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Amici Corecco

Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 2

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Vivere la sofferenza e il tempo ultimo

Capitoli

Conversazione al programma della Televisione della Svizzera Italiana Controluce” 23.01.1994.

Michele Fazioli: Monsignore, adesso è di nuovo ammalato e si sta curando, lo ha detto in una lettera 7 giorni fa a tutti i parroci e dunque a tutti i cattolici ticinesi1. Mons. Corecco lei ha scritto in pratica alle donne e agli uomini del Ticino dicendo «sono ammalato, mi sto curando, rafforziamo la comunione tra di noi». Perché ha scritto questo?
Perché ha manifestato pubblicamente questo?
Mons. Corecco: perché ho intuito che fosse giusto farlo perché ho una funzione pubblica. Non ho una vita privata anzi, da quando sono diventato Vescovo l’aspetto privato della vita è quasi totalmente scomparso; ho una responsabilità nei confronti di tante persone, non ci sono ragioni per nascondere una malattia, anzi rivelare la presenza di una malattia può essere di aiuto a tante persone che soffrono, che sono malate anch’esse. Me ne accorgo del resto perché quando vado a Bellinzona al San Giovanni a fare la radioterapia incontro tante persone, e sento che si allarga loro il cuore a vedere che anche il Vescovo è lì in mezzo a loro e che fa le stesse terapie che devono fare loro. E poi ho pensato che fosse un modo di dare una testimonianza, per quanto io sia capace di dare veramente una testimonianza, sul come affrontare la malattia che è un momento serio, e forse il più serio della vita.
Fazioli: Nella sua lettera che è stata letta nelle chiese del Cantone Ticino sabato e domenica scorsi lei dice che questa sua malattia dovrebbe accentuare la comunione con i fedeli, con i membri, i cattolici che fanno parte della Diocesi, della Chiesa che è in Lugano, che è nel Ticino.
Cosa significa per lei questo rapporto fra la malattia e la comunione?
Mons. Corecco: La malattia è un valore a condizione di saperla vivere nel suo vero significato. Dicevo prima che la malattia fa emergere un momento estremamente serio della vita, tanto più quando la prospettiva potrebbe essere anche quella della morte, per cui la malattia pone l’uomo di fronte a sè stesso, lo ridimensiona; l’uomo sente di aver dentro una “finitezza” che però scopre nella sua verità solo quando questa finitezza esistenziale, diciamo metafisica, che ha dentro di lui, si rivela attraverso la malattia del corpo, e la malattia del corpo gli fa capire che il tempo è contato, è più breve di quello che uno può pensare quando è sano. Dunque pone l’uomo nella necessità o nell’urgenza di pensare al suo destino, alle ragioni del suo vivere ed anche alle ragioni del suo morire o del suo scomparire. Ecco in questo senso la malattia ha dentro un valore, se ha dentro un valore che è comune a tutti; dunque vivere la malattia bene e annunciare agli altri, dire agli altri, testimoniare agli altri come si deve vivere una malattia fa crescere le altre persone nella stessa esperienza, e del resto quando due persone fanno una esperienza uguale si sentono più amiche fra di loro, così è anche nell’ ambito dell’ esperienza religiosa e spirituale.
Fazioli: in un articolo di lunedì, il Direttore del Corriere del Ticino, Sergio Caratti, diceva che il testo della lettera del Vescovo non è fatto per infondere tristezza, al contrario invita alla serenità, alla preghiera, ed è in fondo una piccola lettera pastorale che vale da insegnamento circa l’atteggiamento che occorre cristianamente assumere di fronte alla malattia. Può essere letta così, quasi come un’indicazione pastorale?
Mons. Corecco: sì certo, ha perfettamente ragione il Direttore Caratti, ha colto nel segno aldilà forse della mia intenzione; non avevo intenzione di scrivere una lettera pastorale, né prevedevo in fondo che questo piccolo testo avesse una risonanza così grande, ma in realtà questo testo ha avuto una grande risonanza, tanta è che io ricevo un mare di corrispondenza in questi giorni.
Fazioli: e non può rispondere a tutti beninteso.
Mons. Corecco: non posso rispondere a tutti, cercherò, se ce la faccio quando sarò in Terra Santa di mandare una cartolina, comunque ringrazio tutte le persone che mi scrivono e si rifanno molto spesso a quello che ho detto nella lettera; arrivano dei testi che sono meravigliosi, questo fa capire che tanta gente aldilà delle apparenze vive una vita profondamente spirituale e ha il senso di queste cose. Per me non è la prima volta perché già in occasione della prima operazione ho ricevuto una montagna di corrispondenza e ho capito che, sì oserei quasi dire che sono più utile alla gente quando sono ammalato di quando sono sano.
Fazioli: questo farebbe dire che in qualche modo la malattia, il dolore, la croce si può dire, siano quasi augurabili, ma questo però è un modo un po’ pessimistico, perché il volontarismo alla sofferenza è anche sbagliato.
Mons. Corecco: no, non sono augurabili a nessuno, neppure a un Vescovo, perché la Chiesa ci insegna a pregare per rimanere nella salute; possono diventare una grazia dopo che sono capitate, ecco allora sì, bisogna riuscire a trasformare questo fatto, in sè negativo, trasformarlo in un momento di ricostruzione della persona e di instaurazione di rapporti con gli altri. Del resto il cristiano ha sempre, aldilà delle sue capacità di vivere queste cose, ha sempre una via di uscita perché può sempre dare senso alla sua malattia sapendo di essere accompagnato da Cristo che è morto sulla croce.
Fazioli: Lei ha detto in un intervista parlando di questo «la malattia mette tutto in discussione si può guarire, si può morire, può cambiare il resto della vita, mette a nudo il fatto che esiste un destino presente e futuro della nostra persona» e ancora in questa intervista che era ancora un intervista del direttore del Corriere del Ticino dice «l’ammalato anche se non dovesse esprimersi interiormente attraverso la preghiera, intuisce, registra pensieri profondi, prova sentimenti di ribellione contro il proprio destino, ama Dio o lo odia, gli dice di sì o grida l’ingiustizia, insomma uno in ultima analisi o prega o bestemmia ma sul letto dell’ ospedale vive sempre qualcosa di più profondo e perciò di più spirituale».
