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Natura e metodo della canonistica

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Prolusione per il conferimento della laurea << honoris causa>> Università Cattolica di Lublino, 23 maggio 1994

Magnifico Rettore, Eminenza Reverendissima, Eccellenze, Spettabilissimo Decano, Onorevole Presidente del Consiglio d! Stato del Cantone Ticino, Illustri componenti del Senato Accademico, Signore e Signori,
accedo oggi all’alto onore del quale avete voluto insignirmi, conferendomi la laurea «honoris causa», con un sentimento di trepidazione e intensa commozione.
Il prestigio di questa Alma Università Cattolica di Lublino, acquisito in uno spazio di tempo breve, rispetto alla vetustà di altre sedi universitarie, ma certo non meno ricco di significato, di storia, di eventi – talora tragici – alimenta in me un sentimento di gratitudine che trascende il significato stesso del titolo – peraltro ambitissimo – che mi viene conferito.
Sento infatti di appartenere, «honoris causa», ad un Corpo Accademico che ha interpretato in modo mirabile l’invito che risuonava nelle parole di Sua Santità Giovanni Paolo II ai membri del Pontificio Consiglio della Cultura nel 1983: quello di aiutare la Chiesa «a divenire creatrice di cultura nei suoi rapporti con il mondo moderno; aiutarla nella missione di evangelizzazione delle generazioni presenti, per far sì che sappiano comprendere le nuove culture ed alimentarle alla ricerca del più profondo senso della vita dell’Uomo, che nasce dalla sua deri-vazione da Cristo».
E se è vero – sono ancora parole del Papa, questa volta rivolte ai professori nell’Università Jagellonica di Cracovia – che «esiste una sovranità fondamentale della società che si manifesta nella cultura della Nazione», ebbene, un grande contributo alla formazione di questa sovranità è stato offerto dall’Università Cattolica di Lublino; non solo attraverso l’attività di magistero e di ricerca dei suoi illustri docenti, ma anche nella loro opera di formazione spirituale, religiosa e culturale di intere generazioni di studenti, molti dei quali sono diventati protagonisti della recente rinascita della vostra nobilissima Nazione alla libertà e alla democrazia.
Ma non è solo al contesto della storia contemporanea, in cui questa Università è sorta per illuminata decisione dell’episcopato polacco, presieduto allora dal Nunzio apostolico Mons. Achille Ratti, che dobbiamo guardare. Anche il passato ci offre validissimi spunti per valutare l’importanza della celebrazione odierna.
Questa prestigiosa Università affonda le sue radici nell‘«humus» culturale della città in cui è sorta. In effetti Lublino vanta una grande tradizione giuridica e politica, per essere stata anticamente sede del Tribunale della Corona e, occasionalmente, anche della Dieta del Regno. Una Dieta, quella polacca, che ha avuto il merito di essere stata il primo parlamento europeo a varare, già nel XVIII secolo, una costituzione repubblicana. In effetti la celebre Costituzione polacca del 3 maggio 1791 ha anticipato di quattro mesi la Costituzione francese, ponendosi, nel solco di quella americana del 1787, come primo grande monumento del costituzionalismo repubblicano europeo.  Le Facoltà di Diritto e di Diritto canonico sono rifiorite su questo«humus», ridando splendore a una tradizione giuridica nazionale di grande rispetto, proprio in questo nostro secolo, che ha scritto alcune tra le pagine peggiori della storia delle prevaricazioni del potere statale e dell’arbitrio giuridico.
Mi sento, dunque, profondamente onorato anche dalla dignità morale di questa Università, che all’inizio della seconda guerra mondiale è stata un luogo di martirio, consumatosi con l’arresto di tutto il corpo accademico e con la tragedia di numerosi professori, tra cui il Vicerettore, passati per le armi.
L’Europa di quell’epoca, travolta dai totalitarismi, ha visto il potere accademico, orgoglio dell’illuminismo, piegarsi in modo vergognoso di fronte alla prepotenza del potere politico. Una Università bagnata dal sangue dei martiri vanta perciò un titolo in più per elargire riconoscimenti scientifici, proprio perché scienza e morale non possono mai essere disgiunte. Da ultimo, mi sia permesso confessarvi di essere particolarmente toccato di ricevere il dottorato «honoris causa»,da questa Università, che nel novero dei suoi professori più illustri ed ascoltati vanta Karol Wojtyla, che, tentando una sintesi tra l’ontologia di Tommaso d’Aquino e la fenomenologia di Max Scheer, ha inserito questa Università Cattolica nel dibattito culturale europeo.
Con questi sentimenti – ed altri, più intensi, che percorrono oggi il mio animo e che mi trattengo dal manifestarvi per quel pudore che deve sempre lasciare nell’ombratilità le più profonde emozioni – raccolgo oggi il premio che avete voluto conferirmi e nel quale mi compiaccio di vedere, non solo un gesto di stima per la mia persona e la mia attività scientifica In esso vedo anche e soprattutto il fenomeno del prestigio scientifico riconquistato dagli studi di diritto canonico in seno al mondo accademico, per opera di tanti miei illustri Colleghi, molti dei quali oggi presenti e membri di questa Università, dopo la bufera dell’antigiuridismo che ha investito la Chiesa del post-Concilio.
È questa la ragione che mi ha indotto a scegliere per la riflessione odierna, un tema in cui converge, in ultima analisi tutto il travaglio in cui si è dibattuta la coscienza ecclesiale sia a livello scientifico, sia a quello dell’opinione dei fedeli, in questi ultimi trent’anni: «II valore della norma canonica in rapporto alla salvezza».
In effetti, fin dall’antichità, la coscienza dei popoli, come quella degli uomini di pensiero, è sempre stata confrontata con il problema del valore vincolante delle norme giuridiche poste a guida e a tutela dell’ordine sociale.
La domanda alla quale la filosofìa e la teologia hanno dovuto e devono rispondere è, perciò, sempre stata la seguente:esiste un nesso di dipendenza ontologica tra le norme umane contingenti e mutevoli, ed una eventuale forma superiore di diritto, naturale oppure divino, che, pur trascendendole le giustifica, conferendo loro una forza vincolante per l’esperienza sociale umana o ecclesiale?
Il problema si è posto già agli albori della cultura occidentale. Nell’Antigone di Sofocle, infatti, .l’eroina accetta la morte piuttosto che disobbedire alle «leggi non scritte», superiori e divine, eterne e immutabili. In questa visione ancora poetica emerge, comunque, la coscienza del popolo greco dell’esistenza di un «diritto naturale», quale fondamento assoluto delle leggi umane positive.
Era dunque inevitabile che questa esperienza umana paradossale stimolasse, per la sua eterogeneità, la riflessione, sia filosofica che teologica, a interrogarsi non solo sull’origine e la natura, ma anche sull’unità intrinseca del fenomeno giuridico e, di conseguenza, sulla forza vincolante delle sue norme positive.  Le risposte in ambito cristiano sono state diverse. Limitandoci a quelle che si riferiscono alla norma canonica, e dovendo prescindere per motivi di tempo dal problema delle norme civili e statuali, dobbiamo constatare che la specificità delle diverse risposte date dalla teologia ortodossa, protestante e cattolica, alla questione della natura del Diritto canonico e della sua forza vincolante può essere colta solo tenendo conto delle opinioni culturali di fondo in cui esse si iscrivono storicamente.  Due sono stati gli sbocchi ricorrenti, pur nella varietà delle forme e dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere, come afferma Hans Urs von Balthasar, «il circolo diabolico delle apparenze cosmiche», senza indugiarvi «come il serpente che si morde la coda».
La prima via è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta l’assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del «divino». Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma disattende ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo), vivendo un’escatologia senza storia.  La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, all’interno del quale esso vive un’esistenza priva di escatologia.
Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato  ripreso in Occidente da Marx, il quale, radicalizzando l’idea del progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico.
Il cristianesimo preclude, con il principio della «incarnazione», qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto e verso I’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano, senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con la propria forza, ma inserendosi nel piano di salvezza del Dio incarnato.
Ciò non esclude che, all’interno della stessa tradizione cristiana l’approccio teologico e, di conseguenza, anche quello riguardante la valenza assiologica da attribuire ai sistemi normativi canonici, in vigore nelle diverse tradizioni ecclesiali, abbia subito fino ad oggi l’influsso delle posizioni fìlosofiche fondamentali emerse nel pensiero occidentale. Non certo per identifacarvisi, perché il fatto teologico rimane trascendente ad esse ma per trovare in essi lo strumento razionale per interpretare il  tatto teologico stesso. Nell’orizzonte di queste prospettive culturali deve essere collocata anche la soluzione del problema centrale del fenomeno giuridico canonico: quello dell’unità esistente tra il diritto divino e quello umano.
La tirannia del tempo mi permette di fare alcune considerazioni solo a proposito della risposta che la teologia cattolica ha dato al problema dell’unità del proprio Diritto e, di conseguenza, anche al problema del valore della norma disciplinare canonica in rapporto alla salvezza.
Essa deve essere cercata, collocandola, come ha fatto Lutero, ali interno della tematica più ampia della giustificazione. Ma, mentre Lutero ha creduto di dovere constatare un’antinomia tra la «Legge» e il «Vangelo», e perciò tra la salvezza proveniente dal Vangelo, cioè da Cristo, e le opere richieste dalla Legge la teologia cattolica è riuscita a stabilire un’unità tra ilVangelo e la Legge e tra la Grazia e le opere, avvalendosi di una più coerente valutazione del mistero e dell’incarnazione.
Per la teologia cattolica, le opere prescritte dalla Legge compiute con l’aiuto della Grazia, non sono solo una conseguenza necessaria dlla fede, come riteneva Lutero, ma sono necessarie come condizione «a posteriori», affinchè la salvezza data da Cristo non si ritorca in dannazione per l’uomo. Benché la salvezza sia data da Cristo e non dalla Legge e dalle sue opere, che non sono la causa efficiente della salvezza, esse tuttavia non sono solo la conseguenza, bensì la condizione necessaria «a posteriori» per salvarsi.
La Grazia, inoltre, non è una semplice presenza personale esterna di Cristo, come nella concezione protestante, ne si identifica con Dio, come nella «theosis» ortodossa, ma è una realtà soprannaturale creata, infusa nell’uomo come qualità inerente della sua natura. In questa concezione teologica cattolica della Grazia creata si realizza con tutte le sue conseguenze il principio della «incarnazione». In effetti la Grazia increata penetra nella natura dell’uomo come Grazia creata, sanando l’uomo ontologicamente, così da renderlo capace di collaborare con Dio, per la propria salvezza, attraverso le opere della Legge.  Ne consegue che anche il Diritto canonico diventa essenziale all’esperienza cristiana, ne più ne meno del dogma. In effetti il dogma e il diritto ecclesiale non sono due realtà ete-rogenee. Non sono retti tra di loro da un semplice rapporto estrinseco di «reciproca funzionalità», come invece afferma Evdokimov per l’ortodossia. L’esperienza cristiana infatti non è assolutamente riducibile a esperienza solo dottrinale. Anche il «corpus» delle leggi ecclesiali porta con sé, intrinsecamente, una propria verità rivelata, poiché è espressione della Tradizione della Chiesa.
Il Diritto canonico non è una sovrastruttura sociologica della Chiesa. Non è un fatto puramente additivo, senza nessuna consistenza soteriologica propria, bensì un fenomeno sociale con una autonomia epistemologica e logica propria. In esso si manifesta e può essere conosciuta la Chiesa, nella forza vincolante della sua realtà totale. La pretesa della Chiesa latina di voler stabilire con assoluta precisione una corrispondenza estre-mamente articolata tra la propria coscienza dogmatica e l’ordinamento giuridico, deriva perciò dal suo modo specifico di intendere il dogma stesso. Una concezione diversa, sia dalla tra-dizione ortodossa che da quella protestante.
La teologia cattolica è arrivata a stabilire un’identità totale tra la verità dogmatica e la verità giuridica, come dimostra il dogma del primato di giurisdizione papale, in cui la formulazione giuridica e la verità dogmatica sono coessenziali. La norma canonica, come il dogma, gode di una valenza soteriologica intrinseca.

Mentre l’essenza della legge statuale, ma anche del Vecchio testamento, sta nel suo carattere imperativo, derivante dalla volontà estrinseca del legislatore, sia assoluto che democratico,l’ essenza del Vangelo e della Grazia e, perciò, del Diritto canonico, sta invecein una partecipazione intrinseca di Dio nel cuore dell uomo così come aveva intuito Tommaso d’Aquino nella la-IIae quando ha affermato che la «nova lex evangelii…est ipsa gratia (seu tpsa praesentia) Spiritus Sancii, quae datur Christi fidelibus» (q. 106, art. 1).
Con l’Incarnazione, Cristo ha conferito alla Parola di Dio e ai segni simbolici, cioè ai Sacramenti, attraverso i quali Dio si rivela all’uomo, un valore definitivo per l’esistenza umana. La parola e il Sacramento, attraverso i quali Dio si manifesta e comunica la Grazia, interpellano l’uomo nel più intimo della sua persona ed esigono una risposta. La giuridicità dell’ordinamento della Chiesa deriva, perciò, dalla intimazione formale inerente alla Parola e al Sacramento, che generano la Grazia nel cuore dell uomo.
Poiché non esiste realtà più fortemente vincolante e imperativa del fatto che Dio si sia manifestato definitivamente, attraverso l’Incarnazione del Figlio, ne consegue che il diritto della Chiesa ha una forza vincolante più profonda rispetto al diritto secolare, poiché radicata non solo nel «ius divinum naturale» ma addirittura nel <<ius divinum positivum» inerente alla Parola e al Sacramento.
In forza del principio «incarnazione», nasce un rapporto ontologico di derivazione dello «ius humanum» dallo «ius divinum positivum>> per cui il diritto della Chiesa, a differenza di quello secolare, derivante dallo «ius divinum naturale» non ha la pretesa di esigere un’obbedienza a livello etico solo intramondano anche a livello del destino ultimo e soprannaturale dell’uomo.
Ne consegue che la sostanza teologica del Diritto canonico è anche giuridica, così come la sua sostanza giuridica è anche teologica, senza possibilità di dicotomia. Ciò significa che la dimensione teologica non si contrappone tanto alla dimensione giuridica in quanto tale, quanto ad una giuridicità che pretendesse di avere origini unicamente alla volontà di un legislatore umano o, nella migliore delle ipotesi, nella venta immanente alla ragione umana in quanto tale.
Ciò spiega perché Francisco Suàrez abbia potuto affermare che l’ordinamento canonico della Chiesa cattolica vincola i fedeli non solo nei loro atti esteriori, ma anchein quelli inferiori II CIClatino (can. 209, § 1), come pure quello orientale (can 12 § 1), non esitano, infatti, a domandare a tutti i fedeli, con valore di intimazione formale, non solo etica, ma anche giuridica, il compimento di atti interiori, vale a dire di rimanere sempre in comunione con la Chiesa. E la comunione con la Chiesa, prima di essere un atteggiamento esteriore, e un atteggiamento interiore.
Che questa ingiunzione di comportamento interiore abbia carattere rigorosamente giuridico è dimostrato dalla proibizione fatta ai fedeli dai due Codici, latino (can. 916) e orientale (can 711) di accedere alla comunione eucaristica quando fossero consapevoli di essere in peccato grave. Il peccato, infatti lede sempre anche la «communio ecdesialis».
Proprio questo esempio, che evidenzia il nesso giuridico esistente tra la vita interiore del fedele e la comunione eucaristica svela in modo estremamente preciso il valore intrinseco della norma canonica in rapporto alla salvezza. Non e pura coincidenza, se l’ultimo e conclusivo canone del CiC latino
(1752), afferma che la «salus animarum… suprema semper lex esse debet>>.
Tutti sappiamo che, in vista della salvezza, la norma positiva può sempre essere superata facendo ricorso alla «epzkeia» alla dispensa o ad altri istituti, in cui si manifesta l’elasticità dell’ordinamento canonico.
Ma proprio questa possibilità di ricorso ali «epikeia» o alla dispensa dimostrano che, in linea di principio, l’ordinamento canonico considera la singola norma disciplinare come vincolante per la salvezza e ciò in forza del principio della «incarnazione», che sul modello di Cristo si applica, secondo modalità diverse, a tutti gli elementi dell’esperienza ecclesiale:dalla «gratia creata», in cui la «gratia increata» si «incarna» nell’uomo, fino alla norma canonica, in cui la verità dogmatica assume forma e forza disciplinare.

1. Esperienza fenomenologica

Il diritto è percepito dall’esperienza umana come una realtà esterna, che limita la libertà e l’autonomia della persona rendendo presente nella concretezza del quotidiano la forza coercitiva di un sistema di potere organizzato. Esso appare perciò come una realtà manipolabile, determinata dall’arbitrio di gruppi di potere e di ideologie diversi, che esprime sovente l’intolleranza di volontà imperative legate a interessi particolari. Sotto il profilo fenomenologico il diritto si manifesta inoltre come una realtà non unitaria, le cui norme, di provenienza corporativistica o statuale, religiosa o mondana, nazionale o internazionale, dettate dalla legge o dalla consuetudine, oltre ad essere sovente eterogenee, possono anche rivelarsi antinomiche.
Parallelamente a questa esperienza negativa l’uomo ne vive una positiva, poiché il diritto si rivela ultimamente lo strumento indispensabile per imporre agli altri certi limiti di convivenza a garanzia dell’ordine e della pace. Si dimostra perciò fattore sociale di primaria importanza che permette all’individuo e alla collettività di pianificare con fiducia il proprio futuro, protetto dalla continuità e dalla sicurezza giuridica. La legge è perciò colta come elemento di equilibrio e non solo come espressione di una volontà eteronoma, per cui il fatto giuridico non è vissuto soltanto come espressione dell’arbitrio del più forte, ma anche di una giustizia superiore che trascende gli interessi individuali.
Il sovrapporsi di elementi negativi e positivi spiega perché il diritto si riveli un’esperienza paradossale (Erik Wolf), i cui valori apparentemente contraddittori, sono inscindibili tra di loro. Se gli elementi negativi di questa esperienza primordiale hanno suscitato a scadenze ricorrenti il fenomeno sociopolitico dell’anarchia, l’esperienza degli aspetti positivi ha avuto come esito costante quello di rendere l’anarchia fenomeno sporadico, contenendola entro i limiti insuperabili della sua dinamica utopica e ad absurdum.
Anche l’esperienza del diritto canonico pone il cristiano in una situazione paradossale (Rouco Varela). La confessione della fede, che provoca l’uomo al fondo della sua libertà personale, è legata al rispetto della norma canonica; il diritto divino, manifestato altresì dalla profezia e dal carisma, può assumere concretezza storica solo soggiacendo all’interpretazione e alla positivizzazione del diritto umano. Pur essendo il diritto del Corpo Mistico, esso assume forme corporativistiche o statuali spesso incapaci di cogliere la natura della comunione ecclesiale nella sua verità teologica ultima. È un diritto dell’amore e dell’istituzione, della libertà e della legge, della giustizia di Dio e di quella degli uomini, insomma del Vangelo e della Legge. Il termine “canonico” evoca sovente l’idea di conformismo; quello di “continuità o sicurezza giuridica” l’idea di conservazione dello status quo, cosicché la legge appare spesso come l’ostacolo più ingombrante per il dinamico manifestarsi del carisma e dello Spirito e di conseguenza come impedimento per una missionarietà della chiesa atta a cogliere con puntualità i mutamenti e i nessi della vita socio-culturale a cui si rivolge.
Benché immediatamente meno clamorosi, gli elementi positivi dell’esperienza “canonica” risultano fondamentali per l’esperienza cristiana sia a livello individuale che a livello comunitario. Infatti la disciplina garantisce l’unità del simbolo della fede, del sacramento, della predicazione della Parola e della costituzione ecclesiale. L’oggettività dell’esperienza ecclesiale è garantita dal fatto che la disciplina canonica educa e costringe i singoli cristiani e le singole chiese particolari a superare la tentazione dell’individualismo; fa scoprire il valore insopprimibile della fedeltà alla comunione per il realizzarsi della chiesa. La possibilità che lo Spirito del Signore possa manifestarsi attraverso carismi slegati da ogni vincolo oggettivo si rivela utopica.
La paradossalità  dell’esperienza canonica ha dato esca nella storia a tutti i movimenti spiritualistici (montanista, cataro, francescano e ussista) che hanno anticipato le tensioni esplose poi con la riforma protestante. Quest’ultima, lasciatasi coinvolgere dalla medesima tentazione spiritualistica si è presto disarticolata in una moltitudine di sette, incapaci spesso di garantire l’oggettività propria di una realtà pienamente ecclesiale.
Il conflitto tra il relativo e l’assoluto, il contingente e il trascendente, il particolare e l’universale, la storia e l’escatologia, hanno caratterizzato l’esperienza giuridica sia secolare che canonica. Era dunque inevitabile che questa esperienza umana paradossale, per la sua eterogeneità, stimolasse la riflessione filosofica e teologica a interrogarsi sul problema della natura, origine e unità intrinseca del fenomeno giuridico. Quello dell’unità del diritto, pertanto, è diventato il problema centrale della filosofia cristiana del diritto e della teologia del diritto canonico.
A questo punto una domanda viene spontanea. Esiste un nesso di dipendenza ontologica tra le norme umane, contingenti e mutevoli ed una forma superiore di diritto naturale o divino, che le trascenda e le giustifichi?

2. L’unità del diritto nel pensiero filosofico-teologico cristiano

1. Premesse nella filosofia greco-romana
Il bisogno di trovare una spiegazione unitaria del fenomeno giuridico è emerso nella coscienza del popolo greco molto prima del secolo VI. All’interno di un mondo culturale di tipo mitologico-sacrale e aristocratico il problema è stato risolto accettando l’idea dell’unicità del diritto. La legge (themis) è intesa da Omero come decreto sacro, rivelato dagli dei ai re ed alla classe superiore, con il compito di custodirlo. Anche quando ad essa viene progressivamente affiancata una legislazione propriamente umana, la giustizia (dike) continua ancora ad essere prevalentemente uno strumento soprannaturale della divinità più che una realtà umana.
Nella visone mitologico-poetica di Esiodo, quando i giudici emettono sentenze ingiuste, Dike, figlia di Zeus, va a sedere piangendo presso il padre per raccontagli i pensieri iniqui degli uomini.
L’idea dell’esistenza di un fondamento assoluto delle leggi positive, come problema specifico del rapporto di dipendenza della legge positiva statuale da norme superiori, si precisa per la prima volta nella tragedia greca del secolo V. Nell’Antigone di Sofocle (ca. 405), l’eroina accetta la morte piuttosto che disobbedire alle “leggi non scritte”, superiori e divine, eterne ed immutabili. Da sempre gli assertori dell’esistenza di un fondamento assoluto e supremo delle leggi umane hanno ravvisato in questa visione poetica il primo esempio dell’emergere nel popolo greco della coscienza di un “diritto naturale” (Fassò).
Prescindendo dalla questione se la filosofia presocratica abbia operato una trasposizione dall’ordine cosmico a quello sociale e giuridico (Verdross), oppure, al contrario, dall’esperienza etico-politica propria dell’uomo all’ordine dell’universo fisico, concepito talvolta addirittura come ordine “democratico” (isonomia), bisogna prendere atto che la sua preoccupazione di fondo fu sempre quella di stabilire perlomeno un nesso tra i due ordini, anche quando il problema specifico della loro dipendenza intrinseca, cioè dell’unità del diritto, non era ancora esplicitamente emerso.
Questa preoccupazione è già presente in Parmenide (prima metà del secolo V), là dove afferma che non esiste solo una necessità assoluta della realtà cosmica di essere sempre uguale a se stessa, ma anche un “dover essere” etico-giuridico a livello dei rapporti sociali. La stessa preoccupazione di trovare un principio unificatore tra tutti gli ordini della realtà, domina il pensiero di Pitagora (n. ca. 582), per il quale sia l’ordine armonico del mondo fisico, sia la virtù della giustizia sono retti dal rapporto matematico, dunque da un unico principio di natura razionale (Steffes).
Eraclito (n. ca. 500) accusa Omero ed Esiodo di aver antropomorfizzato la divinità e polemizza con Pitagora contrapponendogli l’esperienza di un mondo visibile impegnato in una lotta di tutti gli esseri, continua e spietata (polemos). Evita però di dissolvere , come faranno Democrito ed Epicuro, la realtà visibile in un fatto di aggregazione accidentale privo di ordine provvidenziale o razionale, sostenendo che dietro la realtà degli esseri, continuamente fluida nel suo divenire, esiste un’armonia nascosta. E’ un’armonia garantita dal logos eterno che per Eraclito si identifica panteisticamente con Dio o almeno con un’emanazione di esso (Verdross).Questa ragione universale essendo principio ordinatore di tutta la realtà cosmica è fondamento anche della convivenza umana. Infatti non esiste un regno autonomo della giustizia, essendo le leggi umane (nomoi) comprese in un’armonia che le inserisce in un’unità superiore: “Tutte le leggi umane si nutrono di un’unica legge divina” (Fr. 114). Eraclito tuttavia non precisa la natura intrinseca del nesso che unifica la realtà visibile e quella nascosta, se non affermando che l’uomo può cogliere il logos divino, sostanza e principio di tutta la realtà, nel profondo della sua psiche, e questo grazie alla filosofia con la quale “passa dal sonno alla veglia”.

a) L’unità del diritto attorno al concetto stoico di natura
Il primo grande spostamento dalla realtà oggettiva a quella soggettiva si sviluppa dopo l’avvento di Alessandro Magno († 323) e l’evolvere della civiltà greca fondata sulla polis verso il cosmopolitismo ellenistico, dove l’individuo, diventato estraneo all’impegno etico-politico globale della città-stato, abbraccia un ideale di vita più tranquilla e serena (ataraxia) (Fassò). In sintonia con questa nuova situazione culturale, Epicuro († 270) erige la “vera natura dell’uomo” – costituita dall’istinto del piacere, del potere e dall’individualismo – a fondamento di tutto il pensiero filosofico. Il “giusto naturale” non è più cercato in una realtà autonoma ed esteriore rispetto all’uomo, ma in ciò che gli uomini decidono contrattualisticamente in funzione del loro utile. Questa spinta soggettivistica, che potrebbe sfociare in un positivismo disgregatore, non è ancora tale da rompere l’unità del diritto, poiché le leggi umane esigono, per loro necessità intrinseca, di essere elaborate utilitaristicamente in funzione della “vera natura dell’uomo” in quanto realtà oggettiva (Flückiger).
Con lo stoicismo, che introduce un nuovo elemento di natura psicologica, la filosofia greca si stacca ulteriormente dall’impostazione oggettivistica tradizionale. Il senso del giusto e dell’ingiusto non è più considerato una predisposizione istintiva, come in Epicuro, bensì razionale e innata nell’uomo. La massima di Zenone († 264) “vivere in conformità con se stessi”, o “con la natura” (Cleante † 223), ha dato corpo a questa nuova corrente filosofica (Welzel). La predisposizione razionale dell’uomo coincide con la natura, o legge universale e necessaria che regola il cosmo, la quale a sua volta si identifica panteisticamente con la divinità che compenetra il mondo con forze corrispondenti ai diversi ordini: quello organico con la physis, quello animale con la psyche, quello umano con il logos (Stiegler). Nella propria natura razionale l’uomo trova già preordinate la norma morale e quella giuridica. Benché l’unità del diritto sia formalmente salvata dall’affermazione che il diritto umano deve essere una traduzione positiva della ragione universale, essa resta ultimamente astratta ed estrinseca, poiché la ragione universale non impone né esige l’abolizione delle diversità socio-giuridiche esistenti tra gli uomini. Indipendentemente dal suo statuto politico concreto, l’uomo sa infatti di esser membro di un regno spirituale che non gli può esse strappato (Verdross).
Con Crisippo († 207) fa la sua apparizione un concetto di legge (nomos) che sembra essere superiore al logos eraclitiano. È la ragione universale che guida il corso di tutte le cose – e perciò anche quelle divine – con la stessa logica di ferrea necessità propria del destino, con il quale si identifica. Essa sembra inserirsi come terza forma di diritto nel tradizionale binomio della filosofia greca, legge naturale (o divina) e legge positiva, da Crisippo chiamata non più nomos ma thesis.
Questa trilogia ancora confusa, che forse era già affiorata in Aristotele, si articola più chiaramente nella dottrina della lex aeterna di Cicerone († 43 d.C.). È dalla  retta ragione divina che dipendono sia la legge della natura, preposta agli essere irrazionali, sia quella etico-giuridica (o diritto naturale) che ordine il bene e il male. Questa legge etico-giuridica non esiste solo nello spirito divino, ma si manifesta pure nella ragione umana, la quale non conosce il diritto empiricamente a partire dal quello pisitivo, ma nella natura dell’uomo. Malgrado la sua valenza panteistica, la dottrina della lex aeterna ha potuto essere recepita, per la sua intrinseca unità e dopo essere stata filtrata da Lattanzio e S. Agostino, nel sistema teistico cristiano (Fassò), proteso a stabilire un nesso di dipendenza ontologica tra il ius divinum, il ius naturale e quellohumanum.
Il fascino esercitato dalla lex aeterna ha spinto Seneca († 65 d.C.) ad affermare che anche il fondatore e reggitore dell’universo è sottomesso alla legge superiore della necessità razionale, creando così quel dilemma tra verità delle cose e libertà di Dio che oltre un millennio più tardi diventerà il contenuto della contrapposizione tra volontarismo e intellettualismo (Stiegler).
Mentre in Grecia il problema del diritto, affrontato generalmente all’interno dell’etica, era rimasto feudo dei filosofi, a Roma, dove la giurisprudenza e l’elaborazione dottrinale del diritto raggiunse apici di grandissima perfezione, divenne la prerogativa dei giuristi che subirono soprattutto l’influsso dello stoicismo.
Al posto del tradizionale binomio physis-nomos, già sconvolto dalla lex aeterna ciceroniana, subentra in epoca tardiva la trilogia ius naturale, ius gentium e ius civile. Il ius naturale definito a volte con criteri razionalistici come da Paolo (secolo III), a volte con criteri naturalistici come da Ulpiano († 228), non è più ora considerato come un diritto assoluto ed estratto posto fuori della storia, come aveva fatto il giusnaturalismo greco, sofista e stoico, ma come diritto effettivamente esistente e praticato dai popoli e non legato a presupposti metafisici assoluti (Fassò). Definendo il ius gentium, in quanto viene applicato presso tutti i popoli, come diritto che “la ragione naturale stabilisce per tutti gli uomini”, Gaio (secolo II) ha istituito un parallelismo con il diritto naturale, che per lo stoicismo stava ad indicare una norma dettata dalla ragione.
Fu pertanto inevitabile che ius naturale e ius gentium venissero sempre più sovente confusi l’uno con l’altro fino a quando Giustiniano († 565), nelle Istitutiones stabilì tra i due un’identità perfetta.
Anche il problema dell’unità del diritto venne posto dai romani in termini non filosofici ma concreti e pragmatici. Infatti il diritto naturale non è mai contrapposto al ius gentium o a quello civile(prerogativa di ciascuno Stato) come ideale o limite della loro validità, perché tutti e tre coincidono nell’essere una forma di diritto storico-positivo. L’aequitas romana consiste perciò in una applicazione del diritto a partire da principi che , essendo razionali e avendo come punto di riferimento la natura razionale dell’uomo, non trascendono, ma rimangono immanenti al fenomeno giuridico stesso (Fedele).
Ulpiano, applicando i parametri propri alla filosofia stoica definisce la iurisprudentia come conoscenza delle cose umane e divine, scienza del giusto e dell’ingiusto.

b) Eterogeneità del diritto nel pluralismo sofista
Le difficoltà incontrate dalla filosofia greca nel tentativo di garantire in modo ontologicamente indissolubile l’unità del diritto a partire dal concetto centrale di natura (physis), sono documentate dal dilagare, dal secolo V in poi, della sofistica, che, malgrado le sue contraddizioni interne, ha come denominatore comune il fatto di affrontare epistemologicamente la realtà con un criticismo razionale paragonabile a quello dell’illuminismo europeo moderno (Hegel). La sua culla culturale è la democrazia ateniese il cui presupposto era una grande fiducia nella ragione e la conseguente fondazione razionale ed umanistica di tutti i valori. La retorica, che non è solo l’arte di discutere e persuadere l’assemblea dei cittadini – cui incombe il dovere di elaborare l’ordine positivo dello Stato – ma anche strumento per far prevalere una determinata opinione facendola apparire come vera, sacrifica i valori assoluti ed universali (Fassò). Sottoponendo per la prima volta non solo singole leggi particolari, ma tutto l’ordinamento giuridico dello Stato al proprio criticismo razionale, la sofistica ha clamorosamente provocato la rottura – laddove la tensione era sempre stata latente – tra l’ordine della natura e quello giuridico positivo dello Stato. Da allora la contrapposizione tra natura e legge, tra giusto per natura e giusto per legge – che troverà un’analogia a livello teologico nella tematica di Lutero “Legge e Vangelo” – ha polarizzato l’attenzione della filosofia del diritto.
Contrariamente ad Eraclito e a Pitagora, come alla filosofia oggettivistica tradizionale, preoccupata di stabilire un nesso o almeno una convergenza tra i due ordini, i sofisti hanno ripreso in termini filosofici il problema, emerso nell’Antigone di Sofocle, della validità delle leggi positive contrarie a quelle “non scritte”, divine o naturali. Essi non si sono limitati ad opporre il “giusto per natura” al “giusto per legge”, proponendo soluzioni o relativiste o giusnaturaliste, ma nono giunti talvolta ad opporre il secondo al primo dando esca ad una prima forma di positivismo giuridico (Verdross).
Un relativismo fondato sul principio homo-mensura ha avuto Protagora († 411) come maestro. L’uomo è la misura di tutti i valori, non tanto come singolo o come genere umano, quanto nel senso che l’opinione dell’assemblea dei cittadini, riformabile nel tempo, fu considerata come l’unico criterio di validità del diritto positivo. Non essendoci più spazio per un diritto divino o uno naturale, l’esito sarebbe stato quello di un radicale positivismo se Protagora non avesse temperato la sua dottrina con un elemento capace di garantire un residuo di unità oggettiva. Infatti egli considera il senso della giustizia comune (ethos) alla coscienza di tutti gli uomini, come patrimonio che se non permette di declinare norme positive univoche, accettabili da tutti, permette di creare, con l’aiuto dei retori più saggi, perlomeno il diritto migliore.
Solo occasionalmente la sofistica è giunta a soluzioni di sicura estrazione positivistica, identificando il diritto umano con la giustizia. Trasimaco fu, al dire di Platone, tra coloro che hanno stabilito un equipollenza tra la legge e la giustizia, mentre Archelao (secolo V-VI), che non fu di scuola sofistica, ha dato la prima enunciazione precisa del positivismo giuridico – articolato in sistema dottrinale solo nell’epoca moderna -, sostenendo che non esiste un “giusto per natura” ma soltanto un “giusto per legge”.
Se nella concezione religioso-mitologica, essenzialmente volontaristica, si è cercato di garantire l’unità del diritto affermandone l’unicità, cioè considerando il diritto divino o naturale e umano, come realtà globale unica, nel positivismo si è cercato l’unità in modo ancora più formale ed estrinseco affermando l’unicità del diritto positivo che, essendo fondato soltanto sulla volontà del legislatore umano, non poteva sfuggire alla logica, piena di contraddizioni, del proprio pluralismo interno.
La corrente sofistica giusnaturalista, opposta a quella relativista e positivista, ha come capostipite Ippia (n. ca. 460). Alla precarietà del diritto umano Ippia oppone l’esistenza di leggi “non scritte”, rifiutando di mettere sullo stesso piano ciò che è giusto (dikaion) e ciò che è conforme alla legge positiva (nomimon). All’interno di questa corrente il diritto naturale è concepito a volte in modo naturalistico, come nell’attribuzione fatta da Platone a Callicle nel dialogo Gorgia, dove i1 diritto di natura è identificato con il diritto del più forte, per cui le leggi che cercano di neutralizzarlo essendo contrarie alla natura sono ingiuste; a volte, invece, in modo razionalistico, cioè come espressione della ragione umana. In questa versione che rappresenta l’apice della formulazione data dalla filosofia greca presocratica, il diritto naturale non è più considerato come una realtà oggettiva comune a tutti gli esseri e perciò esteriore anche all’uomo, bensì come norma che l’uomo attinge dalla propria essenza razionale (Fassò).
In Ippia come in Alcidamante (n. ca. 350) il diritto positivo, considerato ormai come frutto esclusivo dell’arbitrio umano, è criticato a partire da un diritto naturale (tendenzialmente anche cosmopolitico), che nella sua astrattezza era però spesso il risultato di un ideale soggettivo dei singoli filosofi. Non essendo riuscita né a chiarire il concetto formale di diritto, né a dedurne contenuti oggettivi validi per tutti, la sofistica ha finito per confondere il diritto naturale con un diritto ideale ed utopico, ultimamente incapace di stabilire un nesso d’unità ontologica con il diritto positivo umano (Verdross).

