaristica. Se non possono o non vogliono farlo sarebbe preferibile che rinunciassero ad assumere questo compito ecclesiale.
– Per favorire il raccoglimento, non si lascino aperte le porte della chiesa. Coloro che partecipano alla liturgia si astengano dal fare fotografie e riprese video. Può essere ammesso un unico fotografo, autorizzato dal parroco.
I testi della Messa, durante il tempo ordinario siano scelti tra quelli del Rituale della Confermazione; nel tempo di Avvento, di Quaresima e di Pasqua, nonché nelle solennità, devono essere quelli propri.
– Alla presentazione dei doni siano i cresimati a portare il pane e il vino all’altare. Vi si possono unire altri doni significativi. Non si dimentichino i poveri e le varie necessità della Chiesa particolare e universale.
– Si può prevedere la comunione al calice, purché i cresimandi siano stati preparati. Anche l’assemblea potrà comunicare al calice, secondo l’opportunità.
– Si eviti qualsiasi movimento o spostamento inutile e disordinato, sia sull’altare che nella navata, per non distrarre l’assemblea e i cresimandi.
Si prepari con cura tutto l’occorrente per la celebrazione. I compiti delle persone addette al servizio dell’altare e all’animazione dell’assemblea vengano assegnati prima della celebrazione.
6. Raccomandazione finale
È soltanto lo Spirito che fa riconoscere che Gesù è il Signore e rende capaci di agire nel Suo nome. E lo stesso Spirito che suggerisce la lode perfetta e fa invocare Dio con il nome di Padre.
Battesimo, Eucaristia e Confermazione sono i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Dobbiamo essere profondamente solleciti – se non vogliamo che la Confermazione diventi il Sacramento di congedo dalla comunità ecclesiale – che i nostri giovani, dopo essere stati iniziati da noi alla vita ecclesiale ed aver ricevuto lo Spirito Santo, non abbandonino la formazione catechetica e la pratica sacramentale, ma rimangano vigili, nell’attesa del ritorno del Signore. Di quel Signore al quale per l’intercessione della Beata Vergine Maria domandiamo forza e benedizione.
1. Un Congresso di verifica
Il presente Congresso non è stato voluto per compiere un atto celebrativo. È un Congresso di verifica. Intende appurare se in Diocesi, oltre al desiderio e magari alla nostalgia, esiste anche una reale determinazione di far rifiorire l’albero ultracentenario dell’Azione Cattolica.
Il primo atto costitutivo dell’Azione Cattolica (=AC) risale al 2 maggio 1868, quando Pio IX approvò lo Statuto in 37 articoli della Società della gioventù cattolica, costituitasi a Bologna alcuni mesi prima per iniziativa di due giovani, Mario Fani di Viterbo e Giovanni Acquaderni di Bologna.
La proposta lanciata con il loro appello era stata quella di federare, a livello nazionale, tutta la realtà della gioventù cattolica. 53 In quel momento le nostre Parrocchie ticinesi appartenevano ancora alle Diocesi italiane di Como e Milano.
Lo spiccato carattere laicale di quel primo nucleo della moderna AC risulta chiaramente dal confronto con le molteplici forme di aggregazione di fedeli, fiorite fino allora anche in Italia, per iniziativa soprattutto di preti o religiosi e dal suo ruolo svolto nella formazione del cosiddettoMovimento cattolico, in sintonia con il Movimento di riorganizzazione dei cattolici, manifestatosi in Europa nella seconda metà del secolo scorso.54
Il legame con la Gerarchia -lo vedremo meglio inseguito- è un dato peculiare dell’AC e fu particolarmente intenso sin dal suo primo sorgere.
La sua originalità rispetto agli altri gruppi, leghe, associazioni, e Congressi, nazionali o internazionali, fu tuttavia la sottolineatura di una sostanziale “autonomia” del laicato. L’organizzazione del laicato su queste basi si dimostrò capace, infatti, di esprimersi, con spirito di iniziativa, di responsabilità e di creatività che, pur non assumendo ancora le caratteristiche dottrinali del Concilio Vaticano II, ha segnato profondamente, con la sua intensa prassi, tutta un’epoca che ha posto, di fatto, le premesse per gli sviluppi ecclesiologici avvenuti ad opera del Concilio stesso.
L’idea di procedere a questa verifica, con l’intento e la speranza di rinnovare lo slancio missionario di tutta la nostra Chiesa particolare, è nata da alcune convinzioni profonde, maturate in questi tre anni di episcopato.
Prima di tutto, la constatazione che una larga proporzione degli adulti, maturi o anziani, ancora regolarmente presenti alle nostre celebrazioni liturgiche domenicali, o agli appuntamenti diocesani, quali i consueti pellegrinaggi, oppure l’apertura e la chiusura dell’Anno Mariano, si è formata tra le fila dell’AC.
Tale constatazione solleva immediatamente una duplice domanda: come riuscire a dare oggi un’analoga salda formazione cristiana alle generazioni più giovani, quelle che si sono disgregate, perché sprovviste di un giudizio di fede e di una pratica religiosa di fronte al dilagare della cultura laicista e consumistica o di fronte all’irruenza ideologica del ‘68?
È possibile, nella Chiesa contemporanea, riformulare un itinerario educativo specifico dell’AC, avente finalità e metodi propri, malgrado la presenza di altre proposte educative forti, come quelle dei nuovi movimenti ecclesiali, nate dal carisma particolare dei loro fondatori?
In secondo luogo, la convinzione, acquisita in seno alla Chiesa universale, dell’insostituibile responsabilità di cui sono investiti i laici nell’edificazione della comunità ecclesiale: «Nelle circostanze attuali – afferma la Christifideles laici (n. 27) – i fedeli laici possono e devono fare moltissimo per la crescita di un’autentica comunione ecclesiale all’interno della loro Parrocchia e per ridestare lo slancio missionario verso i non credenti e verso gli stessi credenti, che hanno abbandonato o affievolito la pratica della vita cristiana”.
Il fedele laico, uomo o donna che sia, è responsabile dell’edificazione della comunione ecclesiale, né più né meno dei fedeli chierici e religiosi. Diversa è solo la modalità specifica di espressione di questa comune responsabilità nell’edificare il Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa.
L’AC è un’associazione laicale e, come tale, deve ritrovare il suo posto esatto all’interno della “nuova stagione associativa” conosciuta dalla Chiesa contemporanea, dopo il Concilio Vaticano II, superando eventualmente qualsiasi atteggiamento di “rivalità”, di “monopolio” o di “esclusione” nei confronti delle altre forme associative, aventi pedagogie diverse.
Che l’AC avesse, e non ha perso, la sua legittimità ad esistere, l’aveva già sottolineato papa Paolo VI, quando non esitò ad affermare che l’AC, grazie alla sua storia, è inserita dal Concilio, con la forza che le viene dalla sua lunga esperienza, nel «disegno… e nel programma operativo della Chiesa».55 Più che un giudizio storico, questo è un giudizio di valore. Vale di conseguenza anche per la nostra Diocesi, dove l’AC vanta una grande tradizione.
La terza convinzione ricomprende le prime due, in un orizzonte più vasto e più fondamentale: è la convinzione profonda ed acuta che urge rievangelizzare la nostra società.
«L’ora è venuta – scrive papa Giovanni Paolo II nella Christifideles laici (n. 34) – per intraprendere una nuova rievangelizzazione. Tanti Paesi e Nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dare origine a comunità di fede vive ed opero- se (come nelle nostre terre ticinesi), sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo. Si tratta, in particolare, dei Paesi e delle Nazioni del cosiddetto Primo mondo…”, dove la vita “è vissuta come se Dio non esistesse. Ora, l’indifferenza religiosa e la totale assenza di significato di Dio per i problemi pratici, ma anche gravi, della vita degli uomini e delle donne non sono meno preoccupanti ed erosivi dell’ateismo dichiarato. Ne va di mezzo la bellezza e l’umanità della vita di questi uomini e di queste donne. Per questo urge rifare il tessuto cristiano della società umana».