Mons. Corecco: questo è vero non perché l’ho pensato, ma perché l’ho vissuto; anch’io sono stato assalito dalla ribellione, dal fantasma, dalla incomprensione, dalla paura, non tanto questa volta, quanto l’altra volta, dalla paura di scomparire nel nulla, perché la fede non elimina l’emotività, non elimina le paure delle persone, almeno non a tutti, perché poi ci sono tanti modi anche di morire, c’e chi muore nella gioia, c’e chi muore invece nella paura, ogni persona reagisce…, comunque Gesù Cristo è morto nella paura, ha avuto profondamente paura di fronte alla morte, perché ha avuto l’impressione di scomparire nel nulla. E queste cose io le ho vissute, le ho scoperte, non sapendo che la gente potesse vivere così, mi ha arricchito. La fede è un giudizio che sostiene, che permette di non abbandonarsi a queste suggestioni, ma un conto è provarle e sentirle come tentazioni e un conto è abbracciare questa soluzione della vita.
Fazioli: nella lettera ai cattolici lei chiede la preghiera, dice «voi mi potete dare un aiuto con la preghiera con il vostro rinnovato impegno», dice ai parroci, e si dice certo, che «anche questa volta la preghiera vicendevole e quella profonda delle comunità avrà la potenza di creare fra noi un vincolo di unità più profonda». Allora lei che cosa chiede alla preghiera dei cattolici ticinesi?
Mons. Corecco: chiedo due cose, contemporaneamente una più importante dell’ altra ma umanamente l’importanza è rovesciata. Chiedo di guarire, ma chiedo soprattutto di saper vivere bene la malattia, perché questo è più importante della guarigione. Del resto io ho citato un salmo che ho letto per 50 anni e non avevo mai scoperto, perché si leggono e si ripetono le preghiere, poi improvvisamente scatta come una lampadina dentro la mente e uno scopre una frase sulla quale era passato mille volte; «la Tua grazia è più importante della vita», chissà quante volte ho letto questa frase, chissà quante volte l’han detta i preti, le suore e i laici che pregano le lodi della domenica. Poi improvvisamente ho capito la verità profonda che è contenuta in questa frase.
Fazioli: forse perché la fede per essere viva deve incarnarsi nella vita vera.
Mons. Corecco: certo, l’esperienza umana fa sentire e sperimentare la verità della fede perché la fede ci è data per capire meglio la nostra umanità e il nostro destino umano, non per sostituirlo, ma per capirlo meglio perché la fede non è un’ alternativa alla vita, ma è la rivelazione della verità sull’uomo e su Dio dunque per vivere meglio quello che stiamo facendo. Ecco, per dire che la Fede è adesione al proprio destino.(…)
Ho qui una preghiera che mi ha mandato una signora. Tra le molte cose che mi mandano, mi mandano delle preghiere estremamente significative e belle. Questa è la preghiera di un prete del IV secolo, che poi era filosofo e poeta, San Gregorio di Nazanzio che si è ammalato; immaginatevi cosa voleva dire ammalarsi nel IV secolo, voleva dire morire, dice «dammi forza Signore, perché ora sono annientato». Ha visto la morte e lo strazio «la mia bocca parlava forte di Te, adesso tace» e poi prega «Signore, dammi la forza, non abbandonarmi perché voglio di nuovo ritornare in salute per gridare il Tuo Nome a tutti». Lo avevo quasi paura di domandare al Signore di guarire perché dicevo, perché deve privilegiare me e tanta gente muore, ma quando ho letto questa frase ho cominciato a pregare di più perché anch’ io ho voglia di continuare ad annunciare: «Signore mia forza, non lasciarmi solo». Queste sono preghiere che rivelano il cuore dell’uomo.
Fazioli: Il fatto che le mandino queste preghiere significa che, come dice lei, da ammalato è riuscito a creare un filo di collegamento magari più intenso, più a nudo, nel senso più vero che non in veste ufficiale, il Vescovo istituzione.
Mons. Corecco: per questo dico che può darsi che la malattia mi renda più utile della salute.
Fazioli: forse la malattia pone anche il problema del tempo, perché c’è il tempo della sofferenza, della cura, della guarigione, c’è anche la percezione che può essere il tempo ultimo, insomma, ogni minuto diventa prezioso per l’impegno proprio della vita.
Mons. Corecco: può essere il tempo più favorevole e questo basta.(…)
Fazioli: … tra l’altro lei incontra la gente alle terapie radianti di Bellinzona?
Mons. Corecco: certo c’è gente che vuole assolutamente salutarmi. Una signora che mi ha salutato, poi è entrata prima di me dalla stessa squadra di infermieri che mi han detto che era felice, «finalmente sono arrivata a toccare la mano al Vescovo».(…)
Fazioli: mons. Corecco, quindi lei vivrà anche condividendo le cure, la malattia, i possibili dolori, la sofferenza, tutto insieme in una sorta di vita più intensa, anche se certo c’è da augurarsi che la sofferenza non ci sia e che le cure abbiano effetto.
Mons. Corecco: ma, non è la sofferenza fisica, perché oggi è facilmente controllabile, anche se non la si può eliminare del tutto, però non è questo il problema. La malattia è un fatto spirituale oggi, che può essere duro da vivere oppure può avere un significato.
Fazioli: Lei sa che con queste parole ha parlato anche a molti ammalati adesso in televisione?
Mons. Corecco: sono contento di avere questa occasione perché forse li trascuro, perché per quello che è il mio apostolato diretto, quello che faccio in prima persona, mi sono buttato sui giovani a partire da un’esperienza, a partire da una storia personale, a partire da una mia genialità in queste cose. Ma tante volte mi sono detto, perché non vado una volta al mese, una giornata intera in un ospedale a trovare la gente, adesso ho l’occasione di dire che comunque li ricordo tutti, che sono nella stessa situazione, che non vado a consolare dall’esterno perché consolare vuoI dire aiutare la gente a vivere con parole vere, con parole che aiutino le persone a vivere bene la loro situazione, non a nasconderla. Per questo motivo ho scritto la lettera, la malattia non deve essere nascosta ma vissuta.

