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Amici Corecco

Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 2

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Relazione tenuta all’Università di Parma il 5 maggio 1991.

1. La Chiesa si trova oggi in Europa ad operare in una situazione profondamente diversa rispetto al passato. Rimasta tuttora profondamente radicata nel popolo, almeno in certi Paesi mediterranei, sia pure con gradi di consapevolezza diversi nei singoli fedeli, essa è chiamata ad operare in un tessuto socio-politico, non solo trasformato ed enormemente arricchito, ma anche in una società le cui strutture fondamentali non sono più determinate, come nel passato, dalla Chiesa ma da altre forze culturali e politiche.
La Chiesa ha perso in Europa l’egemonia economica, politica e culturale. Questo è tanto più vero se, per culturale, non si prende l’accezione più esatta, quella che definisce la cultura come il modo concreto con il  quale le persone concepiscono se stesse, di fronte agli altri ed alla trascendenza, bensì quella più accademica, riduttivamente fatta coincidere oggi con la ricerca, l’insegnamento e le belle arti.
L’assenza di egemonia è registrabile, anche a livello della Chiesa universale, come conseguenza del fatto che la Chiesa è rimasta sostanzialmente solo europea o per lo meno occidentale, fin verso la fine del secolo scorso.
In Europa, questo cambiamento è avvenuto in seguito all’emergere ed all’imporsi, negli ultimi tre secoli, di quel fenomeno culturale che ha preso il nome di modernità. Esso, in quanto fenomeno culturale vivente, si caratterizza per il modo di impostare il rapporto con l’eredità del passato.
2. Alle origini si è trattato di un fenomeno prevalentemente spirituale, cioè di pensiero filosofico, le cui radici sono profonde e risalgono al Rinascimento. Un fenomeno che è stato messo a tema, dal profilo dottrinale, soprattutto da Déscartes, benché il termine «modernità», in quanto tale, faccia la sua apparizione solo verso il 1850, con Baudelaire.
L’uomo moderno è colui che per la conoscenza di se stesso e del mondo utilizza solo la ragione. La fede serve, eventualmente, per l’altra vita, ma non per organizzare la vita presente sul piano politico-economico, sociale e culturale.
Da questa posizione razionalistica è nato il rifiuto del passato. Solo ciò che è nuovo è vero e il nuovo è inteso come superiore all’antico e come sinonimo incontrastato di progresso. La dialettica di Hegel identifica nella «tesi» il passato e nell’«antitesi» l’ipotesi nuova, considerata unica ad essere vera. La «sintesi» storica che ne deriva è ineludibilmente sottoposta a continua revisione, cosicché, a sua volta, si trasforma in «tesi», che sarà superata da un’altra «antitesi», cioè da un’altra novità: cioè dall’idea più moderna.
Su questa ideologia del progresso venne ad innestarsi quella delle età del genere umano, propagandata da Auguste Comte. Le epoche della storia corrispondono alle età della ragione; prima la fase teologica, poi quella filosofica e da ultimo quella positiva, che corrispondono all’infanzia, all’adolescenza ed alla maturità della persona e del genere umano. Infatti, all’interrogazione « Was ist die Aufklarung?» Emmanuele Kant risponde nel 1784: «L’uscita dell’uomo dalla minorità, di cui lui stesso è responsabile». La minorità per Kant è l’incapacità di servirsi della ragione.
Tale prospettiva metodologica, è fondamentalmente inconciliabile con l’essenza più profonda del cristianesimo. Infatti, la conoscenza e l’esperienza della fede cristiana possono progredire ed evolvere, come sta avvenendo in questi ultimi decenni, ma non possono mai guardare al passato, quasi fosse un fatto da eliminare come obsoleto.
Il principio culturale fondamentale del cristianesimo è affermato dal fedele, ogni giorno, nella celebrazione dell’Eucarestia, quando ripete, dopo la consacrazione del pane e del vino, la consegna data da Cristo ai discepoli nell’ultima cena: «Fate questo in memoria di me».
Fate, dunque operate, progettate, guardate al futuro, arrischiate previsioni, evolvete nella conoscenza della storia del mondo, dell’uomo, del creato, del micro e macro cosmo, avendo però presente la memoria del mistero della mia incarnazione, morte e resurrezione. La memoria cristiana non è, tuttavia, il semplice ricordo di un avvenimento del passato, quello del Cristo storico. Non è solo la conoscenza di un passato, di cui ci si può sbarazzare, quando dovesse apparire socialmente e politicamente irrilevante, ma è memoria, attualizzata nei sacramenti e nella Chiesa, in quanto realtà sociale sacramentale, della presenza del Cristo risorto. A Cristo, il cristiano non può rinunciare, perché non è solo morto, ma è anche risorto; è dunque presente nella Chiesa che è la comunità di tutti coloro che si uniscono tra di loro, perché credono in Lui.
La Chiesa è un fenomeno sociale che assume sempre una rilevanza politica, economica, culturale, anche quando non è egemonica, perché è quella realtà sociale attraverso la quale il Figlio di Dio risorto rimane presente nella storia.
Ciò che è cambiato in questi ultimi secoli è solo lo spessore della rilevanza politica, sociale e culturale, che questa presenza di Cristo, nella Chiesa, assume all’interno della società contemporanea. E’, infatti, diversa rispetto a quella esercitata nel passato dalla Chiesa, da Costantino fino alla Rivoluzione francese, di cui peraltro si è celebrato nel 1989, non senza pompa, ma anche senza grandi speranze e prospettive, il bicentenario.
Questo fenomeno storico di egemonia socio-politica della Chiesa, va detto subito a scanso di equivoci, è, in quanto tale, irripetibile. La storia non torna mai indietro e la cristianità, cioè quel fenomeno sociale, religioso, politico, che ha globalmente investito e unificato la storia dell’Europa, dall’alto al basso Medioevo, fin dopo il Rinascimento, cioè per circa 1500 anni, non può più ripetersi e nessuno sogna o progetta il suo ritorno.
La nuova evangelizzazione dell’Europa non ha come obiettivo il ritorno della cristianità, ma il ritorno dell’Europa ad una fede reale in Gesù Cristo.
Ciò che è rimasto presente nella società moderna non è, infatti; la cristianità, ma la Chiesa in quanto tale, che si trova oggi a dover operare in un mondo non più fatto da lei, ma da altri.
Non bisogna inoltre dimenticare che sulla scena internazionale della storia contemporanea, in cui si trova confrontata la Chiesa, non è più presente solo l’Europa, ma si sono affacciati, con grande determinazione, i popoli del mondo intero. In seno a questi popoli la Chiesa cattolica e le altre Chiese non rappresentano, come in Occidente, la maggioranza della popolazione. Ne consegue che solo un quarto o un quinto della popolazione mondiale è cristiana e, di questa, solo poco meno di un miliardo si riconosce nella Chiesa cattolica.

3. La società occidentale contemporanea, cioè la modernità, che non ha ancora investito totalmente l’Africa e l’Asia, si è formata sulla base di due ideologie: da una parte il liberalismo, dall’altra il marxismo.
Il marxismo ha rappresentato la punta più avanzata della modernità, perché ha applicato nei confronti della realtà non tanto lo strumento della ragione, ma quello della ragione scientifica (il materialismo dialettico). Proprio in questi ultimi tempi, i rivolgimenti avvenuti all’Est sembrano indicare che il comunismo è arrivato al capolinea del suo sviluppo, anche se la classe politica da esso prodotta non è ancora cambiata.
Anche il capitalismo, che nasce dal principio della libertà, applicato rigorosamente solo nel settore del liberalismo economico, è in crisi, benché non lo voglia probabilmente ancora riconoscere. Attanagliato, infatti, dal principio della massimizzazione del profitto, non riesce strutturalmente, a distribuire in modo equo la ricchezza prodotta, ed oggi nemmeno più a reinvestire tutti i capitali che produce. Ha arricchito pochi, tra cui noi, ed ha impoverito molti, il terzo mondo o meglio il Sud. La guerra del Golfo ha segnato un’evidente sconfitta del capitalismo che non ha saputo fare altro che una politica dettata dagli interessi economici, ignorando i diritti fondamentali dei popoli di quell’area geografica.
Vale osservare, a scanso di molti equivoci, che l’essenza della modernità non è costituita dai progressi della tecnica (con tutti i suoi valori e vantaggi, ma anche con tutti i problemi di ordine etico, ambientale e di costume, cui non sa dare adeguate soluzioni), bensì dal presupposto aprioristico, secondo cui la verità coincide con la novità.
Finite, o in profonda crisi teorica e politica, le due ideologie che l’hanno prodotta, anche la modernità, in quanto fenomeno, sembra volgere al termine.
L’idea che oggi il mondo occidentale sia entrato in una nuova fase, detta «post-moderno» è, infatti, universalmente accettata. Rimarranno ancora molti fenomeni residui, all’Est e all’Ovest, ma ciò a cui non si può più credere è che essa possa ancora essere considerata, come cultura, in grado di accompagnare, filosoficamente ed eticamente lo sviluppo tecnico ed economico futuro, per impedire una sua ritorsione contro l’uomo e l’ambiente.
Anche gli esperimenti di Reagan e della Thatcher hanno rivelato i loro limiti. Hanno creato sostanzialmente una nuova opulenza, ma, oltre a sacche di povertà negli Usa e nel Regno Unito stessi, questi tentativi di rilanciare in modo radicale il, principio dell’iniziativa privata, della libera concorrenza e perciò della massimizzazione del profitto, hanno aumentato ulteriormente, a livello mondiale, lo scarto tra il Nord e il Sud. Non è irrilevante che il Papa, nel Sahel, abbia chiesto ai Paesi ricchi del nord di prendere coscienza del fatto che il fenomeno di quella miseria equivale ad un fratricidio.

4. Il post-moderno, dunque, è costituito sia da un vuoto ideologico, sia dalla coscienza culturale di siffatte contraddizioni; da una situazione, cioè, in cui, la fine o i limiti delle ideologie che hanno creato la modernità, sono emersi così chiaramente, da non poterli più considerare come forze progettuali affidabili per il futuro.
La Chiesa si trova, perciò, ad operare in condizioni storiche molto diverse rispetto al passato. La Chiesa universale ha davanti ora tutto il mondo, con un quadro di problemi religiosi, sociali, politici estremamente eterogenei: le grandi religioni orientali, la perdita della cultura propria di interi continenti, come l’Africa; la Chiesa particolare in Europa si trova inserita in quella parte del mondo, in cui la modernità ha creato negli ultimi secoli un’alternativa all’esperienza socio-politica della cristianità, rifiutata e giudicata sommariamente, dal secolo dei lumi, come epoca dell’oscurantismo e della superstizione.
In questo contesto dobbiamo capire il mandato dato ai cattolici, e indirettamente a tutti i cristiani, prima da Papa Paolo VI, poi, con crescente insistenza, da Papa Giovanni Paolo Il: evangelizzare nuovamente l’Europa; programma che è stato assunto anche dalla Chiesa anglicana.
Il Papa ha contribuito attivamente ad accelerare il momento della fine dell’espressione più ambiziosa della modernità, cioè del marxismo.
Nella sua enciclica «Sollicitudo rei socialis» ha messo però anche in evidenza il fatto che, oggi, il problema centrale della giustizia, e perciò della pace nel mondo, deve essere individuato nella posizione di subordinazione del sud rispetto al nord: subordinazione che, inevitabilmente, s traduce in sfruttamento del primo ad opera del secondo.
Denunciando questo fenomeno come espressione del fallimento storico del principio capitalista della massimizzazione del profitto, il Papa non propone, come alternativa, l’avvento di una nuova cristianità, per l’Europa. Intende solo avvertire che l’unità europea non può essere semplicemente progettata sulla base degli stessi principi che hanno creato la modernità.
Dalla modernità infatti hanno avuto origine i nazionalismi che hanno distrutto l’unità’ dell’Europa. Il nazionalismo moderno è figlio della filosofia dei lumi, che. ha avuto nel Re Sole il suo primo grande «sponsor» politico.
E’ incontestabile del resto che la spinta europea contemporanea non è più quella idealista, post-bellica e cristiana, di Schumann, De Gasperi e Adenauer; è una spinta pragmatista, prodotta più da un calcolo economicopolitico, che dall’intento di creare l’unità del popolo europeo sulla base di valori veramente comuni. E’ generata oggi prima di tutto, dall’urgenza di creare un blocco di potere economico-politico, capace di contrapporsi, per la sopravvivenza stessa dell’Europa sia alla tradizionale egemonia dei paesi anglosassoni, sia all’emergere dei popoli asiatici, guidati dal Giappone, che potrebbero però fondersi in una potenza economico-politica, molto più grande, comprendente l’India, la Cina e l’Unione Sovietica non europea.