La condizione, per Giovanni Paolo II, è chiara, è che si rifaccia prima di tutto “il tessuto delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi Paesi e in queste Nazioni”.
Questo grido di allarme e la consegna data a tutta la Chiesa, alla soglia del terzo millennio, di rievangelizzare la società moderna, non sono – come potrebbero pensare molti scettici – un fatto nuovo nella storia della Chiesa. È una missione che già sessant’anni or sono papa Pio XI aveva affidato proprio all’AC come obiettivo specifico, con toni magari meno drammatici di quelli attuali.56Certo, le ristrutturazioni statutarie date all’AC nei primi decenni del secolo, in vista di tale compito, non erano scevre da implicazioni politiche; in un primo tempo quella legittimista di sostegno del Papa nella “questione romana”; poi, quella di resistenza al potere fascista, incapace di tollerare qualcosa di “diverso”, di “altro” da sé.
Tuttavia, è altrettanto vero che in questo “progetto storico” di papa Pio XI di creare, attraverso l’AC, una presenza critica dei cristiani in seno alla società civile e politica, egemonizzata dalla cultura laicista ed anticlericale, la componente religiosa è sempre stata preminente.57
Lo specifico dell’AC è sempre stato, in primo luogo, quello dell’azione evangelizzatrice, da svolgere, per incominciare, all’interno della Chiesa stessa.
Il programma della nuova evangelizzazione su scala nazionale della società italiana, proposto da Pio XI, aveva assunto il linguaggio caratteristico dell’epoca. Assieme all’idea di “diffondere il Regno di Dio là dove non era stato predicato” appare anche quella di “riparare alle perdite nel Regno già conquistato”.
Oggi, siamo ben lontani dal riproporre con gli stessi termini di allora il compito della nuova evangelizzazione della società. Non si tratta di riconquistare posizioni perdute, bensì di riproporre Cristo al mondo, nella coscienza che il compito fondamentale del cristiano è quello di dare al mondo questa testimonianza.58
Del resto, della situazione religiosa attuale è responsabile, assieme a cento altri fattori, anche l’involuzione conosciuta un po’ ovunque da quel tipo di AC, sintetizzata, in modo emblematico, dalle sorti subite dall’AC francese specializzata.
Un acuto osservatore ha infatti fatto notare che l’AC francese, dopo essere partita da un’enfatizzazione della propria fierezza, è passata, successivamente, dall’idea di conquista del mondo a quella dell’apostolato; dall’apostolato è passata poi alla testimonianza, dalla testimonianza alla presenza nella società e, dalla presenza, al semplice ascolto degli altri.59
Questa posizione di semplice ascolto nei confronti della società e della sua cultura ha suggellato, nell’AC di quegli anni, una progressiva perdita di identità e di capacità propositiva.
Il problema attuale, perciò, non può essere primariamente quello di riorganizzarsi, perché l’inquadramento organizzativo dei fedeli non è mai in grado di supplire alla loro mancanza di fede. Questa conferma ci è data dalle crisi conosciute dall’AC a partire dagli anni ‘60. nonostante l’ipertrofia organizzativa cui era arrivata.
La nuova evangelizzazione, cui oggi l’AC è chiamata a dare il proprio contributo, deve essere pensata prima di tutto come attività pastorale orientata a proporre una conversione personale degli uomini a Cristo, nella fede. Questa proposta di conversione delle persone può avvenire solo se nasce da una testimonianza comune dei cristiani e perciò da un soggetto che gode di un minimo di organicità, dal profilo organizzativo.
L’organizzazione si legittima solo come postulato di quella comunione ecclesiale, che dovrebbe esistere tra i fedeli, dopo aver acquisito la consapevolezza che il loro destino in Cristo è comune. «Ora i fedeli laici – afferma ancora la Christifideles laici – in forza della loro comune partecipazione all’ufficio profetico di Cristo, sono pienamente coinvolti in questo compito della Chiesa». Ad essi tocca in modo particolare testimoniare – a partire dalla propria esperienza personale – che «…tutti gli sforzi che l’umanità va compiendo… trovano piena risposta nell’intervento di Gesù Cristo, Redentore dell’uomo e del mondo».60
Ciò è possibile, afferma ancora l’Esortazione apostolica Christifedeles laici (n.34), riecheggiando laGaudium et spes del Concilio e la Evangelii nuntiandi di Paolo VI, solo se i fedeli laici sapranno superare in se stessi «la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività, in famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità della loro vita».61
Verificare in questo Congresso la possibilità di rilanciare quella forma specifica educativa del laicato, che p rende il nome di AC, non è velleitario, se tale verifica è compiuta tenendo presente le due linee evolutive, che nella Chiesa contemporanea hanno contribuito alla maturazione del laicato.
Innanzitutto la maturazione della teologia del laicato negli ultimi quarant’anni fino alla Christifideles laici; in secondo luogo la maturazione della coscienza di identità avvenuta proprio in seno all’AC italiana, che, oltre ad aver dimostrato la maggiore continuità in Europa, si offre, per ragioni storiche e culturali ovvie, come punto connaturale di riferimento per la nostra esperienza diocesana.
2. La definizione teologica del fedele laico
L’evoluzione della teologia del laicato degli ultimi quarant’anni è stata ampiamente descritta da molti autori negli anni immediatamente precedenti il Sinodo dei Vescovi del 1987, dedicato ai laici.62 Essa sembra essere entrata nella sua quarta fase.
1. La prima fase, quella di rottura, avvenuta nei confronti non tanto della prassi reale dell’AC precedente, quanto piuttosto con la teologia che l’aveva accompagnata, è generalmente fatta incominciare con l’apparizione quasi contemporanea di una serie di opere importanti: prima, del coraggioso volume di Yves Congar Jalons pour une théologie da laicat del 1953, seguito nello stesso anno in Italia dal libro di Spiazzi “La missione dei laici”; poi, un anno dopo, dal volume Le rôle du laicat dans l’Eglise, del Philips, uno dei futuri ispiratori più influenti dell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II.
Pur partendo da premesse diverse, questi autori arrivano ad analoghe conclusioni, così sintetizzabili: il laico, da oggetto passivo di cura e cliente della Chiesa, diventa soggetto responsabile di apostolato.
La sua dignità e il suo ruolo scaturiscono dal Battesimo, che lo fa partecipe del triplice officio di Cristo, mentre il suo apostolato si esplicita specificatamente nell’ambito delle “realtà terrene”, in forza della sua “indole secolare”.
Questa teologia di rottura, ampiamente recepita dal Concilio Vaticano II, benché elaborata dai citati autori in polemica con le precedenti teorizzazioni dottrinali, affonda le sue radici sperimentali nella vastissima esperienza fatta dai laici in seno al “Movimento cattolico” europeo nella seconda metà del secolo scorso e, in particolare, nei ranghi dell’AC, strutturandosi secondo due moduli diversi.
Mentre l’Italia, seguita dall’Austria, dalla Polonia e dalla Spagna, ha organizzato l’AC in modo unitario secondo quattro pilastri, le donne, le ragazze, gli uomini ed i ragazzi, senza distinzioni di ceti, in Francia si è optato per il criterio dell’AC specializzata con un’organizzazione centrale comprendente, come in un cartello, tutte le componenti di categoria.
2. La seconda fase va dal Concilio fino all’inizio degli anni Settanta. È caratterizzata dall’urgenza, spesso più ideologica che teologica, di declericalizzare la Chiesa. La componente ideologica ha condotto inevitabilmente a conclusioni contraddittorie.
Infatti, furono proprio coloro che sostennero con più ardore il processo di declericalizzazione della Chiesa a teorizzare l’attribuzione ai laici di poteri liturgici e pastorali, così ampli, da creare l’illusione, avallata da Karl Rahner 63, di poter assistere alla nascita di un clero laico, sposato, parallelo a quello ordinato e celibe.
L’istanza di declericalizzazione della Chiesa, comprimendo il ruolo esorbitante del clero, è sfociata, per pena di trapasso, in una clericalizzazione del laicato, che disattendeva la sua “indole secolare”.