Testimonianza all’incontro “Sulla sofferenza e malattia”, 27 novembre 1994 a Lugano-Trevano.

Il compito del Vescovo non consiste solo nel predicare il Vangelo, nell’ annuncio della Parola, ma anche nell’aiutare concretamente i fedeli che gli sono affidati a vivere questo annuncio. Proprio perché, nella misura delle sue capacità, deve aiutare concretamente i fedeli a incarnare il Vangelo nella vita di tutti i giorni, credo che non può sottrarsi al dovere di dare testimonianza sul modo con cui ha vissuto e può essere vissuta la malattia, perché .la malattia è parte integrante della vita umana. Se lasciassimo fuori dalla vita la malattia, non saremmo sinceri, non copriremmo tutta l’esistenza umana, anzi non copriremmo una parte essenziale della nostra esperienza umana.

2.1. Non mettiamo la salute al primo posto
Invece la nostra società tende a estrapolare la malattia fuori dal contesto della vita sociale, perché, mentre si fa moltissimo per aiutare il vincere la malattia, nello stesso tempo la si censura. Nessuno infatti parla volentieri del proprio stato di non salute e il valore principale della vita è spesso collocato nella salute che si gode. «Prima di tutto la salute»; «la cosa più importante è essere sani»: questo è il giudizio che corre costantemente non solo tra gli uomini, ma anche tra coloro che credono in Gesù Cristo. Il valore supremo della vita è spesso collocato nel valore della buona salute. Certo la salute è il presupposto importante per fare molte cose che dobbiamo fare nella vita, ma non è il presupposto perché la nostra vita abbia veramente un valore. Anche le persone che soffrono, che sono confrontate duramente con la malattia, che sono ammalate durante tutto il tempo della loro vita, possono vivere un’esperienza umana molto grande e possono dare alla loro esistenza un valore inestimabile. Spesso, se vissuta bene, la malattia dà alla vita un valore più grande di quanto non lo possa dare la salute stessa. Questa è la ragione che mi ha indotto ad accogliere l’invito della Caritas Diocesana, che ringrazio per aver avuto questa idea di chiamarmi a parlare della mia esperienza, ma soprattutto perché cerca di andare incontro a tutte le persone che sono ammalate di malattia consistente. Ringrazio Caritas, perché forse solo dalla Caritas, in quanto esperienza in cui si riflette quello che la Chiesa deve fare nella società, poteva nascere l’idea di domandare al Vescovo di parlare in pubblico della sua malattia. Non si può fare un “Controluce” tutte le settimane, magari lo si può fare solo una volta in vita, ma tuttavia io voglio tornare sulla questione, seppure in altri termini, in quanto non provocato da nessuna domanda, perché sono convinto di potervi aiutare: voi che siete ammalati e forse anche voi che siete sani, benché non vi troviate nella posizione giusta per capire cos’è il valore della malattia. Per aiutarvi a vivere l’esistenza in un modo così profondo da dare valore anche alla sofferenza fisica.
I sani più difficilmente riescono a capire e questa è stata anche la mia esperienza personale prima di essere ammalato. Non mi sono quasi mai posto il problema della sofferenza attraverso la malattia. E non penso di aver capito molto sulla malattia, leggendo semplicemente dei saggi o dei libri .sulla materia. Perché noi riusciamo a comprendere veramente l’essenza della nostra vita, solo a partire dall’attenzione che sappiamo dare all’ esperienza che stiamo vivendo. Infatti solo vivendo un’esperienza in modo consapevole, riusciamo a ricavarne sempre una indicazione per la nostra vita.

2.2. La funzione profetica della malattia
Ripensando ad una esperienza molto bella che facciamo tutti gli anni e che abbiamo fatto anche quest’anno, mi sono chiesto perché la nostra Chiesa particolare sente il bisogno di portare i suoi ammalati a Lourdes.
