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Amici Corecco

Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 2

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Chiesa e società

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Intervento al dibattito su “Stato e pluralismo sociale; il caso dei rapporti Stato-Chiesa: nuove realtà organizzato da “Coscienza Svizzera”, al Liceo di Lugano, 20 gennaio 1988

Vorrei prima di tutto fare una breve premessa al mio dire: pur non avendo alcuna pretesa di completezza e di sistematicità, le mie considerazioni, per molti versi alquanto frammentarie, si pongono ad un livello teorico e sono perciò di carattere strettamente dottrinale. Esse non riflettono alcuna volontà politica.
La politica – dicevano gli antichi – è l’arte del possibile. Oggi, parafrasandoli, potremmo dire che la politica è la scienza del possibile in una situazione sociale e culturale determinata, per cui ogni azione o discorso politico deve sempre essere commisurato a partire dal principio dell’opportunità, della proporzionalità e anche dell’efficacia in rapporto al bene comune generale. Il mio dire, invece, sarà puramente dottrinale, nel senso che esso vuole cogliere, sia pure in termini più illustrativi che analitici, la natura delle cose e dei valori in gioco, prescindendo completamente dai principi dell’opportunità e dell’efficacia operativa, per cui, per correttezza, volutamente in questa sede mi astengo dal prendere posizioni di natura politica.
In secondo luogo, prima di illustrare brevissimamente i presupposti teorici della situazione dei rapporti Chiesa-Stato nel Ticino, mi permetto di compiere una rapida sintesi storica, a mo’ di introduzione, delle principali evoluzioni di questi rapporti, in generale profondamente marcati, nella nostra cultura occidentale, a partire dai suoi stessi albori, da una concezione unitaria del rapporto tra fenomeno religioso ed organizzazione dello Stato.
La radice più profonda di questa concezione unitaria va cercata nella filosofia greca. Platone osservava che è più facile costruire una città sulle nuvole che uno Stato senza gli dèi. Questa affermazione ha un carattere teorico, ma è anche e soprattutto un’affermazione che constata un fatto, poiché tutte le culture pre-cristiane hanno vissuto in un regime di profonda compenetrazione e profonda unità tra l’organizzazione pubblica del potere, che oggi noi moderni chiamiamo Stato, e la religione. Il fatto religioso è parte integrante della organizzazione dello Stato, per cui non si può costruire la città senza gli dèi.
La prima disgiunzione tra la religione e l’organizzazione pubblica del potere, cioè lo Stato, è avvenuta ad opera del Cristianesimo, in forza del fatto che i cristiani dei primi secoli si ricordavano la frase di Cristo <<rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare>> (Mt 22, 21) (frase che implicava una distinzione tra i due poteri), e più ancora del principio formulato da San Pietro davanti al Sinedrio secondo cui “è più importante obbedire a Dio che agli uomini” (cfr. At 4, 19). È a partire da questi due principi di origine neotestamentaria che i cristiani hanno assunto, poco a poco, una posizione diversa delle altre religioni all’interno dell’Impero Romano, ed è in questa posizione radicalmente diversa dei cristiani che va cercata la ragione ultima per cui l’Impero ha perseguitato la Chiesa. La Chiesa non è stata perseguitata nei primi secoli perché l’imperatore Nerone era particolarmente cattivo o corrotto; l’Impero ha perseguitato i cristiani perché sentiva che essi si sottraevano alla pretesa assolutistica dello Stato romano.
Questa pretesa si concretizzava innanzitutto nel potere assoluto dell’Imperatore, teorizzato da Ulpiano nel principio secondo cui il principe è sciolto dalla legge (princeps legibus sulutus) e possiede perciò tutti i poteri; in secondo luogo questa pretesa assolutista si manifesta nel fatto che l’Impero romano cerca ovunque ed in tutti i campi di imporsi come l’orizzonte globale dei valori della vita umana.