5. Evangelizzare significa, nella sua sostanza, far riscoprire all’uomo o contemporaneo il significato culturale del mandato affidato da Cristo nell’ultima cena, a tutti i cristiani: «Fate questo in memoria di me».
Significa perciò fare un’operazione culturale che permetta all’Europa non solo di diventare una potenza economico-politica mondiale, ma anche di rimanere fedele alle sue origini cristiane, perché, sulla base di questa identità e specificità culturale, possa ancora inserirsi, come nel passato, nel nuovo progetto per il mondo.
La civiltà dell’Occidente è nata dalla capacità del cristianesimo di integrare, da una parte la filosofia greca, attraverso i Padri della Chiesa e la teologia scolastica di S. Tommaso; dall’altra, l’arte di governare; propria dell’impero romano che ha trovato nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano e nel Corpus Iuris Canonici del tardo Medioevo, la sintesi tra il diritto civile e quello ecclesiale, sintesi culturale che, «antelitteram», ha preceduto lo Stato di diritto moderno.
Da ultimo non bisogna dimenticare che, nel feudalesimo, la cristianità ha assorbito il principio della decentralizzazione del potere politico e l’idea federalista, caratteristica dei popoli germanici.
Il cristianesimo, contrariamente all’illuminismo, non ha dichiarato obsoleto il passato, ma ha integrato le grandi spinte del pensiero umano, filosofico, politico e artistico più avanzato.
Lo splendore della cultura e dell’ordine sociopolitico europei, che hanno permesso una convivenza tra popoli diversi nell’unità giuridica del Sacro Romano Impero, malgrado tutte le sue smarginature, non ha probabilmente uguali nella storia dell’umanità.
Non ha paragoni con le culture dei grandi imperi, come quello celeste in Cina, quello dei Faraoni, degli Incas o degli Aztechi, perché sorti attorno al principio della divinizzazione di pochi uomini e dello sfruttamento in massa di tutti gli altri. Bastano pochi viaggi e pochi libri di storia per rendersi conto di questo fenomeno. L’uomo e la donna europei per contro, anche i servi della gleba, sono sempre stati cittadini «ante-litteram», perché nessuno, e soprattutto il potere politico, ha mai potuto uccidere un cristiano impunemente, almeno dal profilo morale.
Nuova evangelizzazione significa, perciò, far riscoprire oggi ai popoli europei le proprie origini ed i valori fondamentali su cui si appoggia tutta la struttura della cultura europea, nella sua essenza di estrazione cristiana.
Significa, di conseguenza, ancora una volta recuperare ed integrare in una visione cristiana anche le istanze fondamentali delle due linee di pensiero che hanno caratterizzato la modernità. Da una parte, l’istanza originaria del liberalismo filosofico, formulato nella triade libertà, uguaglianza e fratellanza, dall’altra l’istanza sociale del marxismo, di cui la dottrina sociale della Chiesa è quasi coeva, benché sia stata totalmente disattesa anche dalla Internazionale Socialista, ispiratasi, con modulazioni più o meno dichiarate e spinte, all’ateismo del materialismo dialettico.
La nozione di libertà è la nozione chiave. Tuttavia è ormai sempre più apertamente teorizzata e stravolta come possibilità di ciascuno di fare quello che vuole nella vita privata, prescindendo dal vincolo, iscritto nella coscienza dell’uomo, non solo con un qualsiasi codice morale di norme oggettive di estrazione filosofica, ma soprattutto con una norma morale che rimandi alla trascendenza.
La libertà, in termini cristiani, non è né la possibilità di agire senza punto di riferimento morale, né di avere come referente una dottrina etica puramente razionale, come potrebbe essere quella proposta da Kant e dalla migliore filosofia moderna.
La libertà cristiana consiste nella capacità di aderire esistenzialmente non solo ai valori evangelici, ma soprattutto alla persona di Cristo. Il mistero della Croce inoltre, richiama il cristiano al fatto che la sofferenza è ineludibile e purifica ogni scelta morale da ogni rischio di equivoco. Non c’è scelta morale senza sacrificio.
All’uguaglianza deve essere dato un respiro più universale. La rivoluzione francese, infatti, l’ha riconosciuta solo al cittadino. Il formarsi dell’Europa, come nuova entità sociopolitica, deve avvenire sul presupposto che il soggetto vero della storia non è il cittadino, ma l’uomo in quanto tale, e che, di conseguenza, l’uomo è cittadino, non solo di una nazione o di una realtà europea, ma cittadino del mondo.
Solo così è possibile arrivare ad una nozione di uguaglianza che recuperi l’affermazione cristiana fondamentale, secondo cui tutti gli uomini sono figli di Dio e che Cristo è morto per la redenzione di ogni singola persona umana, indipendentemente dalla sua razza, dal suo colore, dalla sua lingua, dal suo censo e dalla sua situazione sociale.
Da questa uguaglianza in Dio e da questa fratellanza in Cristo deriva una nozione di solidarietà umana, che supera i limiti illuministi di fratellanza, peraltro ampiamente disattesa da molti regimi politici, democratici o meno, nati dalla rivoluzione francese, e che il marxismo, dal canto suo ha stravolto come massificazione degli individui.
La nuova evangelizzazione ha come obiettivo di ridare all’Europa quella “leadership” culturale che ha sempre esercitato in tutto l’Occidente, ed in larga misura sul resto del mondo, purtroppo attraverso la politica coloniale che l’ha esportata quasi sempre in malo modo.
Contrariamente a quello che ha fatto il cristianesimo medioevale nei confronti dei popoli barbari, il colonialismo occidentale non ha saputo dare dignità e voce alle culture indigene, per integrarle in una sintesi più ampia. Questo è il compito storico della Chiesa contemporanea. Un compito di evangelizzazione, che la Chiesa universale sta praticando direttamente nei continenti del Terzo mondo, godendo il vantaggio di essere affrancata ormai da quelle sovrastrutture politiche del colonialismo che l’hanno imbrigliata, dal secolo scorso fino a metà di questo secolo. Le Chiese particolari in Europa e nel Nord America, invece sono chiamate oggi a compiere questa evangelizzazione, con evidente maggior fatica, in seno ai popoli del loro stesso continente.
Ogni vescovo europeo è posto davanti oggi a questo compito. E’ un compito senza dubbio estremamente arduo, da realizzare in tempi e con prospettive molto lunghi, tuttavia non scoraggiante, soprattutto se non si dovesse tener conto del fatto che la modernità, con la sua “leadership”, volge verso il termine, lasciando dietro di sé uno spazio culturalmente libero da ideologie, che a lungo termine non possono più avere, perciò, la pretesa di essere egemoni.

6. La nuova evangelizzazione, intesa in questi termini culturali, implica tutta una serie di elementi di cui intendo enucleare solo pochi.
Prima di tutto, il criterio che la Chiesa non deve orientare i suoi sforzi a conservare o salvare le istituzioni, come se queste, per se stesse, fossero in grado di provocare i fedeli alla fede, ma deve fare uno sforzo per raggiungere le persone nella loro interiorità. La pastorale deve cercare di sollecitare la persona, non tanto a compiere gesti rituali, ma a porsi il problema del significato che il fatto storico e il mistero di Cristo può avere nella sua vita reale. In sostanza non si tratta di fare una pastorale delle cose ma delle persone.
La catechesi delle persone adulte, di cui gli adulti devono, comunque e con ogni evidenza, riappropriarsi, deve provocare i fedeli ad un paragone e ad un confronto tra i contenuti della fede e la loro vita personale e sociale, e con i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita della società.
Ne consegue che il contenuto prioritario dell’evangelizzazione non deve essere quello della morale, bensì quello della fede. La funzione della Chiesa non è quella di servire al potere costituito, per mantenere la società entro parametri di moralità che possano garantire un migliore ordine e una stabilità. Spesso la società moderna, nelle sue espressioni più conservatrici, tollera e magari sostiene la Chiesa, come forza capace di garantire certi valori morali comuni. Appena però si manifesta nella sua originalità missionaria e pone Cristo come punto di riferimento per la salvezza, la società illuminata e razionalista reagisce, sia da destra che da sinistra, denunciando il pericolo dell’integralismo.
La proposta della Chiesa non è indirizzata solo alle persone, ma anche alla società, per cui la pastorale deve cercare di ridare una dimensione popolare all’esperienza ecclesiale. I cristiani hanno bisogno di riacquistare la coscienza di essere un popolo, il Popolo di Dio; di riscoprire il gusto dell’appartenenza ad una realtà visibile che, oltre a dare più sicurezza alle persone, le aiuta a superare quell’individualismo, respirato nella società civile, che è uno dei risultati più equivoci della modernità.
Il fatto di ricostruire una coscienza sociale nelle persone, per ricomporre il tessuto sociale nella popolazione, è uno dei contributi culturali che la Chiesa ha dato e deve sempre dare al bene comune.
La nuova evangelizzazione implica come elemento essenziale anche quello di ridare voce e dignità culturale all’esperienza ecclesiale.
Gentili signore e signori, non sono sicuro di avere corrisposto alle vostre aspettative. Credo comunque di avere dato un contributo, sorretto dalla certezza che ognuno di noi, consapevole dei propri limiti e delle possibilità geograficamente circoscritte della propria azione, deve dare un contributo alla rinascita di un’Europa nuova.
Ognuno deve dare il proprio contributo, fosse anche piccolo, e lo deve dare secondo la missione di cui è investito. Ho cercato di farlo come vescovo, non come economista, politico, o uomo appartenente all’Olimpo ufficiale della cultura.