Non è un progetto, nemmeno un semplice gesto di carità, non è solo per aiutarli ad arrivare fino ai piedi della Madonna per domandare la grazia della guarigione spirituale o fisica. Credo che questo gesto della Chiesa di riunire i suoi ammalati – e il Vangelo ci ricorda che. Questo fenomeno è incominciato attorno alla persona di Gesù – nasce da un bisogno più profondo, che supera l’esigenza e la situazione di ogni singola persona. E’ quello di dire e mostrare che la malattia in mezzo al popolo cristiano, nell’esperienza della comunità cristiana, ha un valore profetico. Portando gli ammalati a Lourdes vogliamo esplicitare questa funzione, questo valore della malattia, rendendo pubblico quello che la malattia è in se stessa. Perché la malattia è sempre un segno della morte. Sta in questo il valore profetico dell’essere ammalati. In effetti ognuno di noi, quando è colpito da una malattia che potrebbe portare anche in breve tempo alla morte, anticipa il momento finale della vita terrena, quello della morte: il momento più importante della vita umana, nel passaggio da questa alla vita futura. La malattia si pone in mezzo a noi come segno e richiamo di quello che ogni persona vivrà: il momento della sua morte. Noi dobbiamo richiamare questo valore, ce lo dobbiamo richiamare tra di noi continuamente, perché la morte è il momento più importante della nostra esistenza. La malattia può aiutarci a capirne l’importanza, a comprendere quanto sia grande il momento della fine della nostra vita terrena. Ci aiuta infatti a capire in anticipo – da qui il suo carattere profetico – il nostro destino e quanto noi abbiamo bisogno di un Altro, di Qualcuno più grande di noi. La malattia, se vissuta bene, è il momento pedagogico all’ interno della vita umana che meglio di tutti gli altri ci può aiutare a capire chi siamo noi, chi è Lui e quanto più grande sia Lui. In effetti, per l’esperienza che faccio, ma prima di tutto per quanto ci rivela il Vangelo, la malattia ci fa capire se siamo disposti nella vita a compiere veramente la Sua volontà. Infatti il vero problema per un cristiano alla fine della vita non è, prima di tutto, riuscire a domandare perdono dei propri peccati o fare magari una confessione generale. Il vero problema che rimane da risolvere, anche se ci confessiamo, anche se riceviamo il sacramento degli infermi è riuscire a dire il nostro sì al Signore, che ci chiama. Di fronte a questo sì noi abbiamo paura. Non è facile nel corso della vita dire veramente sì al Signore, senza sotterfugi. Noi lo diciamo mille volte, recitando il “Padre Nostro”, ma viviamo spesso e in genere con delle riserve mentali. Diciamo “sì” al Signore, ma anche al nostro progetto, alla nostra volontà. Più che pregare il Signore perché sia fatta la sua volontà, lo preghiamo di accogliere la nostra richiesta, di fare la nostra volontà. Il che non è illecito: infatti possiamo chiedere al Signore la grazia di fare quello che noi vorremmo si compisse, ma con la riserva che la cosa più importante per noi è comunque che si compia la volontà di Dio. Il . problema della morte è quello di saperla vivere, dicendo di sì al Signore, dicendogli: “sono disposto a venire”. Può sembrare semplice, ma in realtà è molto difficile. E la malattia ci prepara, perché nel corso della malattia ci ritroviamo,quasi nella stessa situazione della morte. E’ per questo che è più importante morire attraverso una malattia, che morire di morte improvvisa. Moltissimi pensano che la cosa migliore sarebbe quella di morire improvvisamente, per non soffrire, per non essere consapevoli di quello. che succede, per non dar fastidio a nessuno. Ma questo è un discorso che il cristiano non dovrebbe fare, perché la malattia è un aiuto per prepararci alla morte: sia una malattia vicina alla morte, sia essa ancora relativamente lontana, ma con in germe la possibilità della morte. La morte improvvisa non è qualche cosa che ci dobbiamo augurare, perché la sofferenza ci aiuta a prepararci, a presentarci al Signore, a seguire il Signore che ci chiama. Questo è quello che dobbiamo augurarci tutti: essere pronti a dire al Signore il nostro sì.