Al di fuori di quello che l’Impero è capace di proporre come patrimonio culturale, politico e religioso, capacità simboleggiata dalla divinizzazione dell’Imperatore, non c’è possibilità di esistenza e non c’è neppure una trascendenza.
La frase di San Pietro “è più importante obbedire a Dio che agli uomini” si oppone all’esclusività di questo orizzonte e provoca indirettamente la persecuzione della Chiesa. Da allora è cominciata la storia dei rapporti tra Stato e Chiesa in Occidente e in Oriente, una storia che ha visto lo Stato e la Chiesa obbligati continuamente a determinarsi nei loro rapporti reciproci.
E’ stata una storia molto travagliata, cangiante, costellata di prevaricazioni vicendevoli, anche se in un giudizio complessivo non mi sembra possibile negare come il tentativo più costante sia stato quello dello Stato di ingerirsi negli affari ecclesiali e di prendere in mano il potere della Chiesa.
L‘eccezione in senso contrario è durata solo ottant’anni sull’arco di quasi due millenni, quando nel tredicesimo secolo i Papi – da Gregorio IX a Bonifacio VIII – hanno non solo rivendicato teoricamente, ma praticato anche dal profilo politico, una supremazia politica ed una giurisdizione sullo Stato. Ma, tolto questo breve (seppur intenso!) periodo, la Chiesa è stata costantemente oggetto di ingerenze da parte dello Stato nel tentativo di porla sotto controllo. Un rapporto travagliato che nasce in termini giuridici dal fatto che la Chiesa rivendica l’esistenza di un diritto divino. Dapprima accanto al diritto romano – base della convivenza civile al tempo dell’Impero romano – poi accanto al diritto naturale, fondamento della convivenza civile del Medioevo e dell’epoca moderna fino adesso, ed infine accanto al diritto statuale moderno, così come è stato
teorizzato dai contemporanei, in particolare dal Kelsen, secondo cui il diritto ha la sua ragione in se stesso e non in valori che lo precedono. Accanto a queste tre forme di diritto in Occidente e in Oriente si è manifestata la presenza di un’altra forma di diritto, il diritto divino che rivendica un’indipendenza e un’insindacabilità da parte degli altri diritti. Il diritto divino non è di origine greca ma è di origine veterotestamentaria. E’ la tradizione ebraica che ha introdotto nella cultura occidentale la nozione di un diritto divino non prodotto dalla ragione come il diritto naturale o il diritto romano ma un diritto prodotto e creato dalla volontà di Dio.
La storia del rapporto fra Chiesa e Stato, oltre che travagliata, è stata cangiante poiché questo rapporto è complesso. Infatti, quantunque le finalità della Chiesa e dello Stato siano diverse, il soggetto di questo rapporto è unico: la persona umana. Nella persona umana è molto difficile distinguere tra il cittadino e il cristiano. Quello tra Chiesa e Stato risulta essere un rapporto non definibile in termini puramente astratti e teorici. Non è mai approdato a soluzioni definitive, perché cambiano costantemente i presupposti dottrinali, storici, culturali e istituzionali di questo rapporto sia nell’ambito dello Stato, sia nell’ambito della Chiesa. Comunque, dopo i primi tre secoli, in cui la Chiesa per sopravvivere ha dovuto organizzarsi sulla base delle associazioni private come quelle funerarie, la prima decisiva svolta è stata quella data da Costantino nel 312 con l’Editto di Tolleranza; la seconda, circa sessant’anni
dopo, provocata da Teodosio nel 380. Questi due imperatori hanno riconosciuto alla Chiesa cattolica, dapprima la parità giuridica con le altre religioni, tutte considerate
come appartenenti all’ambito dello Jus Sacrum e dunque, come tali, formanti non un settore del diritto privato romano ma del diritto pubblico; poi, dopo l’intervento di Teodosio, la superiorità della religione cattolica su tutte le altre. Quest’ultima, nella confessione cristologica formulata dal Concilio di Nicea, diventa così l’unica religione avente cittadinanza in seno allo Stato, a livello di diritto pubblico.