c) Fondamento metafisico dell’unità del diritto nelle sintesi di Platone e Aristotele
Rispetto ai sofisti suoi contemporanei, che avevano invano cercato di risolvere l’antitesi physis-nomos stabilendo o un rapporto di dipendenza meccanico tra l’ordine della natura fisica e quello giuridico oppure una dipendenza più intrinseca, ma ancora astratta, come nella versione del giusnaturalismo razionalista, Socrate († 399) ha fatto un passo avanti creando un nesso tra morale e diritto. Sottomettendosi alla ingiusta sentenza che lo condannava a morte egli ha voluto dimostrativamente riaffermare l’autorità dello Stato, minato dalla critica distruttiva dei sofisti. Con questo gesto, tuttavia, Socrate non intendeva affatto sostenere la priorità assoluta della legge positiva – anche se ingiusta – sul diritto naturale, né appellarsi al diritto naturale contro di essa. Egli voleva soltanto affermare che l’obbedienza alla legge positiva non si fonda sull’autorità oggettiva e intrinseca della stessa, che le deriverebbe da una sua presunta corrispondenza con un diritto naturale sofisticamente inteso come realtà astratta e astorica posta al di sopra dell’uomo. La legge comprende e investe infatti anche la dimensione morale dell’uomo, con i doveri che ne possono derivare in una determinata situazione storica, come quello della riconoscenza verso lo Stato ateniese o quello della solidarietà imposta dal fatto di avere contrattualisticamente accettato l’ordine democratico.
Con Platone e Aristotele il problema del diritto è stato definitivamente spostato non solo dall’ordine fisico a quello razionale e morale, ma a quello più propriamente metafisico (Stiegler).
Platone († 247) costruisce la sua metafisica sull’identificazione dell’idea trascendente del bene con l’essere. Le singole cose partecipano in modo precario e imperfetto (come “tracce”) all’essere assoluto delle idee o essenze trascendenti.
Il sistema non si risolve in un puro dualismo estrinsecistico, da una parte perché, se nelle cose sensibili non è immanente l’idea, lo è almeno il fine (telos), cioè la tensione verso l’idea trascendente; dall’altra, perché Platone, facendo un’opzione volontarista, afferma nel Timeo, che il Demiurgo, o Dio, ha voluto che il mondo determinato dalle idee fosse il più possibile simile a lui (Verdross). La natura è per Platone la vera essenza ideale e superindividuale che trascende laphysis sensibile. Il giusto e la giustizia non sono costituiti dalle singole decisioni storiche, ma dalla natura metafisica dell’idea trascendente di diritto, la quale comprende quella di giustizia, di politica e di etica. Esiste perciò in ultima analisi solo un unico vero diritto, poiché ogni realizzazione naturale e positiva, pur rapportandosi necessariamente, per essere vera, con l’idea trascendente, rappresenta solo un’imitazione e una traccia dell’archetipo.
Benché nel sistema filosofico di Platone non venga riservata molta attenzione al diritto, il problema dell’unità dello stesso vi trova una soluzione molto organica. Infatti non può esistere contraddizione tra il diritto positivo (nomos) o naturale (physis) e l’idea trascendente di giustizia, poiché la legge positiva è vera solo nella misura in cui è conforme al diritto naturale fondato nella natura razionale dell’uomo. La natura razionale dell’uomo, d’altra parte, è un riflesso dell’idea trascendente di giustizia, derivata a sua volta dall’idea di bene. Questa posizione di fondo, astratta e prevalentemente etica come quella di Socrate, spiega come Platone abbia potuto dedurre a priori, per reminiscenza innata delle essenze intelligibili, la propria concezione di Stato, senza riguardo alcuno all’esperienza storica e come abbia potuto attribuire alla legge, più che una funzione giuridica, un compito prevalentemente di natura etico-pedagogica (Fassò).
Il pericolo dualistico-estrinsecista presente nel sistema di Platone (che aveva arrischiato di dissolvere gli esseri visibili in una realtà inconsistente) è stato superato da Aristotele († 322) con l’attribuzione della realtà dell’essere – conosciuto non come in Platone per reminiscenza di nozioni già apprese in una precedente vita, ma a posteriori per la via dell’esperienza empirica elaborata concettualmente dall’intelletto – non alle idee universali e trascendenti (universalia ante rem), ma alla forma sostanziale immanente alle singole cose (universalia in re). Per conseguenza esistono realmente solo gli enti singoli. La forma che determina i singoli enti facendoli passare dalla potenza all’atto è, nella sua immanenza agli stessi, l’idea che li spinge verso il loro fine (entelèchia). Solo nel raggiungimento di questo fine gli esseri realizzano la loro vera natura e gli uomini la moralità della loro esistenza. Tuttavia gli esseri non realizzano pienamente il fine loro proprio che tendendo contemporaneamente verso la loro causa finale ultima. Malgrado che l’atto puro (Dio) sia l’atto propriamente causante il passaggio, negli enti composti, della potenza da un atto all’altro, manca in Aristotele il concetto di creazione, per cui egli, meno coerentemente di Platone (Verdross), non dice da dove le idee o forme provengano. Ciò avrebbe introdotto il concetto ebraico-cristiano di creazione. Dato che il perfetto precede l’imperfetto e che Dio in quanto realtà eterna non composta di materia ha la pienezza dell’essere e pensa solo se stesso, egli vede in se stesso anche le forme.
Nel quadro di questo sistema fondato sull’unità tra causa efficiente e finale si pone anche il problema del diritto (Welzel). La giustizia è una virtù essenzialmente sociale, fondata sulla relazione di eguaglianza o proporzione ad alterum. Non è più come in Platone la virtù morale totale, perfezione dell’anima; di conseguenza per Aristotele lo Stato non si costituisce come modello di un ideale assoluto di giustizia, bensì come realizzazione di un ordine non tanto morale, ma giuridico, atto ad assicurare le condizioni per l’avverarsi del bene comune. Conseguentemente il problema non è quello della forza etico-pedagogica della legge, ma quello di educare i cittadini alla legge su cui si fonda lo Stato (Fassò). All’interno del diritto pubblico Aristotele distingue un diritto naturale ed uno positivo. Il primo è valido ovunque, indipendentemente dal fatto che sia o meno conosciuto ed è dedotto dalla natura razionale dell’uomo; il secondo è fondato invece sulla legge positiva il cui compito specifico è quello di declinare storicamente i valori che a livello di diritto naturale sono indifferenti (bona per aliud, non bona per se). Con la distinzione tra giustizia distributiva e commutativa, nonché con quella – nella dottrina sull’imputazione penale – tra errore (iuris et facti) e ignoranza, Aristotele ha dato un grande contributo allo sviluppo della dottrina giuridica, pur senza arrivare alla definizione del concetto di diritto e all’elaborazione di una teoria generale.
Sembra che Aristotele abbia intravisto anche l’esistenza di un diritto (divino) per gli dei, di carattere positivo (Stiegler). Comunque lo Stagirita non si è pronunciato esplicitamente né sulla dipendenza interna e sull’unità di questa eventuale trilogia, né sul problema tradizionale del rapporto tra physis e nomos. Ha posto però le premesse metafisiche che solo la scolastica elaborerà compiutamente (Sauter). Nella dottrina sull’epicheia (o equità) Aristotele lascia intravvedere il rapporto esistente tra il diritto naturale e quello positivo. Il diritto naturale – di cui Aristotele non sviluppa analiticamente i contenuti – , in quanto espressione della natura razionale, essenzialmente sociale dell’uomo, esercita una funzione di norma (forma) su quello positivo, che deve essere intrinsecamente razionale. Nella dottrina dell’epicheia emerge la fondamentale differenza esistente tra Platone e Aristotele circa il modo di concepire il diritto. Il maestro, occupandosi dell’epicheia solo di striscio, la considera come corruzione o concessione misericordiosa, opposta al vero diritto, poiché, in quanto interpretazione restrittiva della legge, essa si allontana ancor di più dalla norma ideale, per sua natura generale. I1 discepolo la considera invece come emendamento positivo, poiché creando un diritto storicamente più adatto al fine specifico e concreto del singolo soggetto, realizza un diritto ancor più vero (Hamel). Di conseguenza l’epicheia è contraddittoria solo rispetto al diritto scritto (Wittmann).
Questo profondo senso della dimensione concreta e storica delle cose, che Aristotele ha in comune con Socrate e che lo ha spinto a cercare l’esistenza dell’essere non nelle idee trascendenti di Platone, ma nella loro forma individuale e concreta, oltre ad avergli fatto superare la concezione astratta e razionalistica del diritto naturale propria dei sofisti, sembra averlo parimenti indotto ha considerare il diritto naturale non come realtà assoluta e fissa, ma storicamente mutabile. Ciò spiega come Aristotele abbia potuto accettare l’istituto della schiavitù che solo lo stoicismo ha messo seriamente in discussione (Fassò).
Concludendo si deve constatare che la nozione di natura, poliedrica e inesauribile nel suo significato e nei suoi contenuti, è stato il dono imperituro della cultura greca alla filosofia occidentale del diritto. Nella sua accezione più globale essa abbraccia la totalità degli esseri, da quelli materiali e senza vita a quelli spirituali, fino ad assurgere al concetto astratto di essenza di tutte le cose. La filosofia greca se ne è impossessata per farne il fondamento di un diritto naturale (o divino) neutro – indipendente da ogni fede in un essere personale – fonte ed origine di un ordine giuridico.
In questa concezione metafisicamente aperta, sta tutta la forza dell’idea classica di natura, che dopo il superamento della crisi della sofistica – spesso però ingiustamente enfatizzata (Rommen) – e dopo la mediazione di Platone ed Aristotele, i quali in luogo della physis hanno posto come fondamento della realtà giuridica la metaphysis, è maturata a tal punto da non più essere incompatibile con l’esistenza di un diritto propriamente divino (Stiegler). L’apparizione di quest’ultimo, con l’avvento del pensiero cristiano, nella filosofia del diritto, ha rilanciato nuovamente il problema dell’unità del diritto, che i greci avevano risolto spesso solo formalmente o estrinsecamente, anche a livello del rapporto di dipendenza tra physis e nomos, cioè tra diritto naturale e positivo.

2. Recezione eclettica della filosofia greco-romana nella patristica

a) L’incontro del diritto divino positivo con il diritto naturale stoico
Il contributo più prezioso dato dal pensiero giuridico veterotestamentario è stato quello di aver presentato Dio come fonte immediata e personale del diritto. Benché la storia del popolo ebraico si estenda sull’arco di oltre un millennio, la determinazione senza compromessi e l’energia con la quale ogni norma giuridica è stata costantemente riferita a Jahvé, rappresenta un fenomeno straordinario di continuità culturale (Rapport). La legge ebraica non è più il logos eterno, immutabile e nascosto nella natura cosmica o in quella razionale dell’uomo, ma una legge rivelata da Dio come sua volontà e comando, comunicata a Mosè e ai profeti e compendiata nei dieci comandamenti.
Nella concezione ebraica non c’é posto per l’idea di un fondamento razionale del diritto (Schönfeld), e, conseguentemente, per una distinzione tra il diritto naturale e positivo. Mentre le sovrapposizioni legalistiche dei rabbini hanno offuscato il carattere essenziale e sintetico proprio della legge ebraica, l’intervento dei profeti ne ha approfondito ulteriormente il carattere religioso-sociale. Predicando la conversione del cuore e la santità hanno smantellato il ruolo della pratica esteriore provocando un’interiorizzazione della esperienza etico-giuridica (Stiegler). Questo processo di approfondimento interiore ha però eliminato ogni traccia giusnaturalistica e accentuato l’aspetto volontaristico del diritto fino ad identificare la pratica della legge con l’obbedienza alla volontà di Dio (Fassò).
L’idea dell’immediatezza divina nella produzione del diritto è ripresa nel Nuovo Testamento dove Cristo, logos eterno incarnato, è venuto per restaurare la natura (o legge) originaria, con il potere di prolungare norme etico-giuridiche vincolanti per il nuovo popolo di Dio (Lämmle). Avendo recepito e riassunto il decalogo nel precetto dell’amore di Dio e del prossimo – che ha continuato a trovare la sua formula di espressione nella “regola d’oro” – il Nuovo Testamento ha permesso il rilancio della questione di un fondamento razionale della legge positiva.
S. Paolo ha svalutato la funzione della legge – opposta alla giustizia di Dio – ma non ha negato la possibilità di una conoscenza razionale di Dio e della legge naturale (Fuchs). Di conseguenza il problema del valore razionale della legge, lungi dall’essere stato eliminato, fu inserito, agli albori del cristianesimo, nel grande tema teologico centrale del rapporto paradossale natura-grazia, carico di polarità antinomiche. Tale polarità ha subito una frattura in due direzioni opposte: prima con Pelagio e poi con la tematica “Legge e Vangelo” di Lutero.
Con il progressivo sviluppo dell’organizzazione costituzionale e disciplinare della chiesa – che ha espresso un proprio diritto canonico, affine in quanto diritto e in quanto istituzione a quello romano – e con l’affermarsi, più lento ma irreversibile, di una nuova società cristiana, il confronto filosofico-teologico con l’esperienza paradossale del fenomeno giuridico e con la cultura greco-romana divenne inevitabile. L’istintiva ripulsa dei primi movimenti antilegalistici (Marcione), spiritualistici (Montano) e millenaristici (Papia); l’innata ostilità iniziale verso lo Stato romano, pagano, ma soprattutto persecutore, e la coscienza di possedere una propria concezione soprannaturale dell’etica, hanno suscitato nei Padri della chiesa, dai primi apologisti in poi, una estrema vigilanza e criticità verso la giurisprudenza romana e la cultura filosofico-giuridica dell’antichità. Questa posizione di vigilanza è evoluta solo lentamente, man mano che l’impero recepiva l’influsso cristiano, ed è sfociata solo occasionalmente in forme di ottimismo ingenuo, come per es. in Gregorio Taumaturgo.
Sicuri della copertura dottrinale garantita da S. Paolo (Schilling), i Padri greci, più giusnaturalisti di quelli latini, finirono per recepire sia pure limitatamente e in modo eclettico, assieme a molti istituti del ius gentium e civile, anche l’idea greca di diritto naturale, dettato dalla ragione.
Evidentemente la dottrina ebraico-cristiana della creazione del mondo, tradottasi in un orientamento fortemente volontaristico del diritto, rappresentò nel processo di recezione del giusnaturalismo razionalista, ad un tempo l’ostacolo più grande ed il correttivo più efficace. L’esito fu quello di permettere a Tertulliano († dopo il 220) – che fu il primo autore cristiano ad usare il concetto di diritto naturale -, ad Origene († ca. 254), a Lattanzio († prima metà del secolo IV), a Clemente Alessandrino († ca. 216/217) e a Giovanni Crisostomo († 407) di elaborare una sintesi audace tra la concezione giudaico-sacrale e quella stoica. Tertulliano concepì la legge promulgata da Dio (l’aveva già fatto Filone Alessandrino [† ca. 50 d.C.] nel suo ebraismo ellenisticizzante) come codificazione positiva del diritto naturale. I Padri cominciarono così a distinguere un diritto naturale primario, valido prima del peccato originale, e un diritto naturale secondario, conseguente allo stesso.
La componente individualistico-stoica fu corretta dando al diritto naturale una dimensione più altruistica e sociale, mentre quella nazionalistica veterotestamentaria fu eliminata, riconoscendo, sul modello stoico del logos, una validità universale alla legge etica (Flückiger). Analogamente alla maggioranza dei filosofi presocratici e stoici, i Padri dei primi secoli non hanno sviluppato una dottrina organica capace di rendere metafisicamente plausibile il loro discorso sul diritto. Ciò emerge anche a proposito del problema centrale dell’unità del diritto. Tertulliano, come Origene, Cirillo Alessandrino († 444) e Gregorio Nazianzeno († 390), lo hanno risolto con una recisa negazione della forza vincolante del diritto statuale difforme da quello naturale. Ma il problema è posto in termini più etici (Tertulliano parla di offesa fatta a Dio), che giuridico-ontologici.
Sintomo dell’affermarsi del diritto canonico come realtà giuridica specifica cristiana è l’opinione di G. Crisostomo, secondo il quale una deroga al diritto positivo è possibile, non solo quando l’esigesse il bene dell’uomo, ma anche quando lo richiedesse l’utilità della chiesa, che così incomincia ad essere considerata criterio di misura del diritto positivo e naturale.
La problematica è ripresa da S. Ambrogio († 397). Benché persuaso, in omaggio al suo illustre passato di alto funzionario imperiale, della profonda armonia fra diritto romano e diritto naturale, egli difese con fermezza la priorità del diritto canonico (censio ecclesiastica) su quello imperiale (v. Campenhausen) e sostenne, contro Ulpiano, che il principe non è legibus solutus.
La dipendenza da Seneca, dal quale ha ripreso – iscrivendolo definitivamente nell’etica cristiana – lo schema delle quattro virtù cardinali, e dal De Officiis di Cicerone, hanno sviluppato in S. Ambrogio un senso spiccato dell’unità tra diritto e morale, alla quale però egli ha impresso una valenza più sociale che utilitaristica.
L’elaborazione di un diritto naturale cristiano, affinatasi al contatto con lo stoicismo, ha favorito l’inserimento della chiesa nel mondo greco-romano, provocando però un progressivo acutizzarsi del problema della compatibilità di tale diritto con quello della grazia (o divino), la cui funzione salvifica arrischiava di essere esautorata. S. Ambrogio lo risolse senza scavare in profondità, nel segno di una concordanza tra Legge e Grazia, sostenendo che la prolungazione della legge positiva di Dio era diventata necessaria dopo che gli uomini avevano abbandonato la pratica del diritto naturale.

b) L’unità del diritto nella sintesi metafisico-religiosa di S. Agostino
Anche S. Agostino († 430) risente dell’influsso di Cicerone, ma evolve a contatto con Pelagio (secolo V). Dal primo riprende la nozione di lex aeterna e, trasformandola teisticamente, le conferisce quella agibilità cristiana che le permetterà – attraverso la mediazione di Pietro Lombardo († 1160) – di diventare il concetto chiave della filosofia medioevale del diritto. Rompendo con lo stoicismo, che aveva identificato la lex aeterna con la lex naturae e concepito quest’ultima come emanazione sostanzialmente uguale della ragione divina nella ragione umana, S. Agostino ha tracciato una netta distinzione tra ratio divina e ratio humana. La lex aeterna, immutabile come Dio stesso, non è più né l’idea trascendente di Platone, né il fatum o ragione universale e impersonale e autonomamente esistente di Cicerone; è invece il piano per la creazione e il governo del mondo contenuto nell’intelligenza di Dio (Wolfson). La ragione umana creata da Dio conosce la lex aeterna come in un a priori soggettivo, scoprendone il riflesso nella lex naturalis, che S. Agostino identifica con il ius gentium. La legge naturale non è più uguale alla lex aeterna ; è solo un’impronta o trascrizione razionale che l’uomo, ferito dal peccato originale, arriva a conoscere nei suoi tratti essenziali (extrema lineamenta). La legge eterna diventa perciò l’ordo ordinans del diritto naturale (ordo ordinatus) (specificato da Dio prima con la lex hebraeorum e poi con la lex veritatis del NT), che a sua volta è l’ordo ordinans della lex temporalis o statuale (Verdross).
All’ interno di questa ispirazione metafisica di estrazione platonica, ma senza precisarne ulteriormente la dinamica ontologica, S. Agostino ha stabilito un rapporto di unità del diritto, subordinando rigorosamente la lex temporalis a quella naturalis e ambedue a loro volta a quellaaeterna. Ciò gli ha permesso di negare la validità di un diritto positivo non conforme a quello naturale o alla lex aeterna.
Mentre quest’ultima tende verso la realizzazione della vita eterna, il diritto positivo tende a creare un ordine mondano. L’ordine etico generale si divide perciò in due ambiti distinti che preannunciano la chiara distinzione fatta da S. Tommaso tra ordine naturale e soprannaturale. La morale è l’ambito verticale in forza del quale l’uomo tende interiormente verso il dovere assoluto, cioè verso la lex aeterna; il diritto è l’ambito orizzontale ed esterno, che non genera amore e il cui fine può eventualmente essere conseguito anche con la coercizione. Anzi, lo Stato, il cui compito è ormai puramente terreno, non deve più punire ogni peccato ma solo i delitti che disturbano la pacifica convivenza degli uomini. Attribuendo alla sanzione penale uno scopo preventivo, S. Agostino ha sintetizzato le posizioni precedenti che l’avevano considerata come mezzo medicinale (Platone), educativo (Aristotele) o come uno strumento da usare con mitezza (stoicismo) (Stiegler).
Pur avendo distinto con estrema chiarezza il diritto dalla morale, S. Agostino non ha provocato nessuna spaccatura. Il diritto infatti non è soltanto un settore della morale, ma un completamento della stessa poiché la rende vincolante anche nell’ambito esterno (Schilling). Ne è scaturita per contro una demitizzazione dell’idea di Stato, così come essa era presente nella filosofia greca. Esso non è più la comunità sacrale che con la sua fondamentale valenza etica – resa più specificamente giuridica solo da Aristotele – investe tutti i rapporti umani, poiché la gestione del fine spirituale interiore e soprannaturale è passata ormai alla chiesa (Fassò).
Nell’evoluzione del pensiero agostiniano ha avuto grande importanza anche lo scontro frontale con Pelagio, che aveva affermato la bontà della natura umana e la validità delle opere compiute in base al diritto naturale razionale per ottenere la salvezza, senza il soccorso della Grazia. Persuaso che il giusnaturalismo poteva condurre al pelagianesimo, S. Agostino – contrariamente a quanto aveva fatto in precedenza – non accentua più la normatività della lex aeterna, intesa come ragione, ma in modo unilaterale quella della volontà di Dio.
Questo sviluppo volontaristico si riflette nelle oscillazioni di S. Agostino quando nel De Civitate Dei valuta la funzione dello Stato e della Chiesa. A volte sembra negare ogni valore alla città terrena, definita anche civitas diabuli, a volte le riconosce una certa consistenza, ma solo a condizione che essa realizzi la giustizia cristiana, obbedendo alla volontà di Dio. Anche la chiesa appare ora come Corpo mistico e comunione dei santi, ora come istituzione visibile e storica. In questa visione dai contorni talvolta imprecisi – in cui Lutero ha trovato ampie possibilità d’ispirazione per la dottrina dei due regni e delle due chiese – emerge la tensione, latente nel pensiero cristiano fin dai primi tempi, tra escatologia e storia, fede e ragione, grazia e natura.
S. Agostino pur definendo il peccato sia in rapporto alla legge eterna sia in rapporto alla volontà di Dio, non ha disgiunto in Dio ragione e volontà e tanto meno le ha contrapposte l’una all’altra. Ciò spiega come abbia potuto influenzare in uguale misura sia le correnti intellettualistiche che quelle volontaristiche del medioevo.

3. Sovrapposizione del diritto divino e naturale fino alla scolastica

Da una parte la traduzione in latino delle collezioni dei canoni conciliari orientali e la raccolta delle decretali papali del secolo V (384-498), che hanno meritato a Dionisio Esiguo († ca. 550) il titolo di “padre della canonistica” (Peitz e Ebers), dall’altra il grande compendio eclettico della dottrina giuridica cristiana precedente fatto da Isidoro di Siviglia († 636) nelle Etymologiae, in cui, oltre alle sentenze dei Padri della chiesa, vengono per la prima volta ampiamente elaborate quelle dei giureconsulti romani, e, da ultimo, l’impatto del pensiero cristiano con lo spirito del diritto germanico, hanno segnato profondamente la fine dell’antichità classica e l’inizio del primo medioevo.
La forte componente religioso-sacrale emersa negli istituti del “giudizio di Dio” o della tregua Dei(Nottarp), ma soprattutto nelle leges barbarorum in cui si dichiara in modo programmatico la dipendenza del diritto da Dio; la priorità assegnata al diritto consuetudinario sulla legge scritta; il carattere concreto del diritto, non più considerato astrattamente, come presso i romani, ma in quanto attributo delle cose e delle persone; la componente sia popolare (in forza della quale il principe non è più considerato, come l’imperatore romano, legibus solutus), sia nazionale, ma potenzialmente anche cosmopolita (favorita dalla struttura non più verticistica, ma solo orizzontalmente gerarchizzata della società feudale), sono gli attributi fondamentali del diritto germanico (Meyer). Essi furono facilmente integrati – provocando ulteriori sviluppi – dal pensiero giuridico cristiano, fondato sull’immediatezza divina del diritto e sull’unità dello stesso, sulla forte valenza teologica della tradizione e sulla struttura ad un tempo universale e particolare della chiesa.
È sintomatico che già Isidoro di Siviglia, riprendendo un’idea di S. Agostino, abbia espressamente sottolineato – come più tardi Graziano († ca. 1142) e Sicardo da Cremona († 1216) – l’elemento consuetudinario-dinamico del diritto germanico, sostenendo che la dipendenza del diritto positivo da quello naturale non poteva essere stabilita astrattamente – derivando il primo dal secondo -, senza tener conto delle esigenze e dei costumi dei singoli popoli o delle singole nazioni. D’altra parte non fu senza rapporto con la materiale concretezza del diritto germanico il fatto che dal primo medioevo fino alla scolastica sia perdurato l’equivoco naturalistico, stoico-ulpianeo, consistente nel concepire il diritto naturale come istinto della natura. Anche su questo punto Isidoro di Siviglia ha compiuto però un primo passo avanti, tralasciando dalla definizione ulpianea il riferimento agli animali. Ciò ha permesso di avviare, magari involontariamente, un processo di decantazione del concetto naturalistico di diritto naturale, che assieme alla sua valenza panteistica aveva rappresentato uno degli ostacoli più difficili alla recezione della physis greca nella dottrina cristiana. Stefano di Tournai († 1203) eliminerà, sei secoli più tardi, ogni possibilità di equivoco negando con fermezza la capacità giuridica degli animali.
Conseguenze storiche più rilevanti ebbe comunque il fatto che Isidoro di Siviglia, nella scia religioso-sacrale dei Padri (Fassò), ai quali non era riuscita una netta distinzione tra filosofia e teologia, abbia ancora una volta identificato il diritto naturale con quello divino. Nel segno di questa sovrapposizione anche Graziano continuerà sorprendentemente a definire il ius naturalecome diritto quod in lege et evangelio continetur (Wenger). A partire da questa premessa era inevitabile che egli facesse, anche a livello dell’etica e del diritto, un’opzione sacrale e volontarista, affermando in un altro dictum che nel diritto naturale “nihil aliud praecipiatur, quam quod Deus vult fieri, nihilque vetetur, quam quod Deus prohibet fieri” (c. 11 D 9).
Nel solco della tradizione agostiniana Graziano ha però anche fatto progredire il fenomeno di interiorizzazione del diritto, sia mettendo a punto la distinzione tra peccato e delitto (non più definito in rapporto al disordine sociale, bensì allo scandalo provocato nella chiesa), sia stabilendo come momento fondamentale del diritto penale canonico il principio nulla poena sine culpa. Sostenendo inoltre che la coercizione non è essenziale alla nozione di diritto, Graziano ha contribuito a fissare definitivamente questa dottrina nel pensiero giuridico cristiano (Stiegler).
Anche nel corso del primo medioevo emerge con insistenza negli autori la preoccupazione di garantire l’unità del diritto. Ciò risulta dal fatto che essi, pur facendo, in modo non sempre consapevole, opzioni di fondo diverse – chi intellettualistiche chi volontaristiche – non hanno negato la possibilità di coesistenza del diritto divino e di quello naturale. Del resto fu largamente ribadita sia l’invalidità delle leggi positive contrarie al diritto naturale – definite vana et irrita da Graziano -, sia l’impossibilità di dispensare da esso, come per es. ha sostenuto Uguccio († 1210).
Fu compiuto anche un vasto tentativo, che ha visto impegnati S. Anselmo († 1109), Ugo da S. Vittore († 1141), Alessandro di Hales († 1245) e altri, di sintetizzare il diritto naturale – nella scia della più autentica tradizione biblica – attorno ad un unico, supremo principio (E. Wolf), dal quale derivare progressivamente norme sempre meno generali. Ciò ha evidentemente stimolato, all’interno di una struttura feudale articolata per gradi, lo sforzo già intrapreso dalla patristica, di articolare il diritto naturale secondo un ordine gerarchico. Guglielmo di Auxerre († 1231/1237) distinse per es. tra un ius naturale generalissimum, generalius et speciale, mentre S. Bonaventura·(† 1274) affermò l’esistenza di principi validi in assoluto e di principi validi in funzione dell’economia della salvezza, necessari solo per la situazione di prima e dopo il peccato originale. Questo sforzo speculativo di reductio ad unum fatto sulla base di una scala di valori sempre più precisa (Flückiger), fu del resto concomitante al formarsi della coscienza dell’unità religioso-politica del sacrum imperium romanum, che ebbe come risvolto giuridico la teorizzazione – secondo la formula attribuita ad Irnerio (secolo XII) dell’unum esse ius, cum unum sit imperium – della necessità di un unico diritto comune, valido per tutti i popoli. L’unità giuridica della cristianità fu raggiunta infatti quando, dopo un lungo contrasto, il diritto canonico fu accettato accanto a quello romano-giustinianeo come diritto universalmente valido. La formula dell’utrumque iuris espresse così la convinzione dell’esistenza di un duplice ma unico diritto, in entrambi i casi universale e fondato nel diritto divino (Fassò). Comunque l’impossibilità di raggiungere una sintesi perfetta attorno alla “regola d’oro”, se non addirittura come nel caso di Simone da Bisignano († inizio secolo XIII) attorno al concetto teologico di caritas, fu senza dubbio causata anche dall’incapacità del primo medioevo di dare una definizione unitaria del diritto naturale e di distinguerlo dal ius divinum positivum, di cui fu Abelardo († 1142) ad usare per primo la formula.
Infatti i teologi e i canonisti prescolastici hanno continuato a veicolare nelle loro opere, come nel Decreto, tutte le nozioni di diritto naturale elaborate dai greci e filtrate dai Padri, spesso senza accorgersi della reciproca incongruenza esistente tra la nozione sacrale (che identifica il diritto naturale con il diritto divino), quella naturalistica (che lo identifica con l’istinto) e quella razionalistica (che lo definisce come diritto dettato dalla ragione umana).
Con l’affermarsi dell’aristotelismo ad opera di S. Alberto Magno († 1280) fu possibile elaborare una più chiara distinzione non solo tra la ragione e la fede e tra la filosofia e la teologia, ma anche tra il diritto naturale e quello divino positivo, la cui diversità del resto era già stata colta da Rufino († 1192) un secolo prima. L’operazione di assegnare un ambito scientifico proprio alle varie concezioni del diritto fu compiuta da S. Alberto Magno stesso. Il diritto naturale di estrazione platonica, concepito come “giustizia naturale” (cioè come giustizia naturale cosmica), fu attribuito per la sua rilevanza etica alla metafisica o scienza della natura; quello naturalistico di memoria stoico-ulpianea, filtrato da Isidoro di Siviglia e da Graziano, fu eliminato perché incompatibile con il carattere esclusivamente antropologico del diritto; quello di estrazione razionalistica, inteso come norma dettata dalla ragione e ritenuto ormai da S. Alberto Magno unica vera forma del diritto naturale – fu assegnato alla filosofia, mentre il ius divinum positivum, pure di provenienza isidoriano-grazianea, fu attribuito alla teologia (Fassò).
Il problema del rapporto e dell’unità tra diritto naturale e divino sarà risolto in maniera ontologicamente plausibile solo da S. Tommaso d’Aquino († 1274), il quale, facendo la sintesi tra il metodo empirico-concettuale aristotelico e quello teologico e platonizzante di S. Agostino si è meritato non solo il titolo di doctor angelicus, ma anche quello di doctor communis (Verdross).

4. L’unità del diritto nella distinzione tra natura e soprannatura in S. Tommaso

S. Tommaso assume da Aristotele il sistema ilemorfistico privilegiandone la causa finale. L’entelèchia intrinseca alla natura delle cose è il principio dominante la struttura degli esseri (Verdross). Questa tensione ontologica che spinge l’essere imperfetto verso la propria perfezione metafisica diventa fondamento dell’etica. L’uomo può realizzare pienamente la propria identità etico-metafisica solo raggiungendo il suo fine ultimo: Dio che lo ha creato a sua immagine e somiglianza. La teleologia aristotelica sfocia in S. Tommaso nella trascendenza (Coreth).
Da Cicerone e S. Agostino, l’Aquinate riprende invece l’idea della lex aeterna, che coincide con il piano razionale con cui Dio conduce il mondo verso il suo fine ultimo. L’uomo a differenza dei beati, conosce la lex aeterna solo mediatamente, attraverso l’irradiazione ontologica che di essa trova nella propria natura razionale.
D’altra parte, interpretando le inclinazioni fondamentali della propria natura razionale – che la ragione deve vagliare servendosi del principio dell’uguaglianza e della proporzione, ma tenendo conto anche delle circostanze storico-ambientali – l’uomo formula dinamicamente le norme della legge naturale. Anche S. Tommaso nel solco della tradizione precedente ha elaborato un principio supremo e sintetico della legge naturale, individuandolo nel duplice dovere dell’amore verso Dio e verso il prossimo (che precede logicamente quello della “regola d’oro”) e dal quale devono essere derivate le altre norme, già presupposte, del resto, oppure già contenute, esplicitamente o implicitamente, nel decalogo.
Dalla legge naturale – a cui S. Tommaso assegna a volte anche il ius gentium – viene derivata per modum conclusionis e determinationis o, nel caso di valori indifferenti, per modum additionis, la legge umana. Essa non scaturisce perciò con la stessa “meccanicità” della legge naturale dalla natura delle cose, ma dall’accordo comune o dal comando (ragionevole) del principe. Ciò non impedisce che una legge umana contraria a quella naturale, oltre a non avere forza vincolante etica, non esista, almeno logicamente, neppure come legge: è una corruptio legis che si pone al di fuori della sfera giuridica.
S. Tommaso, indulgendo a un certo ottimismo intellettuale (Utz), assegna alla ragione un primato sulla volontà. L’attività volitiva presuppone infatti quella della ragione. Ritenendo però che la volontà è necessaria per la promulgazione della legge – definita come ordinatio rationis -, l’Aquinate assegna anche alla volontà un suo primato in ordine alla libertà dell’azione umana (Manser), evitando di misura un intellettualismo rigido.
Il presupposto ontologico di questo equilibrio è l’identità in Dio tra volontà e ragione, per cui Dio può volere solo ciò che è razionale. A livello umano, dove volontà e ragione sono due facoltà diverse, l’unità è garantita dal fatto che la retta ragione pratica – che è precisamente ciò per cui l’uomo partecipa all’essenza divina – non può proporre alla volontà una legge diversa da quella dettata dalla ragione stessa divina.
L’innegabile inclinazione razionalista di S. Tommaso affiora anche dalla visuale prevalentemente metafisica con la quale egli affronta il discorso sulla lex aeterna, quasi che essa – come la legge naturale – fosse preposta al mondo solo per dirigerlo verso il suo fine naturale. In realtà, anche se l’Aquinate non stabilisce – come farà tre secoli e mezzo più tardi Suarez – un rapporto gerarchico esplicito tra la lex aeterna e il ius divinum (articolato in ius naturale e divinum positivum), è però cosciente che la lex divina, come quella naturalis, consiste in una partecipazione – più alta – allalex aeterna: “lex divinitus data, per quam lex aeterna partecipatur altiori modo” (I-II, q. 91, a. 5).
All’unità metafisica della trilogia lex aeterna – naturalis – humana, frutto della simbiosi del sistema ilemorfistico con quello teonomico cristiano, l’Aquinate affianca quella teologica, esistente tra lex aeterna e divina (positiva), rivelata da Dio oltre che per guidare l’uomo al suo fine soprannaturale anche per sopperire alle imperfezioni delle leggi umane. Il loro rapporto ontologico più che da una riflessione esplicita dell’Aquinate, risulta globalmente dal suo sistema teologico, fondato sull’affermazione della connaturalità della ragione rispetto alla fede e della superiorità della seconda sulla prima, espresso dal principio gratia perficit, non destruit naturam (Stoeckle). La ragione è chiamata a preparare i preambula della fede e a chiarirne le verità. Negativamente questo rapporto di unità si declina nel fatto che S. Tommaso è categorico nell’affermare che una legge umana contraria a quella divina nullo modo licet observare.
Distinguendo coraggiosamente tra i due piani, quello naturale e quello soprannaturale, l’Aquinate, oltre a sciogliere il dubbio sollevato dai Padri circa la compatibilità della legge naturale con quella divina (positiva), ha definitivamente eliminato la possibile valenza panteistica nascosta nell’identificazione del diritto naturale con quello divino, così come era operata da Isidoro di Siviglia e da Graziano. Con questa distinzione S. Tommaso ha salvato sia l’istanza razionalistica del diritto naturale stoico, sia quella religioso-sacrale della tradizione ebraico-cristiana (Fassò). Non bisogna dimenticare comunque che quest’ultima istanza era già stata recepita nel concetto patristico-scolastico di lex aeterna, che implica l’affermazione di Dio come fonte immediata e personale del diritto. Distinguendo tra il diritto – il cui ambito intersoggettivo regola le azioni esteriori dell’uomo – e la morale, ma riaffermandone comunque l’unità di fondo grazie al principio che le leggi umane obbligano anche in forum conscientiae; ritenendo d’altra parte la coercizione elemento non essenziale alla nozione di diritto, ma solo momento di necessità condizionale; differenziando tra diritto oggettivo e soggettivo, tra subiectum (solo l’uomo) e obiectum (ad esclusione dell’uomo), titulus e terminus iuris (punto di riferimento per l’obbligazione giuridica); riconoscendo di conseguenza al diritto le note della socialità, dell’uguaglianza (che si articola nella giustizia distributiva, commutativa e legale), e della necessarietà, S. Tommaso ha raggiunto l’apice della riflessione scolastica sul problema del diritto (Schönfeld).