2.3. La malattia anticipa le tentazioni della morte
Prima della mia prima operazione grave, visitavo una signora in un ospedale di Lugano. E mi sono accorto. Che questa signora, malgrado, fosse sempre stata presente alle celebrazioni in Cattedrale, fosse fedele, assidua, dedita alla preghiera, non riusciva ad accettare il fatto di dover morire. Andavo. a visitarla per aiutarla a capire che la cosa essenziale nella sua situazione era accettare questa chiamata del Signore, per quanto le potesse sembrare prematura. E mi ponevo dei problemi, fin quando, essendo anch’io caduto ammalato, ho capito perfettamente come questa signora, pur essendo stata una brava cristiana, potesse non accettare il momento della morte, perché le stesse tentazioni che lei ha avuto, penso di averle passate tutte in rassegna, anche nella mia persona. La morte è il momento della tentazione e la malattia è profetica, perché ci anticipa le tentazioni che la morte ci porta. Vengono dalla nostra ragione e prendono chi è toccato da una malattia grave, che può portare alla morte. Infatti chi è in questa situazione si pone inevitabilmente questo problema e questi interrogativi: «Perché proprio io?»; «Cosa ho fatto di male?»; «Ho cercato sempre di educare bene i miei figli, eppure adesso mi tocca morire»; «E’ un’ingiustizia». Si sente la morte avvicinarsi come un fatto ingiusto. La vita appare come una truffa, una promessa di qualche cosa che poi sfuma in una fine che non contiene apparentemente nessuna promessa, che non realizza più nessuna promessa, fino a pensare che è meglio non vivere, che morire così. Queste sono le tentazioni che insorgono nella persona vicina alla morte; nella persona ammalata, cosciente che potrebbe anche morire. Sente l’urto di queste obiezioni apparentemente della nostra ragione. E nasce una ribellione. Ho capito che quella signora stava facendo un’esperienza che non era solo sua particolare, ma che prima di tutto era diventata la mia esperienza e che molto probabilmente è l’esperienza di tutti. Una ribellione di fronte alla morte, anticipata in certi casi dalla malattia. Del resto questo è avvenuto anche nella persona ai Gesù, che ha fatta sua tutta l’ esperienza umana. Ha realizzato in se stesso tutto quello che l’uomo può vivere e sperimentare nella sua esistenza. Proprio di fronte alla morte ha fatto l’esperienza più profonda che possiamo immaginarci, quando ha sudato sangue nel giardino del Getsemani. In mezzo a tutte le atrocità di cui siamo testimoni in questo tempo, non capita mai di sentire che delle persone abbiano sudato sangue di fronte alla morte. Eppure Gesù, dice il Vangelo, ha sudato sangue. Significa che la sua paura di fronte alla morte ha superato quasi i limiti della espressione umana. Vuol dire che ha avuto veramente paura di scomparire nel nulla, di inabissarsi senza ritorno dentro un baratro che si chiude e porta via la nostra vita personale. senza lasciare una traccia. Sulla croce ha gridato:«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», riprendendo un salmo dell’ Antico Testamento, che incomincia con queste righe di disperazione e che poi si scioglie verso sentimenti di speranza, di fiducia nel Signore.
Sulla croce ha messo in evidenza la prima parte di questa esperienza, che il popolo ebraico aveva formalizzato in tono e in stile poetico. «Dio mio. Dio mio, perché mi ha abbandonato?». Questa esperienza la facciamo anche noi. Di fronte alla morte anche noi abbiamo l’impressione di essere abbandonati da Dio. Noi non sudiamo sangue, perché nella nostra persona non realizziamo tutta la forza dell’umanità presente in Gesù, che ha riassunto in se stesso l’esperienza di tutti. Per cui la sua esperienza è stata tanto più precisa, quanto più profonda e dolorosa. Quindi non solo ciascuno di noi prova la tentazione di sottrarsi alla volontà di Dio, fatica a registrare la propria vita sulla chiamata del Signore e a dire veramente “sì” al Signore senza riserve e con la trasparenza più totale, ma anche Cristo ha fatto questa esperienza.
Questo ci consola, ci aiuta, ci fa capire che non dobbiamo disperarci, perché, come Cristo è riuscito a superare questa prova domandando al Padre di fare la sua volontà, cioè la volontà del Padre e non la propria, anche noi lo possiamo. Anche noi avremo la forza, avremo la grazia per domandare al Padre di fare la sua, piuttosto che la nostra volontà. Quello che è stato possibile in Gesù Cristo; è possibile anche per noi. Ma a questo momento non dobbiamo arrivare impreparati, altrimenti diventa molto difficile.