A partire da questo duplice momento si sono poste le basi per tutta la storia dell’Occidente. In fondo, ancora oggi e dopo molte evoluzioni, ci troviamo pressappoco in questa situazione. Infatti, almeno da noi, lo Stato riconosce le Chiese – questa volta non più solo la Chiesa cattolica ma anche le Chiese uscite dalla riforma protestante – e le riconosce come realtà di diritto pubblico. Fanno eccezione a questo sistema del mondo occidentale gli Stati Uniti, dove con la Costituzione deI 1789 è avvenuta una separazione ideologicamente neutra, tra Chiesa e Stato, e la Francia, dove all’inizio di questo secolo è avvenuta pure una separazione tra Chiesa e Stato, ma di natura totalmente diversa rispetto a quella degli Stati Uniti. Infatti, negli Stati Uniti la separazione è una forma di astensione da parte dello Stato in questioni religiose, pur professando lo Stato un forte interesse per il fatto religioso in quanto tale; la separazione francese è stata invece una separazione anticlericale ed ostile al fatto religioso. Ha costretto la Chiesa – in modo sottilmente persecutorio – a sopravvivere nascosta nell’ambito del diritto privato.
In Svizzera abbiamo due Cantoni dove vige il regime di separazione: Ginevra e Neuchâtel. Questi regimi furono però corretti in seguito. Pur conservando lo schema separatorio fondamentale, secondo cui le Chiese possono organizzarsi solo sulla base del diritto privato, questi due Cantoni le hanno riconosciute come realtà di interesse pubblico.
Per comprendere meglio le diverse sfaccettature di questo regime di base, dove da una parte c’e lo Stato, dall’altra c’è la Chiesa riconosciuta come entità di diritto pubblico o come ente con personalità di diritto pubblico, è molto importante prendere in considerazione un’altra svolta storicamente decisiva, quella avvenuta con la riforma protestante.
La Riforma protestante ha negato alla vera Chiesa, definita da Lutero come invisibile, cioè alla Chiesa della salvezza, quella cui appartengono solo le anime dei Santi, ogni rilevanza sociale, dichiarando la congregazione storica dei cristiani, cioè la Chiesa visibile, come semplice manifestazione esterna della prima. In altri termini, con la Riforma protestante la Chiesa esterna, l’organizzazione visibile dei cristiani, ha cessato di essere Chiesa nel senso forte e vero della parola ed è passata sotto la giurisdizione dello Stato. Dalla Riforma in poi è nato il regime vero e proprio di Chiesa di Stato. Un regime che ricalca lo schema dei regimi pre-cristiani. La Chiesa diventa un dipartimento, un settore dell’amministrazione statale.
Nei secoli dell’Illuminismo avviene un ulteriore sviluppo.La Chiesa visibile viene considerata alla stregua – ed è tollerata anche solo per quello – di una grande scuola, una scuola il cui scopo è quello di educare i cristiani anche ad essere buoni cittadini. L’illuminismo ha visto tutta la realtà ecclesiastica da questo profilo, per cui concepisce la Chiesa come una grande scuola, e abbiamo così i Dipartimenti – come per esempio nei Cantoni svizzeri – della Cultura e del Culto, oppure della Scuola e del Culto.
Negli Stati cattolici questa operazione non è stata possibile, perché il cattolicesimo ha sempre riconosciuto la Chiesa come realtà prestatuale. I Cantoni originariamente cattolici hanno così continuato a riconoscere la Chiesa come entità di diritto pubblico, ma per osmosi con gli Stati protestanti, ha preso corpo anche nei loro ordinamenti giuridici una fortissima ingerenza negli affari ecclesiastici, che si è manifestata nella sua forma più paradigmatica con il Giuseppinismo. L’Imperatore Giuseppe II, soprannominato imperatore sacrestano, ha per esempio soppresso 3000 conventi di vita contemplativa, ritenuti inutili dal profilo della educazione del popolo, mentre ha riformato gli ordini e le congregazioni attive, ritenuti utili alla società.