5. La volontà divina fonte unica dell’unità del diritto nell’occamismo

L’equilibrio tra ragione e volontà stabilito dall’Aquinate fu quasi immediatamente rotto dal radicalizzarsi delle istanze volontaristiche. L’ordine giuridico è una realizzazione immutabile dellalex aeterna esistente nell’intelletto di Dio, oppure il risultato mutevole del comando positivo della sua volontà, slegata dalla ratio divina? Mentre il razionalismo metterà a repentaglio la libertà di Dio, il volontarismo correrà il rischio di negare la verità intrinseca delle cose (Stiegler).
Il volontarismo ha radici filosofiche nel nominalismo di Boezio († 524) che, applicando un rigido realismo di estrazione neoplatonica, aveva negato ogni contenuto reale alle categorie aristoteliche. Gli universalia, di cui parlerà il medioevo, sono solo nomina, cioè nozioni convenzionali e astratte dell’intelletto, prive di entità reale. Solo gli individui esistono realmente (universalia post rem). Al posto della metafisica subentra un sistema in cui l’essenza delle cose è stabilita volta per volta dalla volontà di Dio. Infatti non è che Dio voglia una cosa perché è buona, ma una cosa è buona perché è voluta da Dio: quod Deus vult, hoc est iustum! Il telos aristotelico-tomista, posto intrinsecamente da Dio negli esseri da lui creati (entelèchia), è sostituito con una finalità estrinseca. Di conseguenza anche l’etica non è più fondata nella metafisica, ma nella obbedienza alla volontà di Dio.
Il nominalismo volontarista – nato come reazione contro il carattere potenzialmente impersonale e neutrale del diritto naturale stoico-razionalista, che aveva a tratti inquinato anche certi settori della scolastica oltre ad aver avuto il merito di ricuperare in tutta la sua potenza l’idea biblica della immediatezza di Dio nella produzione giuridica, ha anche orientato la ricerca teologica verso lo studio positivo, come pure quella profana verso l’analisi empirica della natura, creando i presupposti culturali per la nascita della scienza sperimentale moderna. L’oggettivismo medioevale fu sostituito con un soggettivismo che ha conferito una dimensione più esistenziale all’etica e permesso una valutazione più circostanziata dell’individuo concreto e della storia.
L’innesto del volontarismo religioso francescano, di ispirazione agostiniana, sul filone nominalista attraverso Roscellino da Compiègne († 1120/1125), Abelardo († 1142), S. Bonaventura († 1274) e Bacone († ca. 1292), ha visto maturare con Duns Scoto († 1308) una prima elaborazione sistematica.
Contro l’Aquinate, che aveva qualificato come astrazione fittizia la possibilità che de potentia absoluta Dio potesse agire contro l’ordine della propria sapienza, Duns Scoto ha sostenuto che Dio non agisce de potentia ordinata, non essendo sottomesso a nessuna legge e perciò neppure alla lex aeterna. Dato che la voluntas è superiore alla ratio, Dio vuole ciò che vuole senza avere altro motivo che il proprio volere, i cui limiti formali sono fissati solo dal principio di contraddizione.
La categoria centrale del sistema del doctor subtilis non è la ragione, come per S. Tommaso, ma l’amore. La poliedricità metafisico-religiosa di questa categoria ha impedito a Duns Scoto di sconfinare in un radicale positivismo. L’amore, che risiede nella volontà di Dio, è il principio etico superiore. Esso si declina però a livello di diritto naturale, in senso astratto, solo nei primi due precetti del decalogo, da cui Dio – che può mutare tutte le altre norme sociali – non può dispensare. Il fondamento di questi due comandamenti più che la ragione sembra comunque essere ancora l’obbligo di obbedire alla volontà di Dio (Fassò). Benché abbia salvato in extremisl’esistenza del diritto naturale e l’unità del diritto grazie al principio che le norme umane, per essere valide, devono essere consona primis principiis, cioè all’amore di Dio, il doctor subtilis ha sfiorato comunque il positivismo con la tesi secondo cui l’obbedienza ad una legge umana ingiusta è prioritaria rispetto all’obbligo di seguire la propria coscienza erronea.
L’empirismo nominalista ha subito un irrigidimento con Guglielmo d’Occam († 1349). Strumento della conoscenza non è più come per il tomismo la capacità di astrazione della ragione, ma l’esperienza empirica (Grabmann), per cui Dio e le verità soprannaturali, che sfuggono all’indagine filosofica, possono essere accettati dall’homo in via solo per fede. Esse possono essere veramente conosciute solo nella visione beatificata, cioè dall’homo in patria. La recta rationon è più lo strumento autonomo con cui l’uomo, conoscendo le essenze delle cose, conosce anche Dio, ma lo strumento con cui Dio rende nota all’uomo la propria volontà. Ha perciò essenzialmente il compito di rendere plausibile il fatto che bisogna obbedire alla volontà assolutamente libera ed arbitraria di Dio (Fassò). La moralità sta dunque esclusivamente nell’obbedire alla volontà di Dio.
Nelle espressioni più polemiche del suo pensiero (cfr. Kölmel) sembra che l’Occam abbia eliminato anche gli ultimi resti di un diritto naturale razionale. Infatti, rispetto a Duns Scoto ilvenerabilis inceptor fa un radicale passo avanti sostenendo il carattere contingente e positivo anche dei primi due precetti del decalogo. Non essendoci contraddizione logica, Dio potrebbe comandare anche di odiarlo (Verdross). Il diritto naturale è tutto contenuto esplicitamente o implicitamente nelle S. Scritture per cui non si diversifica più dal diritto divino. Ogni diritto, proveniendo ultimamente dalla volontà di Dio, può essere chiamato diritto divino.
A parte il fatto che è categorico come tutti i medioevali nell’affermare la nullità delle leggi umane, civili o canoniche non conformi alla legge divina, ma anche ad una ragione “aperta” (ratio apertaeo rectae) – dimostrando così di non essersi potuto liberare totalmente dalla tradizione tomista (Ott) – l’Occam ha salvato l’unità del diritto non tanto stabilendo un rapporto intrinseco di natura metafisica tra il diritto divino, naturale e umano, ma spostando il problema sull’unicità dello stesso. Il diritto divino, infatti, infatti, investe come espressione d volontà di Dio tutte le cose.
Benché l’Occam sia indotto ad affermare nominalisticamente e concettualisticamente che non esiste nesso ontologico tra la immanenza e la trascendenza, tra il mondo e Dio (dove il rapporto non è stabilito dalla ragione ma dalla fede), egli non arriva a separare intrinsecamente (come farà due secoli più tardi Lutero) il diritto umano da quello divino. La dottrina tomista della natura non deleta e l’ambiente culturale dell’alto medioevo in cui egli è ancora immerso, malgrado la sua contestazione politica, costringe l’Occam a salvare almeno formalmente il rapporto intrinseco tra la trascendenza e il mondo, al di là di ogni sfiducia metafisica.
Era inevitabile che lo squilibrio prodotto dall’irrigidimento volontaristico della via moderna, visceralmente antimetafisica, sconfinasse dall’ambito filosofico a quello teologico. Gabriele Biel († 1495) – volontarista puro in etica, ma intellettualista nella fondazione del diritto naturale – ha consumato, un secolo e mezzo dopo l’Occam, il passaggio alla soteriologia, precorrendo Lutero, su cui del resto ha avuto una grandissima influenza (Ott).
Se il peccato non si qualifica a partire dalla immoralità intrinseca dell’azione, bensì dalla disobbedienza in quanto tale alla volontà di Dio, allora la giustificazione non potrà essere il premio (anche) di un merito qualsiasi umano, ma solo una non imputazione della colpa da parte di Dio. La dottrina protestante della predestinazione – già anticipata per altro da Wyclif(† 1384), sarà l’estrema conseguenza di questo occamismo radicale (Rommen).

6. La razionalità fonte ultima dell’unità del diritto nell’intellettualismo

Il tentativo di Gregorio da Rimini († 1358), di ripristinare l’equilibrio ricuperando all’interno del volontarismo elementi razionalistici della via antiqua, ha fatto registrare un contraccolpo intellettualista. Distinguendo tra la lex indicativa, che mostra il bene e il male, e la lex imperativa, che comanda di farlo o di tralasciarlo, Gregorio da Rimini è arrivato alla conclusione che il peccato si realizza già violando la lex indicativa, prima ancora che Dio intervenga con il comando della sua lex imperativa.
Anzi, formulando un’ipotesi (divenuta celebre non solo perché sarà ripresa dal Biel e tre secoli dopo da Ugo Grozio († 1645) – fondatore del diritto naturale razionalista moderno -, ma soprattutto perché essa, all’inizio del basso medioevo, non suonava già più come blasfema), il discepolo dell’Occam sostenne che la violazione di una recta aliqua ratio, angelica o umana, costituisce peccato anche se “per impossibile ratio divina sive Deus ipse non esset” (Sent. I, d. 34, a. 2). All’inizio del basso medioevo inizia per l’etica (o il diritto naturale che dir si voglia) quel processo di secolarizzazione che sarà consumato solo dal razionalismo e dal positivismo giuridico moderno, con l’eliminazione definitiva di Dio quale fonte immediata del diritto naturale.
Un’ulteriore progressione fu compiuta da Gabriele Vazquez († 1601) separando la ragione, in quanto elemento soggettivo, dalla natura razionale dell’uomo e sostenendo che il criterio ultimo della moralità non è la ragione (tomisticamente intesa) – poiché troppo facilmente sottoposta ad errore – ma la natura razionale dell’uomo, in quanto realtà oggettiva. Conseguentemente è morale e giusto solo ciò che corrisponde alla natura razionale umana.
Non potendo evidentemente regredire alle posizioni razionalistiche della filosofia greco-romana del diritto naturale, poiché glielo impediva sia la dottrina biblica della immediatezza di Dio nella produzione giuridica, sia quella patristico-tomista dell’unità del diritto, il gesuita spagnolo – fautore convinto in teologia della nozione di natura pura (De Lubac) – distinse tra una lex naturalis primaria, data dalla natura razionale dell’uomo, e una lex naturalis secundaria, data dalla ragione. In forza di questa distinzione egli sostenne che la legge naturale primaria, e le singole essenze delle cose, anche se hanno origine in Dio, sono preordinate alla sua ratio. Esistono cioè come realtà razionali autonome, indipendentemente dal fatto che Dio le voglia e le conosca. La libertà di Dio consiste solo nel fatto che egli può decidere se crearle o meno, ma nella prima ipotesi deve rispettare il loro modello già precostituito. Anche l’unità del diritto non è più garantita, come nel tomismo, dal fatto che la legge naturale primaria, o natura razionale umana, consista in una partecipazione ontologica alla lex aeterna, bensì dal fatto che lo Spirito divino illumina direttamente il giudizio dell’intelletto umano, cioè la legge naturale secondaria. Come più tardi anche in Biel, l’immediatezza di Dio nella produzione giuridica e l’unità del diritto non sono più legate direttamente, nel rapporto intrinseco esistente tra la lex aeterna e la lex naturalis, ma solo indirettamente tramite l’illuminazione divina della ragione umana.
Le ultime logiche conclusioni di questo intellettualismo limitante la libertà di Dio furono ancora una volta formulate in Spagna dal giurista Fernando Vazquez de Menchaca († 1589), con la tesi che ragione e diritto naturale coincidono, cosicché il secondo è il prodotto autosufficiente della prima.
Alla fine del medioevo venne così consumata – come nel modello stoico-ciceroniano – la separazione del diritto dalla metafisica. Ciò ha preparato la strada a Grozio che si ispirerà ampiamente al tomismo attraverso la mediazione della teologia morale spagnola, protesa umanisticamente ad approfondire la dimensione antropologico-soggettiva dell’etica, ma segnata da un forte estrinsecismo teologico nel concepire il rapporto tra natura e Grazia (Le Bachelet). Grozio getterà le basi del nuovo diritto naturale, diverso da quello della scolastica perché non più considerato come frutto della partecipazione ontologica della natura razionale dell’uomo alla lex aeterna, ma come prodotto esclusivo di una ragione umana slegata non solo dall’intelletto e dalla volontà, ma dall’esistenza stessa di Dio e perciò da ogni presupposto soprannaturale e teologico (Fassò).
Il passaggio dall’intellettualismo filosofico alla teologia soteriologica fu preparato ancora una volta dal Biel. Dato che la promulgazione divina di una legge non fa che confermare ciò che l’uomo già conosce attraverso la sua scintilla conscientiae o sinderesis, il decalogo, che vincola in forza della sua intrinseca razionalità, è materialmente diritto naturale e solo formalmente diritto divino positivo (Ott). Di conseguenza anche la legge dell’AT, ma ultimamente tutto il ius divinum positivum, diventa vincolante solo perché percepito interius in corde, cioè soggettivisticamente, come corrispondente (consonans) alle esigenze del diritto naturale o natura razionale dell’uomo.
Combinando un radicale volontarismo – conseguente alla dottrina preannunciatasi già nell’occamismo della natura totaliter deleta, che elimina ogni possibilità di diritto naturale razionale – con il soggettivismo emerso nell’intellettualismo di Gabriele Biel, Lutero radicalizzerà la problematica. La rivelazione in quanto tale, cioè la lex Dei o Christi (cioè il ius divinum) è una Parola pronunciata da Dio non più ad nos, con forza vincolante formale oggettiva (come continuerà a sostenere la teologia cattolica), ma un Verbum Dei in nos, la cui forza vincolante risulta dipendente dall’accoglienza fattale nella fede dall’uomo, interius in corde.
Con gli assiomi sola fide, sola gratia, e sola scriptura inizia il vero e proprio radicale volontarismo religioso (Rommen). Una volta rotto il rapporto ontologico intrinseco tra la ragione e la fede, tra la natura e la soprannatura, la filosofia del diritto diventa incapace di inserirsi come ancilla nel mistero della salvezza. Dall’umanesimo e dalla riforma in poi, essa ha ripreso bensì il cammino, sostenuta solo dalla ragione, ma per sfociare recidivamente nel positivismo giuridico.
Separando il diritto divino da quello umano a livello teologico e rendendo così impossibile un’incarnazione del primo nel secondo, Lutero ha esasperato l’antinomia tra fede e ragione, chiesa invisibile e visibile e tra diritto e amore, obbligando per la prima volta il pensiero cristiano ad affrontare il problema del diritto non più in chiave filosofico-teologica, ma esclusivamente teologica. Egli ha creato inconsapevolmente i presupposti per una teologia del diritto che diventerà anche teologia del diritto canonico, dapprima in campo protestante e poi, dopo che Rudolph Sohm (1917) non avrà creato una insanabile antinomia tra chiesa e diritto, in quello cattolico.

7. La sintesi del pensiero cristiano attorno alla formula suaresiana:
“ius divinum, sive naturale sive positivum”

Quando Francesco Suarez († 1617) ha fatto la sintesi del pensiero giuridico cristiano nel suo poderoso Tractatus de Legibus ac Deo Legislatore (1612), Gabriele Vazquez aveva già posto il principio della immanenza dell’etica alla natura umana, identificata con la ragione, e Martin Lutero aveva già negato il carattere soteriologico della chiesa visibile, rendendo incompatibile il diritto divino con quello umano.
La preoccupazione di correggere il razionalismo intellettualista del primo e di controbattere controversisticamente lo spirito del secondo, hanno permesso al doctor eximius di elaborare una sintesi tra tomismo e occamismo.
L’illusione ancora esistente di un’unità politico-religiosa della cristianità, che la pace di Augusta (1555) non aveva dissipato, ma soprattutto l’idea della dipendenza globale di tutte le cose dalla volontà di Dio e perciò tendenzialmente anche dal ius divinum, avallata dall’occamismo e consolidatasi con la dottrina dei riformatori, affiorano nel verticismo, di taglio ormai più teologico-morale che filosofico, nella cui prospettiva Suarez costruisce il suo sistema.
La lex aeterna, che si identifica con Dio e regola tutte le sue opere ad extra, è posta gerarchicamente come in S. Tommaso, al centro della nuova sintesi. Tuttavia essa, pur essendout sic obligativa (cioè sufficiente per obbligare), vincola exterius solo se promulgata da un’altra legge. La legge che la promulga ad extra – e da cui perciò essa è formalmente distinta – è il ius divinum, dal quale derivano, come partecipazione a livello naturale e soprannaturale (participatio excellentior), il ius naturale e quello divinum positivum. La triade suaresiana ius divinum, sive naturale sive positivum, sostituisce quella tomista, diventando patrimonio comune della teologia e della canonistica cattoliche, così da essere recepita dal Codex Iuris Canonici (cc. 27, 2, 1509).
La priorità del fine soprannaturale su quello naturale, già affermata dall’Aquinate, viene spontaneamente tradotta dal Suarez a livello istituzionale, in conformità allo spirito del tempo: se lo Stato ha il compito di educare buoni cittadini, la Chiesa – che gode di un potere indiretto sul primo (Bellarmino) – ha quello di rendere buoni gli uomini.
A livello di analisi più metafisica che politico-istituzionale, Suarez riesce a mantenere un grande equilibrio tra volontarismo e intellettualismo. La legge infatti è considerata come il risultato congiunto dell’intelletto e della volontà, che in Dio sono un actus simplex.
Conseguentemente il doctor eximius afferma, contro Gregorio da Rimini, che la legge naturale non solo è indicativa boni et mali, ma anche imperativa. La ragione umana, infatti, può concepire Dio solo come colui che obbliga ad osservare ciò che è dettato dalla sua stessa ragione divina (De legibus, II, 6 e I, 5). Attorno a questo punto Suarez sintetizza con profonda unità logica la dottrina tradizionale, già affacciata nei Padri. Dal momento che il diritto naturale contiene anche un vero e proprio obbligo, esso è vincolante prima ancora di essere promulgato da una legge umana, per cui rende invalida qualsiasi norma positiva contraria e non dà mai luogo a dispensa.
Polemizzando con il Vazquez, Suarez ricupera una posizione metafisica più tomista, negando che il diritto naturale possa essere l’espressione esclusiva ed autonoma della natura razionale dell’uomo, concepita separatamente dalla ragione umana, o legge naturale secondaria. Per il Suarez il nesso ontologico con la lex aeterna non è garantito indirettamente. tramite l’illuminazione divina dell’intelletto umano, ma direttamente, poiché il diritto naturale non esisterebbe si Deus non daretur.
La ragione è solo l’organo della natura razionale dell’uomo; ha il compito di scoprire in essa i principi fondamentali del diritto naturale a cui appartengono però, come parte integrante, anche le conclusioni logicamente necessarie. Nel solco di S. Agostino, di S. Tommaso e della teologia morale spagnola del suo tempo, Suarez, che ha un profondo senso della realtà individuale, evita ogni astrattezza (Fassò). Sia sul problema dell’unità intrinseca del diritto naturale, sia su quello della sua validità assoluta, egli formula la dottrina diventata classica nel pensiero cattolico posteriore. Il diritto si articola in tre gruppi di norme: quelle generali (honestum est faciendum), quelle più particolari (Deus est colendus) e quelle più difficili da conoscere (condanna dell’adulterio). Ribadendo con fermezza l’immutabilità, l’universalità e l’inderogabilità del diritto naturale, il Suarez afferma che, a seconda delle circostanze umane a cui esso deve essere applicato, i primi principi, pur restando uguali, possono ordinare cose diverse.
Con S. Tommaso il bonum commune era diventato il criterio fondamentale del diritto naturale. Rispondendo infatti a S. Agostino, che aveva platonicamente creduto che esistessero in Dioplures rationes rerum, l’Aquinate sostenne che la lex aeterna è unica perché anche il bonum commune, di cui essa è la ratio, è unico; ad esso infatti, devono essere ordinate tutte le cose. Suarez sviluppa questo concetto approfondendone l’analisi. Da una parte sostiene che il bonum commune non comprende solo il bonum communitatis, ma anche la felicitas singulorum e, corrispettivamente, che la felicitas singulorum non è concepibile se non in rapporto al bonum communitatis; dall’altra, che non esiste solo un bonum commune, ma anche un bonum commune omnium nationum.
Il Suarez riprende e sviluppa così la problematica che si era aperta al pensiero giuridico cristiano con la scoperta del nuovo mondo e con la riforma protestante e che era stata affrontata per la prima volta – sul terreno del diritto naturale – da Francesco de Vitoria († 1546), diventato padre del diritto internazionale moderno per aver trasformato il ius gentium in ius inter gentes(Verdross). Il doctor eximius sostiene che i popoli della terra non rappresentano solo un’unità fisica ma anche morale e politica, per cui necessitano di un ordine giuridico. Sembra però che il teologo di Coimbra, che con grande chiaroveggenza preconizza la costituzione di un’istanza internazionale munita di potere coercitivo, intenda, a differenza del Vitoria, fondare il diritto internazionale più sul diritto consuetudinario posto dai vari Stati, che su quello naturale (Fassò).
Rivelandosi profondamente inserito nel processo culturale del suo tempo, che sta maturando il concetto moderno di Stato territoriale assolutista, come pure un’ecclesiologia unilateralmente orientata verso i problemi istituzionali, il Suarez concede grande rilievo, nel processo della produzione giuridica, al ruolo del legislatore umano, secolare ed ecclesiastico (Stiegler). Anche in questo settore egli porta però a compimento il pensiero cristiano precedente, lasciando affiorare nello stesso tempo la sua propensione volontaristica, sollecitata a livello filosofico anche dal fatto che mentre in Dio l’unità tra ragione e volontà è perfetta, essendo atto semplice, nell’uomo è complessa, potendo egli procedere solo cum successione et discursu.
I1 Suarez sostiene, in contrasto con la dottrina del Defensor Pacis sull’origine divina solo mediata del potere statuale, che il legislatore umano, considerato ancora minister Dei(Reichmann), riceve il potere di governare lo Stato, in quanto societas perfecta, immediatamente da Dio. Conseguentemente Suarez, nel solco della tradizione cristiana più autentica, oltre a considerare il principe legibus non solutus, gli attribuisce anche il potere di vincolare i suoi sudditi in coscienza. Anzi, seguendo Castro († 1558) e Medina († 1578) gli attribuisce il potere di far dipendere dalla propria intenzione anche la natura (sub gravi o sub levi) dell’obbligo imposto dalla legge, oppure la non obbligatorietà in coscienza della stessa (leges mere poenales).
Nella stessa linea biblico-cristiana di interiorizzazione del diritto, ma non senza sovrapporre il piano morale a quello giuridico, Suarez introduce l’exceptio a voluntate principis, di chiara intonazione platonico-volontaristica, come terzo caso di epicheia, accanto ai primi due, di natura oggettiva, elaborati da Aristotele e S. Tommaso, e fondati sulla exceptio a potestate (Hamel).
In polemica con Marsilio da Padova († 1342/43), Jan Hus († 1415) e i riformatori protestanti, Suarez si industria come aveva fatto per il legislatore secolare, di dare un assetto teorico anche al potere di quello ecclesiastico. La sua argomentazione teologica trova nelle S. Scritture più un avallo a posteriori che un locus theologicus capace di generare una concezione ecclesiologica originale. Era perciò inevitabile che la differenza tra il potere del legislatore secolare e di quello ecclesiastico si compendiasse nella dottrina – recepita del resto anche dal Codex Iuris Canonici(c. 593) – che solo la chiesa ha il potere di esigere dai propri sudditi il compimento di atti interni.
Con Suarez il pensiero giuridico cristiano – che da sempre aveva affrontato il problema del diritto secolare e canonico a partire dallo stesso concetto formale di diritto e applicando lo stesso procedimento metodologico – ha raggiunto l’apice del suo sviluppo. Il concetto formale di diritto elaborato dalla teologia e canonistica medioevale sulla base di un’ontologia e gnoseologia sostanzialmente filosofica, alla quale fu applicato come correttivo il criterio della “elevazione” al soprannaturale ogni qual volta il problema sconfinava in campo teologico, è diventato tramite la mediazione del Suarez, il concetto soggiacente a tutto il sistema giuridico del Codex Iuris Canonici.
Dal Tridentino in poi esso non ha subito sostanziali modificazioni, malgrado la neoscolastica abbia tentato di riproporlo in veste nuova, più consona alle esigenze del pensiero moderno. Il magistero della chiesa ne ha fatto ampio uso nel Sillabo e nelle encicliche sociali, nel tentativo spesso polemico di dialogare con le moderne correnti della filosofia del diritto (Stiegler).
Data la premessa più o meno esplicita valida dal primo medioevo in poi, che il diritto canonico è un diritto valevole non solo per la chiesa, ma anche per la cristianità, la consapevolezza di dover elaborare una dottrina teologica del diritto canonico – libera dalla preoccupazione di essere contemporaneamente filosofia (o eventualmente teologia) anche del diritto secolare – ha potuto affiorare solo in questi ultimi vent’anni. Determinante è stato lo stimolo venuto dalla teologia protestante e l’apertura pluralistica instaurata dal Vaticano II.

3. L’unità del diritto secolare e canonico nella teologia protestante

1. Gli orizzonti culturali
La specificità delle diverse risposte date dalla teologia ortodossa, protestante e cattolica alla questione della natura del diritto canonico può essere colta solo tenendo conto delle opzioni culturali di fondo in cui esse – salvando in modo diverso la sostanza di un discorso cristiano – si iscrivono storicamente.
Due sono stati gli sbocchi ricorrenti, pur nella varietà delle forme e dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere “il circolo diabolico delle apparenze cosmiche”, senza indugiarvi “come il serpente che si morde la coda” (von Balthasar). La prima via è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta la assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del “divino”, concepito come realtà indistinta, omogenea e infinita, trascendente tutto ciò che è umano. Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma tradisce ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo, vivendo un’escatologia senza storia (Evdokimov). La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, all’interno del quale esso vive una storia priva di escatologia. Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in occidente da Marx, il quale radicalizzando l’idea del progresso ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico.
Il cristianesimo preclude, con il principio dell’“incarnazione” qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto e verso l’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con la propria forza, ma inserendosi nel piano di salvezza del Dio incarnato.
Il principio dell’incarnazione deve però essere interpretato con tutto il rigore proprio della tradizione cattolica. Sulla base dello spunto metafisico ilemorfistico aristotelico-tomista, enucleato nel principio universalia in rebus, la teologia cattolica attua con estrema coerenza dottrinale e senza soluzione di continuità sia il passaggio dalla cristologia calcedonese – comune a tutte le grandi confessioni cristiane – alla chiesa come istituzione, sia quello dalla Grazia increata alla Grazia creata. Solo evitando evasioni esplicite o implicite di natura monofisistica o nestoriana, è possibile valutare la dimensione istituzionale-giuridica della chiesa, come necessaria incarnazione della forza vincolante formale della Parola e del Sacramento. Questa dimensione non può essere ridotta ad un sistema di norme giuridiche sempre scavalcabili in nome di un’altra realtà teologica (principio della “economia”), come avviene nella teologia orientale-ortodossa (sul problema cfr. E. Corecco, Teologia del diritto canonico, in: “Dizionario Enciclopedico di Teologia Dogmatica”, Roma 1977) e neppure a fenomeno sociologico, intrinsecamente non necessario per la salvezza nella fede, ma inevitabile in quanto prassi umana per ferrea necessità storica (“mit eisern der Notwendigkeit”: Sohm) come avviene per contro nella teologia classica protestante.

2. La rottura tra diritto divino e umano in Lutero
L’incapacità ultima della teologia protestante di riconoscere al diritto canonico una valenza salvifica ha la sua profonda radice nella contrapposizione che Lutero ha stabilito a livello soteriologico tra “Legge e Vangelo”. Questa contrapposizione si è declinata a livello di storia della salvezza nella visione cosmica dei due regni e a quello ecclesiologico nell’insanabile dualismo tra chiesa abscondita e chiesa universale o visibile.
La “iper-escatologia” (Evdokimov) immanente alla separazione tra Legge e Vangelo è sfociata, a livello giuridico (per la legge dei contrari) nel razionalismo e positivismo, privi di ogni dimensione escatologica, e, a livello ecclesiologico nella chiesa abscondita, escatologicamente tanto spirituale da trascendere completamente quella sociologica o visibile. D’altra parte la priorità logica goduta – nell’impianto teologico volontarista della riforma – dalla dottrina cosmica dei due regni rispetto a quella delle due chiese, spiega perché il protestantesimo, fino ai tempi più recenti, si sia chinato di preferenza, contrariamente alla tradizione cattolica, sulla teologia del diritto invece che su quella del diritto canonico.

a) La disarmonia tra “Legge e Vangelo”
Lutero ha notoriamente ravvisato nella tematica “Legge e Vangelo” il punto centrale del mistero della salvezza (Joest). La preoccupazione della teologia agostiniano-tomista, protesa a stabilire una corrispondenza tra la natura e la Grazia, era stata quella di sottolineare la continuità dei contenuti della legge antica e di quella nuova. La legge antica non si contrappone a quella nuova perché i suoi contenuti essenziali perdurano anche nel regime della Grazia. La legge nuova invece si diversifica da quella antica perché non è più extrinsecus, ma intrinsecus data assieme alla Grazia che infonde la forza per adempiere la Legge nella gioia e nella libertà dell’amore. S. Tommaso stabilisce addirittura un’identità tra la Legge e il Vangelo, usando la formula sintetica della nova lex evangelii. La Grazia è comunque legge solo in senso analogico perché l’essenza della nuova Legge non sta più formalmente nel carattere legale, ma nel fatto di essere donata come Grazia, allo stesso modo della Fede e dello Spirito Santo. Nel definire Cristo come Grazia la teologia cattolica ha inteso sottolineare il fatto che il processo della giustificazione trasforma interiormente l’uomo.
Nel definire Cristo come Vangelo, Lutero, che si muove dentro l’orizzonte nominalista e volontarista del tardo medioevo, ha voluto invece sottolineare con forza la non imputatio del peccato. La Grazia è solo una presenza estrinseca, anche se salvifica, di Cristo nell’uomo. Sostituendo il binomio agostiniano-tomista “Legge e Grazia” con “Legge e Vangelo”, Lutero, per il quale la “suprema arte della cristianità” consisteva nel saper distinguere tra i due elementi, ha voluto opporsi al fatto che l’economia della sola Gratia venisse snaturata e ridotta a sistema religioso fondato ancora sulla Legge, dove le opere della Legge naturale, anche se compiute con l’aiuto della Grazia, fossero richieste necessariamente per la giustificazione. Le opere della Legge naturale non sono buone in se stesse: esse sono buone solo in quanto compiute in obbedienza a Dio che ci ha salvati; quindi non trasformano interiormente l’uomo, ma servono solo a rendere palese agli altri il miracolo compiuto da Dio nella remissione dei peccati. Le opere e la legge non sono perciò necessarie per la salvezza neppure a posteriori.
La discussione sorta nella seconda metà del secolo XVI attorno al tertius usus legis (ritenuto da Calvino(† 1564) l’usus praecipuus) – pericolosamente vicino alla concezione cattolica della gratia elevans, perché provoca il credente in forza della presenza e dell’aiuto di Cristo ad una vita nuova – ha spinto gli epigoni di Lutero a radicalizzare le posizioni dichiarando le opere a volte nocive per la santificazione (Amsdorf † 1565) a volte necessarie (Major † 1574) oppure superflue (Poach † 1585), separando così il processo della giustificazione da quello della santificazione. Era inevitabile perciò che il tema della Legge, eliminato dal contesto soteriologico ed ecclesiologico, scivolasse prima verso la teologia morale poi verso la filosofia del diritto. Quest’ultima a partire da Grozio fu progressivamente confiscata dal giusnaturalismo moderno, che con Cristiano Tomasio († 1278) giunse alla negazione di ogni forma di diritto divino. La tematica “Legge e Vangelo” scomparirà così dalle grandi opere teologiche del secolo XIX, come in quelle dello Schleiermacher, del Ritschl e dell’Harnack (Iwand).
Nello stesso momento è avvenuta una svolta radicale della escatologia, sia nella teologia che nel pensiero filosofico-sociale di estrazione protestante. L’escatologia di Lutero, drammaticamente contenuta nella sua dottrina del simul iustus et peccator (Prenter), era la conseguenza diretta della contrapposizione tra “Legge e Vangelo”. Attraverso la mediazione sia delle tesi dell’irreparabile corruzione della natura umana e del regno della mano sinistra (e di riflesso del diritto umano o statuale), sia di quella della totale alterità della chiesa abscondita rispetto a quella visibile, Lutero ha avallato una concezione profondamente pessimista non solo del mondo e del suo diritto, ma anche della chiesa visibile e del diritto canonico. Ciò ha posto le premesse per il progressivo scivolamento del protestantesimo verso una concezione della storia priva di escatologia.
Infatti essa rimase appannaggio dell’ortodossia protestante, oppure, soprattutto nelle sue espressioni chilianiste-apocalittiche, del pietismo e dei movimenti di fronda rispetto alle chiese nazionali ufficiali. La teologia dominante, invece, entrata in contatto con il razionalismo illuminista e liberale ha spiritualizzato così radicalmente l’escatologia da privarla di ogni incidenza non solo culturale, come in larghi strati del pietismo, ma anche teologica. Ciò ha permesso al cosiddetto protestantesimo culturale – incline all’evoluzionismo darwinista e a un socialismo cristiano (Prenter) e rappresentato dai teologi e pensatori più illustri del secolo scorso, come il Weiss, l’Albrecht e il Sohm (oltre a quelli citati sopra) – di sostituire all’escatologia la storia, identificando il regno di Dio con il progresso religioso-culturale-politico e sociale immanente al destino del mondo (Philipp).

b) II dualismo cosmico-soteriologico dei due regni
Il medioevo, in continuità con la dottrina gelasiana dei “due poteri”, aveva elaborato un sistema unitario con il quale spiegare l’ordine del mondo. Per la comunità dei cristiani Dio ha istituito un unico regno spirituale-temporale, la repubblica christiana, all’interno del quale esistono due strutture diverse, ma reciprocamente ordinate. La gerarchia ecclesiale, culminante nel romano pontefice – capo supremo della chiesa universale – guida la cristianità nell’ambito spirituale, mentre la gerarchia temporale, rappresentata dall’imperatore del sacrum romanum imperium, la guida nell’ambito secolare. A questo sistema teologico-politico, la cui unitarietà è garantita dalla superiorità della fede sulla ragione e, a livello istituzionale, da quella, almeno spirituale se non necessariamente giuridico-politica (Gregorio VII), dell’altare sul trono, corrisponde come si è visto, sia pure all’interno di opzioni diverse – tomista-suaresiana, occamista o intellettualista – una concezione unitaria anche del diritto.
Ispirandosi alla distinzione agostiniana tra la civitas Dei e la civitas terrena e subendo l’influsso del nominalismo volontarista, Lutero ha introdotto un sistema dualistico. La lex aeterna – di origine razionalistica stoico-ciceroniana – attorno alla quale la teologia tomista-suaresiana aveva fatto l’unità del proprio sistema, ricongiungendo in esso, o nella ratio Dei, la distinzione medioevale tra natura e soprannatura – accettata da tutta la teologia – è sostituita con un unico ordine: quello della salvezza fondato nella volontà di Dio. Esso si articola in due regni: quello spirituale governato da Dio con la mano destra e nel quale sta il credente, è fondato sulla fede e guidato dalla carità; quello temporale, governato da Dio con la mano sinistra e nel quale vive il non credente, è retto dalla ragione, la quale però non è più fonte di una conoscenza razionale valida della verità naturale, ma totaliter deleta. Tra il regno della mano destra o Corpus Christi Mysticum e il regno della mano sinistra o Corpus babilonicum, creato da Dio nella sua ira misericordiae solo dopo la caduta originale per impedire all’umanità di cadere nel caos totale, esiste perciò un abisso incolmabile.
Il dualismo immanente a questo sistema è superato volontaristicamente. L’unità dei due regni, che comunque non esistono semplicemente come due realtà eterogenee (cfr. però le due interpretazioni diverse date da Heckel e Wolf), è garantita in modo estrinsecistico dalla volontà di Dio che li ha creati.
A questo dualismo corrisponde una concezione altrettanto dualistica del diritto. Nel regno di Dio vige la lex charitatis, seu spiritualis, o lex Christi, che, indirizzata all’homo interior, è percettibile solo con l’intellectus fidei. Questa lex fidei, totalmente spirituale (Verbum Dei in nos), esige una conversione solo interiore, di cui il comportamento esterno è semplicemente la derivazione spontanea (libertà cristiana). Nel regno degli increduli o regnum diabuli, invece, la lex Christi non è più capita. Di conseguenza il diritto prodotto dallo Stato, non essendo più radicato nell’amore ma fondato sulla Legge e sul potere, è rivolto all’homo exterior ed esige solo un comportamento esteriore.
In quanto diritto esso è considerato solo un’umbra ingannevole di quello divino, poiché non esercita nessun influsso intrinseco sullo stesso, allo stesso modo che la chiesa invisibile non si “incarna” in quella visibile.
Contrariamente al medioevo Lutero parla perciò di due diritti naturali: quello spirituale e quello secolare. Il primo non è più un ius divinum fondato nella ratio Dei, ma nella volontà giuridica di Dio che comanda e giudica alla fine del mondo; è perciò un diritto escatologico con il quale Dio può raggiungere l’uomo, anche se diventa vincolante solo con l’adesione interiore dell’uomo, come aveva insinuato Biel. Il diritto naturale secolare prodotto dalla ragione, che non può più raggiungere Dio, è totalmente segnato (anche se voluto da Dio) dalla logica umana e dalla giustizia dell’uomo. Anche la lex Moisi, cioè la giustizia del decalogo, non appartiene per Lutero al diritto naturale divino essendo solo un’immagine antropomorfica e torbida della giustizia di Dio.
L’esito religioso-culturale, nei secoli posteriori alla riforma, di questa separazione tra diritto e Vangelo, fu caratterizzato da tendenze contrastanti a livello teorico, ma, per molti aspetti, paradossalmente convergenti in una prassi di abbandono progressivo del mondo alla sua dinamica di secolarizzazione. Da una parte non sono mancate correnti che all’interno del movimento pietista hanno teorizzato la necessità di ritirarsi dall’impegno politico-mondano per coltivare un’interiorità soggettiva in un’attesa escatologica; dall’altra si sono imposti i progetti politici nati dall’incontro del protestantesimo con il razionalismo e l’illuminismo e realizzati dallo Stato territoriale e assolutista, dove lo Stato e il diritto furono considerati positivamente – al di fuori di ogni preoccupazione teologica -come ambiti esclusivi della ragione umana sovrana e immanente. Teologi come il Troeltsch e il Naumann, continuando ad interpretare la dottrina dei due regni come totale separazione tra cristianesimo e politica, hanno sostenuto che se nel primo vale il Discorso della Montagna, nel secondo deve dominare il potere del diritto (Schüller).

c) II dualismo ecclesiologico tra chiesa invisibile e visibile
Parallelamente alla dottrina dei due regni Lutero ha stabilito anche una profonda separazione tra la chiesa abscondita o spiritualis e quella universale, che solo la dottrina posteriore ha però contrapposto nel binomio chiesa invisibile e chiesa visibile. La chiesa spirituale è la comunità cui appartengono i giusti, iniusti iustificati, conosciuti solo da Dio; essa va distinta nettamente dall’organizzazione esterna e sociologica della cristianità che è la chiesa universale o visibile, alla quale appartengono tutti i battezzati anche peccatori, iniusti non iustificati. Nella prima vige solo il diritto divino (Ecclesia vivit iure divino) che è in rapporto solo con la sfera interiore dell’uomo. La chiesa invisibile non può porre atti giuridici perché non ha un potere proprio e si limita, nella penitenza e nella scomunica, a promulgare il giudizio di Cristo. Sarebbe errato derivarne dei compiti anche per l’organizzazione esterna e giuridica della chiesa universale, dove vige il diritto umano o canonico, con riferimento esclusivo solo all’uomo esteriore. Dato che per Lutero la chiesa visibile non si identifica con il regno della mano sinistra, poiché in essa vivono non solo coloro che hanno perso la fede ma anche i cristiani credenti ( è un corpus permixtum), il diritto canonico è necessario solo per ragioni socio-empiriche e non ha nessun valore in ordine alla salvezza. Per Lutero, ma soprattutto per Calvino, il diritto canonico conserva tuttavia un certo spessore ecclesiale proprio in quanto la sua forza vincolante non viene dal carattere formale della legge né da quello dell’autorità, ma dalla carità. Mentre Hobbes († 1679) potrà direauctoritas, non veritas facit ius, per Lutero bisognerebbe dire caritas, non auctoritas facit ius(Heckel). Ultimamente però esso si situa sullo stesso piano del diritto statuale. Di conseguenza il diritto canonico è un diritto sui generis: ha in comune con quello divino della chiesa invisibile il fatto di essere un ordine dell’amore; è simile a quello statuale perché si riferisce solo all’homoexterior; si distingue, infine, da tutte e due perché, in quanto legge solo umana, non vincola i credenti in coscienza. Pur riconoscendo la necessità concreta di un diritto canonico Lutero lo ha separato irreparabilmente da quello divino sottraendolo al contenuto della fede. Il credoEcclesiam catholicam vale solo per la Ecclesia abscondita.