Omelia durante a celebrazione eucaristica nella cappella dell’Università di Parma, 5.dicembre.1991

Oggi la Chiesa e tutti noi ci interroghiamo su come annunciare Cristo alla società contemporanea. Nel momento in cui l’espressione più avanzata e scientifica della modernità, quella del comunismo, ha subito nei Paesi dell’Est europeo la sconfitta politica più rovinosa che una ideologia abbia mai conosciuto nella storia, quale deve essere il messaggio dei cristiani all’Europa?
La caduta dei regimi totalitari all’Est pone oggi la Chiesa faccia a faccia con l’altra espressione della modernità, apparentemente più moderata: quella della cultura occidentale capitalista. Una cultura e un sistema politico, che non potendo più legittimarsi come baluardo insostituibile contro l’espansione del materialismo dialettico, hanno perso parte del loro prestigio. La sfida culturale per i cristiani è, di conseguenza, diventata improvvisamente più stringente e precisa.
In una società capitalista e pluralista come la nostra, che, a differenza di quella costruita all’Est dal materialismo dialettico, non nega necessariamente e sempre l’idea di Dio, ma la riduce spesso a opinione, tanto più tollerabile quanto più rimane circoscritta alla sfera privata del cittadino, noi cristiani siamo ancora legittimati a predicare agli uomini l’unicità della salvezza in Cristo?
Il problema fondamentale, cui è confrontata la Chiesa contemporanea e con essa tutti noi cristiani, chierici e laici, non è infatti in primo luogo quello di rendere plausibile al mondo, in cui siamo immersi, la morale cristiana, ma quello di possedere ancora la forza culturale e il coraggio di annunciare agli uomini del nostro tempo l’unicità della salvezza di Cristo.
Avanza, infatti, a grandi passi, nella cultura occidentale, in stretto contatto ormai con le grandi religioni orientali, la persuasione che l’incarnazione del Logos in Gesù Cristo non è unica, bensì una delle tante manifestazioni del Logos stesso. Tutte le grandi religioni, infatti. Rivendicano di essere, anch’esse, fondate su una rivelazione, contenuta nei rispettivi libri sacri.
Il Gesù storico della Palestina può ancora avere la pretesa assoluta di essere l’unico Figlio di Dio, unico Salvatore per tutti gli uomini?
La risposta a questo interrogativo è centrale, sia per il compito che ci incombe di evangelizzare nuovamente la nostra cultura europea, sia per annunciare Cristo alle culture extra-occidentali, affacciatesi ormai sulla scena del mondo contemporaneo.
La cultura moderna, sostanzialmente europea, è nata dall’affermazione che la ragione umana è l’unica fonte conoscitiva per poter comprendere la realtà, il significato della vita umana e della storia.
Tuttavia la scoperta recente e sempre più palese dei limiti teoretici, sociali e politici, inerenti alla cultura moderna, e della sua incapacità radicale a risolvere, sia in Occidente che in Oriente, il problema della convivenza pacifica degli uomini, ha dato ormai avvio alla fine dell’epoca moderna, facendo entrare l’Occidente nella fase della post-modernità.
La cultura dominante ha però avallato tra i cristiani la convinzione diffusa che anche per la Chiesa cattolica sia iniziata la fase della post-cristianità. Una post-cristianità che nasce, non tanto dalla constatazione dei limiti storici della cristianità, bensì dall’accettazione, da parte del cristianesimo, di essere considerato, dalla cultura contemporanea, solo una delle tante forme di religiosità umana.
Per l’uomo post-moderno, il cristianesimo e, in modo esponenziale, la cattolicità, dovrebbero accettare di collaborare con tutte le altre religioni e denominazioni cristiane e con tutte le forze spirituali del mondo, per realizzare alcuni valori comuni, come la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato, rinunciando però ad una visione propria sul significato della storia.
Se così fosse, la giustizia umana, presupposto della pace, e la salvaguardia dell’ambiente, diventerebbero non solo il punto di riferimento di ogni prassi ecumenica tra i cristiani, ma anche il valore assoluto ed esclusivo per la convivenza tra gli uomini, di fronte al quale anche la fede nella trascendenza di Dio e nella divinità di Cristo dovrebbe inchinarsi.
Se dovessimo accettare che la Chiesa non ha il suo fondamento nel fatto dell’unicità dell’incarnazione del Lògos, Figlio di Dio, la conseguenza sarebbe la sostituzione dell’annuncio di Cristo al mondo con il dialogo, inteso come semplice scambio di convinzioni soggettive ed opinabili.
All’interno stesso della Chiesa la conseguenza sarebbe che ogni fedele è autorizzato, a livello della fede e della morale, a prendere o lasciare ciò che più gli conviene.
Prenderebbe ulteriore consistenza il fenomeno, in atto anche fra noi fedeli praticanti, del cattolicesimo «à la carte ». Un Cristo e un cattolicesimo a misura dei nostri gusti e delle nostre esigenze individuali.
Di fronte a questa situazione, i testi del nuovo Testamento, dalla lettera ai Colossesi e dal prologo di San Giovanni, che abbiamo ascoltato in questa celebrazione, e ai quali potremmo aggiungere anche il primo capitolo della lettera agli Efesini, rivestono un’importanza fondamentale.
In effetti, sia l’apostolo Paolo che San Giovanni, confrontati con una cultura greco-romana, sostanzialmente sincretista, si sono trovati in una situazione analoga alla nostra, caratterizzata da un profondo relativismo culturale e religioso.
Per intaccare alla radice questa cultura pagana, essi sono così risaliti all’origine Stessa del rapporto di Dio con l’uomo, rivelandoci che la chiamata di Dio all’uomo è previa alla creazione stessa del mondo. San Paolo ha posto il «lògos», Figlio di Dio, nel cuore stesso dell’atto creativo del Padre.
Egli, il Padre, scrive nella lettera agli Efesini (1,4): «ci elesse in Gesù Cristo prima» (e non dopo, come siamo inclini a pensare comunemente) «della creazione del mondo stesso». Ciò significa che la paternità di Dio nei confronti della nostra persona è più antica della creazione del mondo; precede l’esistenza stessa della materia originale da cui, per successive evoluzioni, si è formata la realtà incommensurabile del cosmo. L’uomo trascende perciò l’universo creato .
Il nostro rapporto di figliolanza, di fronte a Dio, anticipa il rapporto di dipendenza stabilitosi tra la realtà creata e il Padre, nel momento stesso della creazione del mondo, rivelatoci dal libro della Genesi.
Il secondo elemento di questa rivelazione apostolica sull’origine del mondo e dell’uomo è quello della funzione mediatrice svolta dal Lògos nella creazione. Il Verbo, che era in principio presso Dio ed era Dio, è l’immagine attraverso la quale ogni creatura è stata creata. «Tutto fu fatto per mezzo di Lui e senza di Lui non fu fatto assolutamente nulla di ciò che è stato fatto», scrive San Giovanni nel prologo del suo Vangelo (1,1-3).
Nella lettera ai Colossesi, San Paolo prosegue affermando, come abbiamo sentito, che il «Figlio è l’immagine del Dio vivente, primogenito di tutta la creazione, poiché in Lui sono stati creati tutti gli esseri nei cieli e sulla terra, visibili ed invisibili. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui», per cui tutti gli esseri trovano la loro consistenza intrinseca in Lui (1, 15-17).
Se l’uomo è stato creato dal Padre attraverso il Verbo, immagine perfetta del Padre, che, per analogia, ha esercitato la stessa funzione dell’immagine intellettiva nei confronti della nostra conoscenza umana, ciò significa che non è esatto dire che Gesù Cristo si è incarnato assumendo un modello di natura umana preesistente. San Paolo e San Giovanni affermano, infatti, che l’uomo stesso è stato creato secondo il modello dell’umanità che Cristo avrebbe assunto nel tempo e nella storia. Tocchiamo, fedeli cristiani, i vertici della contemplazione del mistero di Dio creatore e della conoscenza che l’uomo può avere di se stesso e della propria origine.
È l’uomo ad essere fatto ad immagine di Cristo, primogenito di tutta la creazione, e non il Cristo ad immagine dell’uomo. Cari fratelli e sorelle nel Signore,
Gesù Cristo Signore, Verbo di Dio e immagine perfetta del Padre, ha plasmato l’origine stessa della nostra persona. Il libro della Genesi, infatti, ci rivela che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio. Ciò significa che la salvezza dell’uomo e la nostra salvezza personale possono avvenire solo attraverso la persona stessa di Cristo. Se Cristo è stato il modello unico, attraverso il quale il P a d re ci ha creati, la nostra salvezza non può avvenire se non attraverso la restaurazione in noi di questa immagine, grazie alla redenzione operata da Cristo stesso sulla croce.
L’unicità della salvezza di Cristo rimane perciò l’elemento imprescindibile e centrale della nostra fede. Non possiamo eliderla dalla nostra coscienza, senza degradare la rivelazione cristiana a religione naturale umana: fosse pure il prodotto della migliore e più nobile razionalità umana; di una ragione, però, incapace, per definizione, di penetrare nel tempio sacro del mistero della paternità di Dio verso l’uomo e verso le nostre singole persone.
Se dovessimo rinunciare, pur nel totale rispetto di tutte le altre proposte religiose, ad annunciare questa verità centrale della nostra fede al mondo, noi cristiani, non solo capitoleremmo di fronte alla cultura dell’epoca postmoderna, ma non avremmo più nulla di proprio da annunciare all’Europa per la sua nuova evangelizzazione. Problema che, oltre tutto, i Vescovi riuniti in Sinodo a Roma con il Papa in questi giorni, sono chiamati oggi ad affrontare.
L’essenza del Cristianesimo, infatti, affermava Romano Guardini, non sta nella più alta nobiltà della sua dottrina morale, personale e sociale, bensì nella persona di Cristo.
Solo l’unicità della persona stessa di Cristo, in cui il Lògos si è incarnato, può porsi come salvezza per tutti gli uomini, poiché è solo la sua unicità che può porsi come oggetto comune del nostro amore.
Ma l’unicità della Sua Persona ha come conseguenza anche quella di essere il punto unificante della nostra persona.
L’ amore verso Cristo unifica tutte le nostre energie, dando unità alla nostra persona. La salvezza della nostra vita sta, infatti, nel realizzare l’unità interiore della nostra persona; unità che solo Cristo può garantirci con la sua Grazia.

Tavola rotonda all’Università Cattolica di Milano, 20.02.1992, E.Corecco, S. Benedetti, M. Botta, G. Gresleri.

1. La cultura cristiana, di cui il Vescovo deve essere testimone, garante, ma anche soggetto confrontato con l’imperativo della creatività, si è sviluppata su due assi dottrinali convergenti.
Il primo asse portante è quello della teologia della creazione.
Ha avuto come conseguenza, verificabile anzitutto nella storia europea, quella della riabilitazione del lavoro anche manuale. Il rifiuto delle opere servili, nell’antichità, aveva generato la schiavitù. Il lavoro deve essere retribuito. San Paolo lavorava con le proprie mani e la cultura europea è dominata dal principio di San Benedetto «ora et labora».
Il lavoro, con lo sviluppo tipicamente europeo dell’artigianato, è interpretato e valorizzato come partecipazione e cooperazione dell’uomo all’attività creatrice di Dio. E’ la prima tappa in cui si realizza il principio della incarnazione. L’uomo, nel suo lavoro, sperimenta, nel concreto della storia, la stessa emozione ontologica ed estetica di Dio, che contempla le creature da Lui poste in essere: «Dio guardò tutto quello che, operando, aveva creato e vide che era molto buono» In quanto partecipazione all’opera del Creatore, l’attività creatrice ed artistica dell’uomo acquisisce così dimensione religiosa intrinseca.

2. Il secondo asse portante della cultura cristiana è la teologia dell’incarnazione. In effetti la cultura europea è nata da due vittorie. La prima vittoria è stata quella sull’arianesimo, con la definitiva cristianizzazione dei popoli barbari ariani (ostrogoti e visigoti) e dei franchi (con il Battesimo di Clodoveo); la seconda è stata quella sulla iconoclastia. Il II° Concilio di Nicea ha liberato la cultura cristiana dall’influsso iconoclasta di origine ebraica e musulmana.
Il trionfo dell’immagine coincida con il trionfo dell’ortodossia cattolica, il cui punto di riferimento sono i dogmi sull’incarnazione di Cristo dei primi quattro Concili ecumenici. Il principio della creazione implica che il richiamo alle cose del cielo passi attraverso la piena partecipazione alle realtà della terra.