Dopo la riforma protestante e sotto l’influenza dell’illuminismo la posizione degli Stati nei confronti delle Chiese si diversifica, proprio perché la Chiesa cattolica e quelle protestanti si erano diversificate tra di loro e nella loro posizione nei confronti dello Stato.
Con la Rivoluzione liberale del 1848 è avvenuta una disgiunzione tra Chiesa e Stato in campo protestante. Cessa teoricamente il regime della Chiesa di Stato. Viene sostituito con un regime di giurisdizionalismo moderato. Tra lo Stato e la Chiesa viene inserito un corpo intermedio, e cioè una specie di ente parastatale, la cui funzione è quella di esercitare a1cune competenze della Chiesa fissate dalle leggi dello Stato. Lo Stato protestante dà così alle Chiese una Costituzione democratica, in sintonia con i principi costituzionali generali.
Anche in campo cattolico, a partire dal ‘48, è avvenuto un processo analogo: lo Stato continua a riconoscere la Chiesa in quanto tale, cioè come ente di diritto canonico, ma crea a sua volta tra la Chiesa e se stesso un corpo intermedio: a livello parrocchiale sono i nostri Consigli parrocchiali e Assemblee parrocchiali, a livello cantonale la Chiesa cantonale. Si tratta di un corpo di diritto pubblico statuale incaricato di filtrare il rapporto Chiesa/Stato.
Nel Ticino sostanzialmente siamo a questo punto dello sviluppo: esiste un tradizionale riconoscimento della Chiesa in quanto tale, implicito nelle Costituzioni del Cantone, ribadito dalla Legge sulla liberta della Chiesa del 1886, e garantito ora dalla Costituzione (art. 1) – ma continua ad esistere il corpo intermedio, introdotto come entità di diritto pubblico dalla legge del 1886 a livello solo locale, cioè parrocchiale. Esiste dunque un duplice riconoscimento della pubblicità della Chiesa: un riconoscimento diretto di natura costituzionale ed uno indiretto attraverso la creazione della corporazione parrocchiale istituita dallo Stato, alla quale lo Stato ha attribuito lo statuto di ente di diritto pubblico1.
Concludendo va infine ricordato come il rapporto Chiesa/Stato è sempre stato trattato, da Costantino in poi, a livello di vertici. Il potere secolare, statale o laico, è stato protagonizzato dall’Imperatore o dai governi democratici e il potere spirituale o ecclesiale dal Papa. In questi ultimi decenni però, sono avvenuti dei profondi cambia menti: nell’organizzazione giuridica dello Stato, perché all’idea hegeliana di Stato assolutista che si considera quale personificazione della società, è subentrata l’idea di uno Stato pluralista, cioè il modello dello Stato moderno liberale. Questa nuova immagine di Stato ha cambiato il rapporto, almeno a livello dottrinale, con la società. Lo Stato non si lascia più raffigurare come l’ipostatizzazione della società, ma solo come organo incaricato della gestione del potere pubblico. Da un’idea statica, o se si vuole ontologica, si è passato ad un’idea funzionale o pragmatica di Stato.
All’interno della Chiesa è pure avvenuto un profondo cambiamento, perché anche la Chiesa ha riconosciuto, con il Concilio Vaticano II, la liberta di coscienza. Ciò significa che non è più possibile gestire il rapporto Chiesa/Stato solo al vertice. Grazie al principio della liberta di coscienza il soggetto di riferimento è diventata la persona umana, titolare insostituibile dello stesso.
Per queste ragioni credo che qualsiasi operazione si voglia fare oggi nel settore dei rapporti tra Chiesa e Stato, fino a livello della sua concretizzazione normativa, non si può più prescindere da questo dato fondamentale. Non si tratta più di gestire al vertice due poteri diversi, ma di riconoscere la persona umana con tutte le sue esigenze, quale punto di convergenza, cui tutte e due le ipotesi devono costantemente riferirsi. Questo punto di riferimento non è solo il cittadino – ed è questa l’ultima precisione che voglio fare – ma la persona umana, perché la nozione di cittadino, utilizzata dalla Rivoluzione francese per realizzare l’uguaglianza di fronte alla legge, costituisce una riduzione rispetto alla nozione di uomo. La persona umana è una realtà più grande rispetto alla nozione di cittadino.