3. Il monismo giuridico di Sohm e la negazione del diritto canonico


Soprattutto in seguito all’influsso pietistico di C. Tomasio – che aveva negato l’esistenza di ogni forma di diritto divino – la dottrina del diritto canonico ha subito nei quattro secoli seguenti una profonda trasformazione, che può essere formulata come segue: la chiesa invisibile è priva di ogni diritto divino e umano; quella visibile deve accettarlo per ragioni empiriche, ma è un diritto puramente umano perché l’unica fonte del diritto è lo Stato (Ernst Wolf).
Sotto il profilo pratico il passaggio dell’organizzazione giuridica della chiesa visibile nelle mani dello Stato – durato in Germania fino alla prima guerra mondiale – dopo che Lutero nel 1525 aveva chiamato il principe, in quanto membro della chiesa (Melantone dirà, come membrum praecipuum Ecclesiae), ad intervenire per salvarla dal disordine interno, ha fatto subire al diritto canonico una profonda trasformazione anche a livello istituzionale. Oltre ad essere stato sottoposto ad un processo di penetrazione scientifica, attraverso il metodo pandettistico e storico, il cui esito fu quello di eliminare ogni differenza formale tra diritto canonico e statuale, il diritto canonico fu addirittura sostituito con quello ecclesiastico (Staatskirchenrecht).
L’inevitabile ipertrofia subita dal diritto ecclesiastico – inversamente proporzionale ormai al suo valore ecclesiale – ha permesso un progressivo assorbimento anche della chiesa visibile nelle strutture statuali, fino a trasformarla in chiesa di Stato (Staatskirche). Il diritto umano, in tutte le sue forme – statuale, ecclesiastico e canonico -, essendo stato separato all’interno dell’unico ordine della salvezza dal ius divinum, non poteva più vincolare il cristiano in quanto tale, per cui era inevitabile che l’antinomia tra diritto e carità, tra chiesa del diritto e dell’amore, tra Legge e Vangelo, riemergesse in modo clamoroso.
Il merito di aver attirato l’attenzione della teologia su questo stato di cose spetta a Rodolfo Sohm († 1917) che prese lo spunto da due presupposti ideologici diversi ma profondamente radicati nell’animo religioso e volontarista del protestantesimo: da una parte quello spiritualista, secondo cui la chiesa è una realtà puramente carismatica; dall’altra quello positivista, secondo cui il diritto è una realtà monistica. Sohm, essendo convinto che non esiste diversità di natura tra il diritto canonico e quello secolare – poiché lo Stato è fonte unica del diritto (Hegel) – ha esplicitato rigorosamente le implicazioni dottrinali contenute nel sistema disarmonico dei due regni, traendone tutte le inesorabili conseguenze. Da una parte ha sostenuto contro Lutero che non esiste diversità tra la chiesa visibile (o universale) e il regno della mano sinistra, identificando la chiesa sociologica con il mondo: dall’altra ha coerentemente negato che la chiesa carismatica potesse accettare non solo un diritto divino, che ormai era già stato eliminato dalla scienza giuridica, ma anche un diritto umano, potendo essere quest’ultimo solo statuale (Rouco-Varela). Con la tesi centrale del suo Kirchenrecht (vol. I, 1892), secondo cui “la natura del diritto canonico è contraddittoria alla natura della chiesa”, Sohm ha posto per la prima volta nella storia della teologia il problema teologico del diritto canonico in termini così radicali ed espliciti da non più lasciare requie né alla canonistica protestante né a quella cattolica fino ad oggi (Mörsdorf).

4. L’unità tra diritto divino e secolare nella cristocrazia barthiana

Oltre che da questa provocazione scientifica la necessità di chiarire il problema fu posta alla teologia protestante dal mutamento dei rapporti tra Stato e Chiesa provocato dagli avvenimenti politici a partire dalla rivoluzione francese. La caduta dell’ancien régime ha messo anche le chiese protestanti nella necessità di trovare un nuovo punto di partenza storico-istituzionale. Il principio della separazione tra Stato e Chiesa proclamato dalla rivoluzione liberale (Costituzione di Francoforte 1848), ma realizzato in Germania solo dopo la prima (Costituzione di Weimar 1918) e la seconda guerra mondiale (Costituzione di Bonn 1949, art. 140), e soprattutto la dura esperienza fatta, grazie al proprio positivismo giuridico, sotto il regime nazista, hanno messo la chiesa protestante, dopo quattro secoli di unione con lo Stato, nella necessità di promulgare costituzioni proprie non più fondate sul diritto statuale (Rouco-Varela).
I primi tentativi teorici compiuti da G. Holstein e H. Liermann – preceduti nel protestantesimo dalla riscoperta di una propria coscienza ecclesiale al tempo del romanticismo – di dare una legittimazione teologica al diritto canonico, rimasero nel solco della dottrina dualistica luterana. La profonda disarmonia (Erik Wolf) di quest’ultima, che considera chiesa visibile e Regno della mano sinistra come realtà non adeguatamente distinte, ha però impedito loro di staccarsi da una concezione sociologica o “additiva” (Dombois) del diritto canonico, ultimamente ritenuto simile ancora al diritto secolare che, in quanto diritto del regno della mano sinistra, è voluto anche esso da Dio (sul problema cfr. E. Corecco, Diritto canonico, in: “Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, Roma 19743).
Il dualismo di Lutero fu superato solo da Carlo Barth. Nel solco della teologia dei riformatori egli ha posto ancora una volta come problema centrale della teologia del diritto non quello del diritto canonico, ma quello del diritto statuale; ha invertito però i termini della questione, sostituendo la tematica “Vangelo e Legge” a quella luterana “Legge e Vangelo”. Due anni più tardi (1932) egli riprese il tema nel programma “Giustificazione e Legge” dove Chiesa e Stato, con i rispettivi ordinamenti giuridici, vengono collocati unitariamente all’interno dell’unica realtà esistente, quella salvifica della Giustificazione nel Cristo (Schüller).
Barth, che si pone in diretta polemica con lo storicismo e il positivismo giuridico, ha come orizzonte quello della teologia dialettica dove il problema centrale è quello di stabilire la natura del rapporto Dio-uomo a partire non dalla theologia naturalis, ma dalla constatazione che Dio è Dio in quanto pone l’uomo di fronte ai propri limiti. Per cogliere questa alterità di Dio l’ontologia razionale e il diritto naturale non servono: solo la rivelazione può formulare affermazioni vincolanti.
Nessuna metafisica umana – quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel (Ernst Wolf aggiungerà quella razionalistica dello stoicismo, congenita al calvinismo!) – è capace di dire cosa sia lo Stato e il diritto (de Quervain). La realtà può essere conosciuta solo con la fede e non con la filosofia per cui l’analogia entis è sostituita con l’analogia fidei.
La giustificazione avviene attraverso Cristo che oltre ad essere il fondamento ontologico è anche il principio gnoseologico di tutta la realtà creata. Nel solco della tradizione più calvinista che luterana, Barth abbandona perciò la dottrina dei due regni e delle due chiese per sostituirla con la visione di un solo ed unico regno di Dio, al cui centro sta Cristo e attorno al quale è situata in circoli concentrici tutta la realtà: all’interno la chiesa e all’esterno lo Stato. Non esiste perciò più differenza assoluta tra Chiesa e Stato, né il loro rapporto può essere concepito, nel segno della tradizione cattolica, come se la chiesa fosse fondata sul diritto divino e lo Stato su quello naturale.
Come ogni forma di diritto, anche quello canonico è irreparabilmente umano poiché vale solo per il tempo che separa la chiesa dall’escatologia. A differenza di quello statuale esso non ha forza vincolante giuridico-formale perché il soggetto operante nella chiesa non è la comunità dei credenti, ma Cristo stesso. È perciò solo una Kirchenordnung. Per contro il diritto ecclesiastico è incapace di organizzare la chiesa perché essendo statuale nasce da una lontananza più grande da Cristo. Senza affrontare direttamente il problema se il diritto canonico, dal profilo formale, sia una realtà sostanzialmente diversa da quello statuale, Barth afferma che è un diritto sui generis, essendo essenzialmente un diritto liturgico, soggetto all’indicazione biblica, valido solo come “servizio” alla communio sanctorum e come profezia rispetto a quello statuale.
Per superare la contraddizione nella quale Barth e Ernst Wolf sono caduti, negando da una parte ogni consistenza al diritto naturale, ma facendo dall’altra larghe concessioni alla concettualità naturale e alla immanente razionalità del pensiero teologico (Schüller), Ellul cerca di sbarazzarsi di tutti i presupposti di estrazione intellettualistica facendo una rigorosa opzione nominalista-volontaristica. In particolare egli cerca di eliminare tutti i presupposti – emersi nella tradizione scolastica con G. Vazquez ed in quella del diritto naturale moderno con Grozio – che avevano permesso di affermare che etsi non daretur Deus, esset tamen iustitia (Schüller). L’unità del diritto non è stabilita a livello metafisico, ma gnoseologico. Infatti il diritto naturale, come lo Stato e la religione, esiste come fenomeno umano indipendentemente da ogni riflessione teorica. Determinante perciò non è il suo valore naturale, ma quello che esso ha in rapporto al piano salvifico di Dio. Di conseguenza esso non può essere valutato con la ragione umana totaliter deleta, ma solo con la fede. La giustizia umana non esiste se non come espressione del giudizio di Dio. Essa però non è statica ma dinamica, perché si manifesta nel giudizio attuale e concreto di Dio sulle cose ed è puro atto di Grazia (volontarismo dinamico).
Avendo eliminato il diritto naturale e la filosofia del diritto, Barth non è riuscito a ristabilire l’unità tra diritto divino e umano così come l’aveva sostenuta la tradizione cristiana precedente alla riforma. Pur capovolgendo la tematica “Legge e Vangelo” e abbandonando il dualismo cosmologico dei due regni di Lutero, invece di superarlo egli ha accentuato il dualismo protestante tra natura e soprannatura e tra ragione e fede, di cui la separazione tra il diritto divino e umano è solo una conseguenza a livello istituzionale. Quest’ultimo resta una realtà solo umana, rispetto alla quale il diritto divino è totalmente trascendente.

5. L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia protestante moderna

Nel tentativo di superare l’aporia in cui era sfociato il programma barthiano “Giustificazione e Legge” condannando inesorabilmente il diritto naturale, alcuni giuristi del dopoguerra, intuendo l’impossibilità di elaborare una teologia del diritto sia statuale che canonico a partire dalla sola rivelazione senza riconoscere nessuna consistenza alla metafisica, hanno cercato nuovi spunti metodologici, lasciando implicite le altre questioni fondamentali tradizionali della teologia protestante. Essi hanno in comune il fatto di affrontare direttamente il problema della teologia del diritto canonico senza passare attraverso la mediazione di quella del diritto statuale (Steinmüller).
Ma neppure questi tentativi recenti di Erick Wolf e Hans Dombois (cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico, o.c.) riescono a risolvere il problema. In essi emerge una componente platonica laddove il diritto divino – strutturato come “Signoria fraterna” di Cristo o come “relazione trinitaria” – è considerato solo come modello secondo cui il diritto umano deve modellarsi con l’aiuto esterno della indicazione biblica (biblische Weisung), che a partire soprattutto da Calvino ha sostituito nella teologia protestante il principio della incarnazione. In sostanza il diritto divino è inteso dalla teologia protestante – da Lutero ai moderni – in un senso così spiritualizzato che non si vede come possa essere vincolante per la chiesa storica. La teologia protestante non riesce a stabilire un rapporto vincolante tra la chiesa e il cristiano ma solo un rapporto diretto tra Dio e la coscienza dell’uomo. Il punto centrale di convergenza della moderna teologia protestante del diritto canonico con quella cattolica è dato dall’affermazione che il diritto canonico è una dimensione della chiesa indissolubilmente legata al dogma. Come realtà ecclesiale appartiene perciò al contenuto della fede, da cui Lutero l’aveva estromesso. Il merito di Barth è stato quello di aver fatto rientrare il diritto canonico (assieme a quello secolare) nei contenuti della fede, facendo un grande passo avanti verso la concezione di S. Agostino e S. Tommaso della nova lex evangelii (Söhngen). Tuttavia né il capovolgimento della tematica “Legge e Vangelo”, né la ricerca di nuovi loci theologici (propria degli autori successivi a Barth), sono bastati per dare una consistenza soteriologica reale al diritto canonico. Esso resta inesorabilmente diritto umano, separato dal diritto divino, incapace di vincolare la coscienza del cristiano non da ultimo perché, non avendo una consistenza naturale, non può avere (in quanto realtà anche antropologica) neppure una consistenza ecclesiale salvifica. In sostanza il dualismo ecclesiologico è stato semplicemente spostato a livello giuridico (Rouco-Varela). Anche il problema del valore del diritto canonico non è perciò risolvibile se non risolvendo quello del rapporto tra ragione e fede, natura e soprannatura e tra storia e escatologia.
Concludendo si deve constatare che anche nella migliore tradizione protestante – quella che ha preso le distanze dal razionalismo liberale dei secoli XVIII e XIX (che aveva eliminato la dimensione escatologica dalla storia) – persiste una visione dell’escatologia proiettata unilateralmente verso il futuro, la quale ingenera, rispetto al fatto giuridico, un positivismo analogo a quello esistente nella teologia ortodossa orientale, dove l’escatologia tende a risolversi come una fuga verso l’alto e la trascendenza. La propensione di ambedue è quella di abbandonare la storia alla propria logica mondana.
Il problema posto dal protestantesimo è, da una parte, quello di sapere se è possibile fare teologia del diritto prescindendo da ogni orizzonte ontologico-filosofico, cioè eliminando il diritto naturale; dall’altra, se la teologia del diritto debba essere primariamente teologia del diritto secolare o del diritto canonico.

4. L’unità tra diritto divino e canonico nella teologia cattolica

1. Dualismo tra diritto naturale e divino positivo nella dottrina
della “elevazione” al soprannaturale

La teologia cattolica ha veicolato fino ai nostri giorni senza sostanziali cambiamenti la concezione tomistico-suaresiana del diritto. Negli ambienti della filosofia sociale cristiana si incomincia a porre il problema di una teologia della società e, conseguentemente, dello Stato e del diritto (Nell-Breuning); ma una risposta teologica che dal profilo metodologico si stacchi dalla concezione scolastica o neoscolastica, non è ancora stata elaborata, pur non essendo mancate le sollecitazioni storiche.
Nel settore del diritto canonico, invece, si è formato dopo il Tridentino, come scienza nuova, diversa dalla canonistica classica, il ius publicum ecclesiasticum (IPE). Esso è nato verso la metà del secolo XVIII dalla sfida lanciata alla canonistica dalla scienza giusnaturalistica del ius publicum: strumento con cui lo Stato illuminista ha imposto l’esclusività della propria sovranità territoriale-giuridica in tutti i settori della vita non solo socio-politica ma anche ecclesiastica (De la Hera). Applicando il concetto di ius publicum al diritto della chiesa la scuola del IPE ha posto in modo nuovo il problema della natura del diritto canonico (non più trattato solo come settore del diritto generale) ed ha aperto nuove prospettive a livello della costituzione della Chiesa e dei suoi rapporti con lo Stato, superando così lo status quaestionis medioevale (Rouco-Varela). Dal profilo metodologico il IPE si è limitato tuttavia a fare una sintesi eclettica delle opzioni tomista-realista e volontarista del medioevo.
La categoria centrale del IPE, così come è stata elaborata dal Tarquini e dal Cavagnis nella seconda metà del secolo XIX e dall’Ottaviani prima del Vaticano II, è quella della societas perfetta. Sia perché di evidente estrazione giusnaturalistica, sia perché presuppone, come maggiore del sillogismo con cui conclude all’esistenza del diritto pubblico della chiesa, l’assioma pure giusnaturalistico ubi societas, ibi et ius, il IPE usa in ultima analisi il medesimo concetto formale di diritto elaborato dalla tradizione filosofico-cristiana fino a Suarez. Non è perciò in grado di mediare una nuova comprensione teologica del diritto della chiesa.
La fondazione scritturistica dei trattati del IPE rimane infatti giustapposta. Più che a fondare tende a confermare, con i cosiddetti passi “gerarchiologici” del NT, i principi fondamentali della filosofia dello Stato, per applicarli alla chiesa grazie al processo teologico della elevazione al soprannaturale, dentro una concezione controversistico-bellarminiana o magari anche secolare del diritto e della costituzione ecclesiale. Il nesso tra la chiesa in quanto società perfetta e il diritto canonico non è derivato dalla struttura teologica interna della chiesa, ma in modo volontaristico ed estrinseco dalla volontà di Cristo, che ha voluto la chiesa come società giuridica e perfetta. Anche il problema dell’unità del diritto viene perciò risolto secondo la dinamica della distinzione classica ius divinum, sive naturale sive positivum, dove però il termine di riferimento prioritario è – in omaggio al giusnaturalismo razionalista moderno – il diritto naturale.
Gli stessi limiti metodologici di fondo sono riscontrabili anche nei tentativi di rifondazione teologica della canonistica coeva e posteriore. Sia la categoria biblica e romantica di regnumusata da G. Philipps – non senza influsso della nuova ecclesiologia della scuola di Tubinga -, sia quella di “ordinamento giuridico primario” presa a prestito dalla pandettistica moderna nella scuola canonistica laica italiana, sia l’analisi della struttura della società presa da W. Bertrams dalla filosofia sociale del Gundlach, non si staccano ultimamente dal metodo del IPE, anche se ne tentano un superamento. Non si tratta di negare i meriti sostanziali che questi grandi maestri hanno avuto nel far avanzare la canonistica a livello scientifico o teologico, liberandola da troppo riduttive preoccupazioni esegetiche, ma semplicemente di constatare che dal profilo metodologico questi tentativi non possono essere inscritti, sia pure tenendo conto della loro diversa sensibilità teologica, come scienza teologica del diritto canonico. In essi la teologia rimane il limite formale estrinseco entro il quale la canonistica deve muoversi. Anche i canonisti di Navarra, che riprendono l’idea di ordinamento canonico imprimendole però una certa carica teologica, usano in ultima analisi un concetto nomistico di diritto che li costringe ad affermare che dal profilo epistemologico il diritto canonico non è una scienza teologica ma giuridica.
Evidentemente più gravi sono i limiti del programma di deteologizzazione e degiuridizzazione, proposto dopo il Vaticano II dalla rivista “Concilium” – nel tentativo di dare una nuova comprensione teologica dei limiti del diritto canonico – per l’eclettismo dottrinale in cui esso rimane imbrigliato. La nozione formale tradizionale di diritto è sostituita dai teorici della rivista, nel solco della teologia protestante moderna, con la categoria di “servizio” e di “ordine ecclesiale” (Kirchenordnung); di essa però è assunta anche la valenza dualistica che obbliga i canonisti di “Concilium” a giustificare l’esistenza del diritto canonico umano a partire da considerazioni solo empirico-sociologiche . Il diritto canonico umano non sembra più essere una “incarnazione” delius divinum positivum. (Su tutti questi tentativi cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico, o.c.).
Il limite del IPE e delle correnti che ad esso fanno metodologicamente riferimento, è il medesimo di quello che ha impedito alla prima ed alla seconda scolastica di distinguere dal profilo scientifico la fondazione del diritto secolare da quella del diritto canonico, trattando quest’ultimo come parte del primo. Se è comprensibile che l’unità del diritto secolare (appartenente all’ambito della natura) con quello divino debba passare attraverso la mediazione del diritto naturale, non è però necessario passare da questa mediazione per stabilire l’unità ontologica del diritto canonico umano con il diritto divino. La chiesa non può infatti essere definita come società naturale elevata al soprannaturale (Aymans). Il merito della riforma è stato quello di aver sollevato il problema. Volendo perciò fare una teologia del diritto canonico non si può non accogliere questa provocazione metodologica (senza con questo voler negare l’esistenza del diritto naturale in quanto tale, come hanno fatto Lutero e Barth) distinti, come ha fatto la scolastica, i due piani: quello della natura e quello della soprannatura.
Il dualismo ecclesiologico e giuridico della riforma protestante ha la sua radice nella contrapposizione stabilita da Lutero tra natura e Grazia, ragione e fede, storia e escatologia, “Legge e Vangelo”. La costante specifica della tradizione cattolica sta invece nell’aver salvato, pur nella varietà delle interpretazioni, l’unità di questi elementi, che non è estrinsecamente garantita dalla volontà di Dio, bensì ontologicamente intrinseca.
Il fatto che la legge sia sempre stata considerata condizione indispensabile per la salvezza spiega perché la chiesa cattolica “non ha mai vissuto da un punto di vista costituzionale su basi giuridiche precarie” (Rouco-Varela). Non fa perciò meraviglia che la chiesa cattolica, sia in regime di cristianità che in regime di assolutismo statale, abbia sempre rivendicato il possesso di una struttura costituzionale e di un ordinamento giuridico propri, radicati nel diritto divino e perciò autonomi di fronte al potere secolare, a dispetto delle sovrapposizioni avvenute, a livello istituzionale tra Chiesa e Stato, e, a livello scientifico, tra teologia e filosofia giusnaturalistica. Anche la crisi di antigiuridismo che ha colto la chiesa moderna non ha messo in discussione l’esistenza dell’istituzione e del diritto, ma ne ha reclamato vuoi una riformulazione storica vuoi una risignificazione teologica.
Se è vero perciò che il problema primario della teologia cattolica non è quello di produrre la prova teologica dell’esistenza del diritto canonico – che in ultima analisi non è neppure dottrinalmente messo in discussione – quanto piuttosto quello dell’analisi della natura teologica intrinseca dello stesso, è essenziale riprendere alla radice anche la questione della fondazione teologica dell’esistenza del diritto canonico, perché le conseguenze che ne derivano a livello metodologico non possono essere sottovalutate. Si tratta di giustificare il diritto canonico non più a partire da presupposti giusnaturalistici o sociali ma da uno spunto nettamente teologico, che sappia individuare con precisione il locus theologicus del diritto ecclesiale all’interno del nexus mysteriorum, per eliminare in sede di riflessione esplicita l’esistenza, affermata almeno nel comportamento pratico e nella pubblicistica divulgativa, di una antinomia tra diritto e libertà, istituzione e carisma, “Legge e Grazia”. Il problema del diritto tocca infatti, come quello delle opere, il fondo del problema della giustificazione.

2. Necessità e unità del diritto divino e canonico nella tematica “Legge e Grazia”

Cosa significa per la teologia cattolica “Legge e Vangelo”? Gottlieb Söhngen è tra i rarissimi autori cattolici che abbiano affrontato il tema analiticamente e in dialettica con il protestantesimo. Secondo il teologo tedesco la prima constatazione che si impone è che anche per la teologia cattolica la congiunzione “e” non significa “è anche”, poiché la natura intrinseca delle due realtà non è identica. L’essenza della Legge sta nel suo carattere imperativo, mentre quella del Vangelo e della Grazia sta in una partecipazione di Dio nel cuore dell’uomo. Perciò non esiste un’analogia nominum per cui si possa dire che la Legge è anche Vangelo e che il Vangelo è anche Legge, ma solo un’analogia relationis (Barth) stabilita dal fatto che l’imperativo della nuova legge – che non è Legge solo in forza del suo essere legge – ha come fondamento la Grazia e la Carità. Tommaso d’Aquino adoperando la formula nova lex evangelii, con cui ha sintetizzato la tradizione antecedente espressa nel da quod iubes et iube quod vis di S. Agostino, ha usato l’analogia in questo senso. Infatti la novità della nuova legge non sta nella maggiore perfezione rispetto a quella antica, ma nel fatto che è data come pienezza della carità: lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus Sancti quae (qui) datur Christifidelibus (I-II, q. 106, a. I). Non esiste perciò analogia nominum neppure tra la Legge antica e quella nuova, perché se è vero che Cristo, come afferma il concilio di Trento, non è solo mediatore, ma anche legislatore (Sess. IV de iustif., can. 31), non lo è nello stesso senso di Mosè. Non si può perciò giustificare l’esistenza del diritto canonico, come ha fatto Lutero, allo stesso modo della Legge antica: solo come argine contro la concupiscenza e il peccato. Esso appartiene all’esperienza cristiana positivamente, nel segno della pienezza della Carità e della Grazia. Vi appartiene perciò allo stesso titolo del dogma, che non è una realtà eterogenea rispetto al diritto. Infatti allo stesso modo che la salvezza non proviene dalla forza formale imperativa dell’ordinamento giuridico della chiesa, essa non proviene neppure da quella pedagogia del dogma, ma dalla Grazia. La Grazia comprende la Legge e non viceversa, poiché l’adempimento della Legge non è causa efficiente della Grazia.
Se è vero che il Vangelo non è “anche” Legge, esso però non esiste neppure “senza” Legge. Come già nell’AT, la legge non è data senza la promessa della Grazia e la Grazia non è data senza i precetti di Dio. Nel NT la Grazia non può restare senza le opere della Carità. Del resto neppure per Lutero il principio sola fide significa che la Fede possa esistere senza le opere. La differenza tra la dottrina dei riformatori e quella Cattolica fissata dal Tridentino (can. 29 e 30) sta nel fatto che le opere non sono solo una conseguenza necessaria della Fede, ma una vera e propria condizione per la salvezza. Nelle due posizioni teologiche esiste perciò un doppio punto di convergenza: che la salvezza è data dalla Grazia e che le opere sono necessarie. Per i riformatori le buone opere – che comunque non sono buone perché salvano ma solo perché compiute in obbedienza a Dio – sono necessarie solo come conseguenza. Inoltre esse non sono a vantaggio di chi le compie, ma degli altri che possono così vedere il miracolo compiuto da Dio nella salvezza. Per i cattolici invece sono necessarie come condizione a posteriori – anche se possono essere poste dal credente solo con l’aiuto della Grazia – affinché la salvezza non si ritorca in dannazione. Ciò significa che Dio non perdona il peccato all’uomo dopo che questi lo ha perdonato agli altri, ma è in forza del fatto che Dio gli ha perdonato che l’uomo diventa capace e deve perdonare (Söhngen).
Questa diversità nel concepire la conditio deriva dal modo diverso di comprendere la Grazia. Anche per la dottrina protestante, soprattutto moderna, la Grazia non è una semplice non imputatio del peccato, ma una presenza personale esterna di Cristo che pur lasciando l’uomo interiormente non cambiato (simul iustus et peccator), lo coinvolge e lo fa diventare capace di amare, in quanto è Cristo stesso che opera in lui (Pannenberg).
Per la teologia cattolica invece la Grazia è una realtà soprannaturale creata e infusa nell’uomo come qualità inerente (gratia creata habitualis), contrariamente alla dottrina orientale ortodossa, non si identifica con Dio (energie). Essa è una forza in base alla quale l’uomo agisce collaborando con Dio (fides charitate formata), meritandosi anche un aumento della stessa. La nozione protestante della non imputatio non nega l’efficacia reale della Grazia, ma il fatto che sia in qualche modo causale e che sia una realtà ontologica inerente all’uomo. L’uomo vi è implicato solo come strumento dell’azione di Dio, non come collaboratore. Del resto la medesima concezione è riscontrabile nel protestantesimo a livello ecclesiale, dove la chiesa non ha una soggettività propria, poiché il solo soggetto operante è Cristo e lo Spirito Santo.
Avendo posto la premessa che la Grazia non si “incarna” ontologicamente nella natura dell’uomo come gratia creata e che la chiesa abscondita non si compenetra con quella universale e visibile, la teologia protestante si trova nell’impossibilità di stabilire un ponte tra il diritto divino e quello canonico umano. Come le opere sono solo una conseguenza esterna della Grazia così il diritto canonico è solo una conseguenza esterna della chiesa abscondita. È necessario, ma a livello sociologico, non ontologico, per cui, come le opere, non ha in se stesso nessuna valenza salvifica. Parallelamente al sacramento è solo un signum fidei senza essere causa strumentale efficace della Grazia. Evidentemente tra diritto e sacramento esiste solo un’analogia, che impedisce di applicare al primo il principio dell’ex opere operato.
La tradizione cattolica – che ha trovato nella metafisica ilemorfistica aristotelico-tomista un orizzonte ontologico ed uno strumento logico particolarmente congeniali per conferire una plausibilità razionale al proprio modo di credere il mistero della salvezza – ha declinato, sia pure in modo analogico e differenziato (Congar e Mühlen), il principio “incarnazione”, realizzatosi nella sua pienezza paradigmatica in Cristo, a tutti i livelli dell’economia della salvezza. Lo applica perciò rigorosamente non solo alla Grazia (creata), alla chiesa e al sacramento, ma anche al diritto canonico. Il diritto divino non è presente in quello canonico solo come orizzonte formale (Rahner), da cui deriva l’indicazione parenetica, ma anche come substrato ontologico. Del resto se tutte le realtà istituzionali in cui si “incarna” la Grazia (come la chiesa, il sacramento, il dogma e il diritto) sono solo signa fidei – come S. Tommaso dice dei sacramenti -, lo sono in quanto segni strumentalmente efficaci, se pur in modo diverso, della Grazia, di cui Dio solo dispone.
Grazie a questa consequenzialità nell’applicare il principio “incarnazione”, la tradizione cattolica ha potuto concepire anche l’escatologia – con rigore più grande di quella ortodosso-orientale e a differenza di quella di larga parte del protestantesimo – non solo come una realtà presente nella storia, ma anche come una dimensione intrinseca costitutiva della verità ultima della stessa.

3. Incarnazione e sacramento come “loci theologici” dell’unità e della natura del diritto canonico

Nella linea di questa opzione teologica di fondo, rilanciata genialmente nel secolo XIX dalla scuola di Tubinga – rivalutata dalla Mystici Corporis -, alcuni teologi e canonisti moderni come il Salaverri (prima del Vaticano II), lo Sticker e l’Heimerl, hanno scelto il mistero dell’Incarnazione come locus theologicus dal quale derivare – all’interno di un processo metodologico che tenta di rimanere totalmente immanente alla gnoseologia teologica – il nesso tra la struttura socio-sacramentale della chiesa e il diritto canonico. L’incarnazione del Figlio di Dio è la radice ultima del carattere sociale, visibile e giuridico della chiesa poiché Cristo, incarnandosi, ha coinvolto la natura umana con tutte le sue dimensioni, compreso quella socio-comunitaria, che raggiunge la sua pienezza di espressione nella chiesa.
In questa medesima linea metodologica si muove anche il Vaticano II (Lumen Gentium, n. 8 eOptatam totius, n. 16), affermando l’esistenza di una unità indissolubile tra la dimensione socio-visibile della chiesa – totalità del mistero dell’incarnazione – e la dimensione giuridico-canonica.
L’insegnamento del Concilio, perfettamente valido a livello di contenuto, non rende tuttavia plausibile in sede di argomentazione teorica l’esistenza del diritto canonico. Se è vero infatti che il mistero dell’Incarnazione postula la socialità e la visibilità della chiesa, non è altrettanto scontato che la visibilità postuli la giuridicità. Sohm aveva, infatti, potuto affermare che la chiesa ha carattere solo carismatico. Ne consegue che in questi tentativi la normatività giuridica viene ancora postulata a partire dalla struttura sociale della convivenza umana in quanto tale, preesistente alla sua assunzione nel mistero dell’Incarnazione, per cui riemerge in profondità il pensiero giusnaturalistico del IPE.
I termini del problema non cambiano anche se al mistero dell’Incarnazione si dovesse sostituire quello della presenza dello Spirito Santo nella chiesa, come il magistero stesso ha fatto recentemente (discorso di papa Paolo VI al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico del 1973). Per risolvere il problema non è sufficiente affermare che “tutti gli elementi istituzionali e giuridici” (come del resto anche quelli carismatici!) “sono sacri perché vivificati dallo Spirito Santo” (“Osservatore Romano” 1973, n. 213), perché questo discorso presuppone il fatto dell’esistenza del diritto ecclesiale. D’altra parte il diritto canonico non può neppure essere direttamente derivato dallo Spirito Santo senza la mediazione istituzionale della chiesa. Non si può perciò prescindere dal constatare che, in queste due posizioni metodologiche, né la dinamica teologica (che riemerge tra le righe) della elevazione della chiesa – in quanto società umana – alla sfera soprannaturale, né la soluzione volontaristica secondo cui sarebbe Cristo o lo Spirito Santo a volere direttamente la giuridicità della chiesa, vengono superate. Senza dire poi che esse continuano a definire il diritto con la categoria formale dell’iustum o dell’obiectumvirtutis iustitiae, che, essendo di estrazione filosofica, non può dare indicazioni specifiche sulla natura teologica del diritto canonico (Rouco-Varela). Evidentemente non sarebbe neppure possibile dimostrare che la dimensione giuridica della chiesa e già presente negli elementi strutturali attraverso i quali Cristo e lo Spirito Santo – in obbedienza alle modalità specifiche con le quali il Padre è manifestato nella storia – sono presenti e vivificano la chiesa, senza chiedersi poi perché Dio ha voluto e scelto queste modalità. Il problema si ripropone perciò più a monte, e viene a coincidere con la questione ultima di ogni sistema teologico, alla quale alternativamente e da sempre è stata data una risposta realistica oppure volontaristica. Si tratta nella fattispecie di evitare una soluzione volontaristica di comodo, facendo dipendere l’esistenza del diritto nella chiesa – in quanto problema isolato e particolare – dalla volontà di Cristo, perché non si riesce ad offrire una risposta organica all’interno di un’altra opzione teologica di fondo.
Evitando la soluzione sia volontaristica che giusnaturalistica Klaus Mörsdorf ha cercato l’aggancio teologico del diritto ecclesiale negli elementi costitutivi della chiesa stessa, vale a dire nella Parola e nel Sacramento. Cristo, ponendosi necessariamente dentro la dinamica della storia della salvezza in cui Dio si era già manifestato attraverso parole e fatti simbolici – strutture primordiali di comunicazione anche umana – ha conferito ad essi pienezza di significato, imprimendovi, nel segno della locutio Dei attestans, valore definitivo per l’esistenza umana. La Parola e il Sacramento, che non obbligano l’uomo a dare la sua adesione in forza della loro verità intrinseca, soggettivamente percepita (Sohm), ma per il fatto stesso che Dio ha parlato e si è manifestato, hanno perciò forza vincolante formale. Essi generano a partire dalla loro struttura intrinseca una nuova forma di aggregazione sociale, quella della chiesa, destinata in quanto tale ad essere nell’economia della Salvezza segno necessario della presenza di Dio nel mondo. Il principio “incarnazione” trova la sua realizzazione nella chiesa – sia pure senza relazione di identità totale con l’incarnazione di Cristo – attraverso la mediazione della Parola e del Sacramento, dando a tutta la realtà ecclesiale una valenza sacramentale primordiale. Esso garantisce perciò il rapporto di necessarietà e di unità esistente tra la chiesa, fondata nel ius divinum (“Ecclesia vivit iure divino”: Lutero) e il diritto canonico umano.
Il merito del Mörsdorf non sta solo nell’aver individuato un locus theologicus sicuro – anche se non esclusivo – ma anche e soprattutto nell’aver applicato di fatto un metodo rigorosamente teologico, senza fare concessioni a postulati filosofici. In sede teorica rimane per contro aperto il problema della natura teologica della nozione formale di diritto e del suo statuto epistemologico. Che anche il Mörsdorf non abbia risolto in modo del tutto soddisfacente il problema emerge dalla citatissima definizione da lui data al diritto canonico che sarebbe eine theologische Disziplin mit iuristischer Methode. Se è vero che per non incorrere in un’opzione positivistica il metodo deve essere definito a partire dalla natura dell’oggetto e non viceversa, in che senso è possibile applicare il metodo giuridico ad una realtà teologica?
Questo punto è stato precisato recentemente da Antonio Rouco Varela con la tesi che è necessario abbandonare la preconcezione filosofica, veicolata fino ad oggi nella nozione formale del diritto canonico, per sostituirla con una nozione che definisca teologicamente lo “statuto ontologico ed epistemologico” del diritto della chiesa. Il diritto canonico, infatti, non è generato dal “dinamismo spontaneo (biologico) della convivenza umana”, ma da quello inerente alla natura della chiesa, la cui socialità è prodotta geneticamente dalla Grazia ed è conoscibile solo attraverso la fede.
Secondo il vescovo ausiliare di Santiago de Compostella, il nesso tra chiesa e diritto canonico non deve essere stabilito a partire da un solo aspetto particolare del mistero della chiesa (come il principio dell’incarnazione, della sacramentalità ecc.), ma tenendo progressivamente conto di tutte le categorie teologiche essenziali di cui è costituita la realtà ecclesiale, che sono il “Popolo di Dio”, il “Corpo Mistico di Cristo”, la “Parola e il Sacramento” e la “Successione apostolica”. Non si tratta di derivare l’esistenza del diritto canonico dalla categoria “Popolo di Dio”, facendo ancora una volta ricorso al principio giusnaturalistico ubi societas, ibi et ius, bensì di dare al diritto della chiesa quella connotazione antropologica necessaria per superare lo scoglio della spiritualizzazione; scoglio sul quale è naufragata la teologia protestante, cercando l’aggancio teologico del diritto nelle categorie trascendentali della cristologia o del mistero trinitario. Dalla categoria “Corpo Mistico di Cristo” deriva la visibilità propria, di natura sacramentale, della chiesa, profondamente diversa da quella dello Stato e, di conseguenza, la connotazione specifica del suo diritto. Dalla “Parola e Sacramento” deriva il carattere vincolante, non solo interiore, ma anche esteriore del diritto canonico, mentre dalla “successione apostolica” la garanzia dell’autenticità della intimazione giuridica della chiesa di oggi.
Restando nella linea metodologica del Mörsdorf, Rouco Varela ha fatto fare un passo avanti alla questione, pur non avendo osato elaborare una definizione teologica del diritto canonico.
Ci sembra comunque che la definizione teologica del concetto formale di diritto canonico non possa essere ricavata solo dagli elementi sopra citati, perché se le categorie “Popolo di Dio”, “Corpo Mistico” e “Parola e Sacramento” hanno un contenuto materiale valido per la fondazione dell’esistenza del diritto ecclesiale – connaturandone nello stesso tempo la specificità teologica -, la “Successione apostolica” ha carattere formale e presuppone l’esistenza dell’intimazione giuridica materialmente garantita dalle altre categorie. Una definizione deve far perno attorno ad una categoria capace di cogliere sinteticamente la dimensione trascendente e immanente della intimazione giuridica propria alla socialità specifica della chiesa. Già la canonistica laica italiana, infatti, ha utilizzato la nozione medioevale della salus animarum, nel tentativo di qualificare in modo sintetico la finalità religiosa da cui deriva la natura specifica dell’ordinamento canonico (Fedele).
Oltre che per la sua valenza individualistica ed escatologica la salus animarum pecca però di estrinsecismo sia ecclesiologico che giuridico. Il principio attorno al quale deve convergere il sistema giuridico ecclesiale, per riceverne l’impronta fenomenologico-giuridica specifica, non può essere di natura paragiuridica o extraecclesiale; deve rimanere immanente alla chiesa stessa. Per questa ragione la scuola italiana stessa (D’Avack), ma soprattutto quella romana (Bigador, Bertrams e Robleda) hanno cercato di sostituire la salus animarum con il concetto di bonum commune Ecclesiae, la cui provenienza giusnaturalistica però è troppo palese per poter essere considerata pertinente.
Il concetto di communio, che a livello costituzionale del rapporto tra chiesa universale e particolare si realizza come communio Ecclesiarum, sembra invece cogliere la sostanza specifica della convivenza ecclesiale, attraverso cui si realizza e si anticipa già nella storia la salvezza escatologica. Questa categoria cogliendo l’aspetto escatologico in quanto immanente alla chiesa, sembra essere capace di esprimere la fisionomia inconfondibile della costituzione e degli istituti canonici che regolano la vita ecclesiale.
La communio è ad un tempo la realtà da realizzare e la modalità secondo cui il diritto canonico deve strutturarsi per realizzarla. Essa è, inoltre, il risultato della convergenza delle categorie “Popolo di Dio”, “Corpo Mistico” e “Parola e Sacramento”, fondanti l’esistenza del diritto canonico stesso. Ne consegue che la communio, in quanto causa materiale, formale e finale del diritto della chiesa, è per se stessa giuridicamente vincolante.
La natura teologica dello statuto ontologico del diritto canonico impone che esso sia trattato teologicamente anche dal profilo epistemologico. Al metodo storico-sistematico non può perciò essere concessa quell’autonomia razionale che esso gode nella scienza giuridica secolare; deve costantemente essere giudicato e controllato a partire dall’objectum quo, che è la fede. Benché il metodo storico-sistematico possa assumere nella canonistica solo il ruolo di disciplina ausiliare, è però sufficiente per garantire alla stessa un’autonomia specifica all’interno della scienza teologica.
Ogni dicotomia tra statuto ontologico (teologico) ed epistemologico apre la porta al vizio di metodo espresso dalla massima medioevale: legista sine canonibus parum, canonista sine legibus nihil valet. E l’equivoco di credere che, dopo aver affermato la natura teologica del diritto canonico, sia ancora possibile trattarlo dal profilo giuridico come realtà puramente umano-razionale.
Concludendo si deve affermare che la teologia del diritto canonico, cioè la canonistica, deve liberarsi dal tipo di dipendenza dalla filosofia avuta nel regime medioevale di cristianità, quando ilius canonicum aveva, oltre alla propria funzione ecclesiale, anche quella di essere ius commune, per cui era trattato dal profilo giuridico come realtà che aveva in comune con il diritto secolare o statuale la medesima nozione formale di giustizia.
Ciò non significa che la canonistica, in quanto disciplina teologica, possa sussistere slegata da ogni orizzonte filosofico-metafisico, come è avvenuto nella teologia protestante. Questa infatti avendo sostituito l’analogia entis con l’analogia fidei, ha disincarnato e separato il diritto canonico umano dal diritto divino, istituendo un dualismo metodologico che è inevitabilmente sfociato nel positivismo giuridico. La canonistica deve perciò abbandonare ogni preconcezione giusnaturalistico-filosofica del diritto, non solo di estrazione razionalistica ma anche cristiana, come quella elaborata dal pensiero medioevale nella sintesi tomistico-suaresiana. Questa nozione formale di diritto era stata elaborata in funzione di un sistema filosofico o teologico in cui il diritto era considerato primariamente come fenomeno antropologico-naturale.
L’unità tra il diritto divino-positivo e quello canonico-umano non può perciò essere stabilita attraverso la mediazione del diritto naturale. Infatti non si tratta più di stabilire il nesso tra una realtà divina, conosciuta solo razionalmente, ed una naturale, ma tra la realtà divina, soprannaturale e trascendente, conoscibile solo per fede, con quella ecclesiale, che per definizione è già una realtà sacramentale, vale a dire una realtà soprannaturale immanente – perché incarnata – nella storia, ma non conoscibile razionalmente.
L’unità tra diritto divino e canonico si pone all’interno dell’economia della salvezza, la quale essendo fondata sulla Grazia e sulla Fede ha uno statuto ontologico ed epistemologico soprannaturale. In essa la filosofia ha soltanto il compito di elaborare i praeambula fideifacendone comprendere le verità, e non quello di determinare la natura ontologica e epistemologica delle realtà che vi appartengono.