3. All’interno del vasto orizzonte del dogma della creazione, l’arte cristiana si precisa così, ulteriormente, come visualizzazione simbolica del dogma della incarnazione.
Gravita, perciò, attorno alla celebrazione liturgica, in cui si fa la memoria del mistero dell’incarnazione, della morte e risurrezione di Cristo. Nell’eucaristia, espressione più compiuta e riassuntiva di tutta la liturgia, questo mistero, infatti, si attualizza sacramentalmente come evento sempre presente e operante nella storia.

4. Nel corso della storia, la rappresentazione artistica dell’incarnazione non è stata tuttavia univoca, poiché il mistero della incarnazione, pur nel rispetto sostanziale della cristologia calcedonense, non è stato interpretato con lo stesso rigore dalle diverse confessioni cristiane: quella ortodossa orientale, quella protestante e quella cattolica prevalentemente latina.
Queste diversificazioni nella comprensione del dogma hanno attinto abbondante alimento dalle diverse opzioni filosofiche che, nelle singole confessioni cristiane, hanno talvolta esercitato un influsso egemonico sull’infrastruttura razionale della loro fede.

4.1.L’ortodossia, in seguito ai contatti con il neo-platonismo e alla ristrutturazione ellenistico-bizantina subita nel primo medio Evo a contatto con i popoli slavi, ha assunto una profonda valenza mistica.
Nel segno di una diversa radice antropologica, rispetto a quella occidentale, e di una inconfondibile reminiscenza culturale orientale e platonica, tende ad affermare l’assolutezza dell’essere, relativizzando il valore della storia. Il pensiero orientale cerca di eludere i limiti delle apparenze cosmiche e della contingenza della storia, elevandosi verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del divino.
È una elevazione filosofica, perpendicolare rispetto alla direzione orizzontale della storia, che pone l’accento sulla trascendenza. L’escatologia ortodossa tende a disgiungersi dalla storia. L’icona, infatti, a differenza del dipinto sacro occidentale, non rivendica una consistenza propria, perché non pretende di essere un’incarnazione del divino, ma solo un segno sensibile. Attesta la presenza di Dio nel mondo, rappresentando gli archetipi razionali dell’intelligibile, senza avere però la pretesa di materializzarli o deificarli nell’immagine.
Non è un caso il fatto che la cupola dorata di Santa Sofia di Costantinopoli (costruita dall’imperatore Giustiniano), con la quale l’Oriente cristiano ha reso liturgicamente agibile il Pantheon romano, è fatta per essere guardata dall’interno, essendo la sua intenzione profonda quella di richiamare l’uomo alla trascendenza di Dio.
Solo di passaggio vorrei accennare al fatto che la cupola di San Pietro, espressione dell’umanesimo rinascimentale, è fatta invece per essere guardata dall’esterno; da una posizione in cui l’uomo, postosi ormai al centro della storia, possa dominarla e fruire su questa terra della sua plasticità estetica.
4.2. Il protestantesimo, sia nel solco del messianismo giudaico, ripreso in occidente da Marx, che, con l’idea di progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico, sia del nominalismo del tardo Medio Evo, subisce invece il fascino di un messianismo che tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto dell’uomo privo di prospettiva escatologica.
Nel protestantesimo, infatti, l’escatologia non investe la Chiesa visibile, considerata realtà sociologica senza valore soteriologico, ma solo la Chiesa spirituale e invisibile. Ma anche questa dimensione escatologica della Chiesa invisibile, disincarnata dalla storia, è bruciata, in ultima analisi, dal principio della predestinazione, che più che al futuro rimanda al passato.
Il tempio protestante è molto vicino alla sinagoga. Più che luogo di azione liturgica, dove la comunità celebra il mistero dell’incarnazione, è il luogo di ascolto individuale della Parola, in cui l’uomo si consola grazie alla fede sfiduciale in Dio, che lo ha già predestinato alla salvezza. Il movente della sua azione nel mondo, come ha dimostrato Max Weber, non è una fede che lo spinge, come avviene invece per il fedele cattolico, verso l’assunzione e la trasformazione delle realtà terrestri, nel segno della propria incarnazione personale nella storia, ma piuttosto l’urgenza e la speranza di creare opere, che gli possano confermare l’esclusiva benevolenza salvifica di Dio nei suoi confronti.
Il principio protestante dell’incarnazione si arresta a Calcedonia, alla persona di Cristo, non continua nella Chiesa visibile, con la conseguenza che il tempio tende ad essere semplice luogo di ascolto individuale della Parola di Dio, “extrinsecus data”.
4.3. Il cattolicesimo interpreta nel modo più rigoroso il principio dell’incarnazione, applicandolo da Cristo alla Chiesa, che è Popolo di Dio perché è anche il Corpo Mistico di Cristo. Servendosi della metafisica ilemorfistica, aristotelico-tomista, enucleabile nel principio “universalia in rebus”, in forza del quale la forma si incarna nella materia (principio alternativo sia a quello platonico “universalia ante res”, sia a quello nominalista “universalia post res”, la teologia cattolica attua con estrema coerenza dottrinale e senza soluzione di continuità, il passaggio dalla cristologia calcedonense (comune anche alle altre confessioni cristiane) alla Chiesa: realtà, visibile e invisibile, in cui Cristo risorto continua ad essere presente nella storia, quale soggetto primario della stessa celebrazione liturgica.
Nella concezione cattolica il cristiano è perciò chiamato a collaborare, da subito, all’opera della salvezza, “in” e “di” questo mondo, vivendo l’escatologia come dimensione già presente nella storia, senza fughe unilaterali verso la trascendenza e verso il tempo futuro.
La Chiesa cattolica costruisce perciò l’edificio di culto come luogo in cui essa stessa agisce ed opera in quanto comunità cristiana, evitando ogni evasione, implicita o esplicita, di estrazione monofisita o nestoriana.
Non è casuale il fatto che il termine Chiesa, con il quale il Nuovo Testamento ha definito la comunità dei fedeli, congregata da Cristo, sia stato progressivamente, ma anche definitivamente trasferito all’edificio di culto.
Il monumento architettonico cerca di interpretare, avvolgendola entro uno spazio e diventandone anche il segno simbolico, la comunità cristiana, che nel momento della celebrazione dell’Eucarestia si realizza, sacramentalmente, come realtà spirituale e sociale; quale soggetto culturale diffuso nel mondo intero, perché è universale, ma anche convergente nella sua totalità in un solo luogo. La Chiesa, l’unica Chiesa di Cristo, ha due dimensioni essenziali: universale e particolare, che devono essere riconosciute anche attraverso l’edificio di culto.

5. Su questo impianto teologico fondamentale si sono innestati spiritualità e influssi culturali, declinatisi in stili e moduli architettonici diversi. Queste differenti tipologie si sono susseguite e intrecciate lungo il corso della storia e sono sempre risultate valide, nella misura in cui non hanno ceduto alla tentazione di regredire nella imitazione del passato.
Ogni inflessione culturale e ogni stile architettonico sono validi, a mio avviso, purché riescano a interpretare l’essenza del mistero cristiano, rispettando quei risvolti ecclesiologici e liturgici che la specificità di ogni epoca storica esige.
Se è vero che all’interno del cristianesimo come tale esistono soluzioni architettonico-liturgiche più cattoliche di altre, poiché esiste un rigore cattolico diverso nell’interpretare il principio dell’incarnazione, e nel concepire perciò l’ecclesiologia, non credo, per contro, che, all’interno del cattolicesimo, sia possibile affermare l’esistenza di stili più cattolici di altri.
L’essenziale è che ogni edificio di culto sia espressione autentica della concezione che la Chiesa, in quanto realtà sacramentale, ha di sé in una determinata epoca storica.

6. Oggi si verificano due fatti di cui il committente e l’architetto devono tener conto.
Da una parte il fatto che l’architettura contemporanea, a differenza di altre epoche del passato (ma parallelamente, forse, ai primi secoli della storia della Chiesa), riconosce la propria ascendenza non più nella tradizione culturale cristiana, ma nella cultura secolarizzata. Rispetto all’epoca delle basiliche paleocristiane, l’aggravante sta nel fatto che la cultura laica moderna si è frantumata in un pluralismo di espressioni in cui è difficile decodificare gli elementi portanti della sua unità.
Ciò rende più precario il giudizio sulla potenziale capacità di queste espressioni culturali di offrire, di volta in volta, modelli ancora atti a realizzare una concezione cattolicamente ortodossa del sacro: una concezione capace di esprimere in modo adeguato il mistero dell’incarnazione. Il secondo dato di fatto è che la Chiesa, se da un lato si è espressa, con il Concilio Vaticano II, secondo una autoconcezione ecclesiologica molto più precisa ed esigente di quanto non sia mai riuscita a fare nei secoli passati, dall’altro ha assistito all’emergere di una varietà di dottrine e modelli ecclesiologici, in cui non è sempre possibile tracciare con sicurezza i confini tra l’ortodossia e la falsificazione del dogma.
Coniugare una cultura e un’architettura di ascendenza prevalentemente illuminista e secolarizzata con le esigenze di una teologia contemporanea, in cui, a differenza del passato, l’ecclesiologia e la pneumatologia sono diventate il problema fondamentale da risolvere, non è impresa facile o di poco conto.
Il Vescovo, cioè il committente, e l’architetto devono riuscire a interpretare nella fede questi segni dei tempi, che purtroppo sono spesso eterogenei ma, di certo, non inconciliabili “a priori” tra di loro, come dimostra ampiamente la storia.
L’architettura religiosa autentica non è mai nata e non può nascere dal caso. Il quadro dei parametri teologici e filosofici, che hanno presieduto nel corso di questi due primi millenni allo sviluppo dell’arte cristiana e che ho cercato di individuare, mostra che l’architettura religiosa è nata e nasce determinata da una necessità intrinseca. Nella nostra società post-moderna, in cui la cattolicità è confrontata con l’imperativo di ricostruire faticosamente un proprio impianto culturale, le difficoltà di una sintesi possono essere perciò maggiori di un tempo.

Introduzione del Gran Cancelliere al Dies Academicus della Facoltà di Teologia di Lugano, 4 dicembre 1993.

1. Mi sia consentito aprire questo indirizzo di saluto inaugurale del secondo Dies Academicus con una comunicazione ufficiale che, da sola, basta ad onorare la nostra giornata celebrativa.
Con decreto della Congregazione per l’Educazione Cattolica del 20 novembre scorso, la S. Sede ha concesso all’Istituto di Lugano il diritto di rilasciare il dottorato in Sacra Teologia, elevandolo al contempo al rango accademico di Facoltà di teologia.
Giunge in tal modo a compimento il nostro itinerario accademico nell’ambito delle strutture universitarie operanti a livello di Chiesa universale.
2. Esprimendo pubblicamente la mia gratitudine e quella del corpo insegnante e studentesco alla Congregazione per l’Educazione Cattolica e al Santo Padre P.P. Giovanni Paolo II per averci concesso questo ambito diritto, che erige l’Istituto in Facoltà di Teologia, vale a dire in una entità base di ricerca e insegnamento su cui tradizionalmente si fonda l’università, permettetemi di fare una breve riflessione sulla natura e la funzione dell’università stessa.