Nello schema nazionalista-occidentale, la persona umana conta meno deI cittadino. Lo straniero, per fare un solo esempio, è uomo, ma non è cittadino; non ha diritti all’interno dello Stato, o ha minori diritti, e ciò rappresenta a livello dei valori una riduzione – la cui radice culturale è nota, ma complessa da spiegare in questo breve spazio di tempo. Questo esempio è sufficiente per evidenziare la necessità di porre il rapporto Chiesa/Stato, ma anche quello Stato-uomo, non più solo esclusivamente a livello della figura giuridica del cittadino, ma cercando di cogliere nel cittadino stesso la radice ultima del suo essere che è la persona umana. Allora si potrà immaginare un rapporto tra Chiesa e Stato molto più liberante per l’uomo, per la persona, di quanto non lo è stato per il passato e di quanto non lo sia attualmente anche nel nostro Paese.

Le riflessioni a Palazzo federale «Le nostre istituzioni pervase dal disagio», Berna, 13 marzo 1990

«Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, si avvicina l’aurora?».
Con queste parole gli Edomiti in esilio interrogavano il profeta Isaia (21, 11) per sapere quanto tempo ancora avrebbero dovuto aspettare la loro liberazione.
Il profeta rispose: «Se lo volete, convertitevi». Anche noi abbiamo molti motivi per interrogarci sul nostro avvenire.
Le nostre istituzioni sono pervase dal disagio. La nostra immagine smagliante sta sbiadendo proprio quando l’abitudine al benessere ci dava l’illusione che niente avrebbe potuto cambiare e che l’equilibrio sociale e politico, raggiunto da due secoli, fosse acquisito per sempre.
Da un lato, troppi soldi, troppa speculazione, troppo individualismo; dall’altro, la grave carenza di alloggi, l’inquinamento, il flagello della droga, la minaccia dell’AIDS, e soprattutto troppa miseria spirituale nel cuore degli uomini. I richiedenti l’asilo e i popoli, sia dell’Est, sia dell’Ovest, bussano alle nostre porte per sapere: ci interrogano. Ma i valori, quelli scritti e quelli non scritti, su cui poggia la nostra Costituzione (il senso religioso, la sobrietà, l’ethos del lavoro, ed anche il senso della famiglia) si trasformano rapidamente.
La Confederazione, che ci ha uniti per secoli malgrado le nostre differenze, era fondata su un equilibrio costante fra i valori fondamentali e gli interessi comuni. Forse, da alcuni decenni a questa parte, ci siamo preoccupati soprattutto degli interessi, tralasciando invece i valori. Di colpo, oggi scopriamo che questi valori, dietro la facciata, si stanno sgretolando: la neutralità non ci permette più di definirci in un’Europa che cambia; il federalismo e la democrazia semi-diretta sono vissuti sempre meno, mentre potrebbero costituire il nostro contributo più originale all’Europa. Anche il plurilinguismo si è trasformato: era il nostro orgoglio, ed è diventato uno scoglio contro il quale la solidarietà e la coesione stessa del nostro paese vanno a sbattere.
Quasi senza rendercene conto rischiamo di svegliarci un giorno e di trovarci molto diversi da come eravamo un tempo; eppure l’aurora di una nuova Europa si avvicina e non potremo sfuggirle.
Siamo ancora all’altezza del nostro compito? Se interrogassimo oggi il profeta Isaia, ci darebbe la stessa risposta che diede al popolo degli Edomiti, 3000 anni fa. Ci direbbe: «Se volete, convertitevi, siate vigilanti». Il tema della vigilanza percorre tutta la Bibbia. «Beato l’uomo che veglia giorno e notte», dice il libro dei Proverbi (8,34).