Bibliografia

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1. Premessa

Uno dei risultati apparentemente più paradossali del Concilio Vaticano II, la cui sottile vena antigiuridica avrebbe potuto far prevedere altri sviluppi, è stato quello di provocare una rigorosa ripresa della scienza canonistica, di cui per altro la scienza teologica non ha ancora preso atto.
All’interno di questa ripresa, che si muove su binari diversi 1 e che per molti aspetti è autonoma rispetto ai lavori di preparazione della nuova codificazione, incomincia a delinearsi il formarsi di una nuova scienza del diritto canonico che potrebbe far entrare la canonistica nella terza fase della sua storia, dopo quella classica medioevale e quella post-tridentina del “Ius Publicum Ecclesiasticum”. La prima fase, incominciata con la distinzione metodologico-sistematica del diritto canonico dalla teologia, operata da Graziano, sfociava nel riconoscimento della canonistica come scienza generale del diritto all’interno della Cristianità, dove il diritto delle Decretali godeva, accanto a quello romano, autorità di diritto comune.  L’IPE, formatosi come scienza nuova dopo la Riforma contemporaneamente alla nascita dello Stato assolutista moderno di estrazione giusnaturalista, ha elaborato invece un sistema giuridico confessionale il cui compito primario fu quello di garantire apologeticamente diritto di cittadinanza alla Chiesa cattolica come società perfetta nell’ambito culturale secolarizzato dell’evo moderno 2 .
Al di là delle diverse metodologie seguite, la tendenza di fondo della canonistica post-conciliare è quella di ridare alla scienza del diritto canonico un’identità teologica più precisa 3 , che non può non sfociare nell’elaborazione di un sistema giuridico concepito esclusivamente come ordinamento giuridico ecclesiale, cioè come diritto interno alla Chiesa cattolica 4 . In questa prospettiva la funzione culturale esercitata direttamente dal diritto canonico medioevale sullo sviluppo della filosofia e della teoria generale del diritto come del resto il compito apologetico svolto dall’IPE vengono ricuperati indirettamente dalla forza profetica del dato teologico enunciato dal diritto ecclesiale stesso.
Se la prima preoccupazione in questo nuovo orientamento della canonistica è stata quella di dare una giustificazione teologica all’esistenza del diritto canonico, anche se il problema non ha ancora trovato un assetto definitivo (il discorso incomincia ora a spostarsi a livello dell’ontologia, cioè della natura intrinseca del diritto ecclesiale), in vista di elaborare una vera e propria teologia del diritto canonico che non può mancare di sfociare sul terreno della metodologia 5 .
Se da sempre, sia pure in modo diversamente riflesso, la canonistica ha avuto coscienza che, rispetto al diritto secolare, quello della Chiesa è un diritto “sui generis”, la letteratura moderna incomincia ad avvertire in modo più stringente l’impossibilità di continuare a considerare il diritto secolare come “analogatum princeps” di quello ecclesiale 6 . Anzi, l’uso stesso dell’analogia incomincia ad essere messo in discussione 7 , poiché se essa permette di cogliere negativamente la diversità tra i due ordini giuridici, non è sufficiente né a definire positivamente la natura specifica del diritto ecclesiale né tanto meno ad elaborare una teoria generale di taglio non più solo giuridico, come è stato ampiamente fatto 8.
È inevitabile che la ricerca di un nuovo statuto ontologico ed epistemologico del diritto canonico faccia venire al pettine i problemi nodali della scienza giuridica di sempre: quelli della definizione formale sia della nozione di “diritto” che di quella di “legge” 9 .
Come ha molto acutamente constatato Rouco Varela, la canonistica dal momento che non intende più definirsi come scienza giuridica, ma come scienza teologica, deve porsi il problema della definizione formale del proprio oggetto “quod” cioè della propria nozione di diritto. Non può più accontentarsi di veicolare, senza ridiscuterla, la nozione di diritto soggiacente al CIC, formulata dal Suarez come sintesi di tutto il pensiero filosofico-giuridico della scolastica 10 . Il presupposto fondamentale per cogliere dal profilo teologico lo statuto ontologico del diritto ecclesiale è perciò quello di non più appoggiarsi su una pre-concezione filosofica della nozione fondamentale di diritto11 , poiché il diritto canonico, a differenza di quello secolare, non è generato dal “dinamismo spontaneo (biologico) della convivenza umana”, ma da quello specifico inerente alla natura stessa della comunione ecclesiale, la cui socialità è prodotta geneticamente non dalla natura umana, ma dalla grazia che instaura rapporti íntersoggettivi e strutturali diversi, propri alla costituzione della Chiesa e conoscibili solo attraverso la fede 12 . La canonistica medioevale e quella moderna hanno definito il diritto a partire dalla categoria del “iustum” e dell’“obiectum virtutis iustitiae”, ma è evidente che esse, essendo di estrazione filosofica, non sono in grado di spiegare in modo adeguato la dimensione giuridica specifica della Chiesa.
Il secondo aspetto fondamentale, anche se conseguente al primo 13 , è il problema della definizione formale del concetto di legge canonica.  Il CIC non dà alcuna definizione legale della legge canonica, ma esiste una profonda convergenza degli autori nell’usare quella classica di S. Tommaso: “quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ob eo qui curam communitatis habet, promulgata” (I-II, q. 90, a. 4, c.), come nocciolo sostanziale delle loro definizioni della legge canonica 14 . Sullo sfondo di queste definizioni emerge però una teologia della così detta “elevazione”, dove la Chiesa è considerata come una società umana elevata all’ordine soprannaturale 15 . Ne consegue che il punto di riferimento ultimo di queste definizioni, malgrado l’inevitabile riferimento alla Rivelazione, è dato dalla pre-concezione filosofica che il pensiero cristiano ha elaborato della socialità umana e della legge. Non meraviglia perciò che, al di là sia delle oscillazioni avvenute nel sottolineare, rispetto alla definizione tomista centrata attorno alla “ratio”, anche l’elemento della “voluntas”, sia della preoccupazione di apportare precisazioni più o meno pertinenti, nel tentativo di qualificare dal profilo ecclesiale o tecnico la nozione di legge canonica rispetto alla definizione generale di legge data dall’Aquinate, lo “status quaestionis” sia rimasto sostanzialmente identico a quello posto da S. Tommaso nel trattato “De legibus” della “Summa” 16 .

2. L’istanza razionalista nella definizione tomista della legge

Il nocciolo della definizione tomista, composta da quattro elementi (ragione, legislatore, bene comune e promulgazione) è senza dubbio dato dal primo elemento, cioè dall’“ordinatio rationis”. Cosa ha inteso esprimere l’Aquinate definendo la legge come “ordinatio rationis”?
Uno dei tentativi più completi e precisi di cogliere il significato globale, all’interno della teologia di S. Tommaso, del trattato “De legibus” della Somma (redatto dall’Aquinate nella piena maturità del suo pensiero) è senza dubbio quello del protestante Ulrich Kühn 17 . A differenza di altri tentativi, nei confronti dei quali egli si pone dialetticamente 18 , il Kühn non si limita – al di là del fatto che non sempre gli è riuscita una chiara differenziazione della teologia dalla “teologia naturalis” – a cogliere la dimensione filosofica del trattato sulla legge, ma di esso evidenzia la valenza teologica. Ci sentiamo di condividere l’opinione del Kühn, il quale, nella linea del Dempf e del Grabmann, sostiene che il trattato “De legibus” rappresenta nella Somma il punto nodale di tutta l’etica, alla quale, in consonanza con la sua concezione generale sul rapporto tra natura e grazia, il “Doctor angelicus” dà un respiro più ampio di quello proprio alla sola etica naturale, poiché la fa sfociare costantemente verso il fine ultimo soprannaturale dell’uomo, la “beatitudo aeterna” 19 .
Il respiro teologico del trattato “De legibus” è documentato soprattutto da due elementi. Da una parte dal fatto che l’Aquinate, pur definendo la legge come “ordinatio rationis”, considera valida tale definizione non solo per la legge umana e naturale, ma anche per la “lex aeterna” – mutuata come concetto da Cicerone, attraverso S. Agostino che già l’aveva trasformato teisticamente, predestinandolo a diventare l’idea centrale attorno alla quale avrebbe gravitato tutto il pensiero etico-giuridico medioevale 20 -, e per la “lex divina”, verso la quale sfociano a livello di riflessione ontologica e storica tutte le altre forme di legge. Infatti la “lex nova”, preparata da quella “vetus”, è considerata come la forma definitiva della “lex divina” – in quanto ordine soprannaturale dell’economia della salvezza, che evidentemente comprende, assumendole e recuperandole, anche la “lex aeterna” e quella “naturalis” e in cui l’Aquinate risolve l’apparente antinomia esistente tra legge e grazia 21 . Tuttavia l’etíca della Somma rivela, a seguito di una più matura ispirazione aristotelica, uno spunto non tanto etero-teonomico quanto antropocentrico, che, pur mantenendo una prospettiva trascendentale ed escatologica, ha come presupposto di partenza l’affermazione della capacità etico-naturale dell’uomo e trova la sua espressione articolata nella dottrina delle virtù, in particolare di quelle cardinali filtrate attraverso Aristotele da Platone.
Questo spunto fortemente antropocentrico emerge anche nel trattato delle leggi – considerate come strumento attraverso cui Dio aiuta l’uomo dall’esterno (I-II, q. 90, prol.) – dove l’Aquinate prende come modello della sua definizione di legge non tanto la legge eterna o quella divina, bensì quella umana così come la si poteva desumere dai modelli politici della tradizione sia cristiana che romana 22. Definendo la legge come “ordinatio rationis”, l’Aquinate si distanzia dalla tradizione sacrale-volontarista francescana di S. Bonaventura, ripresa poi dallo Scoto e dall’Occam 23, per fare una chiara opzione in favore della “ratio”, considerata antropocentricamente principio supremo degli atti umani (I-II, q. 9, a. 1, c.). La legge non obbliga in forza dell’obbedienza ad una volontà d’impero, trascendente o umana, ma della stringenza di un sillogismo della ragione pratica umana.
Il fatto che S. Tommaso – indulgendo a un certo ottimismo intellettuale, ma evitando di misura un intellettualismo rigido – abbia assegnato il primato alla ragione attribuendole un ruolo centrale nella definizione della legge è strettamente connesso con la sua dottrina sulla legge naturale. Nel solco del maestro Alberto Magno, l’Aquinate ha ampiamente ricuperato l’istanza razíonalistica di estrazione stoico-ciceroniana, che, distanziandosi sia dall’idea platonica di giustizia naturale cosmica, sia da quella stoico-ulpianea naturalistica in cui l’istinto era posto come fondamento della legge naturale, caratterizzava il diritto naturale come diritto prodotto dalla ragione umana 24.
Mentre la tradizione ebraica non aveva conosciuto l’idea di un “logos” eterno, immutabile e nascosto nella natura cosmica o in quella razionale dell’uomo, ma solo quella di una legge rivelata da Dio – fonte immediata e personale del diritto – come sua volontà e comando che non lasciava posto per una legge naturale distinta dal diritto divino positivo dei dieci comandamenti, il dono imperituro della cultura greca alla filosofia occidentale è stata l’idea metafisicamente aperta, poliedrica e inesauribile nei suoi significati, di natura (“Physis”), di cui i filosofi greci si sono impossessati per farne il fondamento di un diritto naturale (o divino) neutro, indipendente da ogni fede in un essere personale, fonte o origine di un ordine giuridico razionale 25 . Era inevitabile che il problema del valore razionale della legge venisse a trovarsi, agli albori del cristianesimo, nel cuore della problematica teologica del rapporto paradossale tra natura e grazia, carico di polarità antinomica. Sentendosi forti della copertura dottrinale data da S. Paolo 26 , che pur avendo svalutato la forza della legge contrapponendola alla giustizia di Dio non aveva negato la possibilità di una conoscenza razionale della legge naturale 27 , i Padri, soprattutto quelli greci, accettarono sia pure limitatamente e in modo eclettico l’idea greca di un diritto naturale dettato dalla ragione facendo una sintesi audace tra la concezione giudaica-sociale, tendenzialmente volontaristica, e quella stoico-giusnaturalistica, e questo malgrado fosse ben presto insorto il dubbio sulla compatibilità del diritto naturale greco con quello divino, la cui forza salvifica arrischiava di essere esautorata. Ciò spinse Tertulliano a concepire la legge divina promulgata nel decalogo (l’aveva già fatto Filone Alessandrino nel suo ellenismo giudaizzante) come codificazione positiva del diritto naturale, stabilendo così non solo un’armonia ma anche un’identificazione tra il diritto divino e quello naturale, che si protrarrà come confusione fino alla scolastica 28 .
S. Agostino dà agibilità cristiana all’idea ciceroniana di “lex aeterna” non solo perché si distanzia dall’idea trascendente di Platone e dal “fatum” o ragione universale e impersonale autonomamente esistente di Cicerone, per identificare la “lex aeterna” stessa con il piano della creazione e del governo del mondo contenuto nella intelligenza di Dio, ma anche perché la distingue dalla “lex naturae” da lui concepita ormai come un’impronta o trascrizione razionale che l’uomo, pur ferito dal peccato originale, arriva a conoscere come un “a priori” soggettivo nei suoi tratti essenziali (“extrema lineamenta”) 29 . Temendo però, al contatto diretto con Pelagio, che il giusnaturalismo potesse sfociare nell’affermazione della validità per la salvezza delle opere compiute in base al diritto naturale senza il soccorso della grazia, S. Agostino incomincia a sottolineare non più la normatività della “lex aeterna”, ma quella della volontà di Dio, influenzando così in uguale misura sia le correnti intellettualistiche che quelle volontaristiche del medioevo 30 .
Nel segno di questa confusione e ambivalenza della tradizione precedente trasmessa al medioevo da Isidoro di Siviglia, anche Graziano continuerà da una parte a definire il “ius naturale” come diritto “quod in lege et evangelio continetur” (I, d. 1, c. 1, dict.), identificando il diritto naturale con quello divino 31 , e dall’altra a fare sul piano etico un’opzione volontaristica, affermando che nel diritto naturale “nihil aliud praecipiatur, quam quod Deus vult fieri, nihilque vetetur, quam quod Deus prohibet fieri” (I, d. 9, c. 11, dict.). Il perpetuarsi della sovrapposizione tra diritto divino e diritto naturale, aggravato dal fatto che i teologi e canonisti pre-scolastici hanno continuato a veicolare nelle loro opere, come nel Decreto, le diverse nozioni di diritto naturale elaborate dai greci e filtrate dai Padri – spesso senza accorgersi della incongruenza esistente tra la nozione sacrale dello stesso, quella naturalistica e quella razionalistica -, emerge anche nel tentativo compiuto di enucleare un principio unico e supremo da cui derivare secondo una precisa scala di valori tutte le altre norme del diritto naturale.  Accanto alla “regola d’oro” si può trovare nei pre-scolastici (per es. in Simone da Bisignano) come principio attorno al quale fare la sintesi, anche la “caritas”, concetto strettamente legato al diritto divino 32 . Ciò è sintomatico di come i pre-scolastici non fossero ancora riusciti a fare una netta distinzione tra filosofia e teologia. Con l’affermarsi dell’aristotelismo ad opera di S. Alberto Magno – che ha per primo compiuto l’operazione di distinguere le varie concezioni di diritto naturale, assegnando loro un ambito scientifico proprio e diverso, come la metafisica, cioè la scienza della natura, per quella di origine platonica (giustizia naturale cosmica), la filosofia per quella stoico-razionalistica (ritenuta da Alberto Magno, in quanto norma dettata dalla ragione, come unica vera forma di diritto naturale) e la teologia per il “ius divinum” di origine biblico-sacrale – fu possibile fare una netta distinzione tra ragione e fede, filosofia e teologia. 33
L’operazione iniziata da Alberto Magno fu perfezionata da Tommaso d’Aquino che, grazie ad una ulteriore penetrazione della problematica, rese irreversibile sia la distinzione tra i due piani, quello naturale e quello soprannaturale, sia la distinzione tra legge naturale e legge divina. Disgiungendo questi due elementi l’Aquinate ha, da una parte salvato sostanzialmente l’istanza razionalistica, propria al diritto naturale stoico, dall’altra ha garantito un rapporto di reciprocità con l’istanza religioso-sacrale della patristica, sciogliendo così il dubbio sollevato dai Padri circa l’incompatibilità della legge naturale con quella divina. Infatti il “Doctor communis” oltre a stabilire un’unità ontologica all’interno della triade classica “lex aeterna-naturalis-humana” [sostenendo che la “lex naturalis” è una irradiazione della “lex aeterna” nella natura razionale dell’uomo e che la “lex humana” è filosoficamente e giuridicamente valida solo nella misura in cui essa è una derivazione legittima di quella “naturalis” (I-II, q. 95, a. 2, c.)], ha stabilito anche un’unità teologica tra la “lex aeterna”, espressione somma della penetrazione umana, razionale e filosofica di Dio, e quella “divina”.  Ciò risulta sia dal fatto che per Tommaso Dio ha rivelato la “lex divina” non solo per guidare l’uomo al suo fine soprannaturale specifico ma anche per sopperire alle imperfezioni della ragione umana nel conoscere la legge naturale, sia da tutto il sistema dottrinale dell’Aquinate, fondato sul principio della connaturalità della ragione rispetto alla fede e su quello della superiorità della fede rispetto alla ragione 34 .
L’Aquinate ha antropocentricamente fondato la sua “sacra doctrina”, o scienza teologica, sul presupposto che la ragione umana è capace sia di conoscere filosoficamente Dio, sia di comprendere la congruenza e non contraddittorietà razionale della rivelazione. La ragione umana, in quanto partecipazione della ragione divina – che è razionalità e non volontà arbitraria di Dio – che l’uomo trova nella propria natura, è considerata causa prossima e immediata della moralità umana e del diritto positivo. La legge dettata dalla “giusta” ragione umana è di conseguenza “la stessa che gli detta, e non potrebbe non dettargli Dio” (I-II, q. 71, a. 2, ad 4). È innegabile perciò, che l’istanza stoico-razionalistica è emersa nell’Aquinate con estremo vigore pur senza rompere l’unità con il filone mistico-religioso veterotestamentario e agostiniano del pensiero cristiano, cui essa è rimasta subordinata 35.
Il valore attribuito dal “Doctor angelicus” alla razionalità umana si è manifestato in tutta la sua forza nel trattato della legge, dove l’Aquinate ha realizzato un modello estremamente significativo dello spirito e del metodo che nella scolastica diverrà sempre più esclusivo: quello di procedere, sulla base dell’aristotelismo, ad una radicale ontologizzazione dell’approfondimento della fede – a scapito della prospettiva scritturistica storico-salvifica propria alla ricerca teologica “gnostico-sapienzale” della patristica – dove la preoccupazione dominante diventa quella di inserire il mistero entro gli schemi strutturali metafisici della filosofia ilemorfistica 36 .

3. L’applicazione analogica della definizione formale di legge in Tommaso d’Aquino

Definendo la legge come “ordinatio rationis” S. Tommaso ha fondato tutto il trattato “De legibus” della Somma non su un concetto teologico ma su un’idea proveniente dalla esperienza sensibile dell’essere. Coerentemente con tutta l’impostazione data all’etica della Somma anche nel “De legibus” l’Aquinate parte dal basso verso l’alto 37 .
Al concetto ontologico di legge l’Aquinate riconduce non solo la “lex aeterna”, “naturalis” e “humana”, ma anche quella “divina”; proprio perché egli, come del resto la scolastica migliore, non intende ridurre la fede alla ragione o la teologia alla filosofia, è evidente che le diverse leggi, in particolare quella eterna e quella divina, non possono essere incluse univocamente negli schemi metafisici della definizione generale, ma solo analogicamente, come rivela del resto l’analisi dell’applicazione fatta dei quattro elementi strutturali della definizione alle diverse realizzazioni della legge.
Infatti mentre il “bonum commune” della legge umana – considerata comunque da S. Tommaso nella sua trasparenza religiosa, in quanto orientato verso la beatitudine eterna – è la “felicitas terrena”, quello della “lex aeterna” è Dio stesso: “…finis divinae gubernationis est ipse Deus, nec eius lex est aliud ab ipso” (I-II, q. 91, a. 1, ad 3). D’altra parte, se il «bonum commune» della “lex humana” e di quella “aeterna” sono concepiti come beni superiori all’uomo stesso, quello proprio della “lex naturalis” consiste, antropocentricamente, nella realizzazione della natura razionale stessa dell’uotno sulla base delle sue “inclinationes naturales”, che però, incoerenti con tutto il sistema, comprendono secondo l’Aquinate anche la necessità di “colere Deum” (per es. I-II, q. 99, a. 3, ad 2), la quale sfocia per altro a livello soprannaturale nell’ordine della “caritas”.  Infatti il “bonum commune” specifico della “lex divina” è l’“amicitia hominis ad Deum”, che in una visione più comunitaria – di estrazione tipicamente aristotelica – è concepita dall’Aquinate come “communitas seu respublica hominum sub Deo” (I-II, q. 100, a. 5, c.).
Mentre l’applicazione analogica del concetto di “legislatore” non fa difficoltà, dato che l’analogia tra l’uomo e Dio è evidente, più discusso è il problema della “promulgazione”. Per salvare la promulgazione come elemento essenziale anche della legge eterna, che per sua natura a differenza di quella umana obbliga prima ancora di essere promulgata “ad extra”, S. Tommaso fa ricorso al “Verbum Dei”, in cui egli ravvisa una promulgazione delle idee eterne di Dio (I-II, q. 91, a. 1, ad 2) 38 .  Il Verbo infatti sta dall’eternità in rapporto con la creazione del mondo in cui la legge eterna è promulgata “ad extra” nel tempo.  Il riferimento al Verbo evidentemente è valido anche per la “lex divina” – nella misura in cui essa, in Dio, si distingue formalmente da quella eterna – promulgata con la “lex vetus” e “lex nova”. L’applicazione analogica della “promulgazione” è altrettanto forte a proposito della “lex naturalis”. Se da una parte essa si realizza “ad extra Dei” al momento della creazione dell’uomo, dall’altra si realizza “ad intra” dell’uomo stesso, poiché Dio stesso la inserisce come partecipazione naturale di quella eterna nella mente umana 39 .
Il nocciolo della questione è dato però dall’elemento centrale della legge, la “ratio”, definita dall’Aquinate come capacità dell’uomo di conoscere in modo discorsivo, cioè in modo diverso da quello proprio all’“intellectus” che apprende “simpliciter” i primi principi (I, q. 79, a. 8, c.). La “ratio” che – come fa osservare il Kühn – S. Tommaso non chiama “ratio Dei” ma solo “ratio divina” o addirittura “quasi ratio Dei”, pur rappresentando una realtà d’ordine intellettivo – in quanto anche in Dio formalmente distinguibile da quello volitivo – in realtà significa solo che Dio conosce in quanto ha in se stesso la ragione, cioè la spiegazione o la causa (“Wesensgrund” o “Sinnstruktur”) di tutte le cose 40 . Quindi più che di un tipo di conoscenza intellettiva parallela, anche se eminentemente superiore, a quella umana, si tratta dello stesso principio o facoltà per cui Dio è origine di tutti gli esseri. Ora, se è vero che la “ratio” o l’“intellectus” sono la potenza conoscitiva per cui l’uomo partecipa ontologicamente alla essenza divina, cioè alla “lex aeterna”, non si può per contro affermare la stessa cosa in rapporto alla “lex divina” in quanto “ratio”, ossia piano che ordina l’uomo al fine soprannaturale, cioè alla “beatitudo aeterna” poiché quest’ultima “excedit proportionem naturalis facultatis humanae” (I-II, q. 91, a. 4, c.). L’uomo infatti non partecipa alla “lex divina” in forza della dinamica intrinseca alla sua razionalità, ma solo attraverso la “gratia”, che a livello conoscitivo si esprime come dono della fede. Dato che in Dio non esiste una “lex aeterna” diversa dalla “lex divina”, la duplicità delle leggi risulta esclusivamente dalla modalità diversa con la quale l’uomo conosce l’una o l’altra e vi partecipa, razionalmente o per fede. La distinzione fra il livello filosofico e quello teologico è possibile solo “ex parte hominis”, poiché in lui solo la conoscenza per fede è un modo più alto di partecipare alla “lex aeterna” (I-II, q. 91, a. 4, ad 1).
Pur riconoscendo che la legge naturale, cioè l’irradiazione della legge eterna nella razionalità umana, sia concepita dall’Aquinate come connaturalmente proiettata verso la trascendenza teologica, bisogna però tener conto del fatto che egli, nel solco di Alberto Magno, fu pure estremamente deciso nel distinguere la legge naturale da quella divina rivelata (I-II, q. 91, a. 4). Ciò significa che l’Aquinate ha colto la diversità degli ordini nella conoscenza umana: quello filosofico, in cui egli, per la sua innegabile inclinazione razionalistica, prevalentemente si muove quando riflette sulla “lex aeterna”, e quello teologico, proprio della “lex divina”. Da questo punto di vista ci sembra perciò riduttivo affermare – come fa il Kühn – che la “lex divina” è considerata da S. Tommaso solo come una determinazione della legge naturale 41 . L’affermazione, per il vero un poco isolata, dell’Aquinate, secondo cui la “lex divinitus data” è il tipo di legge “per quam lex aeterna partecipatur altiori modo” (I-II, q. 91, a. 4, ad 1), dimostra che, sia pure in modo forse non sufficientemente deciso e articolato, S. Tommaso non ha voluto far dipendere la “lex divina” dalla “lex naturalis”, bensì agganciarla direttamente a quella “aeterna” 42 . Quest’ultima perciò non può essere considerata semplicemente come “l’analogatum maius” della “lex naturalis” e di quella “humana” – tutte e due di ordine razionale -, dato che comprende anche il piano di salvezza di Dio ed è perciò conoscibile in quanto tale non solo attraverso l’“analogia entis” ma in modo qualitativamente diverso per fede, cioè attraverso l’“analogia fidei”.
Della “lex divina” l’Aquinate riprende a parlare quando ne specifica le modalità e i contenuti realizzatisi nella “lex vetus” (qq. 98ss.) e nella “lex evangelii seu nova” (qq. 106ss.) che sfocia nel trattato sulla “gratia” (qq. 109ss.). Il “Doctor angelicus” non affronta però direttamente e tanto meno in modo articolato il discorso sul diritto canonico cui spetta per sua natura – parallelamente al diritto umano secolare rispetto alla “lex aeterna”, mediata dalla «lex naturalis» – il compito di declinare ed esplicitare storicamente la “lex divina”. Pur riconoscendo l’esistenza di un preciso contesto cristologico ed ecclesiologico entro cui si muove il discorso sulla “lex nova”, bisogna anche prendere atto del fatto che l’Aquinate vede la stessa primariamente in relazione con la struttura mistico-interna della Chiesa, considerata in primo luogo come comunità spirituale tra Cristo e i credenti, e solo in secondo luogo – anche se si tratta di un suo aspetto essenziale – come istituzione43 . Anzi, sembra quasi che l’Aquinate abbia lasciato aperta una cesura tra il diritto divino e quello canonico, là dove mettendo praticamente sullo stesso piano il legislatore temporale e quello ecclesiastico (I-II, q. 108, a. 1, c.) afferma che essi sono pienamente liberi di procedere o meno a delle determinazioni, tenuto conto del fatto che tutto quanto è di necessità per la salvezza è stato prescritto dalla “lex divina” stessa. Tra i precetti non necessari per la trasmissione della grazia – e perciò non ripresi dalla “lex vetus” nella “lex nova” – l’Aquinate enumera tutto il settore del diritto liturgico e di quello concernente la gestione della giustizia cioè i rapporti intersoggettivi 44 . La legge canonica perciò non sembra avere in rapporto a quella divina la stessa relazione di dipendente necessarietà che vige tra la legge urnana e quella naturale (e, mediatamente, quella eterna). Questa relativizzazione della legge canonica rispetto agli elementi istituzionali promulgati direttamente dalla legge divina (i sacramenti: cfr. I-II, q. 108, a. 2, c.), organica con la tendenza dell’Aquinate (comune a tutta la scolastica formatasi alla scuola di S. Agostino) 45 a concepire la Chiesa prima di tutto come realtà spirituale, può anche non sorprendere se si tien conto che il “Doctor angelicus”, pur avendo elaborato una metafisica ed una teologia della legge non fu guidato affatto dalle preoccupazioni tipiche del canonista.
Anche se manca nella Somma una teologia sulla legge canonica non si può dubitare del fatto che l’Aquinate avrebbe applicato alla stessa, analogicamente, la sua definizione generale fondata sulla “ordinario rationis”. Ora, prescindendo da ogni discorso ipotetico sul come l’Aquinate avrebbe applicato alla legge canonica la sua teoria generale della legge, è evidente che il problema fondamentale nell’elaborare una teologia della legge canonica, è quello posto dall’elemento centrale della definizione stessa, cioè appunto dall’“ordinatio rationis”.
In che senso la “lex canonica” è una “ordinatio rationis”? In un regime culturale di cristianità dove l’Aquinate poteva mettere sullo stesso piano i prelati “temporales” e quelli “spirituales” senza creare equivoci, perché tutta la cristianità era ultimamente considerata come retta e governata dalla “lex aeterna” e la “ratio humana” era ritenuta, di fatto, già come informata dalla fede, parlare di “ordinatio rationis” non creava problemi, malgrado la vivissima istanza razionalistica presente nella scolastica tomista. Il problema più scottante non era quello della contrapposizíone tra “ratio” e “fides” – dato che si riconosceva la subordinazione della prima alla seconda, e la filosofia era pacificamente considerata come “ancilla” della teologia -, ma fra “ratio” e “voluntas” all’interno della tensione pendolare esistente tra le tradizioni di pensiero intellettualista e volontarista.
In un ambiente culturale come quello moderno, per contro, dove la fede – non solo in quanto supera le forze stesse della razionalità umana, ma anche in quanto la informa per aiutarla nel suo compito originario – non è più accettata come punto di riferimento del “bonum commune”, poiché la “ratio”, slegata da ogni legame strutturale con la fede, è diventata, anche nell’ipotesi migliore dell’accettazione dell’esistenza di un diritto naturale, l’istanza ultima e insindacabile di ogni agire umano, anche la canonistica non può più continuare a definire la “lex canonica” come “ordinatio rationis” senza creare un equivoco grossolano sulla propria identità scientifica. Il fatto che questa definizione sia stata veicolata dalla canonistica moderna – senza la preoccupazione di mettere in luce la sua radicale analogicità – può anche non sorprendere, se si tien conto del fatto che essa ha seguito fin nei tempi più recenti vuoi l’impostazione metodologica, sia dell’IPE (il cui punto di riferimento prevalente è stato ultimamente il diritto naturale), vuoi quella della “teoria generale” (mutuata dalla scienza giuridica moderna), oppure quella della canonistica esegetica, che non ha mai inteso andare fino in fondo al problema della natura teologica del diritto ecclesiale 46 . Una canonistica chiamata prima di tutto a dare ragione della propria identità scientifica precisando lo statuto ontologico e metodologico del proprio “obiectum quod” deve saper esplicitare fino alla radice il significato analogico che la definizione tomista di legge ha per il proprio concetto di norma.