È contro questo sviluppo falsificante, sia la propria istanza iniziale, sia quella del Concilio, che interviene papa Giovanni Paolo II con il celebre discorso ai preti di tutta la Svizzera tenuto ad Einsiedeln il 15 giugno del 1984, durante il suo viaggio apostolico nel nostro Paese,64 nel quale mette in guardia di fronte al pericolo di una nuova clericalizzazione dei laici.
Il nocciolo della questione dottrinale sta, infatti, nella definizione della cosiddetta “indole secolare” del laico, concetto introdotto dalla Lumen Gentium (n. 31, 2).
L’indole secolare del laico è una dimensione sociologica, oppure teologica? In altri termini, il laico, a differenza del clero e dei fedeli consacrati, è “secolare”, perché vive ed opera, di fatto, nelle strutture del mondo e della società secolarizzata, oppure è “secolare” perché ha come compito primario quello di rappresentare, in veste di primo protagonista, la dimensione secolare di tutta la Chiesa?
Tutta la Chiesa come tale, infatti, ha una dimensione secolare. Non è una realtà soprannaturale che vive ed opera nel mondo come se fosse una sovrastruttura, ma è una realtà soprannaturale, che, vivendo ed operando nel mondo, assume tutta la natura intrinseca alle cose, così come è stata loro conferita dal Creatore.
La Chiesa, infatti, in forza del Battesimo, assume la persona, con tutte le esigenze della sua natura umana; il Battesimo informa ed investe le sue facoltà intellettive e volitive con la luce della fede; informa ed investe tutte le relazioni naturali, costitutive dell’uomo.
Tra queste relazioni naturali alcune sono fondamentali: la relazione sociale con gli altri uomini, fondata sulla libertà di scegliere il modo di organizzare la vita comune; la relazione uomo-donna, il cui esito naturale è il Matrimonio, che, in quanto istituto stabile ed orientato a garantire la continuità del genere umano, è antecedente al Sacramento stesso; la relazione con le cose, fondata sul diritto alla proprietà, tesa a garantire il sostentamento e l’autonomia della famiglia.
Il laico è il fedele che, vivendo fino in fondo questi rapporti naturali, di libertà, di fecondità sessuale e di proprietà patrimoniale, ricorrenti del resto in ogni cultura umana, dà loro un significato storico e salvifico diverso.
In altre parole il fedele laico è chiamato a trasformare o “trasfigurare” queste realtà naturali e terrestri, assumendo il compito di primo responsabile nei confronti di tutta la Chiesa e di rappresentare, perciò, tutti gli altri fedeli che, nella Chiesa, sono investiti di un compito primario diverso.
I chierici, chiamati, in forza dell’ordine sacro, prima di tutto a celebrare sia la Parola che i Sacramenti, ed a garantire, perciò, l’unità interna della comunità ecclesiale.
I fedeli consacrati, i quali, con la pratica dei consigli evangelici, che implicano la rinuncia a vivere secondo le t re relazioni naturali fondamentali, hanno il compito profetico di ricordare a tutti i cristiani che la Salvezza di Cristo non si realizza solo in questo secolo, ma si compie pienamente solo nella vita eterna.
3. La terza fase di evoluzione della teologia del laicato si sovrappone, cronologicamente, alla seconda e si protrae fino al Sinodo dei Vescovi sulla Vocazione e missione dei laici, del 1987. Questa fase di sviluppo è caratterizzata dalla riscoperta dei carismi e dei ministeri. Ciò induce molti teologi a definire il laico come soggetto portatore di carismi e di ministeri, essendo anch’esso, come i chierici e i religiosi, membro a pieno titolo della Chiesa, la quale ha nella sua totalità una dimensione carismatica e ministeriale.
Questo nuovo orientamento della teologia del laicato deve, però, fare i conti con un duplice insegnamento dogmatico del Concilio Vaticano II: sia con la dottrina che i carismi non sono elargiti dallo Spirito Santo solo a fedeli laici (Lumen Gentium, n.12,2); sia con l’affermazione secondo cui tra la dimensione ministeriale inerente al Battesimo, alla Cresima ed al Matrimonio, e quella specifica del Sacramento dell’Ordine, esiste una diversità non solo di quantità, ma di essenza, come insegna sempre il Concilio Vaticano II (Lumen Gentium, n.10,2).65
Se non si tiene conto di questi due punti fermi si arrischia di sovvertire la struttura fondamentale della Chiesa e di clericalizzare un’altra volta, in forme opposte, i fedeli laici. La coscienza di queste insidie dottrinali ha fatto sì che negli ultimi anni l’ardore per tali approcci teologici del laicato si placasse.
4. La quarta fase della teologia del laicato è iniziata con l’Esortazione apostolica Christifideles laici, promulgata quest’anno, ed ha portato alla chiarificazione di tre elementi fondamentali:
– il fatto che il fedele laico, come tutti gli altri fedeli, ha la vocazione di vivere tutta la sua nuova esistenza in Cristo;
– il fatto che questa vocazione è in funzione della missione di annunciare a tutti gli uomini che Gesù Cristo, Redentore dell’uomo, è il «centro del cosmo e della storia» (Redemptor hominis, n.1);
– il fatto, da ultimo, che il fedele laico, quale soggetto corresponsabile di questa missione universale nella Chiesa, deve assumerla secondo una modalità diversa, rispetto ai chierici ed ai religiosi: quella della secolarità.
Tale diversità si esprime nel fatto che il fedele laico vive la sua vocazione e la sua missione, arrischiando la propria libertà nella scelta della professione e dei mezzi per organizzare la propria vita sociale, culturale e politica; nell’assunzione del rapporto uomo-donna in vista della propria autorealizzazione e della continuità del genere umano; nel possesso dei beni della terra, in funzione della realizzazione di tutti questi compiti.
65 Cfr. pure PO 2.
Questi sono i termini positivi con cui il fedele laico deve essere definito, per prendere sul serio laChristifideles laici, che rinuncia a definire il fedele laico negativamente, solo come colui che non ha ricevuto l’Ordine sacro, ma lo definisce positivamente, affermando che l’indole secolare è una sua qualità peculiare e specifica, di natura non solo «antropologica e sociologica, bensì specificatamente teologica ed ecclesiale» (n.15).
3. La partecipazione del laico alla missione della Chiesa attraverso la vita associata
Fatte queste premesse teologiche sull’identità del fedele laico e sulla sua vocazione personale all’apostolato, secondo la dimensione della sua “indole secolare”, si pone il problema della natura e del senso della realizzazione comunitaria o associata di questa vocazione da parte dei fedeli laici.
Il tema particolare, che oggi ci sta più a cuore, infatti, è quello del significato dell’associarsi di fedeli laici secondo la modalità specifica dell’ “Azione Cattolica”. Come noto, l’AC è un’associazione laicale che storicamente e dottrinalmente si distingue dalle altre forme ecclesiali di vita associativa, non solo antiche, come ad esempio le confraternite, ma anche moderne, come per esempio i nuovi movimenti ecclesiali.
Premessa «assoluta necessità dell’apostolato della singola persona» (n.28), la Christifideles laiciafferma esplicitamente che «la comunione ecclesiale, già presente ed operante nell’azione della singola persona, trova una sua specifica espressione nell’operare associato dei fedeli laici, ossia nell’azione solidale da essi svolta nel partecipare responsabilmente alla vita e alla missione della Chiesa» (n.29).
Ciò significa che la pluralità di forme associative, caratterizzante la “nuova stagione aggregativa dei fedeli laici”, cui assistiamo, deve essere valutata in se stessa come un fatto estremamente positivo. Essa dimostra, inoltre, come la Chiesa, quando è docile all’azione dello Spirito Santo, sia capace di inserirsi con grande duttilità e creatività nel variegato tessuto sociale e culturale che la circonda.
È opportuno, prima di tutto, ricordare che il diritto dei fedeli di associarsi liberamente, ampiamente riconosciuto dal Vaticano II e dal nuovo Codice di diritto canonico (cann. 215 e 216), non è una concessione congiunturale e benevola dell’autorità ecclesiastica, per far fronte in modo più efficace alle sfide culturali e politiche del nostro tempo; non è neppure solo una conseguenza diretta della natura sociale dell’uomo.