3. Per dare una risposta si possono seguire due vie.
Una è quella di procedere a una semplice rilevazione oggettiva di cos’è oggi e come funziona questa istituzione. La seconda è quella di ripercorrere la storia dell’università, indagando sul suo significato originale e interrogandoci criticamente sull’attualità della sua vocazione originaria e dei modelli assunti nel tempo sino ai giorni nostri. Non è certo la brevissima esperienza della nostra Facoltà di Teologia, ma piuttosto la lunga esperienza universitaria di alcuni professori e del sottoscritto che l’hanno fondata, che mi autorizza ad affrontare questo tema.

4. Se si batte la prima strada, ci si rende subito conto che l’università attuale serve sostanzialmente a preparare “forza lavoro qualificata”, capace di mediare il rapporto fra scienza e produzione materiale e di elaborare conoscenze utili al funzionamento dell’apparato produttivo.
Queste due funzioni vengono spesso indicate con le parole didattica e ricerca. Lo studente si aspetta di apprendere cose che gli consentano di inserirsi in un modo vantaggioso nella generale organizzazione del lavoro. Il professore cerca di elaborare conoscenze utili a questo fine e di trasmetterle. La società si aspetta di ricevere dall’università persone preparate a svolgere funzioni utili alla riproduzione delle società stessa.
La categoria che domina in questo primo approccio al problema è quella dell’utilità. Ci si domanda: a che serve l’università? a che serve questa laurea? a che serve questa conoscenza?
Il filosofo Nikolaus Lobkowicz, dell’Università Cattolica di Eichstatt, ha scritto che, se si continuasse con questo tipo di approccio “perfettamente strumentale”, si potrebbe giungere, in un futuro non lontano, ad eliminare definitivamente la concezione stessa di università, riducendo gli attuali istituti accademici a luoghi esclusivamente deputati alla formazione professionale, regolata nelle sue esigenze dalle leggi implacabili di mercato e perciò decisamente poveri, o del tutto privi, di ispirazione ed addirittura di pensiero.
Forse è nella intuizione di questa problematica che il popolo ticinese ha fatto tanta resistenza alla creazione di un’università locale, ritenendola in ultima analisi superflua. Se si fa uso, invece, della seconda strada, occorre risalire fino al Medio Evo, dove l’Universitas studiorum non nasce da un progetto del potere costituito, ma piuttosto dal desiderio spontaneo degli uomini di conoscere la verità.

5. I sodalizi di professori e studenti, nati su base privata dal bisogno di rinnovamento intellettuale caratterizzante il XII secolo, diventeranno vere e proprie università, grazie al papato e poi all’impero, che, oltre ad averne fondate di nuove, hanno concesso a quelle esistenti ampie autonomie, arricchendole di privilegi.
Le università nascono nei chiostri o nei conventi, oppure accanto alle cattedrali, e il termine “università” sta ad indicare soprattutto l’esistenza di una comunità umana, composta di maestri (magistri) e di discepoli (scholares), uniti dalla comune passione della ricerca della verità sulle cose, sull’uomo e su Dio.
Le singole facoltà vengono concepite come diverse vie di accesso all’unica verità. Proprio per questo, al centro dell’università medievale sta la facoltà di teologia, dove il contenuto dell’insegnamento è l’autocomunicazione di Dio stesso all’uomo. La rivelazione è una grande ipotesi di lettura della realtà che, tuttavia, per mostrare tutta la sua fecondità, deve essere sottoposta alla verifica della conoscenza e dell’esperienza umana, secondo tutte le diverse forme di ricerca e di studio.
Certamente anche l’università medievale prepara a funzioni sociali determinate, ma in essa l’accento cade sulla formazione dell’uomo, piuttosto che sulla preparazione del funzionario. Il primo scopo dello studio universitario è l’arricchimento della persona, che riconosce la verità e vi aderisce con libertà, per realizzare il bene proprio e quello comune.

6. Dopo questi grandi inizi dell’università, gli storici sono soliti trascurare l’epoca di rinnovamento, operato nello spirito umanista del Rinascimento, per passare, attraverso semplificazioni irriguardose, alla grande riforma, attuata da Wilhelm von Humboldt (1767-1835) all’università di Berlino.

7. Il modello humboldiano laicizza l’idea medievale. L’ideale dell’unità del sapere, della superiorità del sapere puro su quello applicato e il gusto della formazione dell’uomo integrale, sono ancora vivamente sentiti. Questo ideale non è più radicato, però, in un’esperienza di unità umana – quale punto sorgivo di un’autentica coscienza critica della società – bensì su un modello idealistico di comunità, in cui il compito epistemologico centrale non è più affidato alla teologia, ma alla filosofia. Tuttavia, l’idea fondamentale secondo cui le singole facoltà forniscono prospettive diverse e complementari sulla verità rimane; come rimane l’immagine del doctor, che prima di essere uno specialista di questa o quella disciplina, è un uomo che ha l’amore alla totalità dell’essere e del bene.
Accanto a questo modello primario la riforma di Von Humboldt conosce e sanziona, però, anche un altro metodo di acquisizione e trasmissione del sapere. È quello della scuola superiore tecnica, modellata sull’esempio della “école polytechnique” napoleonica, destinata a formare funzionari, cioè uomini capaci di svolgere una funzione specializzata all’interno dell’organizzazione dello Stato assoluto moderno.
Il funzionario non si interroga su che cosa sia il bene o in che cosa consista la verità, ma solo in che modo un sapere scientifico possa essere usato, con il massimo di efficacia ed il minimo di spese, per conseguire i fini pratici definiti dal principe o dal governo illuminato.

8. Nel secondo dopoguerra, il boom economico dei paesi occidentali ha avuto come conseguenza quella di sviluppare a dismisura le strutture universitarie. Il cambiamento, tuttavia, non è stato solo quantitativo. Il modello della scuola superiore tecnica, secondario nella riforma di Von Humboldt, ha preso il sopravvento. La discussione sui fini si è interrotta o è stata praticamente abbandonata. Il sapere che viene coltivato è sempre più un sapere strumentale .
Anche le facoltà di teologia e di filosofia hanno rinunciato alla vocazione di dare indicazioni sui fini, per rinchiudersi su se stesse, sottomettendosi senza riserve alla logica della divisione del lavoro accademico.
Nelle altre facoltà la ricerca è sempre più condizionata dallo sforzo di produrre il sapere richiesto dal mercato, più che dalla preoccupazione di investigare, da un punto di vista intrinseco alla scienza stessa, ciò che è effettivamente importante per l’uomo, per il suo avanzamento e per il suo sviluppo. In questo modello illuminista, segnato da una concezione individualistica dell’uomo, l’unità della universitas magistrorum et scholarum, quale realtà comunitaria umana, capace di elaborare un giudizio critico sulla società, non solo non è più teorizzata, ma è resa anche illusoria dalle strutture megagalattiche raggiunte da moltissime università di Stato.
Ciò ha provocato il formarsi di un crescente senso di impotenza e di sfiducia che, verso la metà degli anni sessanta, esplode in tutta la sua violenza, sotto l’influsso dell’ideologia marxista. Negli Stati Uniti d’America e in quasi tutta l’Europa si reagisce innestando un processo di progressiva democratizzazione, decentralizzazione e politicizzazione delle strutture universitarie, nella speranza di poter risolvere in questo modo la crisi profonda in cui versa l’istituzione.
Di fatto, però, non è difficile constatare, ovunque, l’insuccesso di questa riforma; la ragione è semplice: la crisi dell’università non è primariamente di tipo organizzativo ed istituzionale, ma spirituale e culturale. In altri termini, è in crisi l’università come istituzione educativa e come luogo di produzione del sapere, sia teorico che pratico.
I giovani, vittime della crescente specializzazione, non incontrano più un luogo in cui possa essere posta la domanda che riguarda l’uomo come tale. Ogni singola disciplina la respinge dal proprio ambito, qualificandola come non scientifica rispetto ai termini del proprio lavoro settoriale. In questo mondo specifico lo studente non ha la possibilità di interrogarsi criticamente su se stesso, sulla propria identità più autentica, sui fini che intende perseguire nella vita. Di conseguenza non può assumere criticamente il ruolo sociale cui l’università lo prepara.
Il concetto stesso della scienza viene assorbito in quello della tecnica, ed è proprio attraverso tale processo concettuale che alla tecnica viene attribuito quel carattere di onnipotenza demoniaca, di cui troviamo riscontro nella filosofia heideggeriana.
Nel frattempo, però, l’epistemologia più recente aveva già riscoperto che le leggi endogene di sviluppo del sapere scientifico sono di natura essenzialmente teoretica. Per essere adeguatamente pratico, il sapere deve prima essere teoretico. Ciò significa che non è possibile fare scienza, se la preoccupazione dell’utilizzabilità pratica della scoperta sostituisce il gusto e la preoccupazione del conoscere le cose in se stesse, per amore della conoscenza in quanto tale.
La crisi dell’università come luogo educativo e come luogo di elaborazione del sapere tecnico si riflette, così, sulla sua capacità di fornire una preparazione tecnico-professionale adeguata. La tecnologia, infatti, non è semplicemente un dedurre, da leggi scientifiche immutabili, soluzioni altrettanto immutabili di concreti problemi pratici.
In realtà, il compito del laureato di facoltà tecniche (si pensi agli ingegneri, agli architetti o ai medici, per es.) è quello di mediare fra il sapere scientifico ed i concreti bisogni dell’uomo, della società e dell’ambiente, ai quali la tecnica intende dare risposta. Perché la risposta sia soddisfacente è necessaria una grande capacità di comprendere il bisogno dell’uomo in quanto tale, di dialogare con esso, sulla base di una ipotesi di ricerca feconda, sulla verità insita alla persona umana.
Di diverso contenuto sarebbero eventuali riflessioni – che non intendo proporre in questa sede – sul modello universitario prodotto dal materialismo dialettico.

9. Ho accennato in apertura alle ragioni profonde che, forse in modo implicito, hanno indotto il nostro popolo nel 1986 a sconfessare il progetto universitario del Cantone Ticino. Fu probabilmente la consapevolezza, espressa non sempre in modo adeguato, che lo Stato non sarebbe stato in grado di creare un fatto culturale nuovo, degno di essere sostenuto anche con sacrifici finanziari. A questo si aggiunse, senza dubbio, la percezione della non necessità di una università locale.
Oggi il clima sembra profondamente cambiato. Prima di tutto, perché si è capito che il problema universitario si pone in termini diversi. È diventato più chiaro che un’università ticinese si giustifica solo a condizione che essa sia utile, non solo per una nostra potenziale utenza, ma anche per altri Paesi e culture. Solo se dalla tribuna europea o internazionale si guarderà all’università del Ticino con interesse reale, avrà senso realizzarla anche per noi. Un’università esclusivamente progettata all’interno del nostro angusto orizzonte ticinese non avrebbe senso. Tanto più che sembra difficile individuare, nella nostra società, un bisogno che possa essere soddisfatto solo attraverso l’apertura di una università locale.
I bisogni, in rapporto alla ricerca e alla formazione accademica, esistono, ma possono essere soddisfatti anche altrove. Ne consegue che un’università locale si autogiustifica solo se riesce a dare una propria risposta che sia, nel contempo, non solo fruibile, ma appetibile anche oltre i nostri confini.
Questa appetibilità non può essere determinata solo dalle materia di ricerca e di insegnamento, ma piuttosto dal modello di istituto, nel quale deve essere leggibile un tentativo di ridare all’università un compito non più passivamente subordinato alle esigenze di mercato, bensì di ricostituzione del tessuto della società in crisi.
L’università adempie al suo compito originale solo nella misura in cui riesce a porsi come forza riformatrice e perciò critica rispetto alla società e ai suoi valori dominanti.
Perché ciò sia possibile, lo Stato deve, a mio avviso, rinunciare al ruolo di soggetto protagonista, attribuitogli dal modello di Von Humboldt. In un momento storico di crisi politica e istituzionale latente, in cui il ruolo dello Stato sta rapidamente evolvendo da istanza che ipostatizza la società verso la funzione meno totalizzante di organo al servizio della società, la responsabilità delle riforme, in vista della riorganizzazione del potere pubblico, deve essere riconosciuta alla società e alle forze che in essa siano capaci di sviluppare una nuova creatività. Lo Stato, invece di dirigere in proprio e ministerialmente le università, deve accettare di assumere il ruolo di istanza, incaricata di riconoscere ed assecondare, sostenendole con il suo potenziale finanziario, le iniziative che sorgessero su impulso privato.
Mi sembra che questo orientamento sia ormai in atto nel nostro cantone e non possiamo non rallegrarci con il nostro Governo e con il Direttore del Dipartimento della Pubblica Educazione, On. Buffi, non da ultimo perché, con il nuovo modello di Facoltà di Teologia, senza aver sotteso secondi fini politici, anche noi abbiamo inteso dare un contributo in questa direzione.