4. La legge canonica come «ordinatio fidei»

          Se il concetto di “ratio” applicato a Dio cambia significato, sia perché perde ogni valenza discorsiva, sia perché non mantiene neppure più univocamente il significato di “intellectus”, così come è predicabile della potenza conoscitiva umana (perché in Dio l’“intellectus” è predicabile solo per distinguerlo formalmente dalla “voluntas”), è evidente che anche la nozione di “ratio” riferita alla “lex canonica” in quanto derivazione umana necessaria della “lex divina”, non può mantenere lo stesso significato che essa assume in relazione alla “lex humana”.
Mentre il corrispettivo umano della “lex aeterna”, intesa nella sua valenza primariamente filosofica, è la legge positiva in quanto “ordinatio rationis”, il corrispettivo umano della “lex aeterna”, intesa nella sua valenza primariamente teologica, cioè come “lex divina revelata” – che non è più la proiezione in Dio della razionalità o intelligenza umana, ma connota solo il modo irripetibile dell’“intelligere” proprio di Dio -, non può più essere la “ratio” in quanto modalità discorsiva o intellettiva dell’uomo, bensì un’altra modalità conoscitiva. La “ratio divina” che, come abbiamo visto, significa “motivazione” o “causa”, cioè “Wesensgrund” o “Sinnstruktur” di tutte le realtà contenute nel piano salvifico di Dio, trova il suo “analogatum minor” non nella “ratio” ma nella fede. La fede infatti non conosce secondo la modalità discorsiva dell’uomo, la cui motivazione è la forza dimostrativa intrinseca della “ratio”, sia speculativa che pratica, sibbene accettando l’autorità della “locutio Dei attestans”, cioè della “gratia”. La “causa”, cioè la motivazione propria alla conoscenza di fede, non è la logica umana ma la stessa “ratio divina” in quanto “ragione” o “causa” ultima di tutte le cose che si esprime “ad extra” come “ordinatio”, cioè come autorità di Dio, e a cui l’uomo partecipa attraverso la “gratia”, cioè la virtù soprannaturale infusa della fede. Ciò significa che l’uomo conosce la “lex divina”, declinandola storicamente e incarnandola nel tempo, non in forza della logica stringente del sillogismo elaborato dalla propria “ratio”, ma della motivazione divina, cioè dell’autorità formale della Parola di Dio, che l’impulso della “gratia” gli fa accettare nell’atto di fede.
Se in filosofia del diritto è possibile operare con una nozione di legge concepita metafisicamente come “ordinatio rationis”, applicando l’analogia “entis”, in teologia l’analogia determinante è quella “fidei”. Ne consegue perciò che una teoria generale della legge canonica non può essere elaborata a partire da una definizione metafisica di legge, in cui è necessariamente presente una pre-concezione filosofica della legge stessa. Ne consegue che il criterio ultimo e determinante di conoscenza della natura stessa della legge non può essere la “ratio humana”, ma solo la fede, che opera comunque a livello della facoltà conoscitiva dell’uomo 47 . L’elemento comune che giustifica l’esistenza della “analogia entis” tra la “ratio” e la “fides” è dato dal fatto che in tutte e due i casi si tratta di un processo conoscitivo, la cui natura però è, a partire dalla motivazione o causa, profondamente diversa.
In questo senso l’analogia è possibile sia dal basso verso l’alto, dalla “ratio” alla “fides”, sia dall’alto verso il basso, cioè dalla “ordinatio fidei” all’“ordinatio rationis”. In questo secondo caso però, è evidente che l’elemento determinante della analogia tra la “lex divina” e la “lex canonica” non è quello filosofico dell’essere, ma quello teologico della fede.
Ciò non significa che la canonistica, in quanto disciplina teologica, possa sussistere slegata da ogni orizzonte filosofico-metafisico, come ha tentato di realizzare parte della teologia del diritto protestante moderna. Karl Barth, infatti, invertendo i termini del binomio luterano “lex et evangelium” e sostituendolo con quello “giustificazione e diritto” (“Rechtfertigung und Recht”), ha teorizzato l’eliminazione dell’“analogia entis” dalla teologia (e dalla canonistica) – pur usandola di fatto – come criterio epistemologico. Egli ha negato di conseguenza al diritto canonico umano ogni valenza salvifica, malgrado l’avesse antecedentemente fatto rientrare – distanziandosi dalla tradizione protestante precedente – nel fatto contenuto della fede, assieme al diritto secolare. Questa avversione al diritto naturale e alla filosofia gli ha impedito di stabilire un nesso di unità intrinseca tra il diritto umano e quello divino, così come l’avevano garantito la filosofia del diritto e la teologia medioevali. Anche l’abbandono del dualismo specifico della dottrina luterana dei Due-Regni e della Chiesa “abscondita” separata da quella “universalis”, sostituito con l’idea dell’unicità del Regno di Dio – centrato attorno a Cristo, principio ontologico ed epistemologico di tutte le realtà create -, non è bastato a Barth per superare il dualismo, teorizzato dalla dottrina protestante, tra il diritto divino e quello umano, sia secolare che canonico. Anche quest’ultimo, come del resto quello secolare, rimane una realtà solo umana, rispetto alla quale il diritto divino è totalmente trascendente. Dal livello ecclesiologico il dualismo è stato così semplicemente spostato a quello dell’ambito giuridico 48 .
Benché l’“analogia fidei” sia il criterio epistemologico fondamentale, ciò non significa che in teologia si possa prescindere dall’“analogia entis”. Altro però è la proposta di abbandonare il diritto naturale – troppo spesso diventato prevalente sullo stesso diritto divino, come per es. nella scuola dell’IPE 49– in una concezione che lo vorrebbe di natura esclusivamente ecclesiale 50 , altro, invece, sarebbe l’eliminazione dalla canonistica dell’“analogia entis” in quanto tale. La sostituzione nella definizione della legge canonica, della “ratio” con la “fides” 51 , non implica l’eliminazione dell’“analogia entis” come criterio epistemologico (essendo indispensabile per permettere alla fede di far presa sulla realtà storica), ma postula semplicemente l’eliminazione del diritto naturale (o comunque la sua relativizzazione), in quanto prodotto tipico della razionalità umana – informata o meno dalla fede -, come momento obbligatorio del processo creativo della norma canonica positiva.
L’unità tra il diritto divino positivo e quello canonico umano non ha bisogno necessariamente di essere stabilita grazie alla mediazione del diritto naturale. In teologia non si tratta infatti – come in filosofia – di stabilire un nesso di dipendenza intrinseca tra il diritto divino – razionalmente conoscibile con il nome di “lex aeterna” – e quello umano, passando attraverso la mediazione della “lex naturalis”, ma piuttosto di stabilire un nesso intrinseco tra il “ius divinum positivum” – in quanto realtà divina soprannaturale e trascendente conoscibile solo per fede – e il diritto canonico umano. Dato che quest’ultimo è prodotto dalla Chiesa, partecipa alla natura della stessa, che, pur essendo “incarnata” e immanente alla storia, resta una realtà soprannaturale conoscibile, nella sua essenza, solo con la fede.
Sotto il profilo metodologico ciò significa che il metodo giuridico – in quanto espressione della razionalità umana – non può essere applicato al diritto canonico in modo autonomo, ma subordinato. Ciò vale del resto, per tutte le metodologie proprie alle altre scienze umane, come la filosofia, l’etica naturale, l’esegesi, la storia o la sociologia, quando sono assunte come scienze ausiliarie della teologia. Si tratta, giova osservarlo, di una subordinazione non solo estrinseca, ma intrinseca alla fede, poiché quest’ultima non può essere considerata solo come orizzonte esterno entro il quale la scienza giuridica può ancora muoversi autonomamente, evitando semplicemente di sconfinare oltre i limiti della teologia. Questo procedimento permetterebbe di trattare il diritto canonico come una realtà secolare o mondana.
Perché il diritto canonico possa rimanere una realtà autenticamente ecclesiale senza subire compromettenti secolarizzazioni, il principio ultimo che informa intrinsecamente il suo metodo non può essere che la fede. Analogamente alla filosofia – il cui compito è quello di elaborare i “praeambula fidei” cercando di capire e sviluppare in modo intellegibile la non contraddittorietà razionale della verità rivelata -, il compito della scienza giuridica è quello di elaborare norme canoniche positive che permettano di comprendere la non contraddittorietà razionale (cioè il valore razionalmente vincolante) del “ius divinum”, conoscibile solo per fede.
La legge canonica deve essere definita come “ordinatio fidei” poiché non è prodotta da un legislatore umano qualsiasi, ma dalla Chiesa, il cui criterio epistemologico decisivo non è la ragione ma la fede. Ne consegue che la razionalità umana di cui la Chiesa è dotata in quanto soggetto conoscitivo umano e storico, socializzato comunque non secondo criteri umani, ma secondo la modalità della “Communio Ecclesiae et Ecclesiarum”, rimane intrinsecamente informata dalla fede dato che il suo compito non è quello di produrre semplicemente un ordinamento giuridico compatibile con il concetto filosofico di giustizia, ma un ordinamento che sia derivato dalla nozione teologica di “communio”, la cui dinamica nella istituzionalizzazione dei rapporti intersoggettivi è radicalmente diversa da quella di ogni altra realtà sociale solo umana 52 .
La priorità della fede sulla ragione non si avvera solo quando la Chiesa scopre o riconosce, in forza del carisma che le è proprio, i principi supremi del “ius divinum”, ma si impone anche quando essa si applica ad “incarnare” questi ultimi, con norme giuridiche positive dentro la situazione storica sociale e culturale particolare in cui essa vive, servendosi del “lumen rationis”, cioè del metodo giuridico. Infatti non può esistere dicotomia tra il livello epistemologico dei principi supremi e quello operativo o produttivo della norma giuridica concreta, poiché non esiste dicotomia tra la Chiesa spirituale e quella sociologica. L’unità tra l’epistemologia e la prassi, attorno al principio della fede, distingue la Chiesa da ogni altro soggetto conoscitivo e caratterizza il metodo canonistico da ogni altra metodologia giuridica umana.

1  Per un’analisi critica delle diverse correnti e scuole canonistiche cattoliche cfr. A. Rouco Varela, «Was ist ‘katholische’ Rechtstheologie?», AfkKR 135 (1966) 530-543; idem, «Allgemeine Rechtslehre oder Theologie des Rechts?», ibidem 138 (1969) 95-113; idem, «Le statut ontologique et épistemologique du droit canonique. Notes pour une théologie du droit canonique», RSPhTh 57 (1973) 203-227; idem, «Die katholische Rechtstheologie heute.  Versuch eines analytischen Ueberblickes», AfkKR 145 (1976) 3-21; A. Rouco Varela-E.  Corecco, Sacramento e Diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Milano 1971; E. Corecco, «il rinnovamento metodologico del diritto canonico», La Scuola Cattolica 94 (1966) 3-35; idem, «L’origíne del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storíco-giuridici e metodologico-sistematici della questione», ibidem 97 (1969) 3-42; 107-141, spec. 117ss.; idem, «Diritto canonico», Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, diretto da L. Rossi e A. Valsecchi, Roma 1974, 233-250; idem, «Teologia del Diritto Canonico», Nuovo Dizionario di Teologia, diretto da G. Barbaglio e S. Dianich, Roma 1977, spec. 1736-57; idem, «Diritto», Dizionario Teologico Interdisciplinare, I, Torino 1977, 11-150; D. Llamazares Fernández, «Sacramentalidad y juridicidad: Lex Ecclesiae», Salamanca 1972, 235-266.

2  Per un giudizio sullo sviluppo dell’IPE citiamo un solo articolo fondamentale, quello di A. De La Hera-Ch. Munier, «Le droit publique ecclésiastique à travers ses définitions», RDC 14 (1964) 32-63.

3   L’impulso decisivo in questa direzione è già venuto, subito dopo la seconda guerra mondiale, sia da K. Mörsdorf, di cui citiamo in questo contesto l’articolo fondamentale «Zur Grundlegung des Rechtes der Kirche», MThZ 3 (1952) 329-348 e quello recentissimo «Kanonisches Recht als Theologische Disziplin», AfkKR 145 (1976) 45-58, sia da W. Bertrams, di cui citiamo la raccolta «Quaestiones fundamentales iuris canonici», Roma 1969.

4   Uno sviluppo parallelo, ma precedente a quello cattolico, è in atto da mezzo secolo nella canonistica protestante, cfr. H. Wehrhan, «Die Grundlagenproblematik des deutschen evangelischen Kirchenrechts 1933-45», Theologische Rundschau NF 18 (1950) 69-90, 112-147; 19 (1951) 221-252; idem, «Der stand des Methoden problems in der evangelischen Kirchenrechtslehre», ZevKR 1 (1952) 55-80; H. Liermann, «Die gegenwaertige Lage der Wissenschaft vom evangelischen Kirchenrecht», ibidem 8 (1961-62) 290-303; W. Steinmueller, «Evangelische Rechtstheologie. Zweireichenlehre – Christokratie – Gnadenrecht», I-II, Köln-Graz-Böhlau 1968; A. Rouco Varela, «Teologia protestante del Derecho Eclesial», REDC 26 (1970) 117-143.

5   Il Magistero è stato estremamente tempestivo nel cogliere e sostenere questo nuovo sviluppo della canonistica, affermando a sua volta la necessità di elaborare una teologia del diritto canonico, cfr. per es, il discorso di Papa Paolo VI ai partecipanti al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico del 1973: L’Osservatore Romano, 1973, n. 213.

6   Cfr. per es. G. Ghirlanda, «Il diritto civile ‘analogatum princeps’ del diritto canonico?», Rassegna di Teologia 16 (1975) 588-594.

7   Cfr. per es. F. Coccopalmerio, De conceptu et natura iuris ecclesiae (manoscritto della conferenza tenuta al «Conventus Internationalis Iuris Canonici. Commemoratio primi centenari Facultatis luris Canonici Pontificiae Universitatis Gregorianae», Romae 14-19 Februarii 1977).

8   L’applicazione del metodo della «Teoria Generale» alla canonistica è stato il brillante contenuto dato dalla canonistica laica italiana in questi ultimi decenni ed è in atto su basi rivedute ad opera della canonistica di Navarra. Se ne sono serviti, senza però subirne le implicazioni positivistiche, anche altri canonisti, come per es. il Wernz, il Van Hove, il Michiels e il Mörsdorf.  Per un giudizio critico cfr. la letteratura citata alla nota 1.

9   È significativo come anche Tommaso d’Aquino, che non essendosi interessato del problema del diritto con l’approccio tipico del giurista o del canonista ma del filosofo-teologo, ha affrontato solo alcuni elementi essenziali della questione, abbia però colto quelli fondamentali della definizione della legge (I-II, q. 90ss) e del diritto (II-II, q. 57).

10   Cfr. E. Corecco, «Diritto», Dizionario Teologico Interdisciplinare, cit., spec. 120-133.

11  La necessità di evitare una pre-concezíone filosofica della nozione formale di diritto non significa che sia possibile ricavare quella di diritto canonico esaminando esclusivamente la struttura sociale della Chiesa, come sembra sostenere Coccopalmerio (cfr. art. cit.). Dato che la Chiesa è conoscibile nella sua essenza solo con la fede, un simile procedimento arrischia di far cadere l’«analogia entis» rendendo impossibile una teologia capace di trovare l’aggancio con il reale e con la storia. Esiste una nozione di diritto pre-filosofica e pre-teologica, in uso in tutta la cultura umana, che permette sia ai filosofi che ai teologi di fare un discorso reciprocamente intelligibile, pur usando definizioni diverse del diritto.

12  A. Rouco Varela, Le statut ontologique, cit., spec. 220-226.

13   Cfr. P.-M. van Overbeke, «La Ioi naturelle et le droit naturel selon S. Thomas», Revue Thomiste 65 (1957) 55, n. 3.

14  Prendiamo come unico esempio quello, per molti aspetti estremamente rappresentativo di G. Michiels, «Normae Generales Juris Canonici», II, Parisiis-Tornaci-Romae 1949, 152-205.

15  Cfr. W. Aymans, «Papst und Bischofskollegium als Traeger der kirchliche Hirtengewalt Gedanken zu einer Schrift gleichen Titels von W. Bertrams», AfkKR 135 (1966).

16  Il problema fondamentale non è quello di riuscire ad elaborare una definizione della legge canonica che permetta di distinguerla con sicurezza da altre fonti normative, come il precetto, il regolamento di applicazione ecc…, come pensa il Michiels (op. cit., 163), ma quello di cogliere la specificità teologica della legge canonica rispetto alle definizioni filosofiche o giuridiche della legge secolare in genere.

17  Via Caritatis, Theologie des Gesetzes bei Thomas von Aquin, Göttingen 1965.

18  Per es.  A. D. Sertillanges, M. Wittmann, H. Meyer e E. Gilson, cfr. U. Kühn, o. c. 46.

19  Cfr. U. Kühn, op. cit., 122-128; P.-M. van Overbeke, op. cit., 60, n. 1.

20  Mentre l’origine della nozione di «lex aeterna» è di natura razionale-filosofica e risale allo stoicismo e al neo-platonismo, quella della «lex divina» è teologica, cfr. M. Wittmann, Die Ethik des hl. Thomas von Aquin, München 1933, 326 e 367.

21   Sul problema cfr. W. Kluxen, Philosopbische Ethik bei Thomas von Aquin, Mainz 1964, 218ss.

22 0. Lottin («La Ioi en général. La définition thomiste et ses antécédents: Psychologie et morale aux XIIe et XIIIe siècles», Tome II-I: «Problèmes de morale», Louvain-Gembloux 1948, 16-19) riassume il processo di sintesi compiuto da S. Tornmaso circa la definizione di legge, come segue: «Dans les Pandectes et chez Isidore, il a vu définies et la cause efficiente de la loi: les représentants de la communauté, et sa cause finale, que saint Thomas résume d’un mot: le bíen commun. Dans Gratien, il a trouvé l’élément de promulgation. Quant à l’élément principal, ‘ordinatio rationis’, il l’a rencontré dans les spéculations de saint Augustín sur la loi éternelle et les analyses d’Aristote relatives à la loi civile».

23   Cfr. per es. G. Fassò, Storia della Filosofia del Diritto, I: Antichità e Medio Evo, Bologna 1966, 251, 287-297; W. Kluxen, op. cit., 230ss.

24  Cfr. G. Fassò, op. cit., 241-254.

25   fr. A. Stiegler, Der kirchliche Rechtsbegriff. Elemente und Phasen seiner Erkenntnisgeschichte, München-Zürich 1958, 31ss., 79ss.

26  fr. per es. 0. Schilling, Naturrecht und Staat in der Lehre der alten Kirche, Paderborn 1914, 41ss.

27  Cfr. J. Fuchs, Lex naturae. Zur Theologie des Naturrechts, Düsseldorf 1955, 21ss.

28   Cfr. G. Fassò, op. cit., 172-192.

29  Cfr. per es. 0. Schilling, Staats-und Soziallehre des h1. Augustinus, Freiburg i.Br. 1910, 175ss.; F. Flückiger, Geschichte des Naturrechts, I: Altertum und Frümittelalter, Zollikon-Zürich 1954, 377ss.; A. Stiegler, op. cit., 104ss.

30  Cfr. G. Fassò, op. cit., 193ss.

31  Cfr. A. Wenger, «Über positives göttliches Recht und natürliches göttliches Recht bei Gratian», Studia Gratiana, I, Bononiensis 1953, 515; 0. Lottin, Le droit naturel chez Saint Thomas et ses prédécesseurs, Bruges 1931, 100ss.

32  Un esempio di questa sovrapposizione – che però incomincia a diventare critica perché obbedisce a delle priorità – quello di S. Bonaventura che dando tre defìnizioni del diritto naturale: «quod in lege et evangelio continetur» (Graziano); «quod est commune omnium nationum» (Isidoro); «quod natura docuit omnia animalia» (Ulpiano), precisa che la prima è «communiter», la seconda «proprie» e la terza «propriissime» (In IV Sent., d. 33, a. 1, q. 1), cfr. 0. Lottin, «La loi naturelle depuis le début du XIIe siècle jusqu’à saint Thomas d’Aquin», Psychologie et Morale, cit., 89-90.

33  Cfr. J. Gaudemet, «Contribución al estudio de la ley en la doctrina canónica del siglo XII», Ius Canonicum 7 (1967) 46ss.; G. Fassò, op. cit., 24Iss.

34  Cfr. J.-M. Aubert, Loi de Dieu, Loi des hommes, Tournai 1964, 71ss.

35  Su tutta la questione cfr. G. Fassò, op. cit., 240ss., 255ss.

36  Cfr.  C. Vagaggini, «Teologia», Nuovo Dizionario di Teologia, cit., 1620ss.

37  Cfr.  U. Kühn, op. cit., 128ss.

38  Su tutta la questione cfr. U. Kühn, op. cit., 140ss.; cfr. però la diversa posizione sostenuta a questo proposito da 0. Lottin (La définition thomiste et ses antécédents, cit., 28ss.; idem, «La Ioi éternelle chez saint Thomas d’Aquin et scs prédécesseurs», Psychologie et morale, cit., 63ss.). Di fronte alla difficoltà posta dall’applicazione dell’analogia nel caso della promulgazione, l’A. preferisce negare che S. Tommaso abbia considerato la promulgazione elemento essenziale della sua definizione di legge. Del resto tutta la tendenza di Lottin è quella di negare l’applicabilità dell’analogia alla definizione tomista di legge. L’analogicità globale del concetto di legge dell’Aqtiinate è invece sostenuta chiaramente dal van Overbeke («La loi naturelle», cit., 52, a. 1): «Saint Thomas n’a nullement l’habitude de proposer une doctrine générale qui ne servirai pas à éclaircir les doctrines spéciales qui s’y rattachent, et nous n’avons, pour notre pars, jamais eu cette impression dans le cas présent».

39   «…promulgatio legis naturae est ex hoc ipso quod Deus eam mentibus hominum inseruit naturaliter conoscendam»: I-II, q. 90, a. 4, ad 1.

40  Cfr.  U. Kühn, op. cit., 141-142.

41  Idem, 157ss.

42   Un rapporto gerarchico più esplicito tra la «lex divina» e quella «aeterna» sarà stabilito da Suarez, che alla trilogia classica tomista «lex aeterna-naturalis-humana» ha sostituito quella che diventerà comune nella teologia e nella canonistica (cfr. per es. CIC can. 27,2; 1509): «Ius divinum, sive naturale sive positivum». La «lex aeterna», che è identica a Dio e regola tutte le sue opere «ad extra» è ancora posta da Suarez al centro della sintesi teologica. Tuttavia l’A. ritiene che pur essendo «ut sic obligativa» la «Iex aeterna» vincola «exterius» solo se promulgata da un’altra legge, cioè dalla «lex divina», da cui derivano come partecipazione a livello soprannaturale il «ius divinum positivum» («partecipatio excellentior») e a livello naturale il «ius divinum naturale», cfr. E. Corecco, «Diritto», Dizionario Teologico Interdisciplinare, cit., 130-131.

43  Cfr.  U. Kühn e le fonti di cui si serve, op. cit., 206ss.

44  «Unde quantum ad hoc, lex nova super veterem addere non debuit circa exteriora agenda. Determinationes praedictorum operum in ordinem ad cultum Dei, pertinent ad praecepta caerimonialia legis; in ordinem vero ad proximum ad iudicialia… Et ídeo, quia istae determinationes non sunt secundum se de necessitate interioris gratiae, in qua lex consistit; idcirco non cadunt sub praecepto novae legis, sed relinquuntur humano arbitrio quaedam quidem quantum ad subditos, quae scilicet pertinent sigillatim ad unum quemque; quaedam vero ad praelatos temporales vel spirituales, quae scilicet pertinent ad utilitatem communem»: I-II, q. 108, a. 2, c.

45  Cfr. Y. Congar, «Ecclesia ab Abel», Abhandlungen über Theologie und Kirche.  Festschrift K. Adam, Düsseldorf 1952, 92; U. Kühn, op. cit., 210.

46  Cfr. E. Corecco, «Teologia del Diritto Canonico», Nuovo Dizionario di Teologia, cit, 1736ss.

47  Cfr.  G. Bof, «Fede», Nuovo Dizionario di Teologia, cit., 524ss.

48  Cfr.  E. Corecco, «Diritto Canonico», Dizionario Enciclopedico di Teologia Morale, cit., 216-218.

49  A dire il vero gli Autori concordano nell’affermare che il CIC ha pochissimi rimandi sicuri al diritto naturale. Quest’ultimo è stato invece ampiamente usato dalla letteratura sia canonistica che morale, soprattutto nei trattati «De Legibus», cfr. Ch.  Munier, «Derecho Natural y Derecho Can6nico», Ius Canonicum 7 (1967) 20-24.

50  In questa direzione si muove per es. anche R. Sobanski, «De Constitutione Ecclesiae et natura iuris in Mysterio Divino intelligendis», Monitor Ecclesiasticus 3-4 (1975) 3-28.

51  Un primo accenno ancora timido in questa direzione è stato fatto da F. X. De Urrutia, «De natura legis ecclesiasticae», Monitor Ecclesiasticus 3-4 (1975) 19-20.

52  Sul problema cfr. per es. S. Bista, «Das Spezificum der kanonischen Norm im Lichte der Communio-Lebensformen» (Atti del III Congreso Internacional de Derecho Canónico, Pamplona 1976).

I. Gli orizzonti culturali

La specificità delle diverse risposte date dalla teologia ortodossa, protestante e cattolica alla questione sulla natura del diritto canonico può essere colta solo tenendo conto delle opzioni culturali di fondo in cui esse, salvando in modo diverso la sostanza di un discorso cristiano, si iscrivono storicamente. Si tratta di quelle opzioni a partire dalle quali l’uomo, da sempre, ha cercato di interpretare il mondo alla ricerca della verità di se stesso e del significato della propria storia. Due sono stati gli sbocchi costanti in qualche modo continuamente ricorrenti pur nella varietà delle forme o dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere “il circolo diabolico delle apparenze cosmiche”, senza indugiarvi “come il serpente che si morde la coda” (von Balthasar). La prima via è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta l’assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del “divino”, concepito come realtà indistinta, omogenea e infinita, trascendente tutto ciò che è umano. Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma tradisce ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo, vivendo un’escatologia senza storia (Evdokimov). La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, in cui esso vive senza prospettiva escatologica. Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in occidente da Marx il quale, proponendo l’idea del progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico. Dal determinismo positivista, proprio a questa dialettica storica, è stato ricavato solo uno spietato pragmatismo che spinge in avanti, superato appena dal principio “speranza” (Bloch), il quale però rinvia ancora, ultimamente, all’escatologia e alla profezia (von Balthasar).
Il cristianesimo preclude con il principio “incarnazione” qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto o verso l’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con le proprie forze, bensì secondo la salvezza del Dio incarnato. Non può consolare nessuno con il rinvio alla contemplazione di un archetipo platonico o la promessa di un domani. Egli sa di dover cambiare il mondo già oggi, accogliendo la grazia come forza che supera la sua forza naturale, dentro una speranza che sta “contro ogni speranza” di questo tempo, perché proviene dalla risurrezione del Cristo e dei morti. Il principio dell’incarnazione deve però essere interpretato con tutto il rigore della tradizione cattolica. Servendosi dello spunto metafisico ilemorfistico aristotelico-tomista, enucleato nel principio universalia in rebus – alternativo a quellouniversalia ante res (Platone) o a quello universalia post res (nominalismo) – in forza del quale la forma si “incarna” nella materia, la teologia cattolica attua con estrema coerenza dottrinale e senza soluzione di continuità metodologica sia il passaggio dalla cristologia calcedonense – comune a tutte le grandi confessioni cristiane – alla chiesa come istituzione, sia quello dalla grazia increata di Dio – che giustifica – alla grazia creata, che santifica. In forza di questa concezione, che ha trovato nella concretezza e nell’equilibrio latino una congenialità culturale, il cristiano è obbligato alla collaborazione da subito ad un’opera di salvezza “in” e “di” questo mondo, vivendo l’escatologia nel presente della storia, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di esaurirla all’interno della storia stessa. Solo evitando evasioni implicite e esplicite di natura monofisitica o nestoriana, è possibile valutare la dimensione istituzionale-giuridica della chiesa come un fatto necessario di incarnazione della forza vincolante formale della parola e del sacramento. Questa dimensione non può essere ridotta ad un sistema di norme giuridiche sempre scavalcabili in nome di un’altra realtà teologica (principio dell’“economia”) e neppure a fenomeno solo sociologico, intrinsecamente non necessario per la salvezza nella fede, ma inevitabile per ferrea necessità storica (“mit eisernder Notwendigkeit”, Sohm).

II. La teologia ortodossa

Varie sono le ragioni storiche per cui l’ortodossia – al di fuori dei vaghi accenni emergenti nel dibattito attorno all’istituto dell’“economia” – non si è mai posta in modo esplicito il problema della fondazione teologica del diritto canonico. In primo luogo bisogna costatare il fatto che il sistema di sovrapposizione “sinfonica” tra stato e chiesa, elaborato da Giustiniano e protrattosi fino al XX sec., non ha mai condotto la chiesa ortodossa a rivendicare un’autonomia giuridica propria. Né l’impero bizantino, né quello ottomano, né lo stato moderno, fino alla seconda guerra mondiale – a differenza di quello illuminista occidentale – hanno mai negato la fondamentale autonomia istituzionale della chiesa, come del resto non l’aveva negata il sistema feudale medioevale. In secondo luogo bisogna tener conto del fatto che la problematica teologica dell’esistenza e della natura del diritto canonico – sollevata dalla riforma protestante e da essa proiettata sulla teologia cattolica – è rimasta fondamentalmente estranea all’ortodossia, sia perché non ha mai ceduto alla tentazione di separare la chiesa visibile da quella invisibile, sia perché, contrariamente a quella latina sempre propensa a chinarsi sulle realtà ecclesiali terrestri, da sempre ha preferito contemplare l’ontologia di quelle celesti.
Comunque non mancano autori moderni orientali ed occidentali come Evdokimov e Heiler che hanno affrontato la problematica della natura teologica del diritto canonico. Il loro discorso, però, marcato in primo luogo dalla preoccupazione di commisurare la tradizione orientale a quella latina, da loro considerata affetta da troppo giuridismo, non raggiunge il livello di analisi culturale e teologica toccato dalla teologia cattolica e protestante. Sono tentativi che possono comunque essere interpretati correttamente solo se si riesce a collocarli all’interno sia del nexus mysteriorum più vasto, proprio del sistema teologico orientale, sia dalla prassi giuridica reale vissuta dalla chiesa ortodossa antica e moderna. Sarebbe evidentemente semplicistico, soprattutto quando la pretesa fosse quella di dare un giudizio di valore, ridurre le diverse esperienze ecclesiali presentando – come hanno fatto alcuni -, la chiesa protestante come chiesa della dottrina, quella cattolica come chiesa del diritto e quella ortodossa come chiesa del culto (Seeberg). Tuttavia è impossibile negare la profonda resistenza della chiesa ortodossa a qualunque tentativo di costringere il mistero della salvezza entro schemi istituzionali e giuridici.

1. Contemplazione della trascendenza
La teologia ortodossa ha portato l’accento sulla trascendenza. In seguito ai contatti con il neo-platonismo nel corso del III sec., ma soprattutto con la ristrutturazione ellenistico-bizantina subita nel medio evo dopo l’incontro coi popoli slavi, il cristianesimo orientale – a differenza di quello occidentale segnato profondamente dalla mentalità sacrale ma concreta dei popoli germanici – ha assunto una profonda valenza mistica. Pur essendo oggi possibile valutare la spiritualità della chiesa ortodossa e specialmente di quella moderna anche prescindendo dal monachesimo, è tuttavia in esso che il genio religioso dell’oriente cristiano è emerso nel modo più paradigmatico. Esso non fu guidato, come nel progetto benedettino, dal desiderio di possedere e dominare la realtà terrestre con il lavoro, ma fu condotto dal desiderio di stabilire anzitutto un rapporto del singolo uomo con Dio (Seeberg). La spiritualità dell’ortodossia culmina infatti in un aristocratismo ispirato ai carismi personali del solitario che rompe con il mondo sociale perché non spera in una sua trasformazione dall’interno attraverso il proprio lavoro, ma solo nella possibilità di una sua trasfigurazione (Clément). Nella sua fuga mundi il monaco ortodosso non si ispira solo all’idea dell’ascesi, tipica della chiesa primitiva, ma anche al dualismo culturale della spiritualità orientale di ispirazione platonica (Louvaris). Nella mistica della theosis o divinizzazione dell’uomo – ultimo termine della purificazione cristiana – la spiritualità ortodossa ha perciò saputo trasfigurare anche l’esperienza contemplativa dei popoli orientali.
A partire da una diversa radice antropologica (Beth) e da un’infrastruttura culturale di reminiscenza platonica, che però non hanno eliminato la sua fondamentale ispirazione paolina (Clément), la teologia ortodossa non segue il tipo di conoscenza concettuale deduttivo proprio dell’occidente, ma quello della conoscenza sapienziale, che invece del desiderio di definire sente il bisogno di non definire (Congar). L’icona non rivendica una consistenza propria, perché non pretende di essere un’incarnazione, ma solo un segno sensibile della trascendenza invisibile. Essa attesta la presenza di Dio nel mondo, rappresentando gli archetipi irrazionali dell’intelligibile senza la pretesa di materializzarli o reificarli. Il rigore dei suoi canoni salvaguarda lo spirituale da ogni obiettivizzazione possibile (Evdokimov).
Così come appare nell’icona, nella quale non si realizza il principio ilemorfistico degli universalia in rebus bensì quello platonico degli universalia anteres, la teologia ortodossa, rifiutando di declinare concettualmente il mistero e preservandolo in tutta la sua forza postulativa, opera il passaggio dal divino all’umano all’interno dell’economia della salvezza su strade ben diverse da quelle della teologia latina. L’ortodossia rifiuta sia la nozione della grazia “soprannaturale creata” che, sfociando in quella della filiazione adottiva di Dio, permette di introdurre nel processo della giustificazione l’idea dell’espiazione meritoria (Evdokimov), sia la nozione scolastica dell’ex opere operato, che a sua volta sfocia nel concetto della “transustanziazione”, accettato solo con molta renitenza dagli orientali (Heiler). A queste dottrine che si reggono sul principio ilemorfistico della causalità efficiente, nelle quali emerge il tentativo puntuale dei latini di applicare in modo rigorosamente deduttivo il principio dell’incarnazione a tutti i settori dell’economia della salvezza, la teologia ortodossa preferisce l’idea della trasmutazione deificante dellatheosis, dove Dio si comunica all’uomo non attraverso la sua “essenza”, nel segno dell’analogiaentis, ma attraverso le sue “energie increate” (palamismo) in una sovrabbondanza di pienezza che essendo personale supera ogni necessità di mediazione creata (Clément).
All’interno di questo orizzonte culturale era inevitabile che la teologia ortodossa, affrontando il problema del diritto canonico, non si lasciasse guidare dall’idea, tipica della teologia latina, di cogliere nella norma giuridica l’incarnarsi della verità dogmatica.