Tale diritto scaturisce dal Sacramento del Battesimo e come tale ha presupposti teologici ed ecclesiologici precisi. Ne è prova il fatto che il Concilio Vaticano II definisce l’apostolato associativo dei laici come «segno della comunione e dell’unità della Chiesa in Cristo» (Aposto – licam actuositatem, (AA) n.29).
Tale diritto deriva non solo dalla libera volontà associativa, ma dall’urgenza intrinseca all’essere di ogni fedele, e dunque anche dei laici, di rendere più visibile ed operante la propria novità di vita cristiana nella comunione. Ciò spiega perché in molti casi, all’origine di un fenomeno di aggregazione ecclesiale, troviamo la forza ed il fascino di un carisma suscitato dallo Spirito Santo per una migliore edificazione della Chiesa di Cristo.66
Quando Pio IX nel 1869 ha costituito in associazione, denominandola Azione Cattolica, quella prima “Società di giovani cattolici”, sorta a Bologna per iniziativa di Mario Fani e Giovanni Acquaderni, non ha forse riconosciuto l’ecclesialità del carisma che li aveva spinti a lanciare l’appello a tutti i giovani cattolici italiani di aggregarsi su scala nazionale?
E chi potrebbe negare l’ispirazione particolare o il dono di un carisma al Servo di Dio Mons. Aurelio Bacciarini, quando decise, il 1° maggio del 1922, di inserire la formazione dei laici della nostra Diocesi nel grande alveo dell’AC italiana e della Chiesa universale?67
La vitalità autentica di una forma associativa ecclesiale, che nasca dalla forza aggregativa di un carisma originario o dall’attivazione pura e semplice del diritto di associarsi liberamente, si esprime nella capacità di adattare le proprie finalità ed i propri Statuti alle esigenze della storia.
L’ultracentenaria storia dell’AC italiana, cui sono legate più strettamente le vicende del laicato della nostra Diocesi, sono un modello emblematico di questa vitalità di riforma ed adattamento, al di là delle inevitabili contraddizioni.
Infatti, dal 1868, data convenzionale d’inizio, gli Statuti dell’AC hanno registrato ben otto riforme organizzative, spesso ispirate da risvolti teologici. Le grandi riforme strutturali che hanno dato un assetto centralizzante e più verticistico all’AC sono state quella del 1915, di papa Benedetto XV, e quella del 1923 di papa Pio XI.
Per ragioni congiunturali relative alla crisi con il regime fascista, Pio XI, oltre ad aver introdotto dal profilo teologico la nozione di “partecipazione all’apostolato gerarchico” e quella correlativa del “mandato”, ha provocato uno spostamento progressivo delle responsabilità di conduzione dai laici verso il clero. 68
La pronta restituzione della guida dell’AC ai laici, avvenuta subito dopo la guerra, nel 1946, fondata su un incondizionato riconoscimento della loro identità ecclesiale, ha anticipato, per contro, di almeno vent’anni i migliori testi del Concilio Vaticano II.
Nel discorso del 20 febbraio 1946, Pio XII – sia pure con un linguaggio che risente un poco della situazione post bellica – afferma, infatti, esplicitamente che: «…i fedeli, e più precisamente i laici, si trovano nelle prime linee della vita della Chiesa, per mezzo loro la Chiesa è il principio vitale della società umana. Essi quindi, essi soprattutto, debbono avere una coscienza sempre più chiara, non solo di appart enere alla Chiesa, ma di essere Chiesa… sono la Chiesa».69
L’ultimo Statuto fu dato all’AC dalla Conferenza episcopale italiana (CEI) nel 1969, nel cuore stesso della bufera studentesca, che aveva travolto molte associazioni e movimenti cattolici. Con esso nasce l’AC del dopo Concilio.70
C’è, dunque, una costante interazione fra l’esperienza associativa concreta dell’AC e il Magistero ecclesiale. Lo documenta il fatto innegabile che il Magistero papale, non solo nel passato, ma anche oggi, sa reagire con grande tempestività all’evolvere di tutto il fenomeno associativo ecclesiale.
La teologia del laicato del Concilio Vaticano II e l’esplosione in seno alla Chiesa moderna, particolare ed universale, di una nuova e grande “stagione aggregativa” ha spinto, infatti, il Magistero a passare, da interventi puntuali, rivolti a questa o quell’associazione particolare, ad interventi di carattere sempre più generale, tesi a fissare i criteri fondamentali di ecclesialità, estendibili per principio a tutte le multiformi espressioni del fenomeno aggregativo ecclesiale in quanto tale.
In questa linea, va ricordato, prima di tutto, l’intervento della Conferenza dei Vescovi latino-americani a Puebla nel 1979, che ha formulato criteri generali di ecclesialità, per il variegato fenomeno delle Comunità di base. Ha fatto seguito il documento della CEI del 1981, con alcuni criteri di ecclesialità per i gruppi, le associazioni ed i movimenti. 71 L’ultimo grande intervento è stato quello recentissimo della Christifideles laici, (n. 30), elabora criteri ancor più onnicomprensivi e capaci di cogliere alla radice le note dell’ecclesialità di qualsiasi aggregazione laicale.72
4. I criteri di ecclesialità di tutte le aggregazioni di fedeli laici
Dai criteri elaborati dal Magistero per stabilire l’ecclesialità delle aggregazioni laicali si può evidentemente costruire tutta una teologia del laicato. In questa sede è opportuno richiamarli almeno brevemente onde favorire una maturazione responsabile di tutto il laicato della nostra Diocesi ed in particolare di quello associato, in cui l’AC ha svolto e deve continuare a svolgere una sua funzione specifica. Questi criteri sono cinque.
1.Il primato della vocazione di ogni cristiano alla santità.
La santità non è prerogativa esclusiva di alcuni. Ha però come condizione, previa per tutti, il superamento di quella che il Concilio Vaticano II non ha esitato a definire la più grave eresia dei tempi moderni: il divorzio tra la vita e la fede. Qualsiasi aggregazione di fedeli laici, ribadisce sempre al n. 30 la Christifideles laici, deve perciò educare i suoi aderenti ad «una più intima unità tra la vita pratica dei membri e la loro fede».
2. La responsabilità di confessare la fede cattolica.
L’assunzione personale e consapevole del mandato di Cristo di annunciare la Salvezza al mondo è la meta cui deve educare ogni aggregazione ecclesiale, per aiutare, appunto, i suoi membri a superare il divorzio tra la loro fede e la loro vita.
3. La testimonianza di comunione.
La realizzazione dei due elementi precedenti avviene solo se ogni aggregazione ecclesiale è capace di educare i suoi membri ad una duplice esperienza di comunione: la comunione reciproca e la comunione con il Papa ed il Vescovo. La comunione con i Pastori rende i laici organizzati particolarmente disponibili sia ad accorgere gli insegnamenti del Magistero ed i suoi orientamenti pastorali, sia ad instaurare con le altre forme aggregative ecclesiali un rapporto di «stima vicendevole» e di disponibilità alla «reciproca collaborazione».73
4. Lo slancio missionario.
In conformità alla natura stessa dell’essere cristiano, determinato dal binomio vocazione-missione, ed in conformità alla struttura comunionale dell’esperienza ecclesiale, tutte le forme aggregative di fedeli laici, per avere la qualifica dell’ecclesialità, devono vivere uno «slancio missionario» tale, da rendere tutti i loro membri capaci di diventare «soggetti di una nuova evangelizzazione». In questa loro consapevolezza si realizza quella «conformità» e quella «partecipazione al fine apostolico stesso della Chiesa», che ogni aggregazione di fedeli autenticamente ecclesiale dovrebbe avere.74
5. L’impegno di presenza nella società.
Tutto ciò che è autenticamente ecclesiale è anche contemporaneamente servizio alla persona umana. Per questa ragione, laddove i quattro criteri precedenti si inverano in un’aggregazione di fedeli laici, quest’ultima assume, quasi naturalmente, anche «l’impegno di una presenza nella società umana al servizio della dignità integrale dell’uomo».