Conferenza alla Loggia massonica “Signa Hominis” di Lugano nel decennale della sua fondazione, 4 novembre 1994.

1.– Il conflitto tra la Chiesa Cattolica e la Massoneria è divampato quasi subito dopo la nascita, nel  1717, della Grande Loggia d’Inghilterra, destinata a diventare la Grande Loggia Madre mondiale.
In effetti, nello stesso anno in cui il pastore protestante Anderson presentò la prima riforma delle Costituzioni della Grande Loggia d’Inghilterra, vale a dire nel 1738, Papa Clemente XII, con la Lettera apostolica “In eminenti” (28.IV.1738) colpì gli aderenti alla Massoneria con una delle pene più gravi previste dall’ordinamento canonico, cioè con la scomunica riservata al Pontefice.
Magari alzando il tiro oltre il bersaglio, Clemente XII dichiarò fin d’allora la Massoneria come istituzione infesta alla religione ed eversiva degli ordinamenti, non solo ecclesiastici,
ma anche civili, e considerò i massoni come eretici.
È interessante comunque annotare che le ultime Costituzioni corporative adottate nel 1704 dalla Massoneria operativa, prima del passaggio a quella speculativa o simbolica, raccomandavano ancora agli adepti la devozione verso Dio, verso i Santi e verso la Chiesa.
Cosa era successo, perché nel giro di soli 34 anni scoppiasse un conflitto così virulento?
Sappiamo, infatti, che dal XII al XIV secolo i Papi, non meno che i principi secolari, avevano sostenuto e concesso importanti privilegi alle Corporazioni dei maestri dell’arte muraria, così da renderli giuridicamente assai autonomi nell’ambito del diritto comune; da cui il titolo di “liberi” o “franchi muratori”.
L’abbandono dell’architettura religiosa nei paesi passati alla Riforma protestante, con la relativa crisi professionale; i fortissimi dissidi insorti tra le molteplici Corporazioni in quel clima di incertezza: l’ammissione di membri onorari, appartenenti all’alta società, con lo scopo di rialzare il prestigio della Massoneria, introducendo un elemento aristocratico e intellettuale; e, non da ultimo, il coinvolgimento delle Logge nella lotta politica tra gli Stuart e i Whigs, cattolici i primi e protestanti i secondi, hanno provocato la nascita nel 1717 della nuova Massoneria, chiamata speculativa. Nel capitolo riguardante i doveri religiosi delle prime Costituzioni, formulate dal pastore protestante Anderson nel 1723, si affermava che un massone che «intende bene l’arte», «non diviene mai né un ateo stupido, né un libertino irreligioso». In queste stesse Costituzioni è avvenuto però un profondo cambiamento. Il principio tradizionale della Massoneria operativa, secondo cui il massone doveva «praticare dappertutto la religione del paese», che in pratica era il cristianesimo, venne sostituito con quello secondo cui era più opportuno non imporre «altra religione, che quella nella quale tutti si trovavano d’accordo», lasciando «pienamente libero ciascuno sulle sue opinioni personali». Ciò significava introdurre l’idea di una religione puramente razionale e non rivelata, creando inoltre una frattura tra la religione massonica e quella personale degli aderenti.
In questo cambiamento era evidente sia il tentativo di porre rimedio, sulla base della razionalità, della aconfessionalità e dello spirito di tolleranza, alle divisioni create della Riforma protestante, sia di staccare la Massoneria dal cattolicesimo stuardiano, per inserirla nell’anglicanesimo.
Per rimediare al dottrinalismo materialistico e irreligioso in cui ben presto era caduta la nuova Massoneria speculativa, che in soli 20 anni si era diffusa in tutti i principali paesi d’Europa fino a raggiungere l’India e gli USA, la Grande Loggia d’Inghilterra fece curare, a metà del ‘700, una nuova edizione degli Statuti; anche questa volta da un pastore protestante, il Rev.do Entech. Egli stabilì come principio religioso fondamentale della Massoneria la fede in Dio, Grande Architetto dell’Universo, il rispetto della Bibbia, e la preminenza del suo carattere umanitario e filantropico.
Ma ciononostante la Massoneria francese si allontanò sempre di più da qualsiasi ideale che potesse avere ancora apparenze cristiane. In effetti quasi tutti i campioni dell’illuminismo, dell’Enciclopedia e della Rivoluzione francese, furono membri della celeberrima “Loge des neuf Soeurs” di Parigi.
A onor del vero bisogna però prendere atto che, ad ingrossare le fila delle Logge francesi, concorsero anche molti ecclesiastici di stampo gallicano, strenui avversari del Papato. A Liegi, per fare un solo esempio, nel 1774 tutti i canonici della cattedrale erano massoni. Anzi ci fu addirittura anche il fenomeno delle Logge riservate a soli ecclesiastici.
Il Grande Oriente di Francia non solo sviluppò un programma di laicizzazione della Chiesa e di asservimento della stessa allo Stato, ma, nel 1778, abolì dagli Statuti il paragrafo che affermava come fondamentale la credenza nell’esistenza di Dio e nella immortalità dell’anima, eliminando dal rituale tutto ciò che vi facesse allusione. Questa svolta radicale indusse la Massoneria britannica e quella tedesca a rompere le relazioni con quella francese.
Stesso orientamento decisamente anti-ecclesiale è stato assunto dal grande Oriente d’Italia, ricostituitosi al tempo di Cavour. Basterebbe una sola citazione presa da uno scritto del Gran Maestro Adriano Lemmi nella Rivista massonica del 1886, in cui si afferma che bisognava ad ogni costo fermare «il nemico più accanito, più ostinato e feroce: il papato».
Di fronte a questi avvenimenti e mutamenti, i papi continuarono, con un totale di 12 interventi di importanza maggiore, nella stessa linea di condanna, tramite scomunica, adottata da Clemente XII nel 1738. Così fecero Benedetto XIV, nel XVIII secolo; Pio VII, Leone XII e Pio IX, nel XIX secolo, e in forma ancora più solenne Leone XIII, con l’Enciclica Humanum genus del 1911.
Anzi, a scanso di ogni dubbio, il Sant’Ufficio si premurò, nel 1838, di precisare che la condanna generale della Massoneria valeva anche per quella scozzese d’Irlanda e del Nord America.
Era inevitabile che questi interventi sfociassero nel canone 2335 del CIC del 1917, il quale infligge la scomunica «ipso facto incurrenda», con assoluzione riservata alla Santa Sede, a coloro che danno il nome alla Massoneria. Ciò significa che in linea di principio neppure un vescovo poteva, se non in caso urgente, assolvere un penitente pentitosi di essere entrato nella Massoneria.

2.– All’inizio di questo secolo, e soprattutto dopo la prima guerra mondiale, in seno alla Massoneria mondiale è sorto un movimento tendente alla conciliazione con la Chiesa Cattolica.
Nel 1902 a Ginevra, in un Congresso internazionale di corpi massonici, di diversi riti, si tentò di ricollocare il principio religioso, ritenuto valido dalle massonerie anglosassoni, come base di una maggiore solidarietà tra le diverse massonerie sparse nel mondo.
Da questo primo impulso emanò, nel 1921, una Association Massonique Internationale, con il compito di ravvicinare, a guerra finita, vincitori e vinti grazie all’azione mediatrice della Massoneria moderata statunitense. Ma la Massoneria francese non volle recedere dal proprio dottrinarismo volteriano e quella tedesca piegare il proprio orgoglio ferito.
Poco più tardi fu la volta della Freimauerliga, fondata in Austria, la quale propose di rispettare qualsiasi confessione religiosa, così come era stato previsto nella prima riforma delle Costituzioni di Anderson (nel 1738), lasciando emergere una tendenza spiccatamente conciliante verso la Chiesa Cattolica. Nel 1928 il Gran Cancelliere della Loggia massonica di New York, con altri esponenti della Massoneria austriaca, ebbe anche un incontro, ad Aquisgrana, con il Padre gesuita Herman Gruber, grande esperto in Massoneria, per discutere intorno ad una possibile intesa. Alla fine dei colloqui, però, gli stessi esponenti massonici fecero dichiarazioni pubbliche, riconoscendo una fondamentale opposizione tra i princìpi della Massoneria e quelli della Chiesa cattolica, così da rendere impossibile una vera conciliazione. Sarebbe comunque stata auspicabile una migliore comprensione reciproca, al fine di congiungere le forze per resistere contro l’invadenza del comunismo ateo.
Questo fatto è tanto più significativo poiché soli 20 anni prima, nel 1909, il periodico inglese The Free Mason aveva scritto: «Con lo spirito liberale dominante negli USA e in Inghilterra, siamo sicuri che la Chiesa si persuaderà, con il tempo, che noi non siamo suoi nemici, ma suoi alleati, nella lotta contro le mostruosità ateistiche che usurpano il nostro nome a profitto di loro basse manovre ». La soggiacente polemica tra la Massoneria inglese e quella francese emerge con evidenza.
L’episodio più significativo è comunque stato quello di Albert Lantoine, membro del Supremo Consiglio dei 33 di Francia, e più autorevole storico della Massoneria moderna, il quale, nel 1936, scrisse un volumetto dal titolo Lettre au Souverain Pontif, invocando un armistizio per unirsi contro il nemico comune, il comunismo ateo, il nazionalsocialismo pagano e il fascismo. Anche in questo caso, l’organo ufficiale del Grande Oriente di Francia sconfessò pubblicamente questo tentativo.
Tentativi di conciliazione avvennero anche in Italia. Infatti, nel 1947, l’organo “L’era nuova” del rito scozzese autonomo, con sede a Roma in Piazza del Gesù, faceva la seguente professione: «In una nazione cattolica come l’Italia, il cristianesimo dei liberi muratori italiani non può essere che l’unico, quello vero e quello dell’etica cattolica». Questa volta, però, fu il Sant’Ufficio a rispondere che «nulla è avvenuto da poter far cambiare in questa materia la decisione della Santa Sede, perciò rimangono in vigore per qualsiasi forma di Massoneria le disposizioni del diritto canonico» (cioè la scomunica).