La vigilanza è un lavoro spirituale. Il male non viene dalle cose, ne dalle persone; il male viene dalla nostra mancanza di vigilanza, dall’assenza in noi di lavoro spirituale; il male viene dal fatto che ci lasciamo prendere dalla fascinatio nugacitatis, come diceva Pascal e cioè, dal fascino delle cose meschine.
Questa si manifesta nella nostra incapacità di sacrificio, nella nostra mancanza di coraggio di fronte al rischio di aprirci verso nuovi orizzonti.
Un umanista del XVI secolo diceva: «Helvetia gratia Dei regitur et confusione hominum». Ma almeno, gli svizzeri in crisi a quell’epoca erano profondamente religiosi, a tal punto che furono capaci di prestare orecchio a Dio, il quale parlò loro tramite un profeta: San Nicolao della Flüe. Noi, invece, nella mancanza di chiarezza attuale, ci scopriamo sempre meno religiosi. E la religione è prima di tutto un lavoro dello spirito, il quale lotta per dei valori, alla ricerca di una trascendenza.
Questa vigilanza non ammette che l’uomo resti in una posizione subordinata nei confronti dell’economia.
Quest’ultima, forse, ci permetterà di aprirci all’Europa che avanza, ma non è certo grazie all’economia che risolveremo i nostri problemi spirituali. Solo sul piano spirituale possiamo fondare realmente la solidarietà confederale elvetica ed europea.
Il gran libro della Santa Scrittura, che ha ispirato la cultura dell’Europa e del nostro Paese e che resta ancora, bene o male, la fonte più importante della nostra identità europea, ci dice che la vigilanza è prima di tutto l’atteggiamento spirituale che conduce l’uomo a rimanere in ascolto di Dio.
«Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza… di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (cfr. Lc 21,36). «La notte – diceva San Paolo ai cristiani di Roma – è avanzata. Il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente» (Rm 13, 12-13).
Sarebbe tuttavia errato credere che potremmo presentarci a mani vuote davanti al Signore, senza aver svolto il nostro compito storico. Dio ha dato all’uomo un mandato culturale all’alba della creazione e cioè quello di governare il mondo e la storia: «Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e sottomettetela».
L’anno prossimo festeggeremo il Settecentesimo anniversario della Confederazione. Per evitare che questa festa sfoci in un’inutile “kermesse”, o in una nuova occasione di conflitti, dobbiamo riflettere bene sui nostri valori comuni. Valori cristiani per i cristiani, valori spirituali per tutti. Basandoci su questi valori, con un approccio profondamente spirituale, possiamo scoprire una nuova identità, una nuova coesione nazionale, moderna ma in grado di offrire a tutti i nostri concittadini un senso di autentica appartenenza ad una comunità, cui ogni uomo ha diritto. Un’identità ed una coesione che potremmo proporre come modello per l’Europa 2 .
Dobbiamo chiedere a Dio il dono e la forza della vigilanza se vogliamo rispondere in modo responsabile alle sfide storiche che ci attendono.

2 Nell’Omelia in occasione del pellegrinaggio della Parrocchia di Airolo a Passo del San Gottardo il 1º agosto 1990, Mons. Eugenio Corecco, rievocando la figura e l’opera di San Gottardo, ha toccato, tra gli altri, il tema delle radici del continente europeo.