Assimilando i principi della «partecipazione» e della «solidarietà», caratteristici della Dottrina sociale della Chiesa, i membri laici aggregati edificano una società più giusta e più umana, dando testimonianza, con il loro impegno culturale, sociale e politico, del mistero dell’Incarnazione di Cristo nel mondo.
Nel segno della saggezza evangelica – «dai frutti infatti si conosce l’albero» (Mt 12, 33), saggezza che ci ricorda come l’uomo può e deve con il suo lavoro preparare e favorire lo sviluppo dei frutti ma in definitiva deve attenderli e riceverli come dono 75 la verifica concreta della presenza di questi cinque criteri di ecclesialità in un’associazione avviene, secondo la Christifideles laici, nel modo seguente:
– quando in un’aggregazione laicale rinasce il gusto della preghiera, della contemplazione, della vita liturgica e sacramentale;
– quando riemerge nei suoi membri l’idea che la vita è vocazione e, di conseguenza, assieme alla consapevolezza che anche il Matrimonio cristiano è una vocazione, fioriscono in essa anche vocazioni al sacerdozio ministeriale e alla vita consacrata;- quando cresce la disponibilità dei suoi membri verso le attività missionarie della Chiesa;
– quando aumenta il gusto della catechesi, delle opere caritative e della creatività culturale dei suoi membri;
– quando riaffiora un’autentica missionarietà nei confronti dei battezzati lontani e dei non credenti.
Allora in questa aggregazione di fedeli si invera il mistero della Chiesa ed essa è autenticamente ecclesiale.
Se questi sono i criteri e le verifiche applicabili indistintamente a tutte le forme associative laiche, come è possibile pensare che nel vastissimo panorama delle aggregazioni ecclesiali già esistenti possano ancora sorgerne delle altre?
La domanda è retorica. Tutta la storia della Chiesa, infatti, è costellata di confraternite, di terzi ordini, di sodalizi, di associazioni e mille altri tipi di aggregazione ecclesiale che, malgrado la loro convergenza di fondo, hanno saputo assumere in uguale modo la missione stessa della Chiesa, secondo intuizioni, di volta in volta originali e diverse, sostenute da itinerari pedagogici propri e specifici.
La stessa “nuova stagione aggregativa”, che trova nell’internazionalità dei moderni movimenti la caratteristica più evidente, dimostra che i recenti criteri di ecclesialità, formulati dal Magistero, non sono di intralcio alla versatilità ed alla creatività dello Spirito Santo, operante instancabilmente nella comunità universale dei credenti.
Il problema dell’AC non è perciò quello della legittimità della sua esistenza, ma solo quello di riuscire a ridefinirla ecclesiologicamente,76 perché possa riscoprire la forza aggregante ed edificatrice del suo antico carisma originario.
5. La natura specifica dell’Azione Cattolica
La fonte immediata per definire l’AC nella specificità, che la differenzia rispetto alle altre forme aggregative di fedeli laici, è lo Statuto datole dalla CEI nel 1969. È uno Statuto che fa una rilettura interpretativa delle quattro note sull’AC, già elaborate dal Concilio Vaticano II al n. 20 dell’, cioè il Decreto sull’apostolato dei laici Apostoli – cam actuositatem. 77
La sintesi dello Statuto è contenuta nell’art. 1: «L’AC è un’associazione di laici che si impegnano liberamente, informa comunitaria ed organica ed in diretta collaborazione con la Gerarchia, per la realizzazione del fine generale apostolico della Chiesa».
Da questa definizione si possono trarre ben sei elementi fondamentali.
1. L’AC è un’organizzazione di laici che, a differenza di altre forme aggregative (come, ad esempio, i movimenti ecclesiali), assume la struttura giuridica tipica dell’associazione. Questa implica l’iscrizione degli associati, senza tuttavia escludere la possibilità di un’adesione formalmente meno vincolante.
2. Come ogni associazione ecclesiale, a norma dei cann. 298 ss., anche l’AC si regge sul principio della libera adesione dei singoli fedeli. Ne consegue che anche l’AC, in quanto tale, non può essere imposta dal Vescovo e non può essere indicata come obbligatoria per nessuno. L’esistenza di questa associazione dipende esclusivamente dalla volontà di un gruppo di laici di aggregarsi a questo scopo.
L’AC è, perciò, solo una delle forme possibili di aggregazione dei fedeli laici. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare quanto – sia pure relativamente alla situazione ecclesiale italiana – papa Paolo VI ha affermato nel 1968: «I pastori ben sapendo che ai laici è libero appartenerci o no (l’AC è un movimento di volontari), è obbligo loro di conservarla e promuoverla» .78
3. La struttura interna dell’AC è comunitaria. Ciò significa che il criterio di rapporto interno dei suoi membri, malgrado le rigidità oggettive della forma giuridica dell’associazione, non può essere mutuato meccanicamente dai principi democratici che reggono le associazioni civili.
La sua vita comunitaria non nasce da rapporti di forza, ma dalla comunione, principio strutturale che informa tutta la Chiesa in ogni suo livello organizzativo.
Essendo un’aggregazione di tipo associativo, il cui vantaggio, rispetto ad altri modelli di aggregazione ecclesiale, sta nella maggior stabilità nel tempo ed il cui limite è quello di poter sopravvivere a se stesso anche senza anima, l’AC deve costituirsi secondo la dinamica specifica della convivenza ecclesiale che è quella della comunione. Ciò è richiesto esplicitamente dal terzo criterio generale di ecclesialità, formulato dalla CEI, precedentemente esaminato e valido per qualsiasi forma aggregativa di fedeli.
Se all’interno dell’AC i membri e gli aderenti non vivono reciprocamente una “comunione salda e convinta”, l’AC non realizza in se stessa la dinamica specifica del rapporto interpersonale ecclesiale. Non attuerebbe, perciò, un’inverazione concreta in se stessa della Chiesa di Cristo.
4. La forma comunitaria deve essere organica. Ciò significa che la struttura interna dell’AC non è fine a se stessa, ma esige di essere adattata, oltre che alle necessità dell’associazione in quanto tale, anche alla realizzazione efficace e concreta delle finalità per le quali è costituita ed approvata, cioè il fine generale apostolico della Chiesa.
Il criterio di organizzazione deve obbedire alle esigenze dell’ efficacia pastorale in una determinata situazione ecclesiale 79. L’AC deve essere e deve costantemente rimanere organica alla situazione strutturale concreta di una Chiesa particolare.
Le molteplici riforme statutarie dell’AC italiana, avvenute nel corso della sua storia ultra centenaria, sono, come abbiamo visto, la migliore testimonianza di questa sua capacità di rinnovarsi organicamente alla Chiesa in Italia.
5. Lo scopo dell’AC è quello di realizzare il fine generale apostolico della Chiesa, vale a dire l’evangelizzazione, la santificazione e la formazione cristiana delle coscienze, tutte sinteticamente ricomprese nella necessità di realizzare una presenza socio-culturale di natura profetica nella società (AA 20/a). Ne consegue che anche se non dovesse assumere necessariamente tutti gli aspetti della pastorale diocesana e della Chiesa universale, non può, tuttavia, autolimitarsi ad aspetti singoli. In effetti, la sua finalità non potrebbe essere, come invece per altre aggregazioni (can. 298 par. 1), esclusivamente quella della preghiera, della carità, della liturgia, della catechesi ecc…
Vale comunque la pena di sottolineare che anche quelle associazioni, confraternite, sodalizi e movimenti, che dovessero perseguire statutariamente un solo fine particolare primario, lo devono realizzare con un’apertura capace di ricomprendere in esso, almeno implicitamente, tutta l’esperienza cristiana. Ciò è imposto dal principio della comunione, secondo cui il “tutto” deve essere presente nel “frammento”.