3.– Questo sommario storico permette di trarre alcune conclusioni.
– La pena della scomunica, in una delle sue forme più gravi, non conosce soluzione di continuità, dal 1738 fino al 1983, anno della promulgazione del nuovo CIC.
– La scomunica è indifferenziata, perché non tiene conto della diversità, rispetto alla religione, nei differenti riti della Massoneria, per es. in quella inglese e scozzese o in quella francese o italiana.
– Si tratta di una scomunica che, agli inizi, fu motivata anche per proteggere l’ordine pubblico, sociale e civile, ritenuto minacciato dalla Massoneria.
– L’inconciliabilità dei principi massonici con quelli cattolici è riconosciuta anche dalla Massoneria anglosassone, più propensa ad una collaborazione di fatto con la Chiesa Cattolica.
– Ogni tentativo più o meno ufficiale di ridurre le distanze, sia dal profilo dottrinale, sia dal profilo pratico, in vista di meglio difendere la società da un nemico comune, come poteva essere, per esempio, il comunismo ateo, è stato regolarmente sconfessato, sia dalle grandi Logge, sia dalla Chiesa cattolica.
– L’attività anticattolica della Massoneria, soprattutto di stampo latino, risulta incontestabile.

4.– Dobbiamo perciò interrogarci sulle ragioni profonde di questa situazione:
4.1.- Prima di tutto vorrei ridimensionare, sulla base di una nuova concezione di teologia, l’impatto psicologico odioso che la nozione di scomunica produce sui cristiani e sui non cristiani.
È un istituto già presente “in nuce” nel Nuovo Testamento. Nel Vangelo di San Matteo (18, 17) Cristo afferma che il discepolo, che rifiutasse di riconciliarsi con un fratello, sottomettendosi alla procedura da Lui stesso proposta, doveva essere considerato dagli altri discepoli come un pagano e un pubblicano; vale a dire, come qualcuno che era al di fuori della comunità cristiana.
Con la progressiva sovrapposizione sociale e politica tra Chiesa e Stato, avvenuta lungo i secoli, la scomunica non ha prodotto effetti solo ecclesiali, ma anche civili. Scomunica e bando, dalla vita sociale e politica, sono andati spesso di pari passo, dando un’immagine della Chiesa simile a quella dello Stato, offuscando così il fatto che la Chiesa è primariamente una realtà spirituale e sacramentale.
Dal profilo della dogmatica giuridica, come da quello legislativo, la scomunica è stata considerata alla stregua di una pena che, in forza dell’autorità della Chiesa, costituisce un nuovo rapporto giuridico del singolo fedele con la Chiesa stessa: cioè come atto dell’autorità che creava una nuova situazione giuridica del fedele.
A fronte di questa dottrina tradizionale circa la scomunica è invalsa negli ultimi decenni una nuova interpretazione. La canonistica moderna, di estrazione più teologica che giuridica, propende nel ritenere che la scomunica non sia una pena vera e propria, secondo l’accezione di pena comune anche al diritto statuale.
Non è l’autorità, bensì il fedele stesso che, compiendo certi atti illeciti, si colloca in una situazione di non piena comunione con la Chiesa: si mette da solo fuori dalla completa comunione ecclesiale. Non è l’autorità, con un atto costitutivo, ma è il fedele stesso a creare una situazione ecclesiale anomala, in forza della quale egli perde l’esercizio di alcuni diritti fondamentali, come quello di accedere ai Sacramenti.
La scomunica perciò non essendo una pena vera e propria, secondo la nozione giuridica classica, non può essere considerata né come atto odioso, né come atto vendicativo verso i fedeli. Non è la Chiesa che punisce, ma è il fedele che da solo si estranea dalla Chiesa.
In ogni caso, anche secondo il legislatore e la dottrina classica, la scomunica, pur essendo una pena, ha carattere solo medicinale, nel senso che non tende alla espiazione di un delitto, ma solo a correggere il reo, vale a dire a rendere attento il fedele della sua situazione irregolare rispetto alla comunione con la Chiesa.
Malgrado queste constatazioni di ordine teologico, bisogna tuttavia constatare che i testi ufficiali e legislativi della Chiesa sono tutti formulati come se la scomunica fosse una pena vera e propria. Il risultato è quello di aver creato nella mentalità comune dei fedeli un’idea della scomunica che mette in primo piano il suo carattere odioso e vendicativo.
È però importante ribadire che, benché la scomunica non sia tecnicamente una pena, il fatto illecito che la provoca rimane gravissimo, e compromette profondamente la situazione in cui si trova il fedele in seno alla Chiesa
A scanso di equivoci vorrei a questo punto precisare che la scomunica non equivale ad una espulsione dalla Chiesa. Provoca solo la perdita di alcuni diritti fondamentali del fedele, il quale però continua ad essere membro della Chiesa. In effetti, non esiste né l’espulsione, né l’autodimissione dalla Chiesa, poiché il battesimo è irreversibile.
4.2.- Come seconda osservazione vorrei dire che non si può non riconoscere che le attività anti-cattoliche e anticlericali della Massoneria e l’ostilità della Chiesa nei confronti di certo illuminismo europeo, nonché le interferenze politiche avvenute tra Chiesa e Stato negli ultimi secoli, possono spiegare la severità con la quale la Chiesa ha colpito, non solo i fedeli che aderivano alla Massoneria, ma anche la Massoneria in quanto tale, definendola spesso come “setta”: termine dai risvolti sociali ormai sempre più infamanti.

5.– Al di là di queste e altre considerazioni, l’evoluzione, sia ecclesiale che politica attuale, hanno sicuramente indotto la Chiesa ad assumere un atteggiamento formale meno severo nei confronti dei cristiani appartenenti alla Massoneria e della Massoneria in quanto tale. Questo minor rigore formale, tuttavia, non implica affatto un cedimento sulla questione di merito, vale a dire sulla inconciliabilità per i cattolici di appartenere alla Massoneria.
Dal profilo formale, infatti, il nuovo CIC promulgato nel 1983 non solo non menziona più esplicitamente la Massoneria tra le associazioni che complottano contro la Chiesa cattolica, condannate dal can. 1374, ma si astiene anche di comminare la scomunica nei confronti dei fedeli aderenti alla Massoneria.
Il can. 1374 si limita ad affermare che un cattolico, che aderisce all’una o all’altra delle associazioni che complottano contro la Chiesa, dovrebbe essere punito. Poiché la pena è generica, nessuna autorità ecclesiastica competente è tenuta a intervenire. Per contro, lo stesso can. 1374 comincia la pena dell’interdetto, che rispetto alla scomunica è una pena minore, contro coloro che promuovono o dirigono tali associazioni. Per promuoverla, a rigore, non è necessario essere membri di una associazione.
Il fatto che la pena della scomunica sia scomparsa dal nuovo CIC ha suscitato molteplici dubbi e interpretazioni. È importante rendersi conto che più che da un mutamento di giudizio della Chiesa sulla Massoneria, questo cambiamento deriva da una svolta decisiva avvenuta all’interno della Chiesa stessa, nella valutazione del proprio diritto penale.
Ora che la Chiesa è definitivamente uscita dal regime di cristianità, il diritto penale, così come si era sviluppato nel Medio Evo, è diventato in gran parte obsoleto. Grazie all’approfondimento ecclesiologico e spirituale avvenuto in seno alla Chiesa cattolica, in questo secolo, è diventato sempre più evidente che la Chiesa ben difficilmente potrebbe ancora convincere e guidare i propri fedeli facendo ricorso, come spesso è avvenuto nel passato, a misure penali.
Questa convinzione si è tradotta in una radicale ristrutturazione del diritto penale.
Il CIC del 1983 ha infatti ridotto drasticamente le norme penali, rispetto al CIC del 1917. Mentre nel primo Codice troviamo 100 canoni di natura penale, il secondo, quello del 1983, ne conta solo 35.
La Chiesa ha realisticamente capito, da una parte, che lo strumento del diritto penale può al massimo essere utilizzato efficacemente solo nei confronti del clero, dall’altra, che le norme penali devono essere ridotte a quelle poche fattispecie, assolutamente indispensabili, per proteggere i sacramenti, la dottrina e persone specifiche (per  es. il Papa), da abusi particolarmente gravi. Nel contesto di questa radicale depenalizzazione dell’ordinamento canonico e dal clima di tolleranza, sia in seno alla Massoneria che alla Chiesa, deve essere letta anche la scomparsa formale della scomunica nei confronti dei cattolici che aderiscono alla Massoneria e il fatto che la Massoneria non è più citata nominalmente, nel can. 1374 del CIC, tra le associazioni che complottano contro la Chiesa.
In conclusione dobbiamo constatare l’esistenza di un clima di distensione tra le due realtà sociali: la Chiesa e la Massoneria. Tuttavia il problema fondamentale rimane: può un cattolico appartenere alla Massoneria? E se vi aderisce, deve essere considerato come un apostata o un eretico, con la conseguenza di incorrere nella scomunica, non tanto in forza del fatto formale di essere iscritto alla Massoneria, ma in forza del fatto di essere diventato apostata o eretico? Il problema della scomunica, scomparsa dal can. 1374, non si ripropone in forza del can. 1364 §l, che recita lapidariamente: «L’apostata, l’eretico e lo scismatico, incorrono nella scomunica “Latae sententiae»? “Latae sententiae” significa che la scomunica scatta “ipso facto”, cioè di per se stessa, anche senza un intervento dichiaratorio dell’autorità ecclesiale.

6.- Il fatto che il CIC abbia lasciato cadere la scomunica, limitandosi ad affermare che chi appartiene a una associazione che combatte la Chiesa dovrebbe genericamente essere punito (ciò che è perfettamente plausibile), ha evidentemente sollevato molti interrogativi e creato non poca confusione.
Venti anni fa è avvenuto un fatto molto significativo. Durante sei anni, dal ‘75 all’‘80, nella linea di riavvicinamento manifestatosi in questo secolo e di cui ho già riferito sopra, rappresentanti della Conferenza Episcopale Tedesca e delle Grandi Logge Unite di Germania si sono incontrati ufficialmente per approfondire la comprensione reciproca. Man mano che i colloqui cercavano di chiarire i contenuti dei gradi superiori di appartenenza alla Massoneria divennero però più difficili, fino a interrompersi.
Alla fine la Conferenza Episcopale Tedesca dichiarò: «Anche se la Libera Muratoria, in seguito alla persecuzione subita nel corso dell’epoca nazionalsocialista, ha compiuto una trasformazione nel senso di una maggiore apertura verso gli altri gruppi sociali, tuttavia, nella sua mentalità (Weltanschaung), nelle sue convinzioni ‘fondamentali’ e nel suo ‘lavoro nel Tempio’, è rimasta pienamente uguale a se stessa. Le opposizioni toccano i fondamenti dell’esistenza cristiana. Gli esami dei Rituali e del mondo spirituale massonico mettono in chiaro che l’appartenenza alla Chiesa cattolica e alla Libera Muratoria è esclusa». Il fatto che un cattolico appartenga ad un rito della Massoneria, che abbia cercato o cerchi di contrastare e nuocere alla Chiesa cattolica, non é né il più importante, né il nocciolo del problema. Il vero problema è il fatto che la sua doppia appartenenza è inconciliabile con la sua coscienza, per ragioni dottrinali molto meno contingenti della eventuale ostilità anticlericale.
In effetti la visione della religione in seno alla Massoneria è di stampo naturalistico e razionalistico. Già per Anderson, la religione, secondo la concezione massonica, è quella «nella quale tutti sono d’accordo»; dunque una religione puramente naturale. La visione di Dio, a sua volta, è di stampo deistico. Il Grande Architetto dell’Universo, il GADU, non è un essere personale, bensì un essere indefinito: un concetto sotto il quale ognuno può mettere la concezione di Dio che egli preferisce.
Poiché la nozione cristiana di Dio non è solo personale, ma anche rivelata, nel senso che Dio si è manifestato all’uomo come mistero trinitario, in seno al quale la seconda persona si è fatta uomo in Gesù di Nazareth, per la redenzione del mondo, diventa evidente che un cristiano non può aderire, a pari titolo, a due visioni così profondamente diverse di Dio.
La Massoneria, essendo di estrazione filosofica illuminista e razionalista, nega, in ultima analisi, come grande parte della cultura moderna, l’unicità di Cristo. Cristo sarebbe solo una delle tante manifestazioni o incarnazioni nel mondo del “logos” universale, uno dei tanti eroi del mondo. Non essendo l’unico Figlio di Dio non può essere neppure l’unico Redentore del mondo. Di conseguenza la Chiesa diventa una istituzione religiosa simile a tante altre.
Ne consegue che la religione cattolica, con la sua verità rivelata, va di per sé eliminata, relegata tra i miti e le superstizioni, come tutto ciò che non soggiace al controllo della ragione e della scienza. La meta della Massoneria è infatti quella della emancipazione dell’umanità da ogni sorta di schiavitù civile, morale e religiosa. Proprio in ciò consiste, infatti, il supremo grado di perfezione, a cui il massone deve tendere, attraverso il simbolismo e i riti dell’“arte reale”. I tre gradi di apprendista, compagno e maestro, rappresentano l’iniziazione verso la “vera luce”, che essendo di natura razionale, ma anche mistica, non ha nulla a che vedere con la luce della Rivelazione cristiana.
Anche quando si trattasse di appartenere a Logge che si dichiarano non ostili o addirittura favorevoli alla Chiesa cattolica, il problema della inconciliabilità delle due appartenenze si porrebbe lo stesso, poiché ciò che rende forse più incompatibile la Massoneria con il cristianesimo è il suo carattere iniziatico.