2. Chiesa universale e locale
La medesima reticenza di gusto platonico emerge puntualmente anche a livello ecclesiologico, sia nel modo con cui la teologia ortodossa stabilisce il rapporto tra chiesa universale e locale, sia nel modo in cui concepisce l’autorità all’interno della chiesa stessa. A differenza dell’ecclesiologia vaticana che non ha esitato a definire la chiesa locale anche come “portio Ecclesiae universalis” (LG, 23,2), l’ortodossia evita rigorosamente di considerare la chiesa locale come parte di quella universale (Afanassieff). Preferisce sottolineare che tutte le chiese particolari sono uguali nel manifestare la pienezza di quella universale. Come esiste una consustanzialità degli uomini nella salvezza, esiste una consustanzialità eucaristica delle chiese locali ad immagine della ss. Trinità (Clément). Se è vero che la chiesa locale non realizza quella universale se non vivendo in comunione con tutte le altre (sobornost) e che tutte assieme formano la chiesa universale, è altrettanto vera l’affermazione che la comunione delle chiese tra di loro non crea additivamente una pienezza più grande (Evdokimov).
Malgrado la profonda convergenza sostanziale delle due ecclesiologie non si può non prendere atto che, mentre quella del Vat II afferma con la stessa forza sia il principio che la chiesa universale si realizza in quella particolare, sia quello che essa è costituita dalle chiese particolari “…in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia universalis existit” (LG 23.1), l’ecclesiologia ortodossa tende platonicamente a sottolineare in modo più unilaterale il fatto che la chiesa universale, sempre uguale ed identica a se stessa, sembra assumere la funzione dell’archetipo che si realizza nel particolare, senza essere costituito in quanto tale dalla pluralità delle chiese particolari (“ex quibus”). Per l’ecclesiologia vaticana è essenziale il fatto che la chiesa universale in quanto archetipo risulti ontologicamente costituita dalla pluralità delle chiese particolari. Si tratta di una valenza qualitativa e non additiva (o quantitativa), di natura socio-culturale o geografica, come quella sottintesa nelle concezioni che l’oriente ha spesso avallato dell’ecumene e che l’occidente razionalista e illuminista moderno ha tradotto con la categoria del pluralismo. Dal profilo teologico latino non sarebbe di conseguenza ipotizzabile che una sola ed unica chiesa particolare possa realizzare pienamente la chiesa universale, poiché quest’ultima non è un’idea astratta, ma una realtà ecclesiale concreta non solo storicamente, ma anche ontologicamente risultante dalla comunione di tutte le chiese particolari. Infatti la chiesa di Gerusalemme è esistita solo a livello storico, non teologico, come unica chiesa, particolare e universale nello stesso tempo. Infatti nel “collegio” apostolico, era presente in germe tutta la pluralità delle chiese particolari.
Questa concezione ecclesiologica implica conseguenze precise per la natura della comunione esistente tra le chiese particolari. La communio Ecclesiarum non è solo mistica ma anche strutturale e perciò giuridica. La teologia latina con il suo senso spiccato per l’istituzione ha declinato questo fatto in termini di communio hierarchica. Infatti tutto ciò che è strutturale è giuridicamente vincolante per se stesso. Ne consegue che il concilio ecumenico non può essere considerato, come fa gran parte dell’ortodossia, solo come luogo dove si esercita il mutuo amore (Evdokimov), ma come luogo dove la struttura della chiesa universale – necessariamente risultante dalla pluralità delle chiese particolari – diventa vincolante per se stessa e non invece a partire da un eventuale riconoscimento o recezione posteriore da parte delle chiese autocefale che sarebbero così le sole ad esercitare un’autorità vincolante a livello giuridico. La cattolicità è vista dall’ortodossia come causa esemplare-formale che partecipandosi in modo uguale a tutte le chiese particolari genera l’unità tra di loro (Evdokimov). La chiesa latina, per contro, tende a far dipendere la verità, nella sua autenticità, dall’unità strutturale e giuridica delle chiese tra di loro. Soprattutto nell’ecclesiologia russa – dove riecheggiano strutture di pensiero protestanti – l’infallibilità è considerata in modo unilaterale come appartenente alla chiesa in quanto tale; di conseguenza viene a mancare un criterio assoluto di verità (Bulgakov). Il concilio ecumenico infatti, – come del resto il vescovo di Roma – non è vincolante “ex sese”, ma solo “post factum” (Afanassieff). I decreti del concilio pur essendo ritenuti dalla teologia orientale direttamente ispirati dallo Spirito santo (Karmiris), vincolano immediatamente solo a livello disciplinare, poiché restano sospesi a livello sostanziale fino al momento della recezione da parte di tutta la chiesa. Infatti il concilio ecumenico non è tale perché costituito dai rappresentanti accreditati di tutte le chiese particolari, ma perché rende testimonianza della fede e rivela la verità. Non è infatti l’unità giuridica, determinata a partire dall’autenticità formale con la quale i vescovi sono riuniti in concilio, che garantisce la definizione dogmatica, bensì la verità in se stessa, la quale è fatta emergere continuamente dalla presenza dello Spirito. Questa visione della dinamica delle decisioni conciliari coglie senza dubbio la natura profonda dell’ufficio episcopale che consiste nel rendere testimonianza più che nel decidere volontaristicamente sulla verità; dimentica tuttavia che il valore della testimonianza fatta all’interno della communio hierarchicaemergente dalla successione apostolica, ha forza vincolante giuridica in quanto tale, coma la locutio Dei attestans stessa. Anche senza voler sottolineare la contraddizione nella quale l’ortodossia cade – riconoscendo un rapporto di subordinazione gerarchica tra le chiese particolari all’interno delle grandi realtà ecclesiali autocefale, negando però ogni primato giurisdizionale all’interno della pentarchia patriarcale – si deve costatare che l’immagine della chiesa universale propria dell’ortodossia si traduce nella negazione di un’autorità istituzionale – concilio ecumenico o vescovo di Roma – che all’interno della stessa possa fissare in modo stringente la verità del dogma.
Sarebbe d’altra parte evidentemente scorretto affermare che la teologia ortodossa non riconosce alla chiesa – prolungamento e continuazione dell’incarnazione di Cristo nella storia (Karmiris) – un reale spessore nella mediazione della salvezza. Tuttavia la determinazione con la quale essa afferma che nessuna persona umana può essere considerata capo della chiesa poiché solo Cristo è il capo (Heiler) tradisce la sua reticenza di fronte al fatto istituzionale-giuridico. È sintomatico infatti che nella teologia orientale manchi la distinzione, emersa in occidente soprattutto con la scuola dello ius publicum ecclesiasticum, tra la potestas Ecclesiae propria e quella vicaria, esercitata in nome di Cristo.
A partire dall’affermazione che solo il Cristo è capo della chiesa ogni ipostatizzazione giurisdizionale di tipo monocratico o collegiale diventa impossibile non solo a livello della chiesa universale ma anche particolare. Anche a livello eparchiale è il Cristo che guida la chiesa attraverso il vescovo, che però non esaurisce tutta la pienezza della chiesa, anche se è il membrum praecipuum senza del quale la chiesa non potrebbe esistere, come l’uomo non può esistere senza il respiro e il mondo senza il sole (Confessio Dosithei). Dato che la chiesa universale, in quanto realtà archetipo, non è costituita dall’esistenza delle chiese particolari e dato che non è possibile ipostatizzare nella persona del papa e quindi anche nel vescovo l’autorità della chiesa, diventa inevitabile che il concilio non possa godere di un potere giuridico ex sese ma solo post factum, cioè dopo la recezione fatta dalla chiesa stessa, di cui solo il Cristo è capo.
Da queste premesse risulta che il problema ultimo dell’ortodossia sta nel fatto di non poter accettare che il dogma possa tradursi in termini giuridici allo stesso modo come l’icona nella sua espressività simbolica non può essere tradotta con categorie razionali. La teologia latina invece ha stabilito nel dogma del primato di giurisdizione papale un’identità totale tra verità teologica e verità giuridica: formulazione giuridica e verità teologica sono in esso coessenziali (Congar).

3. Istituto dell’“economia”
L’economia è forse l’istituto nel quale emerge con più chiarezza la diversa concezione che l’oriente ha del diritto. Nella sua accezione più vasta il principio dell’economia ecclesiastica significa trasposizione della pedagogia divina e della metodologia della ìstoria della salvezza nella situazione storica della chiesa. Dio, che vuole rendere perfetto l’uomo nella santità elevandolo alla sua comunione nella theosis, realizza questo progetto nella pazienza, nella misericordia e nel perdono (Meilia). Se questa è la chiara premessa dottrinale alla quale da sempre, in oriente come in occidente, la dottrina e la prassi dell’economia hanno attinto, ispirandosi soprattutto a s. Basilio, sia la prima che la seconda sono rimaste fino ad oggi nella teologia ortodossa imprecise e fluttuanti. Dalla definizione che alcuni teologi moderni fanno dell’economia (p. es. Kotsonis) potrebbe sembrare difficile – malgrado ribadiscano insistentemente la specificità ortodossa dell’istituto – individuare ancora differenze sostanziali con quegli istituti del diritto canonico latino (come la dispensa, l’epicheia, l’aequitas, il privilegio, ecc…), con i quali la più raffinata tecnica giuridica occidentale ha saputo assortire e distinguere, dall’alto medio evo in poi, i diversi elementi giuridici con i quali è possibile tradurre istituzionalmente l’idea dell’economia (Congar). È innegabile che dalle definizioni classiche più correnti date dalla dottrina ortodossa all’istituto dell’economia nel corso dei secoli emerga una profonda disarmonia nel modo di concepire il fenomeno giuridico, rispetto all’occidente. A partire dalla tesi sostenuta con molta categoricità, secondo cui fuori dall’unica chiesa (ortodossa) non esistono sacramenti validi (Dumont), la prassi dell’ortodossia nel riconoscere o negare la validità del battesimo e dell’ordine celebrati nelle chiese eterodosse fu molto incerta e spesso contraddittoria.
Questo fenomeno, oltre che in eventuali motivazioni contingenti di natura politica, ha senza dubbio la sua radice nel fatto che la teologia orientale, contrariamente a quella latina, non è mai riuscita a distinguere con precisione tra ordine e giurisdizione, anche a causa del perdurare del sistema dell’ordinazione relativa. La stessa incertezza sull’invalidità dei sacramenti fu vissuta infatti anche in occidente fino alla seconda metà del XII sec. (Stickler), cioè fino a quando la teologia non è riuscita a distinguere terminologicamente e formalmente nell’unica sacra potestas l’esistenza di due funzioni: quella di ordine, che essendo conferita con il sacramento non può mai andare persa e può quindi essere sempre esercitata validamente, e quella di giurisdizione, che essendo conferita con lamissio canonica – nel sistema dell’ordinazione assoluta – può essere persa.
Del resto nelle dottrine più estreme e contraddittorie sull’economia affiora con sufficiente chiarezza la preoccupazione di spiegare come la chiesa ortodossa abbia potuto accettare o rifiutare la validità dei sacramenti celebrati extra muros in epoche diverse, oppure celebrati nello stesso momento storico in diverse chiese eterodosse.
Secondo Thomson i teologi greci antichi e moderni ritengono possibile che l’economia non solo: 1. può rendere invalido ciò che è valido, ma non può rendere valido ciò che è invalido; oppure, 2. non può né rendere invalido ciò che è valido, né rendere valido ciò che è invalido: ma può addirittura: 3. rendere valido ciò che è invalido, ma non invalido ciò che è valido; oppure: 4. rendere invalido ciò che è valido e valido ciò che è invalido. Evidentemente non è possibile dare un giudizio su queste soluzioni antinomiche senza tener conto del fatto che la teologia orientale non si è mai preoccupata di distinguere tra negozio o fatto giuridico invalido e illecito con determinazione pari e quella latina. La chiesa ortodossa poi pur distinguendosi per “l’acribia” con cui difende la lettera del dogma e per la fedeltà intransigente con cui difende la tradizione, si è sempre distinta per la tolleranza e la libertà lasciata alle opinioni teologiche e per l’elasticità nell’applicazione dell’economia e livello morale e disciplinare-canonico.

4. Dogma e diritto
Questo fenomeno di equilibrio dei contrari sembra essere radicato in una disarticolazione ecclesiologica più profonda. La chiesa ortodossa si impone una grande discrezione quando si tratta di tradurre la verità del dogma in termini concettuali; essa preferisce inabissarsi di fronte al mistero nel silenzio della “apophania” (Evdokimov) considerando il sacramento e la grazia, e per riflesso anche la disciplina canonica, come realtà più immanenti alla chiesa della stessa verità rivelata. I teologi orientali infatti sono unanimi nel riconoscere che la chiesa può esercitare una signoria e un potere di disposizione sui sacramenti e sulla grazia molto più esteso di quanto non lo faccia la teologia latina, la quale riconosce alla chiesa una funzione solo ministeriale (Alivisatos, Congar). Questo presupposto è senza dubbio uno degli elementi che danno una spiegazione della concezione tendenzialmente positivista che l’ortodossia ha del diritto canonico così come è presentata dall’Evdokimov e confermata dall’Heiler. È sintomatico che il discorso dei teologi orientali sul diritto canonico non abbia come termine di riferimento il sistema giuridico in quanto tale, ma i canoni, cioè le singole norme positive, trascurando di distinguere lo “ius” dalla “lex”. Questo empirismo facilita senza dubbio l’affermazione fondamentale – ambigua nella sua perentorietà – secondo la quale i canoni non hanno carattere dogmatico né possono essere eretti a dogma: esiste infatti un’alterità di piani ed una diversità costitutiva tra dogma e diritto che non possono essere confuse (Martini-Ippoliti).
La ragione di questa diversità sta nel fatto che tra dogma e diritto esiste solo un rapporto di “reciprocità funzionale” (Evdokimov). I canoni sarebbero l’espressione esterna e visibile dei dogmi, quasi che la dimensione giuridica esista solo come dimensione esterna della chiesa e non appartenga, al pari del dogma, all’essenza metafisica della ìstoria della salvezza. Conseguentemente quest’ordine esterno è concepito “in funzione dell’insegnamento dogmatico” con il compito di organizzare l’elemento carismatico e “preservarlo da ogni deviazione che possa toccare l’essere immutabile della chiesa”. Si tratta di una reciprocità funzionale che arrischia evidentemente di svuotare l’elemento istituzionale della chiesa dal suo valore soteriologico intrinseco e diretto, degradandolo a elemento puramente formale al servizio di un’altra realtà, quella carismatica, come se questa fosse l’unico elemento sostanziale della costituzione della chiesa.
Queste deduzioni non sono coscientemente enucleate dall’Evdokimov. L’esplicitarle tuttavia chiarisce la mentalità con cui la teologia orientale tende a risolvere il problema del diritto canonico; esso è considerato elemento consecutivo o additivo che non ha nessuna consistenza soteriologica propria perché esiste solo in funzione di un’altra realtà che è l’unica a contare da un punto di vista sostanziale. Il diritto canonico è concepito perciò ultimamente solo come sovrastruttura socio-ecclesiale cioè realtà la cui verità risiede altrove: nel dogma. Una simile concezione può forse essere avallata per il diritto statuale moderno, dove il valore dell’etica, intesa come giustizia superiore, è contrapposto al diritto positivo, considerato come manifestazione meno perfetta della vera giustizia. Nel diritto canonico una simile concezione non è possibile poiché né il dogma né la morale, in quanto capaci di cogliere la verità teologica, sono necessariamente superiori al diritto canonico quasi fossero la sua unica ragione o fonte di esistenza. Il diritto canonico come realtà in cui si istituzionalizza l’esperienza e la tradizione della chiesa – assolutamente irriducibile ad un’esperienza dottrinale – porta in se stesso almeno una parte della verità rivelata, cogliendone il senso con autonomia di mezzi e logica proprie. Non è una sovrastruttura sociologica rispetto alla realtà ecclesiale, perché è un elemento essenziale attraverso il quale si manifesta la chiesa nella forza vincolante della sua realtà totale.
Come è stato giustamente osservato, l’alterità tra i due piani, quello dogmatico e quello giuridico, è stabilita da Evdokimov secondo un modello platonico (Martini-Ippoliti). I dogmi “rappresentano l’immutabile della rivelazione, i canoni ciò che è mobile nelle forme storiche” Proprio perché la teologia orientale è cosciente, come quella cattolica e protestante della storicità delle formulazioni dogmatiche (Clément), l’uso del modello platonico mette a nudo il positivismo tendenzialmente dualista con il quale l’oriente affronta l’esperienza giuridica e di cui l’istituto dell’economia ecclesiastica è la manifestazione più caratteristica (Dumont). Se si prescinde dai tentativi più recenti, in cui l’economia è ormai descritta – probabilmente con la preoccupazione di stabilire delle convergenze – secondo un modello simile a quello della dispensa latina, appare evidente che in essa emerge in modo analogo il distacco o la noncuranza per le realtà ecclesiali, con i quali la chiesa ortodossa guarda alle realtà terrene mondane. Il suo “sì” al cosmo è infatti solo relativo, perché lo considera paolinamente effimero e teatro di un’esistenza solo provvisoria (Louvaris). Non è necessario condividere le gravi accuse di quietismo fatte alla chiesa ortodossa, specialmente a cavallo di questo secolo, sia da parte protestante che cattolica, per poter legittimamente costatare che nella sua tendenza e nella sua intenzione più profonda l’ortodossia non si orienta certo verso l’impegno socio-politico della chiesa nel mondo (ìPolitica), anche se afferma che il mondo deve essere eticamente assunto in modo serio in quanto strumento creato da Dio per la realizzazione del suo regno (Louvaris). Anche la generosità di una proposta politica come quella di Feodero, enucleatasi nello slogan “il dogma della trinità è il nostro programma politico”, non riesce a nascondere una certa ingenuità platonica. La tentazione più autenticamente ortodossa, emersa in modo clamoroso nel monachesimo, è senza dubbio quella di abbandonare il mondo alla logica della sua storia (Heiler). Questa tendenza è senza dubbio stata una delle cause che hanno permesso la lunga convivenza della chiesa ortodossa con l’impero e poi con lo stato (Seeberg).
La chiesa ortodossa è protesa essenzialmente nella contemplazione del dogma, riflesso nello splendore simbolico dell’icona e letto attraverso un’ontologia “allegorizzata” (Daniélou) poiché la trascendenza è l’unica vera realtà (Louvaris). Nella concezione ortodossa più genuina la chiesa, in quanto realtà mistica posta totalmente nell’al di là (Seeberg), trascende la sua stessa realtà istituzionale, così che vista dall’esterno può “sorprendere per un certo rilassamento delle forme e può dare l’idea di una certa negligenza del terrestre” (Evdokimov). Non per nulla alla legge dell’ordine è assegnata un’autorità solo condizionata (Zankow). La regola canonica più che strumento attraverso cui si cerca di raggiungere una corrispondenza tra dogma e prassi è considerata solo come modello o “ordinanza terapeutica” (concilio costantinopolitano III) da adattare al destino personale, dunque unico, in un’economia di misericordia (Clément). La pretesa della chiesa latina di voler stabilire con assoluta precisione una corrispondenza estremamente articolata tra la propria coscienza dogmatica e l’ordinamento giuridico deriva dal suo modo diverso di capire il dogma stesso. Il dogma non è tanto un modello da contemplare per raggiungere la trascendenza del Dio trinitario, le cui “energie” possono investire l’uomo direttamente fino a divinizzarlo nella theosis, senza passare attraverso la grazia creata. Esso è piuttosto una realtà categoriale che ha in se stessa una forza vincolante formale che, secondo la dinamica propria dell’incarnazione ilemorfistica, si declina necessariamente nel fatto giuridico. Secondo la concezione della teologia latina il valore giuridico formale della legge canonica non si esaurisce nella giuridicità tipica del diritto statuale che comunque non potrebbe avere la pretesa di essere monisticamente l’unico modello della realtà giuridica. La giuridicità del diritto canonico è della stessa natura di quella della locutio Dei attestans, la quale si manifesta attraverso le modalità particolari del sacramento e della parola, cioè del diritto divino positivo di cui il diritto canonico è, senza soluzione di continuità metafisica, la declinazione storica (ìOrtodossia).
Un esempio paradigmatico della diversità con la quale la tradizione orientale e quella latina valutano il rapporto tra il dogma e il diritto è quello dell’indissolubilità del ìmatrimonio. Mentre la chiesa latina ha dato per scontato l’indissolubilità anche a livello giuridico – ritenendo la forza vincolante del valore teologico-morale inscindibile da quello giuridico istituzionale -, la chiesa ortodossa, pur proclamando con assoluta persuasione dogmatica la struttura indissolubile del matrimonio, non ha mai considerato necessario tradurla con la stessa consequenzialità sul piano giuridico. L’ortodossia applica il principio dell’economia, che dal profilo formale è retta dal criterio dell’equilibrio. Questo tende a garantire la proporzione tra l’elemento celeste e terrestre, tra la trascendenza e l’immanenza (Louvaris), fino a cauzionare la sacramentalità del matrimonio successivo al divorzio (Meilia). Lo stesso dualismo, implicito nella liberalità con la quale la chiesa ortodossa malgrado l’“acribia” dogmatica accetta il pluralismo quasi ad oltranza delle opinioni teologiche, emerge perciò anche nella pratica dell’economia a livello etico e disciplinare giuridico. Se da una parte è vero che il secondo matrimonio è concesso per economia non in forza di un atto amministrativo – come nella dispensa latina – ma a partire da una legge generale sul matrimonio (Lhuillet), così da poter sfuggire al pericolo dell’empiria dall’altra è evidente che la legge sul divorzio rivela in se stessa la dinamica propria all’economia. Questa procedura che passa attraverso la mediazione legislativa rende tanto più evidente l’estrinsecismo e perciò ultimamente il positivismo con il quale l’ortodossia si pone di fronte al fenomeno giuridico. Poiché l’equilibrio tra l’elemento celeste e quello terrestre tende a prescindere da un’incarnazione conseguente del primo nel secondo, esso lascia a quest’ultimo un’autonomia propria. Questo fenomeno, quando non è il frutto di un sotterraneo pessimismo rispetto al valore etico delle realtà ecclesiali terrestri, è il risultato di un malcelato razionalismo che, concedendo a queste ultime una valenza umana autonoma, sfocia in una dinamica dualistica. Secondo la teologia ortodossa per salvare l’”acribia” è sufficiente che nell’uso dell’economia il valore assoluto del dogma non venga messo in discussione: esso deve rimanere l’archetipo verso il quale tutti possano orientarsi. Ciò tuttavia non è ultimamente possibile se non in forza di una astrazione di reminiscenza platonica, la stessa che nella chiesa latina, a partire dalla riforma protestante fino ad oggi, ha fatto riemergere la tesi (implicita a tutti i movimenti spiritualistici dell’antichità e del medio evo), della superiorità dell’amore sul diritto e del carisma (ìCarismi) sulla legge. Il genio della chiesa occidentale – più pedagogico e moralizzante che mistico – ha invece sempre cercato di declinare il valore vincolante della verità dogmatica nella concretezza operativa della norma giuridica, incarnando nel suo ordinamento giuridico tutta la potenziale carica morale-operativa della verità teologica.

III. La teologia protestante

La concezione mondano-positivista del diritto canonico che il protestantesimo ha conservato fino ad oggi, malgrado gli intensi sforzi teologici compiuti in questi ultimi decenni, si muove, come risultante paradossale dell’escatologismo predestinazionista già presente nel tardo medio evo, nella linea del messianismo giudaico-occidentale. L’incapacità ultima della teologia protestante di riconoscere al diritto canonico – ritenuto comunque prassi umana ineluttabile – qualsiasi valenza salvifica, ha la sua profonda radice nella contrapposizione che Lutero ha stabilito a livello soteriologico tra “legge e vangelo”. Questa contrapposizione si è declinata a livello di storia della salvezza nella visione cosmica dei due regni e, a quello ecclesiologico, nell’insanabile dualismo tra chiesa abscondita e universale o visibile. Se la “iper-escatologia” protestante (Evdokimov), immanente alla distinzione tra “legge e vangelo”, sfocia per la legge dei contrari a livello filosofico-culturale nella legittimazione di una prassi storica priva di dimensione escatologica, essa cade all’interno dell’esperienza ecclesiale nella tentazione difficilmente superabile di una visione di chiesaabscondita così spiritualizzata da trascendere la storia di quella visibile e sociologica, senza la possibilità di stabilire un rapporto intrinseco tra le due realtà. D’altra parte la priorità logica goduta – nell’impianto teologico della riforma – dalla dottrina cosmica dei due regni rispetto a quella delle due chiese, spiega perché il protestantesimo, fino ai tempi più recenti, si sia chinato di preferenza, contrariamente alla tradizione cattolica, sulla teologia del diritto anziché su quella del diritto canonico.

1. “Legge e vangelo”
Lutero ha notoriamente ravvisato nella tematica “legge e vangelo” il punto centrale del mistero della salvezza (Joest). Rielaborando il tema neotestamentario, che nella teologia paolina era emerso nella provocazione dialettica del binomio “legge e Cristo”, la tradizione cattolica aveva dato la preferenza alla formula “legge e grazia”, più connaturale alle inclinazioni profonde della teologia latina. La preoccupazione dominante della teologia agostiniano-tomista è stata soprattutto quella di stabilire sia l’unità tra due elementi che la continuità dei contenuti tra la legge antica e quella nuova. La legge antica non si contrappone a quella nuova poiché i suoi contenuti essenziali rimangono anche sotto il regime della grazia. La legge nuova, per contro, si diversifica da quella antica perché non è più extrinsecus posita, cioè imposta come intimidazione all’uomo peccatore, ma intrinsecus data contemporaneamente alla ìgrazia che infonde la forza per adempierla nella gioia e nella libertà dell’amore. S. Tommaso, tenendo conto dei testi paolini che più tardi saranno lasciati in ombra da Lutero, stabilisce addirittura un’identità tra la legge e il vangelo, usando la formula sintetica della nova lex evangelii: “Lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus sancti, quae (qui) datur Christi fidelibus” (S. Th. I-II, q. 106, a. 1). La grazia è comunque legge solo in senso analogico perché l’essenza della nuova legge non sta più formalmente nel carattere legale, ma nel fatto di essere donata come grazia, allo stesso modo della fede e dello Spirito santo. Nel definire Cristo come grazia la teologia cattolica ha inteso sottolineare il fatto che il processo della giustificazione trasforma interiormente l’uomo. La grazia è concepita come realtà ontologica comunicata all’uomo per donargli la forza di adempiere la nuova legge, senza abolire quella antica. Essa segna una progressione dall’imperfetto al perfetto, dalla legge naturale a quella soprannaturale.
Nel definire Cristo come vangelo Lutero, che si muove dentro l’orizzonte nominalista e volontarista del tardo medio evo, ha voluto invece sottolineare con forza la non imputatio del peccato. La grazia è solo una presenza estrinseca, anche se salvifica, di Cristo nell’uomo. Sostituendo il binomio “legge e grazia” con “legge e vangelo” Lutero, per il quale la “suprema arte della cristianità” consisteva nel saper distinguere tra i due elementi, ha voluto dar corpo a una duplice protesta: quella contro la chiesa di Roma, per aver questa sepolto la parola e la legge di Dio sotto la parola e il diritto della chiesa, e quella contro la teologia scolastica, per aver questa sostituito l’idea della giustificazione in forza della sola giustizia di Dio con una giustificazione in virtù anche delle opere meritorie compiute sotto la legge con l’aiuto della grazia creata santificante. Lutero non ammette che l’economia della sola gratia possa essere snaturata a sistema religioso fondato ancora sulla legge, dove le opere della legge naturale, anche se compiute con l’aiuto della grazia, sono richieste per la giustificazione. Le opere della legge naturale non sono buone in se stesse: esse sono buone solo in quanto compiute in obbedienze a Dio che ci ha salvati; quindi non trasformano interiormente l’uomo, ma servono solo a rendere palese agli altri il miracolo della remissione dei peccati da parte di Dio.
Nel solco di Lutero la teologia protestante ha distinto tre usi della legge: l’usus politicus, in cui per volere di Dio la legge è imposta dal principe per impedire che l’umanità si corrompa ulteriormente, degenerando nel caos; l’usus theologicus, seu spiritualis (o elenchthicus), in cui la legge tocca interiormente l’uomo più profondamente che nell’usus politicus e lo convince del proprio peccato. Per Lutero questo è l’usus praecipuus legis perché, in considerazione del fatto che l’uomo rimane sempre peccatore, la legge è essenzialmenteaccusans (Ernst Wolf). Il tertius usus, seu in renatis (o paraeneticus), ritenuto da Calvino usus praecipuus, è quello in cui la legge, grazie alla presenza e all’aiuto di Cristo, provoca il credente a una vita nuova dandogli indicazioni per la salvezza. Lutero ha evitato di parlare di questo tertius ususpoiché riteneva che la giustificazione in forza del vangelo è già per se stessa radice di vita nuova; dove Cristo è presente nasce sempre una novità di vita.
La disputa sorta nella metà del XVI sec. attorno altertius usus – che implica una concezione molto vicina a quella cattolica della gratia elevans – ha spinto gli epigoni di Lutero a radicalizzare le posizioni, separando il processo della giustificazione da quello della santificazione. Mentre Melantone tendeva a ridurre la giustificazione ad una semplice amnistia con cui Dio considera il peccatore come se fosse giusto, Amsdorff sosteneva che per la santificazione del credente le buone opere sono nocive; Major per contro le affermava come necessarie. Di fronte a queste contraddizioni alcuni autori (Poach e Otho) sostennero che, dal momento che le buone opere nascono spontaneamente dalla fede, la legge – perciò il diritto – è addirittura superflua (antinomismo). La formulaconcordiae (1580) che ha posto fine alla controversia, gettando le basi dottrinali dell’ortodossia protestante (Lau), si è riavvicinata alle posizioni iniziali di Lutero. Questi, affermando che le buone opere compiute sotto la legge sono solo il frutto dell’accettazione del vangelo nella fede, ha dato però esca alla dottrina secondo cui le opere della legge non sono necessarie per la salvezza, neppure come conditio a posteriori.
A partire da questo momento il tema della legge scivola progressivamente verso la teologia morale e l’etica naturale. Già Melantone aveva riscoperto il valore della legge naturale, ricuperando in parte la tradizione aristotelica. Il fatto che tutti i popoli in tutti i tempi avessero conosciuto la legge naturale è per lui la prova che la ragione umana, benché offuscata dopo la colpa originale, non si è totalmente corrotta. Di conseguenza esiste tra i due regni un rapporto positivo intrinseco – non solo estrinseco, come aveva creduto Lutero – che permette di stabilire un ponte tra la legge di Dio e quella naturale.
La scuola razionalista del diritto naturale moderno, impostasi nel corso del XVII sec. con Grotius e Pufendorf, ha ripreso questo filone dottrinale. Esso, pur veicolando molti contenuti sostanziali della teologia scolastica, ha avuto come esito, con Christian Thomasius († 1728), oltre che di isolare culturalmente l’ortodossia luterana e calvinista, di riconoscere la ragione come unica fonte del diritto naturale e di negare l’esistenza di ogni forma di diritto divino. Era inevitabile perciò che il problema del valore della legge venisse eliminato dal contesto soteriologico della giustificazione e della cristologia per cadere nelle mani della filosofia e del diritto (Iwand). Non meraviglia perciò il fatto che la tematica teologica “legge e vangelo” – venuta alla ribalta così clamorosamente con la riforma – non abbia più trovato udienza nelle grandi opere teologiche del XIX sec., come quelle dello Schleiermacher, del Ritschl e dell’Harnack.
Ciò non è avvenuto evidentemente senza un preciso nesso con la radicale svolta subita nello stesso periodo dell’ìescatologia sia nella teologia che nel pensiero filosofico-sociale di estrazione protestante.
L’escatologia di Lutero, drammaticamente presente nella sua dottrina del simul iustus et peccator(Prenter), era la conseguenza diretta della contrapposizione posta tra “legge e vangelo”. Attraverso la mediazione sia della tesi dell’irreparabile corruzione della natura umana e del regno della mano sinistra e di riflesso del diritto umano o statale, sia di quella della totale alterità della chiesa abscondita rispetto a quella visibile e quindi dell’irrilevanza soteriologica del diritto canonico, Lutero ha avallato una concezione profondamente pessimista non solo del mondo ma anche della chiesa visibile, avendola privata della consistenza intrinseca necessaria per poter essere ancora il luogo della verifica storica della fede. Ciò ha posto le premesse per il progressivo scivolamento del protestantesimo più culturalizzato verso una concezione della storia priva di escatologia.
Infatti l’escatologia rimase appannaggio o dell’ortodossia oppure, soprattutto nelle sue espressioni chilianiste-apocalittiche, del pietismo e dei movimenti ecclesiali di fronda staccatisi dalle chiese nazionali ufficiali e sgretolatisi in tutto il mondo in sètte e chiese libere. La teologia dominante, invece, entrata in contatto con il razionalismo illuminista e liberale, ha spiritualizzato così radicalmente l’escatologia fino a privarla di ogni incidenza non solo culturale, come in larghi strati del pietismo, ma anche teologica. Ciò ha permesso al cosiddetto protestantesimo culturale, incline all’evoluzionismo darwinista e a un socialismo cristiano (Prenter), e rappresentato dai teologi e pensatori più illustri del secolo scorso, come il Weiss, l’Albrecht e il Sohm (oltre quelli citati sopra), di sostituire all’escatologia la storia, identificando il regno di Dio con il progresso religioso -culturale-politico e sociale immanente al destino del mondo (Philipp).

2. La dottrina dei “due regni”
Il medio evo, in continuità con la dottrina gelasiana dei“due poteri” (ìAutorità e potere, ìPapa), aveva elaborato un sistema unitario con il quale spiegare l’ordine del mondo. Per la comunità dei cristiani Dio ha istituito un unico regno spirituale-temporale, la “repubblica cristiana”, all’interno del quale esistono due strutture diverse, ma reciprocamente ordinate. La gerarchia ecclesiale, culminante nel romano pontefice – capo supremo della chiesa universale – guida la cristianità nell’ambito spirituale, mentre la gerarchia temporale, rappresentata dall’imperatore del sacrum romanum imperium, la guida nell’ambito secolare. A questo sistema teologico-politico, la cui unitarietà è garantita dalla superiorità almeno spirituale se non necessariamente giurisdizionale (Gregorio VII) dell’altare sul trono, corrisponde una concezione unitaria anche del diritto. Fondamento ultimo di ogni forma di diritto è lo ius divinum. Nell’opzione intellettualista del sistema, domina laratio divina che dà origine alla lex aeterna, dalla quale la ratio humana declina i principi fondamentali del diritto naturale. Nell’opzione volontaristica, che privilegia l’idea biblica dell’immediatezza divina nella produzione del diritto, domina invece la voluntas Dei, fonte immediata del diritto naturale. In tutte e due le opzioni – che hanno trovato il loro equilibrio nel realismo tomista – la dipendenza della lex humana da quella naturale e di quest’ultima da quella divina permette di ricondurre tutta la giustizia umana una unica fonte, quella del diritto divino. Loius humanum è una derivazione, attraverso la mediazione di quello naturale, dallo ius divinum ed è perciò valido solo se è “consonum primis principiis” (Stiegler).
Al posto di questo ordine Lutero, ispirandosi alla distinzione agostiniana tra la civitas Dei e la civitas terrena e subendo l’influsso del nominalismo volontarista soprattutto di Gabriel Biel, ne ha introdotto un altro, capovolgendo il sistema. L’ordine della salvezza è costituito da due regni: quello spirituale, governato da Dio con la mano destra – nel quale sta il cristiano credente – è fondato sulla fede e guidato dalla carità; quello temporale, governato da Dio con la mano sinistra e nel quale vive il non credente, è retto dalla ragione totaliter deleta e dominato dal potere umano. Tra il regno della mano destra o corpus Christi mysticum e il regno della mano sinistra o corpus babilonicum, creato da Dio nella sua ira misericordiae dopo la caduta originale per impedire all’umanità di degradarsi nel “caos” totale, c’è un abisso insormontabile.
Questo dualismo è superato in extremis nell’unità della volontà di Dio che ha voluto tutti e due i regni così che essi non esistono semplicemente come due realtà eterogenee, anche se il rapporto tra di loro non è più intrinseco ma solo estrinseco (volontarismo). Dio governa il mondo con la parola che però non è più il verbum Dei, ad nos del medio evo, ma un verbum Dei in nobis (soggettivismo). Quella parte dell’umanità che l’ascolta spiritualiterriceve in dono la giustizia di Dio: si tratta degli iniusti iustificati. Gli altri, che l’ascoltano solo carnaliter, si allontanano da Dio cadendo nella perdizione: sono gliiniusti non iustificati.
A questo dualismo corrisponde anche una concezione dualistica del diritto. Nel regno di Dio vige la lex charitatis, seu spiritualis, o lex Christi, ch’è indirizzata all’homo interior ed è percettibile solo con l’intellectus fidei. Questa lex fidei, totalmente spirituale, esige una conversione solo interiore, di cui il comportamento esterno è semplicemente la derivazione spontanea (libertà cristiana). Nel regno degli increduli o regnum diaboli invece la lex Christinon è più capita. Di conseguenza il diritto prodotto dallo stato, non essendo più radicato nell’amore ma fondato sulla legge e sul potere, è rivolto all’homoexterior ed esige solo un comportamento esteriore. Esso in quanto diritto è solo un’umbra ingannevole di quello divino; è quindi irrimediabilmente incapace di vincere l’egoismo umano perché invece di donare il perdono minaccia la vendetta e commina la pena fino alla pena di morte.
Contrariamente al medio evo, Lutero parla perciò di due diritti naturali, quello spirituale e quello secolare. Mentre per s. Tommaso la legge naturale risulta dai principi che la ragione umana riesce a leggere nellalex divina – piano eterno preesistente nella ratio Dei– per Lutero non esiste più una participatio legisaeternae nella ragione umana. La legge naturale divina è solo una volontà giuridica di Dio che comanda e giudica alla fine del mondo. Il volontarismo del tardo medio evo si unisce in Lutero con l’escatologismo di tutti i movimenti spiritualisti. Se l’uomo non può più raggiungere Dio con la ragione ma solo nella fede, Dio può invece raggiungere l’uomo con la sua volontà e la sua legge; essa però diventa vincolante solo con l’adesione interiore dell’uomo. Il diritto naturale secolare prodotto dalla ragione è segnato totalmente, anche se voluto da Dio, dalla logica umana e dalla giustizia dell’uomo; la giustizia del decalogo, della lex Moysis non appartiene più per Lutero al diritto divino naturale, essendo solo un’immagine antropomorfica e torbida della giustizia di Dio.
Le moderne interpretazioni di Lutero vanno in due direzioni opposte. Alcuni credono di poter affermare che anche per il riformatore di Wittenberg il diritto naturale secolare e lo stato sono ultimamente sottomessi alla signoria del Cristo (Heckel), altri invece trovano che il suo dualismo tra il regno della mano destra e quello della mano sinistra sia così radicale da escludere che il vangelo possa ancora dare concrete indicazioni per l’ordine giuridico dello stato e della società (Althaus). Qualunque sia la soluzione esatta rimane il fatto che fino nei tempi più recenti la tendenza del luteranesimo fu quella di separare rigorosamente vangelo e diritto, chiesa e stato, così da lasciare allo stato e al diritto secolare un’autonomia illimitata nei confronti del vangelo. Questa profonda “disarmonia” della dottrina di Lutero (Erik Wolf) sarebbe stata all’origine della profonda “demonizzazione” della politica tedesca dal XIX sec. in poi (de Quervain).
L’esito religioso-culturale dei secoli posteriori alla riforma fu comunque caratterizzato da tendenze contrastanti a livello teorico ma, per molti aspetti, paradossalmente convergenti nella prassi di abbandono progressivo del mondo alla logica della propria dinamica di secolarizzazione. Da una parte non sono mancate correnti che all’interno del movimento pietista hanno teorizzato la necessità di ritirarsi dall’impegno politico-mondano per coltivare un’interiorità soggettiva in un’attesa escatologica di natura messianico-chilianista; dall’altra si sono imposti i progetti politici nati dall’incontro del protestantesimo con il razionalismo e l’illuminismo e realizzati dallo stato moderno territoriale e assolutista, dove stato e diritto furono considerati ambiti esclusivi della ragione umana sovrana e immanente. Questi tentativi trovarono un avallo teologico fino alla fine del secolo scorso grazie alla penna di teologi della statura di un Troeltsch e di un Naumann. Essi infatti hanno continuato ad interpretare la dottrina dei due regni nel senso di una totale separazione tra cristianesimo e politica, fino ad affermare che se nel primo vale il discorso della montagna, nel secondo deve dominare il potere del diritto (Schüller).