6. Il sesto ed ultimo elemento è il più qualificante. Cosa significa «in diretta collaborazione con la Gerarchia?».
Le formule precedenti di “partecipazione all’apostolato gerarchico”, coniata da papa Pio XI, come quella di Pio XII di “cooperazione dei laici” ad un’opera, di cui unico titolare rimane la Gerarchia, hanno fatto attribuire all’AC, nel quadro storico della riforma istituzionale fortemente centralizzata degli anni Trenta, sia la prerogativa di essere «la massima modalità per un laico di partecipare alla vita della Chiesa»,80 sia il conferimento di un “mandato”.
Nel quadro dell’ecclesiologia del tempo, questo mandato fu a lungo interpretato come delega ai laici dell’AC di funzioni di per sé altrui, cioè proprie della Gerarchia.81
Il Vaticano II ha ripreso l’idea della «cooperazione diretta con l’apostolato gerarchico» (AA 20/d), e quella del “mandato”. Man mano, però, che nella mentalità ecclesiale comune si è fatta strada l’idea conciliare, già anticipata da Pio XII, che l’identità del laico e la sua legittimazione a partecipare alla missione della Chiesa, quale soggetto responsabile ed attivo, deriva esclusivamente dal sacerdozio comune conferito dal Battesimo, il concetto della collaborazione con la Gerarchia ha assunto una valenza ecclesiologica diversa rispetto al passato.
In effetti, oggi, si parla di “collaborazione con la Gerarchia”. Il mandato, a prescindere dal fatto che si voglia mantenere, oppure non lo si voglia più concedere – come ha fatto, per esempio, l’Assemblea dei Vescovi francesi a Lourdes nel 1975 – non può più essere interpretato come conferimento o delega di competenze e di prerogative particolari, quasi non fossero già possedute ed inerenti al laico in forza del Battesimo.
L’istituto del «mandato» deve essere interpretato come dichiarazione o riconoscimento del fatto che l’apostolato di un’associazione o di un movimento è in grado di esprimere e di realizzare in modo adeguato, in un determinato frangente storico, la missione evangelizzatrice stessa della Chiesa.
Ne consegue che se l’attività di apostolato di un’aggregazione, associazione o movimento laicale, indipendentemente dal fatto che sia corredata o meno da un «mandato », dovesse coincidere, nella sostanza e nella forma, con l’attività apostolica stessa di una determinata Chiesa particolare, questa associazione o aggregazione rimarrebbe comunque un soggetto autonomo e distinto. Un soggetto ecclesiale diverso e, perciò, non identico a quello della Chiesa particolare in quanto tale.
Né la Chiesa particolare in quanto tale, né le altre forme aggregative esistenti, possono, di conseguenza, contestare la coincidenza dei criteri specifici e delle finalità dell’AC con quelli della pastorale diocesana, perché il soggetto ecclesiale AC, per definizione, conserva, infatti, ecclesiologicamente, una sua originalità istituzionale e spirituale propria.
Ne consegue, però, anche, che l’AC non può, come è invece talvolta avvenuto nel passato, rivendicare una posizione ecclesiale di privilegio rispetto alle altre aggregazioni; non può pretendere di assumere in se stessa, quasi fosse un’aggregazione cartello o superiore, tutte le altre aggregazioni ecclesiali.
Dall’analisi di questi sei elementi costitutivi dell’AC, secondo la definizione formulata dal Magistero, risulta chiaro che la specificità dell’AC è quella di concepirsi come associazione, la cui finalità primaria è quella di operare in «diretta collaborazione con la Gerarchia”. Chi decide di aggregarsi ad essa deve farlo nella piena consapevolezza di questo fatto.
L’AC non è un’associazione generica, con contenuti non qualificanti l’identità particolare del fedele laico che vi aderisce. E perciò solo la libera, piena e responsabile assunzione, da parte dei singoli fedeli, di questa sua peculiarità, che ne giustifica l’esistenza, ed eventualmente la riuscita pastorale.
Il discorso sulla specificità dell’AC deve essere, tuttavia, ulteriormente precisato. Chi vi aderisce deve assumere e svolgere in modo associato, cioè in quanto appartenente ad una comunità ecclesiale in cui si invera concretamente l’esperienza della comunione ecclesiale, un servizio in ordine al ministero apostolico.
Ciò esige «un rapporto di piena comunione e fiducia con la Gerarchia» ed evidentemente, nella Diocesi, con il Vescovo. Ciò esige pure la determinazione dei membri dell’AC di “accogliere con aperta disponibilità” la guida del Vescovo e di offrire “con responsabile iniziativa” un organico e sistematico contributo all’azione pastorale della Chiesa particolare in cui è inserita. Questo è, infatti, ciò che richiede l’art. 5 dello Statuto del 1969.
L’ottica primaria di servizio alla Chiesa particolare, diocesana e parrocchiale, emerge in modo esplicito anche dall’art. 6 dello stesso Statuto, laddove si afferma che il primo impegno dell’AC è «la presenza ed il servizio nella Chiesa locale… in costante solidarietà con le sue esigenze e con le sue scelte pastorali».
Ciò ha permesso ad alcuni di definire l’AC come un’aggregazione di fedeli laici avente il carattere specifico della “diocesanità”.82 Quest’ultima caratteristica non può, però, essere intesa in modo astratto, ma deve ricomprendere in se stessa, al di là di ogni sua verifica teologica, tutte le connotazioni pratiche delle scelte pastorali, storiche ed ambientali di una Diocesi concreta.
In altre parole, si deve affermare che il laico associato nell’AC persegue la propria santità e quella della Chiesa, assumendo responsabilmente e creativamente il pensiero e la mentalità della Chiesa particolare in cui vive; ricerca la propria maturazione nella fede cristiana e quella dei suoi fratelli attraverso la dedizione personale nell’attuazione degli orientamenti offerti dal Vescovo e dai presbiteri in comunione con lui.
Come ebbe ad affermare il Cardinale Anastasio Ballestrero, presidente della CEI, in una lettera all’AC italiana del 1984, il carattere della “diocesanità” dell’AC consiste nel fatto, che l’AC è “un’ecclesialità di laicato diocesano che si esprime nella piena adesione alle direttive ed alle indicazioni del Vescovo, nella collaborazione attiva con il presbiterio e con gli organismi pastorali, nella condivisione sul piano pastorale della Diocesi e delle Parrocchie”.83
Nella stessa lettera si arriva così ad affermare che «la conformità alle finalità della Chiesa” e la “comunione con il Vescovo» sono per l’AC più che semplici requisiti generali di ecclesialità, bensì “la ragione d’essere dell’AC: la sintesi delle sue motivazioni e delle sue finalità”.
Ogni aggregazione ecclesiale, le associazioni, i gruppi di fedeli, i sodalizi, le confraternite ed i movimenti ecclesiali, hanno senso solo nella misura in cui sanno vivere fino infondo, e con umile radicalità, il loro carisma. Solo rispettando questa condizione, edificano veramente la Chiesa.
È questa la prospettiva in cui occorre mettersi per cogliere il vero significato delle parole rivolte da papa Paolo VI nel 1970 alla prima Assemblea nazionale dell’AC, dopo la riforma del 1969 e in pieno clima di contestazione studentesca: «Ecco la parola, oggi non da tutti compresa: l’organizzazione… Voi questo avete compreso e accettato; volete essere associati, volete essere organizzati. Anche codesta accettazione (di organizzarsi) è un punto superiore della vostra personalità ecclesiale…».84
6. L’itinerario pedagogico di una rinascita
Descritte fin qui le linee generali della storia ed i tratti essenziali delle finalità e dell’identità ecclesiologica dell’AC, diventa ora necessario delineare la dinamica concreta della sua possibile rinascita nella nostra Diocesi.
L’assioma, al quale dobbiamo rigorosamente attenerci, è il principio che la pastorale deve essere una pastorale delle persone e non una pastorale delle cose da fare. La nostra preoccupazione principale, perciò, non deve essere quella di mettere in atto una nuova organizzazione diocesana, vicariale e parrocchiale di uomini e donne, adulti e giovani, ma di individuare il modo di raggiungere queste persone al cuore della loro stessa esperienza di fede.