<<(…) È stato uno dei personaggi che ha dato l’impulso per la ripresa del senso dell’unità europea e ha impresso un carattere fortemente religioso a questa ripresa politica, economica, culturale. Ha fondato scuole non funzionali a un mestiere, ma scuole di musica e di arte perché ha capito che attraverso l’arte la gente in Europa trovava qualcosa di comune, perché l’arte è universale. Il canto gregoriano ha origine in queste scuole: è stato il primo a costituirle. La prova che sia stata una persona importante nel suo secolo sta nel fatto che il culto, dopo la sua canonizzazione, si è diffuso in tutta l’Europa. Ci sono chiese dedicate a lui in Lituania, in Spagna, il Duomo a Hildesheim, due chiese a Milano. L’ arcivescovo di Milano San Galdino ha dedicato a lui questo punto centrale tra Lituania e Spagna, tra Sud e Nord. Dunque è una figura che dobbiamo riscoprire perché, in un momento come questo, che vede l’Europa prendere coscienza della propria unità, richiamarci a questa figura è importante. Ci fa capire infatti che quello che ci unisce in Europa, l’elemento comune, non è certo la lingua, la cultura particolare, ma il fatto che siamo una popolazione cristianizzata; tutti abbiamo incontrato il Cristianesimo. Questo è l’elemento comune dell’Europa. Non c’è nessun altro continente nel mondo che possa vantare lo stesso fatto: l’essere stato determinato nel proprio modo di pensare, di vivere, di costruire, di mangiare, fin nei minimi particolari della vita, dall’aver incontrato Gesù Cristo. In effetti costruiamo, mangiamo, ci sposiamo, viviamo, educhiamo i figli in modo diverso da come possono farlo i mussulmani, che sono dentro un altro mondo religioso. Il Cristianesimo ci ha determinati fino in fondo, anche se oggi facciamo fatica a rendercene conto. Mi pare importante riscoprire la figura di San Gottardo perché è stato il perno in Europa della ripresa cristiana, della nuova evangelizzazione.(…)>>.
Rispondendo a un’intervista del giornalista Michele Fazioli, realizzata nel 1990 e pubblicata nel Quaderno della Banca del Gottardo “36 interviste al Ticino che cambia”, Mons. Eugenio Corecco ha ripreso, tra l’altro, i temi della democrazia, del federalismo e dell’Europa e si è altresì espresso sul rapporto tra cristianesimo e politica.
<<(…) La democrazia svizzera, che affonda le sue radici in una componente popolare germanica, è nata come patto di fede cristiana nei valori più alti della persona umana. L’<homo helveticus>, di cui San Nicolao della Flüe è tuttora il modello, ha un modo d’approccio ai problemi che è influenzato da una inconfondibile tradizione democratica, uno stile di vita un po’ diverso rispetto a quello che possono avere le genti delle nazioni vicine.
Se guardiamo all’estero, scopriamo che quello che ci distingue, noi svizzeri, è proprio questa esperienza collaudata di democraticità, di profondo senso dell’uguaglianza delle persone, di semplicità e di capacità di relativizzare le situazioni, favorita anche da un invidiabile benessere economico. Valori che sono così radicati da sembrarci acquisiti e inosservabili. Ma ci sono e perdureranno solo se li assumiamo responsabilmente(…)
Dobbiamo continuare a guardare ad una intensa vita politica, profondamente federalista, perché questo è uno dei valori grandi, anzi, probabilmente il più grande, che possediamo rispetto ad altre nazioni. Il federalismo è quella struttura che fa penetrare il principio democratico in modo capillare, disinnescando ogni possibile perversione totalizzante, perché professa un profondo rispetto per le minoranze. Dobbiamo insomma praticare una vita politica intensa (nel senso più alto del termine), mantenendo un’intelligente apertura alle nostre radici culturali italiche. Solo così conserveremo la possibilità di essere qualcuno nel contesto svizzero e, attraverso di esso, dare un contributo alla nascita di un’Europa federalista.
Saremmo insomma una sorta di laboratorio per una possibile Europa federalista?
Potremmo esserlo. Ma il problema è quello di chiederci fino a quando potremo continuare a rimanere un esempio isolato e protetto, ormai sempre più inosservato. Il nostro federalismo potrà essere un modello, solo se noi sapremo realizzarlo in modo sempre più coerente e farlo conoscere per mostrare agli altri che esso può essere applicato anche ad altre situazioni.