2.4. La malattia è una grazia
La malattia non è solo momento profetico, che anticipa quello che sarà il momento finale; non è solo il momento in cui emerge nella nostra persona la tentazione di ribellarci al Signore, così come avvenuto nella persona di Gesù Cristo nei confronti del Padre, ma è anche grazia. Dire che la malattia è una grazia è molto difficile. Forse non sarei mai riuscito a dirlo veramente neppure io. Dire che la malattia è una Grazia urta contro il buon senso, urta apparentemente contro la ragione. Però se esaminiamo quello che avviene durante il decorso di una malattia, ci accorgiamo che è così, che la malattia è una grazia. Abbiamo tutti paura o avremmo tutti paura a fare questa affermazione a un’altra persona. Eppure è profondamente vera. Perché se esaminiamo quello che avviene in noi durante la malattia, quello che la malattia provoca in noi, se la viviamo in modo cristiano, ci accorgiamo che nella persona avviene un grandissimo cambiamento. Da quando è incominciata la malattia a dopo, noi ci sentiamo profondamente cambiati, non siamo più quelli di prima: in questo sta la grazia. Per cui è vero che la malattia è una Grazia. Lo possiamo dire però solo dopo. Se lo diciamo prima, è come se fosse troppo presto, è come se fosse una ideologia. E’ invece a partire dall’ esperienza che abbiamo fatto, che io ho fatto sicuramente in una certa misura, che possiamo dire che la malattia è una Grazia e dobbiamo saperla vivere come una Grazia. Perché la malattia cambia il nostro rapporto con il Signore, ci avviciniamo sicuramente a lui, preghiamo di più, fosse anche solo per invocare la guarigione: una preghiera legittimamente interessata.

2.5. La malattia e il valore del tempo
La malattia ci fa sentire il tempo che viviamo in modo differente di prima. Ci accorgiamo che la vita è qualche cosa di estremamente prezioso, che è il dono più grande che abbiamo ricevuto dal Signore. Scopriamo che il tempo ha una intensità diversa da quella di prima, non più in rapporto a tutte le cose che dobbiamo fare, ma rispetto alla esperienza esistenziale della nostra persona. Sentiamo che il tempo è preziosissimo, perché urge, perché non abbiamo più la possibilità di sprecarlo, come l’avevamo prima. Il tempo diventa più consistente, qualche cosa che vorremmo vivere nel modo più intenso possibile.

2.6. La malattia: scoperta di solitudine
La malattia ci cambia, perché ci fa toccare proprio con le mani la solitudine che abbiamo dentro di noi. Ci sono infatti momenti durante la malattia in cui una persona capisce che in ultima analisi la questione è sua. Nessuno può supplirlo. Nessuno può fare o dire al suo posto. Sente la propria finitezza e da questa finitezza capisce che c’è una sola Persona, che può riempirla, perché questa persona è Qualcuno più grande di lui, è Colui che ci ha dato la vita. Scopriamo che la solitudine è insuperabile dentro l’esperienza umana; non possiamo superare Ia solitudine personale in nessuna situazione della nostra vita. Sia che ci sposiamo, sia che diventiamo ministri consacrati, sia che ci consacriamo al Signore, c’è un punto della nostra vita in cui siamo sempre soli davanti al Signore e nessuno dall’esterno ci può aiutare al punto da sostituirsi alla nostra persona. Questo ci spinge, apre la porta in noi alla scoperta del fatto che solo il Signore può riempire la solitudine umana che abbiamo dentro di noi. Basterebbero queste poche cose per farci capire che, dopo, facciamo l’esperienza che la malattia è veramente una grazia. Detto all’inizio può sembrare assolutamente non vero o assurdo, ma dall’analisi di quello che avviene nella nostra persona, l’affermazione che la malattia è una grazia è profondamente vera.