L’organizzazione è uno strumento necessario, ma non servirebbe a nulla, se l’AC non riuscisse a rendere consapevoli i fedeli laici della loro vocazione alla fede, alla missione e alla comunione ecclesiale. A mettere la persona del laico in movimento verso questo ideale, proposto secondo le modulazioni specifiche dell’AC.
L’AC, infatti, è un’associazione il cui scopo fondamentale è quello di educare il laico ad un’ecclesialità, che trova nella “cooperazione diretta con la Gerarchia”, secondo il significato esaminato precedentemente, il suo punto focale. Si pone perciò, all’interno della Diocesi e nel concerto delle altre aggregazioni, come soggetto preposto alla formazione del laico a questa “diocesanità”.
I momenti di questo itinerario possono essere così sommariamente individuati.
1. L’AC deve educare i suoi membri alla “forma di Cristo”, fino alla pienezza della maturità cristiana. Il Concilio Vaticano II parla, nella Gaudium et Spes (n.22), di Gesù Cristo, il figlio di Dio, come “Uomo perfetto”. A questa pienezza di perfezione deve tendere l’impegno dell’AC.
Gli strumenti di tale impegno sono, oltre alla liturgia, quelli di una catechesi permanente, adulta nei contenuti e nei metodi; la pratica di un’attività caritativa (per esempio proposte operative dellaCaritas Diocesana e volontariato) e di un impegno missionario, fondato sull’annuncio della propria fede agli altri, a partire dalla propria esperienza di fede personale (in concreto, iniziative per aggregare altre persone e sostenere le missioni diocesane).
2. L’AC deve educare al “senso della Chiesa”, cioè ad una profonda esperienza ecclesiale, che nella sua essenza è un’esperienza di comunione. Ogni gruppo o nucleo di AC deve diventare una comunità di profonda comunione tra le persone che vi aderiscono, in nome di Gesù Cristo. Una comunione concreta tra i membri che ha come orizzonte quello della Chiesa particolare ed è aperto al respiro della Chiesa universale.
La comunione con i pastori, prima di tutto con il Vescovo e con i parroci, si traduce in ascolto e lettura dei testi del Magistero pontificio ed episcopale: in attenzione alle proposte pastorali diocesane, parrocchiali e vicariali; in servizio serio e disinteressato all’interno delle opere, strutture ed iniziative ecclesiali della Diocesi (per esempio Consigli pastorali, catechesi ecc.); in dialogo cordiale e costruttivo con tutte le altre realtà aggregative ecclesiali, riconosciute come tali.
Il principio su cui si regge la Chiesa non è quello del pluralismo, che privilegia la differenza in quanto tale, ma quello della pluralità, che ricompone le diversità in funzione di un’unità profonda, ma non uniforme e perciò estremamente ricca: «ut unum sint» (Gv 17, 11).
3. L’AC deve educare alla laicità, definita dal Concilio Vaticano II come “indole secolare”: ad una secolarità che non deve essere fraintesa come secolarismo.
Laicità significa: educare ad un impegno culturale sociale e politico, previo ed autonomo rispetto ad ogni libera scelta partitica personale; educare alla responsabilità di un giudizio ed un impegno nelle strutture fondamentali della società, nelle sue espressioni più importanti come la famiglia, la scuola, i mezzi della comunicazione sociale, il tempo libero, la sanità; educare ad un servizio gratuito per il superamento di tutte le emarginazioni nelle loro diverse variazioni. Il punto di riferimento nell’educazione religiosa propria dell’AC è la pienezza umana inerente all’esperienza ecclesiale di fede e non il collateralismo politico o partitico.
Affinché questi tre momenti dell’itinerario educativo dell’AC non rimangano astratti e perché la preoccupazione organizzativa non prevalga su quella previa dell’educazione delle persone, è necessario che la ripresa dell’AC si fondi sull’accoglienza delle indicazioni pastorali già esistenti nella nostra Diocesi, che hanno ormai trovato un consenso di fondo.85
Va precisato, tuttavia, che queste indicazioni ed opzioni pastorali, valide in se stesse per ogni fedele e per tutte le realtà comunitarie della Diocesi, non sono vincolanti per tutti allo stesso modo. Infatti, solo l’AC è tenuta, in forza della diocesanità specifica alla sua natura ed alla sua finalità, ad assumerle come imprescindibilmente vincolanti per se stessa.
Queste indicazioni sono:
1. La Scuola della fede, proposta l’anno scorso autorevolmente a tutte le realtà diocesane. I membri dell’AC si impegnano sia a parteciparvi attivamente sia ad invitare il numero più vasto possibile delle persone da loro incontrate. La Scuola della fede deve diventare un vero nucleo comunitario ecclesiale, che i membri dell’AC si impegnano a costruire. Ogni gruppo di AC può riprendere, inoltre, la stessa catechesi nel proprio ambito.
2. Le iniziative caritative e missionarie, liturgiche e pastorali, proposte dagli organismi diocesani e coordinate dal Provicario generale.
3. La Scuola diocesana di catechesi, per coloro che intendono assumere responsabilità pedagogiche in questo settore, nella pastorale sacramentale e scolastica.
4. Le feste dell’annuncio e della missione, che avranno luogo a livello diocesano e parrocchiale, rispettivamente all’inizio ed al termine della Scuola della fede, decise dal Consiglio pastorale diocesano.
5. I pellegrinaggi diocesani.
6. Per i giovani:
– l’annuale Incontro missionario della Svizzera italiana;
– il Cammino della Speranza, il sabato vigilia della Domenica delle Palme;
– il pellegrinaggio alla Madonna del Tamaro nel mese di giugno, come ringraziamento in chiusura dell’anno scolastico e come preparazione alle vacanze;
– il pellegrinaggio alla Madonna della Salette, che avrà luogo quest’anno;
– altre eventuali iniziative che saranno segnalate di volta in volta.
Al termine di questo grande Congresso non dobbiamo dimenticare lo sforzo apostolico del laicato, che ci ha preceduti e che ha mantenuta accesa la lampada dell’AC in mezzo a noi fino ad oggi.
Papa Paolo VI rivolge ancora a noi queste parole cariche di riconoscenza: «Non scordate le anime umili e grandi, che hanno dato l’ingegno, l’opera, la vita perfino, con un disinteresse e con un orgoglio degni di rimanere in esempio, alla medesima causa che voi oggi intendete servire. Non ignorare la propria storia non significa essere vincolati alle forme che ieri ne hanno tessuto le vicende; significa, piuttosto, sperimentare la spinta morale che da essa deriva, e cioè godere di una carica di esperienza, di ansia, verso l’attualità e verso l’avvenire, di ricerca di sempre nuove e geniali originalità».86
Sono convinto che oggi si è alzato in mezzo a noi un soffio di vento nuovo, pieno di speranza.
Il Cardinale Suenens, al termine di un Congresso sulle aggregazioni laicali nella Chiesa, riprendendo l’immagine giovannea del vento dello Spirito, che soffia dove vuole, ha detto a tutti i partecipanti di quella assise, come ripete a tutti noi oggi: «Noi non possiamo dirigere il corso del vento, ma possiamo orientare la nostra vela al suo soffio»87
53 Cfr. E. PREZIOSI, Breve profilo storico dell’Azione Cattolica, Roma 1984, p. 14.
54 Sul ruolo svolto dal laicato di Azione Cattolica nella formazione di quel complesso fenomeno noto sotto il nome di «Movimento cattolico», cfr. D. VENERUSO, La Gioventù Cattolica e i problemi della società civile e politica italiana dall’unità al fascismo (1867-1922), in: La Gioventù Cattolica dopo l’unità 1866-1968, Roma 1972, pp.1-137.
55 Paolo VI, Omelia nella celebrazione eucaristica dell’8 dicembre 1968 per il primo centenario dell’ACI, in: L’ACI nel Magistero di Paolo VI, a cura della Presidenza nazionale dell’ACI, Roma 1980, pp. 202-210, qui p. 205, n. 543.