Non possiamo isolarci nel <nostro> federalismo, ma, attraverso di esso, dobbiamo confrontarci con le grandi istanze che emergono: gli altri, i bisogni degli altri, le loro tradizioni e mentalità, e soprattutto chi è soggetto ad iniquità e disuguaglianze.(…)
Non voglio chiamare a forza il Pastore spirituale dentro la politica (anche se qui ritorna il problema della coerenza tra fede e vita quotidiana e quindi un occhio aperto sulla politica non deve essere negato alla Chiesa…). Ma sul piano personale, per Mons. Corecco, tra sinistra e destra dove sta una possibile via?
Discorso difficile e complesso, soprattutto se da farsi in poche parole. La soluzione giusta non sta nel principio radicale del libero mercato sfrenato. No di certo. Ma nemmeno in quello di un assoluto egualitarismo fondato solo sul principio quantitativo che nega i bisogni spirituali, qualitativamente diversi ed insopprimibili, dell’uomo. Si tratta di un sistema che non porta nessun arricchimento sociale (come lo dimostrano le crude rivelazioni dell’Est europeo, esplose nel 1989). Fra i due estremi c’è tutto lo spazio per un sistema non fondato su principi astratti, quello del profitto e dell’uguaglianza quantitativa, ma sui reali bisogni e le reali aspirazioni della persona umana. Alcuni principi fondamentali dell’insegnamento sociale della Chiesa, tra cui mi limito a segnalare quelli della sussidiarietà e della solidarietà, dovrebbero essere presi in considerazione da tutti i partiti e governi, non tanto perché proposti dalla Chiesa e dalle Chiese, ma perché frutto di una conoscenza plurimillenaria, e perciò più approfondita, della natura dell’uomo e della sua dimensione sociale.
E non c’è una ricetta cristiana, suppongo…
No, non necessariamente. Il rapporto tra cristianesimo e politica non è necessariamente quello di un’azione diretta, addirittura partitica, anche se di fatto molti cristiani si riconoscono in movimenti sociali, sindacali e politici che al cristianesimo si riferiscono.
Intendo piuttosto affermare che il cristianesimo è di per sé una realtà che, proprio perché tocca il cuore dell’uomo, cioè il punto centrale della sua autocoscienza, ha la capacità di rigenerare continuamente soggetti portatori di proposte socio-politiche nuove, tesi a salvare il più possibile la dignità di ogni persona umana. Il cristianesimo non è un’ideologia, ma è l’avvenimento della verità fatta carne nel Figlio di Dio e dunque al servizio dell’uomo concreto, del suo bisogno fondamentale di realizzarsi compiutamente.
E allora il cristianesimo non ha ricette tecniche belle e pronte, ma è il luogo dove l’uomo, facendo un’esperienza vera di comunione, diventa sempre più sensibile, responsabile, e perciò capace di ridestare negli altri uomini, assieme alla dimensione religiosa, anche uno spiccato bisogno di socialità: da questa sensibilità umana potranno poi nascere eventualmente anche soluzioni concrete e tecniche ai problemi politici che si porranno di volta in volta. Ma la Chiesa non può indicare graniticamente un sistema politico che vada bene in modo assoluto, anche perché non esiste nessun sistema politico-sociale, neppure quello democratico, che non debba fare costantemente i conti con la inafferrabilità del mistero della persona umana. L’uomo trascende ogni sistema socio-politico. Per cui la Chiesa torna sempre…alla questione iniziale: la nuova evangelizzazione, la fede. Da qui semmai scaturiranno coerenze…La evangelizzazione è previa alle soluzioni tecniche dei problemi sociali e politici. Noi dobbiamo pensare ad una umanità diversa alla radice stessa del proprio modo di pensare. Dunque evangelizzare di nuovo non significa necessariamente contestare i sistemi entro cui siamo, ma soprattutto far riacquisire alla gente una giusta posizione di fronte a sé stessa e di fronte a Dio. L’insegnamento sociale della Chiesa, che nasce da una concezione teologica dell’uomo, per poter essere tradotto politicamente e applicato nel concreto, ha bisogno di uomini nuovi, interiormente liberi e capaci di assumere il rischio delle contingenze e di cambiare parallelamente all’evolvere della situazione.(…)>>.