2.7. Accettare la malattia
C’è però una condizione che ho lasciato come ultima riflessione. Tutto quello che ho detto si avvera nella nostra persona, solo se riusciamo ad accettare la malattia. La cosa più importante che dobbiamo fare, il primo atteggiamento nostro personale nei confronti degli ammalati, è quello di accettare noi personalmente quello che ci succede e di aiutare gli altri a fare altrettanto. Dobbiamo aiutare gli ammalati ad accettare la loro situazione.
«Chi ama il padre, la madre, i fratelli…», questa affermazione di Gesù nel Vangelo, dove peraltro non intende essere esauriente nella esemplificazione, aiuta questa nostra riflessione. Gesù infatti afferma che chi. ama qualcuno o qualcosa «più di me, non è degno di me». Quindi se noi amiamo la salute come valore supremo, non siamo degni di Gesù Cristo. Dobbiamo perciò imparare ad accettare nel cuore, senza veli, senza sotterfugi – il sotterfugio è la tentazione più sottile – riuscendo veramente a metterci davanti a Dio nella sincerità totale.
Accettare la malattia è la condizione perché possa diventare segno profetico. momento nel quale superiamo le tentazioni che abbiamo dentro nel corso di tutta la vita, perché possiamo capire che è una grazia, in quanto ci cambia interiormente. L’accettazione è il presupposto che dobbiamo avere dentro di noi, che il Signore ci può dare come grazia, perché da soli non possiamo realizzarla totalmente.
La prima cosa che dobbiamo fare quando siamo malati è quella di accettare la situazione davanti al Signore, per lasciare che questa situazione nuova della nostra esistenza esplichi tutti gli effetti benefici, tutte le conseguenze benefiche, che magari il mondo non condivide.

2.8. Malattia: una esperienza con il Signore
Volevo dirvi solo questo e quello che vi ho detto l’ho vissuto, non l’ho solo pensato. Tante cose le avrò anche pensate, a tavolino, come si dice, ma se le ho pensate è perché il Signore mi ha dato la grazia di accettare, io spero, la malattia. E se ho pensato, è perché ho cercato di vivere in un certo modo. quello che mi è capitato, che è esattamente uguale a quello che può capitare a qualsiasi altra persona.
E’ per questo che Caritas ha fatto bene ad invitarmi a proporvi questa esperienza, che è diventata un po’ un discorso sulla malattia. Ma non è un discorso disgiunto da quell’esperienza che il Signore mi ha concesso di poter fare.
Dire che ringrazio il Signore per questo non è facile, perché è come dire al Signore che lo ringraziamo per averci portato via qualche cosa di fondamentale: la salute. Non è facile per me, non è facile per nessuno, non è facile per il Papa, perché tocchiamo il punto più sensibile, più vero e più vitale di tutta la nostra esperienza umana, quello di essere veramente sinceri di fronte al Signore, quando diciamo delle cose su di Lui e su di noi nei suoi confronti.

Convegno Associazione Ticinese Terza Età (ATTE), Lugano 03.10.1994. (La trascrizione è tratta dai: Quaderni Caritas Ticino, marzo 1995, pp. 15- 18)