56 Cfr. discorso del 26 giugno 1929, e la collocazione storica che ne fa E. PREZIOSI, op. cit., pp. 37-38.
57 È di quegli anni l’inizio del disegno basato sulla ricerca di una «terza via» cattolica tra capitalismo e comunismo, avente come punto di riferimento di maggior rilievo l’opera di Jacques MARITAIN, almeno dopo la pubblicazione di Humanisme intégral nel 1936, cfr. a tale riguardo G. FORMIGONI, L’Azione Cattolica Italiana, Milano 1988, pp. 53-73.
58 Su nascita, sviluppo e crisi dell’AC specializzata in Francia cfr. G. CHOLVY – Y.M. HILAIRE, Histoire religieuse de la France contemporaine (1930-1988), Toulouse 1988, pp. 29-36, 247-255, 330-335 e 396-400.
59 È la dichiarazione fatta dal Consiglio nazionale dell’AC francese nel 1973, ripresa e commentata da G. CHOLVY – Y.M. HILAIRE, op. cit., p. 399.
60 Giovanni Paolo II, Christifideles laici, n. 7.
61 Per un’analisi delle conseguenze di questo divario tra fede e vita nella nostra Diocesi, cfr. la mia prima Lettera pastorale della Pasqua 1987, intitolata Siate forti nella Fede.
62 Per un bilancio complessivo della riflessione teologica sul laicato, ormai in atto da almeno mezzo secolo, cfr. G. COLOMBO, La teologia del laicato: bilancio di una vicenda storica, in: AAVV, I laici nella Chiesa, Torino 1986; AAVV, Il laicato. Rassegna bibliografica di lingua italiana, tedesca e francese, Roma 1987; A. SCOLA, Laici nella Chiesa, in: AAVV, I laici e la missione nella Chiesa, Milano 1987, pp. 47-65, cfr, pure il mio articolo, I laici nel nuovo Codice di Diritto Canonico, in La Scuola Cattolica 112 (1984), pp. 194-218.
63 Cfr. Über das Laienapostolat, in: Schriften zur Theologie II, Einsiedeln – Zurigo – Colonia 1964, pp. 339-373. Per un’analisi critica di questa posizione, cfr. il mio articolo, La “sacra potestas” e i laici, in: Studi Parmensi 28 (1980), pp. 3-36.
64 Nel ricordare a tutti i preti che «il problema cruciale» è quello «di annunciare il Vangelo di Gesù Cristo al mondo… spesso indifferente, tentato dal materialismo, talvolta ateo», il Papa afferma a chiare lettere che «…non si tratta in alcun modo, come ho appena detto ai Vescovi, di “clericalizzare” i laici e nemmeno di “laicizzare” i preti». (Giovanni Paolo II in Svizzera. I discorsi del viaggio, Saint Maurice 1984, p. 142 e p. 132).
66 Per un’analisi approfondita della forza strutturante ed aggregante di un carisma. cfr. L. GEROSA, Carisma e diritto nella Chiesa. Rifessioni canonistiche sul “carisma originario” dei nuovi movimenti ecclesiali, Milano 1989, pp. 75-94 e 180-203.
67 Il testo della lettera si trova in: Voce d’apostolo. Vol. III, L’Azione Cattolica, Lugano 1942, pp. 9-12. La stessa lettera è stata giudicata «l’atto più importante che Mons. Bacciarini abbia fatto per l’incremento dell’Azione Cattolica» (E. CATTORI, Il Vescovo Aurelio Bacciarini, Lugano 1945, p. 657).
68 Cfr. tutto il capitolo Gli anni Trenta di E. PREZIOSI, op.cit., pp. 39-43.
69 Il testo è tratto da E. PREZIOSI, op. cit., p.68.
70 Il testo di questo Statuto tuttora in vigore si trova nella III Appendice di G. FORMIGONI, op. cit., pp. 177-186. Per un’ampia analisi del ruolo dell’ACI nella realtà ecclesiale del dopo Concilio, cfr.: L’Azione Cattolica nella vita ecclesiale del post-Concilio. Seminario di studio (Roma, 29-30 ottobre 1988), a cura della Presidenza Nazionale ACI, Roma 1989.
71 Una lettura attenta dei testi di Puebla (1979) sulle Comunità di base permette di constatare come le indicazioni circa la loro ecclesialità siano fortemente influenzate dal n. 58 dell’Esortazione apostolica Evangelii Nun – tiandi (8 dicembre 1975) di Paolo VI; a tale riguardo cfr. il mio articolo, Prospettive per la “Lex Ecclesiae fundamentalis” e la revisione del diritto canonico nel documento di Puebla, in: Il Diritto Ecclesiastico 40 (1980), pp. 3-23, qui p. 4. Precedentemente altre Conferenze episcopali avevano preso posizione su questo problema, cfr., ad esempio, le Richtlinien der Deutschen Bischofskonferenz für Messfeiern kleiner Gruppen del 24 settembre 1970; per una loro analisi comparata ad altri documenti magisteriali sui criteri di ecclesialità delle diverse aggregazioni di fedeli cf. L. GEROSA, op. cit., pp. 236-242.
72 Giovanni Paolo II riprende qui alla lettera un’indicazione conciliare del Decreto sull’apostolato dei laici (cfr. AA 19).
73 Cfr. AA 23.
74 Cfr. AA 19 e 20
75 Cfr. pure Mt 7, 16-20; Lc 6, 43-45; Gv 15, 2 s. e il commento di R. HENSEL in: Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, a cura di L. COENEN – E. BEYREUTHER-H. BIETENHARD, Bologna 1976, pp. 738-740.
76 Un importante tentativo in questa direzione è stato fatto da: F.COCCOPALMERIO; Azione Cattolica e comunità ecclesiale. Problemi emergenti e proposte di soluzione, in: L’Azione Cattolica nella vita ecclesiale del post-Concilio, op. cit., pp. 57-72.
77 Cfr. l’Appendice V: L’Azione Cattolica per la vocazione e la missione dei laici. Documento inviato al Sinodo dei Vescovi del 1987, in: G. FORMIGONI, op. cit., pp. 203-211.
78 Paolo VI, Discorso rivolto il 14 febbraio 1968 ai fedeli nell’udienza generale, in: L’ACI nel Magistero di Paolo VI, op. cit., p. 185, n. 500.
79 Questa formula suggestivacon cui è possibile definire la dinamica strutturale della communio è tratta dal titolo di un libro di Hans Urs von BALTHASAR: Das Ganze im Fragment, Einsiedeln 1963.
80 G. FORMIGONI, op. cit., p. 65.
81 Su come queste interpretazioni ecclesiologiche abbiano aumentato il rischio che l’AC diventasse un movimento d’élite, cfr. il mio articolo, Profili istituzionali di Movimenti nella Chiesa, in: AAVV, I movimenti nella Chiesa negli anni ‘80. Milano 1982, pp. 203-254 ed in particolare p. 226.
82 Cfr, ad esempio G. MOIOLI, Laicato, “diocesanità” e Azione Cattolica, in: Laicato, Chiesa e società, Milano 1983, pp. 23-34; F. COCCOPALMERIO, Le associazioni di fedeli nella comunità ecclesiale e il caso particolare dell’Azione Cattolica, in: La Scuola cattolica 113 (1985), pp. 432- 457 e soprattutto pp. 450-452.
83 La lettera, firmata dal Card. Anastasio Ballestrero (allora presidente della CEI), è datata l’11 febbraio 1984 e si trova in: Enchiridion Vaticanum, Vol. IX, Bologna 1987, pp. 923-927.
84 L’ACI nel Magistero di Paolo VI, op. cit., pp. 231-232, n. 624-625.
85 A livello catechetico un punto di riferimento preciso rimane la mia Lettera pastorale Annunciate il Vangelo della Quaresima 1989.
86 Testo tratto da E. PREZIOSI, op. cit., p. 10
87 L. J. SUENENS, Il mistero della Chiesa, in: I movimenti nella Chiesa. Atti del II Colloquio internazionale, Milano 1987, p. 27.