7.– L’iniziazione propone il perfezionamento etico dell’uomo, attraverso la rivelazione di dottrine segrete, tramandate dai grandi maestri del passato, tra cui è annoverato anche Gesù, attraverso la celebrazione di riti iniziatici, quindi attraverso la conoscenza di dottrine segrete (le gnosi) e la celebrazione di riti esoterici, che si pongono in alternativa ai riti della iniziazione cristiana, cioè ai sacramenti.
Mentre la perfezione etica massonica è il frutto esclusivo dello sforzo morale dell’uomo, senza che Dio intervenga ad aiutarlo con la sua Grazia, la perfezione cristiana è il frutto della Grazia di Dio, cioè della Redenzione portata da Cristo, con la quale l’uomo è chiamato a collaborare.
Il Grande Maestro, Prof. Di Bernardo, scrive nel 1987, nella rivista Filosofia della Massoneria: «Una Massoneria senza fondamento iniziatico altro non è che una qualsiasi società con scopi filantropici».
Il termine “iniziatico” significa “entrare dentro”, nel senso di essere inseriti quale membro in un determinato gruppo. Significa passaggio dell’individuo da una condizione di vita all’altra. Questo passaggio non è né improvviso, né indolore, perché comporta sia il rifiuto del precedente patrimonio di idee, sia la formazione progressiva con la quale il massone, da “pietra grezza”, si lascia levigare con paziente lavoro tra le colonne del Tempio, dove gli vengono rivelati i segreti, per acquistare nuove virtù. Questa formazione progressiva può avvenire, come nel rito scozzese, con una ascesa fino al 33.mo grado, in cui viene rivelato il “Sublime Segreto”. Da ultimo, l’iniziazione comporta anche delle prove, intese a saggiare la verità del cambiamento intellettivo-morale di una persona.
L’iniziativa massonica cerca, perciò, di annullare nel credente l’iniziazione cristiana, ricevuta nei primi anni della vita con il Battesimo, la Cresima e l’Eucarestia.

8.– Ma esiste una ragione in più di incompatibilità. Il Grande Maestro dell’Oriente d’Italia, Prof. Di Bernardo, ha riconosciuto apertamente che la Massoneria appartiene non solo alle categorie delle realtà iniziatiche, ma anche di quelle esoteriche.
Il termine esoterico (che dal greco “eso” significa dentro) indica in linea generale che una verità è riservata a pochi eletti, cui è riservata la piena comprensione di verità nascoste, provocando in loro una specie di risveglio o seconda nascita.
Il contrario di esoterico è il termine essoterico (che dal greco “exo” significa fuori). Mentre l’esoterismo svela le verità nascoste, l’essoterismo tiene lontano, cioè fuori dalle stesse, perché ne mostra solo il guscio esteriore. Applicando questa duplice concezione, accettata dal Grande Maestro dell’Oriente d’Italia, si approda alla affermazione secondo cui tutte le grandi religioni hanno lo stesso valore e sono perciò rigorosamente intercambiabili.
Ognuna di esse è solo l’espressione esteriore (cioè essoterica), in un determinato paese o epoca storica, dello stesso ed “unico nucleo di verità”, che è quello esoterico.
Di conseguenza il cristianesimo sarebbe solo la forma essoterica (cioè esteriore), valida per i paesi dell’Occidente, dell’”Unico Nucleo di Verità”, mentre l’Induismo, il Buddismo e l’Islam sarebbero la forma religiosa essoterica valida per il mondo orientale e arabo dello “stesso Unico Nucleo di Verità”.
L’esoterismo consiglia perciò agli adepti di seguire la religione del paese dove abitano, poiché essa, ad ogni buon conto, è solo la forma esteriore, dell’Unico Nucleo di Verità”.
Attraverso questa terminologia non si fa altro che ribadire il principio secondo cui il cristianesimo è solo una delle tante religioni intercambiabili del mondo, poiché Cristo è solo una delle tante incarnazioni o manifestazioni del “Logos” universale. Ciò tocca il cuore della fede cristiana, poiché Cristo è creduto e adorato dal cristiano come l’unico Figlio di Dio.
Come si vede, la questione della inconciliabilità tra la fede cristiana con l’eventuale religione massonica – quando la Massoneria non si definisce semplicemente come atea – va molto in profondità; va comunque ben oltre il livello delle rivalità clericali o anticlericali per conquistare l’egemonia nel mondo, a livello socio-culturale e politico.
Il problema tocca la coscienza del cristiano, nella sua centralità.
In effetti questo aspetto è stato chiaramente sottolineato nel 1983, il giorno prima della entrata in vigore del nuovo CIC, vale a dire il 26 novembre, dalla Congregazione della Dottrina della Fede, per prevenire le incertezze e le confusioni che la scomparsa dal CIC della scomunica riservata ai massoni avrebbe inevitabilmente provocato in molti cattolici. A nome della Congregazione il Card. Ratzinger ha riaffermato che il giudizio della Chiesa sulla massoneria rimane immutato, poiché i rispettivi principi sono inconciliabili, e che, di conseguenza, l’iscrizione alla Massoneria rimane proibita al cattolico. Inoltre, essa afferma che «i fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla santa comunione».
Questa affermazione sul peccato grave e sulla esclusione dalla comunione ecclesiastica, ci riporta al nocciolo del problema, che è un problema di coscienza. Nel passato, la comminazione della scomunica è stata, senza dubbio, usata dalla Chiesa anche come mezzo pubblico, non solo di difesa, ma anche di attacco, non solo contro i singoli cattolici massoni, ma anche contro la Massoneria in quanto tale, caduta del resto spesso in forme clamorose di lotta anticlericale.
I numerosi tentativi di riconciliazione o per lo meno di comprensione reciproca avvenuti in questo ultimo secolo, – favoriti anche dalla presenza di un nemico comune come il marxismo, il nazionalsocialismo e il fascismo -, e la soppressione nel nuovo CIC della scomunica specifica contro i cattolici massoni, hanno creato un clima che ha permesso di toccare, al riparo di ogni animosità, il cuore del problema .
Il cattolico che si unisce alla Massoneria, sottoponendosi con verità interiore ai riti di iniziazione, e aderisce con consapevolezza alla dottrina massonica sulla religione, rinnega la propria fede nel Dio Trino, nella divinità di Cristo e nel carattere salvifico della propria appartenenza alla Chiesa.
Dal profilo cattolico commette perciò un atto spirituale molto grave, cioè un peccato grave, davanti a Dio e nei confronti degli altri cristiani. Ciò lo esclude dal ricevere Cristo nel sacramento della Eucaristia, che è il supremo e più significativo atto di comunione perfetta con Dio e gli altri cristiani.
A rigore, come già osservato in precedenza, in forza di questo atto, un cattolico potrebbe incorrere nella scomunica, prevista per gli apostati o gli eretici, prevista, non dal canone 1374, che si riferisce alle associazioni che complottano contro la Chiesa cattolica, bensì dal can. 1364 §1.
Nessuno può legittimamente interpretare queste conseguenze morali e giuridiche intraecclesiali come atto di ostilità della Chiesa verso i singoli massoni cattolici o verso la Massoneria in quanto tale. Rendere note ai fedeli queste conseguenze, è un atto di responsabilità della Chiesa nei confronti dei propri fedeli. In forza della stessa logica, una Loggia è legittimata a prendere misure disciplinari contro un aderente che violasse il giuramento o il segreto sui contenuti simbolici della iniziazione.

9.– Al termine di questo esposto rimane l’obbligo di dare uno sguardo verso il futuro.
Nel 1985 la Grande Loggia Unita d’Inghilterra, tuttora considerata come la madre di tutte le Logge, ha dichiarato che «La Massoneria non è una religione… che è aperta a tutte le fedi … che non esiste nessun Dio massonico … che non offre sacramenti … che non ricerca la salvezza attraverso opere, conoscenze segrete e altri mezzi … e infine, che la Massoneria non è indifferente verso la religione e che i suoi insegnamenti morali sono accettabili da tutte le religioni» (Cito dal Gran Maestro Prof. Di Bernardo, in: Filosofia della Massoneria).
Questo documento è con ogni evidenza profondamente innovativo rispetto al passato. Si tratta comunque di sapere se esso veramente rispecchia la vita e la prassi reale della Massoneria in generale.
Questo documento, pur superando le vecchie posizioni di Anderson, non tocca tuttavia il cuore della visione massonica, che è quello dell’iniziazione, che la rende incompatibile, non solo con l’espressione cattolica del cristianesimo, ma anche con quella protestante.
Non escludendo che in futuro la situazione possa ulteriormente evolvere, l’attuale incompatibilità dottrinale con la Chiesa cattolica non esclude la possibilità di collaborazione, anche sulla base di giustificazioni diverse, sia a livello locale, sul terreno di una attività sociale e politica, svolta al servizio dell’uomo e della sua dignità, per la salvaguardia dei suoi diritti e del diritto alla vita; sia a livello internazionale, in ordine alla promozione della solidarietà tra i popoli, alla giustizia e alla moralità nel settore della bioetica. Essere compatibili è un conto, collaborare, invece, potrebbe essere l’imperativo di questo momento storico.
Egregi e stimatissimi signori, quello che vi ho esposto può esservi sembrato duro o intransigente. L’ho fatto comunque, spero, non solo nel totale rispetto delle vostre persone, ma anche perché ho interpretato il vostro apprezzato invito, come un invito a non nascondere la verità, sulla posizione della Chiesa cattolica, nei secoli passati e nel presente.
In effetti, il rispetto reciproco e il dialogo possono essere perseguiti e realizzati solo obbedendo ciascuno alla verità della propria appartenenza.