Permettetemi di tentare un parallelo tra la malattia grave e la terza o la quarta età, non certo perché queste ultime siano una, o la malattia della vita, anche quando fosse disseminata e segnata da sofferenze corporali e spirituali.
Prescindendo dalla evidente diversità tra la malattia e la terza età, esiste tra le due situazioni un fatto comune: quello del tempo. Nell’uno e nell’altro caso una persona si accorge che il tempo stringe; che il tempo non è più quello di una volta, al quale, vivendo, si poteva anche non pensare.
Il tempo diventa una presenza costante nell’orizzonte quotidiano di una persona gravemente ammalata o anziana. Si intensifica e circoscrive con maggiore precisione la vita, facendone emergere, non solo la finitezza, ma soprattutto il valore.
Il tempo diventa una presenza alla nostra vita che non possiamo più eludere, dimenticandolo, come quando eravamo sani o giovani. Questa constatazione non è assolutamente negativa, poiché lo possiamo e lo dobbiamo vivere come esperienza positiva.
Per quanto mi concerne, mi sono accorto che, in questa situazione, l’essenza della vita si è concentrata, assumendo uno spessore esistenziale molto più forte di prima. Immagino che anche moltissimi tra di voi se ne siano accorti. La vita assume una dimensione di urgenza, prima insospettata, anche se l’ipotesi di guarire o di poter vivere ancora a lungo fosse reale.
Si capisce che, oltre ad essere irripetibile, il tempo è diventato breve, per cui deve essere vissuto ed apprezzato più intensamente di prima. Questo non certo per quello che si riesce ancora a fare, ma per quello che si vive interiormente, paragonando sé con se stessi e con il proprio destino.
In questa prospettiva il passato diventa secondario: quello che conta veramente, poiché ne siamo ancora padroni, è solo il tempo presente. Infatti, solo se viviamo nel presente potremo vivere il futuro secondo il tema del Congresso: lo ero, io sono, io sarò.
Assieme alla coscienza che il tempo stringe, emerge in modo sempre più chiaro la propria solitudine. Infatti, o non abbiamo più chi ci accompagna nella vita, come quando eravamo giovani, o ci rendiamo conto, se siamo ammalati, che, malgrado l’affettuosa solidarietà di molti – che comunque è sempre di immenso aiuto – nessuno può sostituirsi alla nostra persona. Due anni e mezzo fa’, dopo un’intera giornata di analisi in ospedale, ho percepito forse per la prima volta la solitudine che mi circondava. Il medico avrebbe potuto ancora offrirmi, come segno della sua affezione, un tè da sorseggiare, ma era tutto quello che avrebbe potuto ancora fare. Poi, avrei dovuto fare i conti da solo, con me stesso.
Anche facendo questa constatazione non intendo affatto caricarla di significato negativo. Anche la solitudine, sempre comunque presente alla nostra persona, può e deve diventare una possibilità per prendere più consapevolezza di noi stessi.
Tanto più che per acquisire questa coscienza della vita e del significato del nostro destino non è mai troppo tardi. Può sopraggiungere anche alla fine, e questo basta.
Sia la certezza che il tempo si fa breve e si carica di una intensità umana nuova, sia il saper fare i conti con più grande maturità con la nostra solitudine, che ci fa scoprire il valore irripetibile della nostra persona, mi sembrano i due aspetti comuni, profondamente positivi, tanto della malattia quanto della vecchiaia. Ci aiutano a vivere con più grande dignità, e magari anche con maggiore convinzione, il significato della nostra vita presente, passata e futura.
Ognuno potrà trovare, nei valori in cui ha sempre creduto, la propria soluzione: quella che lo può sorreggere maggiormente, e mi auguro che lo possiate fare tutti, per non vivere la terza e la quarta età nei rimpianti, nella malinconia o nella rassegnazione, ma è normale che per un cristiano questa nuova interiorità si traduca in preghiera.
E’ inevitabile per un credente, in queste situazioni della vita, pensare alla sua origine stabilendo un rapporto più intenso, in mezzo al volto delle cose di tutti i giorni, con il Signore, dal quale sa di dipendere nella sua esistenza. Ciò da un significato vivibile anche alla solitudine, perché nella preghiera interiore il cristiano cerca e scopre una Compagnia ultima per la sua persona, destinata a diventare quella definitiva.
Se questa mia testimonianza sarà stata utile a voi per vivere sempre più intensamente e con grande sicurezza nel cuore, sono ben felice di essere riuscito a comunicarvela.

1 Riportiamo integralmente la lettera che Mons. Corecco inviò a tutti i fedeli Diocesi tramite il Giornale del Popolo il 17.01.1994
Cari confratelli nel sacerdozio, care Suore, cari fratelli e sorelle del Consiglio Pastorale Diocesano,
dal 3 al 10 gennaio sono stato sottoposto ad approfonditi controlli medici all’Inselspital di Berna, in seguito all’accentuarsi di disturbi nel periodo pre-natalizio. La diagnosi ha evidenziato una ripresa del quadro clinico precedente. che sarà affrontato con una radioterapia, come era già avvenuto nel 1992 con buoni risultati. Eventuali ulteriori misure terapeutiche saranno stabilite in base al decorso della situazione.
Di ciò sento il dovere di informarvi, sia perché la malattia non è un fatto da nascondere, bensì da saper vivere con grande consapevolezza nella prospettiva della conversione personale, sia perché l’aiuto che mi potete dare con la preghiera e il vostro rinnovato impegno pastorale personale è molto grande.
Il Salmo 62 (v. 5), che recitiamo nelle Lodi della domenica, afferma che «la tua grazia vale più della vita». Se la grazia di Dio, che è la forza salvifica di Gesù Cristo nella nostra esistenza, vale di più della vita stessa, ciò che è altrettanto vero per la malattia. Sono certo che, anche questa volta, la preghiera vicendevole e quella delle vostre comunità avrà la potenza di creare tra noi un vincolo di unità più profonda.
Anche la nostra comunione reciproca è frutto della grazia di Dio e vale perciò più di qualsiasi altra cosa. Posso chiedervi di accompagnare nel Signore il pellegrinaggio che dal 12 al 20 febbraio p.v. compirò in Terra Santa, con un centinaio di giovani?
Affidandoci gli uni e gli altri alla Vergine Maria, Madre di Dio, vi mando la mia benedizione.