3. Chiesa invisibile e chiesa visibile

         Parallelamente alla dottrina dei due regni Lutero ha creato anche quella delle due chiese, stabilendo una profonda separazione tra la chiesaabscondita o spiritualis e quella universale che solo la dottrina posteriore ha contrapposto nel binomio chiesa invisibile e chiesa visibile. Prendendo le mosse dalla dottrina della totale corruzione della natura umana e snaturando il concetto di communio spiritualis propria della teologia penitenziale del tardo medio evo, Lutero è arrivato al concetto di ecclesia abscondita, seu spiritualis. Essa è la comunità cui appartengono i giusti, conosciuti solo da Dio, e si distingue nettamente dall’organizzazione esterna e sociologica della cristianità che è la chiese universale o visibile alla quale appartengono tutti i battezzati anche peccatori. La prima è il principio vitale, la seconda il campo d’azione della chiesaspiritualis. Nella prima vige sotto il diritto divino (Ecclesia vivit iure divino). che è un diritto spirituale in rapporto solo con la sfera interiore dell’uomo. La chiesa invisibile non può porre atti giuridici perché non ha un potere proprio e si limita nella penitenza e nella scomunica a promulgare il giudizio di Cristo. È un diritto destinato solo alla chiesa invisibile e sarebbe errato derivarne dei compiti anche per l’organizzazione esterna e giuridica della chiesa universale dove vige solo il diritto umano o canonico, con riferimento esclusivo solo all’uomo esteriore. Poiché il diritto della chiesa visibile regola solo i rapporti tra chiesa e individui e degli individui tra di loro, esso si situa sullo stesso piano del diritto statale.
In linea di massima solo i giusti sono chiamati a creare il diritto canonico che ha carattere giuridico anche se, a differenza di quello statale, non può assumere la normatività propria della legge. Se nella chiesa universale ci fossero solo dei santi, il diritto canonico sarebbe superfluo, non essendo intrinsecamente necessario alla salvezza. La sua giustificazione è solo morale: quella di aiutare i deboli in nome della carità cristiana. La forza vincolante dei precetti della chiesa non proviene dal carattere formale né della legge né dell’autorità in quanto tali ma solo dalla carità. Mentre Hobbes ha potuto dire del diritto statale: “Auctoritas, non veritas facit ius”, per Lutero bisognerebbe dire “Caritas, non auctoritas facit ius” (Heckel). Il fatto che il diritto canonico e sanzionato e controllato dai fedeli credenti che stanno con un piede anche nella chiesa abscondita, salva il principio della libertà evangelica e getta un ponte esterno con il diritto divino che comunque non garantisce più l’unità intrinseca tra le due chiese. Il diritto canonico è perciò sui generis; ha in comune con quello divino della chiesa invisibile il fatto di essere un ordine dell’amore, simile a quello statale perché si riferisce solo all’homo exterior, si distingue infine da tutti e due perché, in quanto legge solo umana, non vincola i credenti in coscienza. Pur riconoscendo la necessità concreta di un diritto canonico, Lutero lo ha separato irreparabilmente da quello divino sottraendolo al contenuto della fede. Il credoecclesiam catholicam vale solo per la ecclesia abscondita.
Se l’iniziativa dell’organizzazione giuridica della chiesa universale spetta agli organi ecclesiastici costituiti, in caso di disordine, ma solo allora, il principe, in quanto membrum praecipuum ecclesiae(Melantone), può intervenire. In realtà già nel 1525 Lutero chiese ai principi di prendere l’organizzazione giuridica della chiesa sotto la loro protezione. Da allora fino alla fine della prima guerra mondiale questa competenza è rimasta in Germania nelle mani dello stato, cosicché il diritto canonico fu sostituito con quello ecclesiastico (Staatskirchenrecht).
Nella dottrina di Lutero la chiesa visibile non si identifica con il regno del mondo o della mano sinistra, perché in essa vivono non solo i credenti, ma anche i cristiani che hanno perso la fede. La chiesa visibile o universale è perciò una realtà che sta tra il regno della mano destra, identico alla chiesa invisibile, e quello della mano sinistra; è uncorpus permixtum. Contrariamente alla chiesa invisibile, che non ha bisogno di nessun diritto umano, quella visibile postula per ragioni empiriche e sociologiche un diritto canonico, il quale, pur conservando in Lutero ma soprattutto in Calvino uno spessore ecclesiale proprio diverso da quello statuale, non ha tuttavia, come del resto la chiesa universale stessa, nessun valore in ordine alla salvezza. Conseguentemente lo stato in quanto tale, in forza della propria autorità, non gode di nessun potere sui credenti se non per il fatto che questi, in nome della carità cristiana, sono tenuti a sottomettersi liberamente al potere del principe e ad assumere uffici secolari anche a costo di dover affrontare i rischi del regnum diaboli. Ne risulta che secondo la dottrina dei due regni l’impegno politico del cristiano non è più un’implicazione strutturale della fede ma solo della carità (Heckel). Ciò spiega come il protestantesimo, in nome di un’escatologia che salva alla fine dei tempi, possa essere caduto facilmente nella tentazione di affrontare il mondo, con un moralismo che ha valorizzato l’etica professionale, ma che spesso ha perso la pretesa di trasformare a partire dalla fede le strutture politiche ed economiche (Weber).
Nel corso dei quattro secoli seguenti la dottrina dei riformatori sul diritto canonico ha subito una profonda trasformazione. Sotto l’influenza della concezione pietistica di Thomasius, che aveva negato l’esistenza di ogni diritto divino, si è arrivati alla seguente formulazione: la chiesa invisibile è priva di ogni diritto divino e umano; quella visibile per contro deve accettare, per necessità di ordine empirico, un diritto umano di estrazione sempre più statuale, dato che lo stato era ormai considerato l’unica fonte del diritto (Ernst Wolf). Sradicato dalius divinum, il diritto umano non può vincolare il cristiano in quanto tale. Nasce perciò l’inevitabile antinomia tra diritto e carità, tra chiesa del diritto e chiesa dell’amore, tra legge e vangelo.
La lontana reminiscenza platonica di questa antinomia non può essere ignorata. A differenze di Aristotele, per il quale l’epicheia – istituto chiave per la comprensione di ogni posizione dottrinale sul diritto (Häring) – rappresenta una correzione positiva del diritto umano, Platone l’ha considerata come una corruzione rispetto all’archetipo della giustizia (Hamel). Passando dal piano metafisico a quello più propriamente teologico, Lutero ha a sua volta considerato ogni forma di diritto umano, canonico e secolare, come un’umbra ingannevole del diritto divino che lo trascende senza possibilità di esercitare un influsso intrinseco sullo stesso, allo stesso modo come la vera chiesa, quella abscondita, trascende la chiesa visibile senza, incarnarsi in essa. La mediazione culturale nominalistica e volontaristica del tardo medio evo (Duns Scotus, Ockham, Biel) ha spinto il protestantesimo ad abbandonare il diritto canonico e quello secolare ad un profondo processo di penetrazione scientifica ma anche di positivizzazione puramente razionale e mondana. Passato nelle mani del potere secolare, il diritto canonico diventa diritto ecclesiastico subendo una profonda metamorfosi interna in seguito all’applicazione rigorosa, soprattutto nel XIX sec., prima del metodo giuridico-pandettistico e poi di quello storico, propri alla scienza giuridica secolare. L’inevitabile ipertrofia subita dal diritto ecclesiastico – proporzionalmente inversa alla sua valenze intrinseca ecclesiale – ha provocato, a livello istituzionale, un progressivo assorbimento giuridico della chiesa nelle strutture statuali fino a trasformarsi in “chiesa di stato” (Staatskirche); a livello scientifico, invece ha avuto come esito quello di eliminare ogni differenza formale tra diritto canonico e statuale.
Contro questa situazione si è elevata la violenta protesta di Rudolph Sohm alla fine del secolo scorso (Rouco Varela). Prendendo lo spunto da due presupposti ideologici diversi ma profondamente radicati nell’animo religioso e volontarista del protestantesimo, cioè quello spiritualista, secondo il quale la chiesa è una realtà puramente carismatica, e quello positivista, secondo cui il diritto è una realtà monistica non esistendo diversità di natura tra il diritto canonico e quello secolare – poiché lo stato è l’unica fonte della norma giuridica (Hegel) -, Sohm ha esplicitato rigorosamente le implicazioni dottrinali contenute nel sistema disarmonico dei due regni, traendone tutte le inesorabili conseguenze. Da una parte ha sostenuto contro Lutero che non esiste diversità tra la chiesa visibile o universale e il regno della mano sinistra, identificando la chiesa sociologica con il mondo; dall’altra ha coerentemente negato che la chiesa potesse accettare non solo un diritto divino, che ormai era già stato eliminato dalla scienza giuridica, ma anche un diritto umano, potendo essere quest’ultimo solo statuale. Con la tesi centrale del suo Kirchenrecht I(1892), secondo cui “la natura del diritto canonico è contraddittoria alla natura della chiesa”, Sohm ha posto per la prima volta nella storia della teologia il problema teologico del diritto canonico in termini così radicali ed espliciti da non più lasciare requie né alla canonistica protestante né a quella cattolica fino ad oggi (Mörsdorf).

4. “Vangelo e legge”

         Il rivolgimento definitivo dell’ordine medioevale in Europa, provocato dalla rivoluzione francese con l’eliminazione delle strutture socio-politiche dell’“ancien régime”, ha fatto crollare strutture ritenute vitali non solo nella chiesa cattolica ma anche in quelle protestanti, mettendole nella necessità di trovare un nuovo punto di partenza storico. Il romanticismo poi ha fatto riscoprire al protestantesimo tedesco, assieme alle proprie origini, anche una propria coscienza ecclesiale. Ciò ha messo a nudo lo scarto creatosi tra le strutture costituzionali e giuridiche imposte dallo stato illuminista e la sostanza teologica della chiesa. I tentativi di restaurazione episcopaliana e sinodale-presbiterale del secolo scorso furono sostenuti da molti giuristi, come lo Stahl e il Puchta e più tardi anche dai maggiori esponenti della scuola storica di Berlino, come il Richter, il Friedberg, l’Hinschius e il Kahl. Essendo rimasti prigionieri a livello scientifico di una concezione monistica del diritto, questi giuristi si limitarono a rivendicare in astratto l’autonomia della chiesa nei confronti dello stato senza pensare di concretizzarla in un’autonomia del diritto canonico rispetto a quello statuale (Rouco Varela).
La radicale rivolta di Sohm a questa situazione ha posto i termini teologici e giuridici ultimi del problema: quello della giustificazione sia teologica che metodologica del diritto canonico. Forse più che da questa provocazione scientifica la necessità di una chiarificazione del problema fu imposta però dallo sviluppo politico avvenuto nel corso dei decenni seguenti nei rapporti tra chiesa e stato. Il principio della separazione tra chiesa e stato, affermato nel segno della rivoluzione liberale dalla Costituzione programmatica di Francoforte (1848) – rapidamente archiviata con il sopravvento della reazione radicale e del Kulturkampf – fu realizzato istituzionalmente solo con la Costituzione di Weimar (1918) e poi da quella di Bonn (1949), il cui articolo 140 ha ribadito sia l’abolizione del sistema della chiesa di stato, sia il diritto delle “società religiose” di ordinarsi e amministrarsi liberamente. Questi principi hanno posto le chiese protestanti nella necessità di promulgare costituzioni proprie, non più fondate sul diritto statuale, ma su quello canonico. Il compito di organizzare giuridicamente la chiesa, passato allo stato con la riforma, è così rientrato dopo quattro secoli nelle competenze della chiesa.
I primi tentativi teorici di ridare una legittimazione teologica al diritto canonico rimasero nel solco della dottrina dei due regni e delle due chiese di Lutero.
Subendo l’influsso culturale e terminologico di Schleiermacher, Günther Holstein ha distinto tra la chiesa dello spirito, corpo di Cristo, e la chiesa del diritto, manifestazione storico-sociale e luogo dell’organizzazione giuridica dei membri della chiesa (Reingrabner). Pur non essendo contraddittorie le due chiese non si identificano, poiché il potere legislativo non appartiene alla chiesa sociologica, come in una democrazia, ma alla chiesa dello spirito. Il diritto canonico è perciò un diritto confessionale e confessante (bekenendes Kirchenrechts), che non può usare gli istituti propri del diritto statuale, comunale o parlamentare, anche se, come ogni altra forma di diritto, esso ha carattere solo umano.
Anche Hans Liermann non è riuscito a superare questa soluzione “additiva” (Dombois), malgrado abbia cercato di disimpegnarsi dal dualismo ecclesiologico di Lutero. Tuttavia, pur avendo abbandonato terminologicamente il binomio chiesa dello spirito e del diritto, affermando che tutta la chiesa appartiene al contenuto della fede, l’ha sostituito distinguendo tra la chiesa come comunità e chiesa come società. Dal profilo formale il diritto canonico non vale per il fatto di essere “legge” ma solo in quanto non è contraddittorio con la natura della chiesa. Se si appoggiasse al diritto statuale non potrebbe garantire né la fedeltà della chiesa al vangelo né la sua indipendenza nei confronti dello stato. Rimane comunque diritto solo umano e sociologico avente come funzione quella di essere al servizio della disciplina esterna della chiesa (Wehrhan).
La disarmonia della dottrina di Lutero secondo cui la chiesa visibile è un corpus permixtum non adeguatamente distinto dal regno della mano sinistra ha impedito a questi autori – a differenza di Sohm che è stato più netto nell’identificare la chiesa visibile con il mondo – di evitare ogni compromesso con il diritto secolare, proprio perché anche quest’ultimo, in quanto diritto del regno della mano sinistra, è voluto da Dio.
Sia l’incoerenza inerente al dualismo di Lutero che l’esperienza nazista che smascherò tutti i pericoli inerenti alle tradizionale unione istituzionale tra chiesa e stato del protestantesimo, hanno indotto Karl Barth ad accantonare questi primi tentativi, del resto falliti, di giustificare teologicamente il diritto canonico, per riproporre ancora una volta come problema centrale non quello della teologia del diritto canonico ma quella del diritto secolare. Nella celebre conferenza tenuta nel 1936 ad Utrecht, Barth cercò di trovare una via d’uscita dal vicolo cieco in cui era approdata la teologia luterana con la tematica “legge e vangelo” invertendo nel binomio “vangelo e legge” i termini della questione. Due anni più tardi egli riprese il tema nel programma “giustificazione e legge”, proponendo una visione non più dualistica ma unitaria del mondo in cui la chiesa e lo stato, con i rispettivi ordinamenti giuridici, venivano collocati all’interno dell’unica realtà esistente, quella salvifica della giustificazione nel Cristo (Schüller).
Barth, che si pone in diretta polemica con lo storicismo e il positivismo giuridico, al cui prestigio il nazismo aveva inferto un durissimo colpo, ha come orizzonte quello della teologia dialettica, dove il problema centrale è quello di stabilire la natura del rapporto Dio-uomo a partire non dalla theologia naturalis, ma dalla costatazione che Dio è Dio in quanto pone l’uomo di fronte ai propri limiti. Per cogliere questa alterità di Dio l’ontologia razionale e il diritto naturale non servono: solo la rivelazione può formulare affermazioni vincolanti. Parallelamente ai concetti biblici di creazione, colpa originale e riconciliazione, la categoria “giustificazione” è quella che esprime meglio la natura del rapporto non solo di Dio con il cristiano ma anche di Dio con l’uomo. La giustificazione avviene attraverso Cristo che oltre ad essere il fondamento ontologico è anche il principio gnoseologico di tutta la realtà creata. Nel solco della tradizione più calvinista che luterana Barth abbandona perciò la dottrina dei due regni e delle due chiese per sostituirla con la visione di un solo ed unico regno di Dio al cui centro sta Cristo e attorno al quale è situata in circoli concentrici tutta la realtà; all’interno la chiesa e all’esterno lo stato. Perciò non esiste più differenza assoluta tra chiesa e stato, né il loro rapporto può essere concepito, nel segno della tradizione cattolica, come se la chiesa fosse fondata sul diritto divino e lo stato su quello naturale. All’anologia entis Barth sostituisce di conseguenza l’analogia fidei. Ciò significa che tutta la realtà – non solo la chiesa, ma anche lo stato e il diritto in quanto regolano i rapporti intersoggettivi degli uomini – può essere capita solo all’interno del rapporto di giustificazione stabilito da Dio con l’uomo. Quest’unica realtà può essere conosciuta solo con la fede e non con la filosofia. Nessuna metafisica umana – quella di Platone come quella di Aristotele o di Hegel – è capace di dire cosa sia lo stato (de Quervain).
In questo radicale pessimismo verso il diritto naturale Barth è stato seguito da Ernst Wolf, il quale aggiunge che la teologia dello stato e del diritto non può appoggiarsi neppure sulla metafisica stoicista congenita al calvinismo, poiché la testimonianza della Scrittura non può essere strumentalizzata per confermare i risultati della conoscenza razionale. Anzi la teologia deve essere prima di tutto critica della filosofia (Schüller).
Recuperando anche a questo livello l’ecclesiologia di Calvino, Barth sposta il discorso dalla chiesa universale a quella locale. La comunità dei cristiani (Christengemeinde), essendo piu vicina a Cristo, è in grado di capire meglio il significato e la natura della comunità politica (Bürgergemeinde), cioè dello stato e del suo ordinamento giuridico. Poiché lo stato ha il compito di garantire un ordine giuridico esterno che renda possibile la predicazione del vangelo, le chiesa non può restare neutrale nei suoi confronti, ma, in via sussidiaria, è investita di una responsabilità politica, cioè di un politischer Gottesdienst.
Nel segno di tutta la tradizione protestante Barth riafferma con rigore che nella chiesa il soggetto primario operante non è la comunità dei cristiani in quanto tale ma Cristo stesso. La comunità non è perciò legge a se stessa e il diritto canonico deve formarsi nell’obbedienza della comunità cristiana a Cristo. Resta comunque un diritto solo umano, perché l’obbedienza della chiesa, anche nel migliore dei casi, è equivoca, imperfetta e provvisoria. Il suo diritto si distingue da quello statuale perché non ha la forza vincolante formale propria della legge, ma solo quella di un ordinamento (Kirchenordnung)continuamente riformabile (ecclesia semper reformonda). Dato che il diritto statuale nasce in una lontananza piu grande da Cristo, esso è ancor meno consistente e profetico. Il diritto ecclesiastico prodotto dallo stato è quindi radicalmente incapace di dare un’organizzazione giuridica adeguata alla chiesa. Comunque, come ogni forma di diritto, anche quello canonico e irreparabilmente umano poiché vale solo per il tempo che separa la chiesa dall’escatologia. Senza affrontare direttamente il problema di sapere se il diritto canonico, dal profilo formale, sia una realtà sostanzialmente diversa da quello statuale, Barth afferma che è un diritto sui generis, essendo essenzialmente un diritto liturgico, soggetto all’indicazione biblica, valido solo come “servizio” alla communio sanctorum e come profezie rispetto a quello statuale.
Oltre che da Ernst Wolf, il programma barthiano “vangelo e legge” è stato ripreso da Jacques Ellul, che introduce una netta distinzione tra diritto naturale e filosofia del diritto. Costatando il fallimento cronico registrato dalla filosofia del diritto in oltre due mila anni di storia, Ellul afferma che la ragione naturale totaliter deleta è incapace di fare affermazioni valide e definitive sul diritto naturale, tanto più che quest’ultimo, come lo stato e la religione, esiste in quanto fenomeno umano prima di ogni tentativo di riflessione teorica. Perciò il compito di dare un giudizio sul valore che la giustizia umana e il diritto naturale hanno davanti a Dio spetta non alla filosofia ma alla teologia. Questo confronto del diritto naturale con la rivelazione di Cristo permette di giungere a una fondazione teologica di qualsiasi forma di diritto sia statuale che canonico. Comunque, al cospetto della giustizia di Dio, la giustizia umana rimane sempre un non-diritto. Solo all’interno della giustificazione, dove l’uomo è simul iustus et peccator, il diritto umano viene rivestito dalla giustizia di Dio con un atto di grazia.
Per superare la contraddizione nella quale sia Barth che Wolf sono caduti, negando da una parte ogni consistenza al diritto naturale ma facendo dall’altra larghe concessioni alla concettualità naturale e all’immanente razionalità del pensiero teologico (Schüller), Ellul cerca di sbarazzarsi da tutti i presupposti di estrazione intellettualistica, facendo una rigorosa opzione nominalista-volontaristica. In particolare egli cerca di eliminare quei presupposti – emersi nella tradizione scolastica con Gabriel Vàzquez e in quella del diritto naturale moderno con Grotius – che avevano permesso di affermare che “etsi non daretur Deus, esset tamen iustitia” (Schüller). La giustizia umana non esiste se non come espressione del giudizio di Dio poiché è giusto solo ciò che sta in consonanza con la volontà di Dio. Essa però non è statica, ma dinamica perché si manifesta nel giudizio attuale e concreto di Dio sulle cose ed è puro atto di grazia (volontarismo dinamico).
Concludendo, si deve prendere atto che Barth, capovolgendo la posizione di Lutero, ha inteso affermare che la legge non sta in contraddizione ma in unità con il vangelo, perché anch’essa è rivelata da Dio in Cristo. Tutt’e due sono espressione della parola di Dio che è grazia. Di conseguenza esiste opposizione solo nel caso di una legge “male intesa”. Di per sé la legge non è se non la forma necessaria del vangelo il cui contenuto è grazia. Sia accentuando l’unità tra “vangelo e legge”, sia facendo rientrare il diritto canonico nei contenuti della fede, Barth ha fatto un grande passo avanti verso la concezione di s. Agostino e s. Tommaso della nova lex evangelii (Söhngen). Tuttavia Barth non è riuscito a ristabilire l’unità tra diritto divino e umano poiché, pur capovolgendo la tematica “legge e vangelo” e abbandonando il dualismo cosmologico ed ecclesiologico di Lutero, ha ultimamente accentuato il dualismo protestante tra natura e soprannatura e tra ragione e fede, di cui la separazione tra il diritto umano e quello divino è solo una conseguenza a livello istituzionale.

5. Cristologia e dottrina trinitaria: nuovi “loci theologici” del diritto canonico?

         Nel tentativo di superare l’aporia in cui era sfociato il programma barthiano “giustificazione e legge”, condannando inesorabilmente il diritto naturale, alcuni giuristi del dopoguerra, intuendo l’impossibilità di elaborare una teologia del diritto sia statuale che canonico a partire dalla sola rivelazione, senza riconoscere nessuna consistenza alla metafisica, hanno cercato nuovi spunti metodologici, lasciando implicite le altre questioni fondamentali tradizionali della teologia protestante. Malgrado rilevanti divergenze sistematico-concettuali, questi autori hanno in comune sia il fatto di affrontare direttamente – in dialettica con Sohm – il problema della teologia del diritto canonico senza passare attraverso la mediazione di quella del diritto, sia di porre metodologicamente il problema del diritto canonico prima o per lo meno contemporaneamente a quello ecclesiologico (Steinmüller).
È sintomatico del disagio provato da Barth il fatto che Johannes Heckel abbia rilanciato come locus theologicus del diritto canonico la dottrina luterana dei due regni che egli intende presentare come fedele interpretazione di Lutero. Tuttavia Heckel non riesce a spiegare in forza di quale principio teologico il diritto divino o lex charitatis – eteronomico rispetto al diritto umano – postuli necessariamente l’esistenza del diritto canonico della chiesa particolare il quale a sua volta è un diritto solo umano (Rouco Varela).
Accanto a questo primo tentativo di strappare – nella linea di Holstein e Liermann – il diritto canonico a una giustificazione puramente sociologica per radicarlo più profondamente nella struttura dell’economia della salvezza, Erick Wolf ha proposto la cristologia come nuovo luogo teologico per una teologia del diritto canonico. La sua cristocrazia si distingue da quella di Barth in quanto accetta come presupposto logico l’apporto della filosofia neo-kantiana e fenomenologico-esistenziale. II diritto divino è essenzielmente strutturato come “signoria fraterna” di Cristo sull’uomo (brüderschaftliche Herrschaft). Declinandosi attraverso l’indicazione biblica come fraternità cristiana, esso determina la natura sia del diritto canonico, che è perciò un diritto del prossimo (Recht des Nächsten), sia della chiesa che è il luogo storico dove si realizza l’esistenza paradossale del cristiano. All’interno di questi limiti formali il diritto canonico rimane però, nei suoi contenuti materiali, diritto puramente umano.
Hans Dombois segue la stessa strada nella convinzione che il fallimento dei tentativi della teologia sia protestante che cattolica, nel risolvere il problema del diritto della chiesa, sia da attribuire all’uso esclusivo di categorie giuridiche astratte (Steinmüller). Egli le sostituisce perciò con concetti antropologici-fenomenologici come quelli di esistenza, persona, struttura, storia, rapporto e relazione. Determinata dal modello delle relazioni trinitari, la persona umana è costituita da quattro rapporti fondamentali: con Dio, l’uomo, la donna e le cose, che a livello istituzionale diventano chiesa, stato, matrimonio e proprietà. L’istituzione nasce da una dinamica fondata sulla traditio e l’acceptatio, che e livello ecclesiologico diventano ordinatio eiurisdictio. L’istituzionalizzazione del rapporto Dio-uomo nella chiesa è il modello di tutti gli altri. La dimensione giuridica di questo rapporto paradigmatico emerge dalle categorie bibliche di estrazione prettamente giuridica, come giustificazione, grazia, testamento, testimonianza e apostolato, con le quali Dio si è espresso. Il fatto che Dio nel suo rapporto con l’uomo scenda a livello della storia è un atto di grazia; il diritto canonico quindi, il cui locus theologicus è la Trinità, è un diritto della grazia (Recht der Gnade). Il punto ecclesiologicamente debole del sistema sta evidentemente nel fatto che Dombois nel solco della tradizione soggettivistica protestante fa dipendere in ultima analisi l’esistenza dell’istituzione “Chiesa” dall’acceptatio da parte dell’uomo. Ne consegue che il diritto canonico ha carattere solo umano ed è ancora una volta giustificato solo a partire dall’antropologia (Rouco Varela).

6. Osservazioni critiche

         Il punto centrale di convergenza della moderna teologia protestante del diritto canonico con quella cattolica è dato dall’affermazione che il diritto canonico è una dimensione della chiesa indissolubilmente legata al dogma. Come realtà ecclesiale appartiene perciò non solo al contenuto della fede – da cui Lutero l’aveva estromesso – ma anche ai contenuti più discussi della teologia moderna. Tuttavia sarebbe una facile tentazione di irenismo ecumenico sottacere le profonde divergenze ancora esistenti.
Il problema del diritto canonico, apertosi con la dottrina di Lutero dei due regni e delle due chiese e con l’opposizione da lui stabilita tra “legge e vangelo”, sfociate nella radicale negazione di Sohm, non ha trovato una soddisfacente risposta neppure con l’inversione della problematica proposta da Barth. Infatti, pur avendo fatto rientrare il diritto secolare e quello canonico nel contenuto della fede, inserendoli come elementi proposti e giudicati dalla rivelazione in Cristo, che è giustificazione egli non è riuscito, a causa della sua avversione al diritto naturale e alla filosofia, a rifare la saldatura tra il diritto divino, naturale e umano, così come era stata garantita da tutto il medio evo. La tesi dell’unicità del regno di Dio centrato attorno al Cristo, non è bastata per eliminare il dualismo tra il diritto divino e quello umano. Quest’ultimo resta, infatti, una realtà solo umana, rispetto alla quale il diritto divino è totalmente trascendente. Di conseguenza il dualismo dal livello ecclesiologico è stato semplicemente spostato a quello del diritto. Neppure i tentativi più recenti di Erick Wolf e Dombois riescono a risolvere il problema. In essi emerge una componente platonica nel fatto che il diritto divino – strutturato come “signoria fraterna” di Cristo o come “relazione trinitaria” – è considerato solo come modello secondo cui il diritto umano deve strutturarsi con l’aiuto esterno dell’indicazione biblica(biblische Weisung), che a partire soprattutto da Calvino ha sostituito nella teologia protestante il principio dell’incarnazione. In sostanza dalla teologia protestante il diritto divino è inteso – da Lutero ai moderni – in un senso così spiritualizzato che non si vede come possa essere vincolante per la chiesa storica. La teologia protestante non riesce a stabilire un rapporto vincolante tra la chiesa e il cristiano ma solo un rapporto diretto tra Dio e la coscienza dell’uomo. Infatti il diritto canonico resta inesorabilmente diritto umano incapace di vincolare la coscienza del cristiano, non da ultimo per il fatto che, non avendo una consistenza naturale, non può avere, in quanto realtà anche antropologica, neppure una consistenza soteriologica. L’antinomia tra “legge e vangelo” priva la legge e il diritto di ogni valenza soteriologica.
Questo atto non è superabile invertendo semplicemente i termini, come ha fatto Barth, e facendo dipendere il valore della legge dal vangelo, se non a condizione di riconoscere una consistenza propria alla natura. Il problema del valore del diritto canonico non è perciò risolvibile se non risolvendo quello del rapporto tra ragione e fede, natura e soprannatura, storia ed escatologia. Anche nella migliore tradizione protestante – quella che ha preso le distanze dal razionalismo liberale del XVIII e XIX sec. che aveva eliminato la dimensione escatologica della storia – persiste una visione dell’escatologia proiettata unilateralmente verso il futuro, la quale ingenera, rispetto al fatto giuridico, un positivismo analogo a quello esistente nell’ortodossia, dove l’escatologia si risolve piuttosto come una fuga verso l’alto e la trascendenza. Tutte e due tendono ad abbandonare la storia alla sua propria logica mondana.
Il problema posto dal protestantesimo è quello di sapere se è possibile fare teologia prescindendo da ogni orizzonte ontologico-filosofico. In particolare, per quanto riguarda il diritto, il problema è quello di sapere se la teologia del diritto debba essere, come pensa Rouco Varela, primariamente teologia del diritto canonico o se invece occorra far dipendere quest’ultima dalla prima.

IV. La teologia cattolica

1. “Legge e grazia”
Anche la risposta della teologia cattolica al problema del diritto canonico dev’essere iscritta all’interno della tematica più ampia della giustificazione, cristallizzatasi con Lutero nel binomio “legge e vangelo” e nella tradizione cattolica con quello “legge e grazia”.
Cosa significa per la teologia cattolica “legge e vangelo”? Gottlieb Söhngen è tra i rarissimi autori cattolici che abbiano affrontato il tema analiticamente e in dialettica con il protestantesimo. Secondo il teologo tedesco la prima costatazione che si impone è che anche per la teologia cattolica la congiunzione “e” non significa “anche”, poiché la natura intrinseca delle due realtà non è identica. L’essenza della legge sta nel suo carattere imperativo, mentre quella del vangelo e della grazia sta in una partecipazione di Dio nel cuore dell’uomo. Perciò non esiste un’analogia nominum per cui si possa dire che la legge è anche vangelo e che il vangelo è anche legge, ma solo un’analogiarelationis (Barth), stabilita dal fatto che l’imperativo della nuova legge – che non è legge solo in forza del suo essere legge – ha come fondamento la grazia e la carità. Tommaso d’Aquino, usando la formula “nova lex evangelii”, con cui ha sintetizzato la tradizione antecedente espressa nel “da quod iubes et iube quod vis” di s. Agostino, ha usato l’analogia in questo senso. Infatti la novità della nuova legge non sta nella maggiore perfezione rispetto a quella antica, ma nel fatto che è data come pienezza della carità: “Lex nova est ipsa gratia (seu ipsa praesentia) Spiritus sancti, quae (qui) datur Christi fidelibus” (S. Th. I-II. q. 106, a. 1). Non esiste perciò analogia nominum neppure tra la legge antica e quella nuova, perché se è vero che Cristo, come afferma il concilio di Trento, non è solo mediatore ma anche legislatore (Sess. IV de iustif., can 31), non lo è nello stesso senso di Mosè. Non si può perciò giustificare l’esistenza del diritto canonico, come ha fatto Lutero, allo stesso modo della legge antica, solo come argine contro la concupiscenza e il peccato. Esso appartiene all’esperienza cristiana positivamente, nel segno della pienezza della carità e della grazia. Vi appartiene perciò allo stesso titolo del dogma, che come abbiamo visto non è una realtà eterogenea rispetto al diritto. Infatti, allo stesso modo che la salvezza non proviene dalla forza formale imperativa dell’ordinamento giuridico della chiesa, essa non proviene neppure da quella pedagogica dei dogma, ma esclusivamente dalla grazia. La grazia comprende quindi la legge e non viceversa, poiché l’adempimento della legge non è causa efficiente della grazia. Anche la canonistica medioevale aveva colto con precisione il fatto che la grazia trascende la legge quando osava identificare l’aequitas canonica con Dio stesso: “Nihil aliud est aequitas canonica quam Deus” (Glossa bolognese). Infatti la natura dell’aequitas canonica è profondamente diversa da quella “romana”, poiché non rimanda solo alle norme contenute nel diritto positivo ma anche ad altri principi, cioè a Dio stesso, al vangelo (Fedele).
Se è vero che il vangelo non è “anche” legge, esso però non esiste neppure “senza” legge. Come già nell’AT, anche la nuova legge non é data senza la promessa della grazia e la grazia non è data senza i precetti di Dio. Nel NT la grazia non può restare senza le opere della carità. Del resto, neppure per Lutero il principio sola fide significa che la fede possa esistere senza le opere. La differenza tra la dottrina dei riformatori e quella cattolica fissata dal Tridentino (cann. 29 e 30) sta nel fatto che per quest’ultima le opere non sono solo una conseguenza necessaria della fede, ma una vera e propria condizione per la salvezza. Nelle due posizioni teologiche esiste perciò un doppio punto di convergenza: che la salvezza è data dalla grazia e che le opere sono necessarie. Per i riformatori le buone opere – che comunque non sono buone perché salvano ma solo perché compiute in obbedienza a Dio – sono necessarie solo come conseguenza. Inoltre esse non sono a vantaggio di chi le compie, ma degli altri che possono vedere il miracolo compiuto da Dio nella salvezza. Per i cattolici invece sono necessarie almeno come condizione a posteriori – anche se possono essere poste dal credente solo in forza della grazia e della fede – affinché la salvezza non si ritorca in dannazione. Ciò significa che Dio non perdona il peccato all’uomo dopo che questi lo ha perdonato agli altri, me è in forza del fatto che Dio gli ha perdonato che l’uomo diventa capace di perdonare e deve farlo (Söhngen).
Questa diversità nel concepire la conditio deriva dal modo diverso di comprendere la grazia. Anche per la dottrina protestante, soprattutto moderna, la grazia non è una semplice non imputatio del peccato, ma una presenza personale esterna di Cristo che, pur lasciando l’uomo interiormente non cambiato (simul iustus et peccator), lo coinvolge e lo fa diventare capace di amare, nel senso che Cristo stesso opera in lui (Pannenberg). Per la teologia cattolica invece le grazia è una realtà soprannaturale reale e infusa nell’uomo come qualità inerente (gratia creata habitualis) che, a differenza con la dottrina ortodossa, non si identifica con Dio(energie). Essa è una forza in base alla quale l’uomo agisce collaborando con Dio (fides charitate formata), meritandosi anche un aumento della stessa. La nozione protestante della non imputatio non nega l’efficacia reale della grazia, ma il fatto che sia in qualche modo causale e che sia una realtà ontologica inerente nell’uomo. L’uomo vi è implicato solo come strumento dell’azione di Dio, non come collaboratore. Del resto la medesima concezione è riscontrabile a livello ecclesiale dove la chiesa non ha una soggettività propria, poiché il solo soggetto operante è Cristo e lo Spirito santo.
Avendo posto la premessa che la grazia non si “incarna” ontologicamente nella natura dell’uomo come gratia creata e che la chiesa abscondita non si compenetra con quella universale o visibile, la teologia protestante si trova nell’impossibilità di stabilire un ponte tra il diritto divino e quello umano. Come le opere sono solo una conseguenza esterna della grazia, così il diritto canonico è solo una conseguenza esterna della chiesa abscondita. Se è necessario, lo è a livello sociologico, non ontologico, per cui, come le opere, non ha in se stesso nessuna valenza salvifica. Parallelamente al sacramento è solo un signum fidei senza essere causa strumentale efficace della grazia. Evidentemente tra diritto e sacramento esiste solo un’analogia che impedisce di applicare al primo il principio dell’ex opere operato.
La tradizione cattolica – che ha trovato nella metafisica ilemorfistica aristotelico-tomista un orizzonte ontologico ed uno strumento logico particolarmente congeniali per conferire una plausibilità razionale al proprio modo di credere il mistero della salvezza – ha declinato, sia pure in modo analogico e differenziato (Congar e Mühlen), il principio “incarnazione”, realizzatosi nella sua pienezza paradigmatica in Cristo, a tutti i livelli dell’economia della·salvezza.·Lo applica perciò rigorosamente, non solo alla grazia (creata), alla chiesa e al sacramento, ma anche al diritto canonico. Il diritto divino non è presente nel diritto canonico solo come orizzonte formale (Rahner), dal quale proviene l’indicazione parenetica, ma anche come substrato ontologico. D’altra parte se tutte le realtà istituzionali in cui si “incarna” la grazia, come la chiesa, il sacramento, il dogma e il diritto, sono solo signa fidei – come s. Tommaso dice dei sacramenti – lo sono però in quanto segni strumentalmente efficaci, sia pure in modo diverso, della grazia, di cui Dio solo dispone.
Grazie a questa consequenzialità nell’applicare il principio “incarnazione”, la tradizione cattolica ha potuto, evidentemente, concepire anche l’escatologia come una realtà non solo presente nella storia ma anche costitutiva della verità ultima della stessa.

2. L’“iter” metodologico
a)
Il dualismo ecclesiologico e giuridico della riforma protestante ha la sua radice nella contrapposizione stabilita da Lutero tra natura e grazia, ragione e fede, storia e escatologia, “legge e vangelo”. La costante specifica della tradizione cattolica sta invece nell’aver salvato, pur nella varietà delle interpretazioni, un’unità di questi elementi che non è solo estrinseca – attraverso la mediazione della volontà di Dio – bensì intrinseca.
Il fatto che la legge sia sempre stata considerata condizione indispensabile per la salvezza spiega perché la chiesa cattolica “non ha mai vissuto da un punto di vista costituzionale su basi giuridiche precarie, (Rouco Varela). Non fa perciò meraviglia che la chiesa cattolica in regime di cristianità e in quello dell’assolutismo statale abbia sempre rivendicato il possesso di una struttura costituzionale e di un ordinamento giuridico propri, radicati nel diritto divino e perciò autonomi di fronte al potere secolare, a dispetto delle sovrapposizioni avvenute. Quando lo stato liberale ottocentesco ha imposto la separazione, il problema per la chiesa cattolica non è stato perciò quello di trovare un nuovo impianto costituzionale che servisse da supporto sociologico per la sua esistenza religiosa, come è avvenuto per la chiesa protestante, ma solo quello di difendere, come nei secoli precedenti, la preesistenza e l’autonomia teologico-istituzionale del proprio ordinamento giuridico. Anche la crisi di antigiuridismo, che ha colto la chiesa moderna, non ha ultimamente messo in discussione l’esistenza dell’istituzione e del diritto, ma ne ha reclamato sia una riformulazione storica che una risignificazione teologica. Ne è prova l’enorme produzione legislativa avvenuta in quest’ultimo decennio nelle chiese particolari, sostenuta attraverso la partecipazione alle moderne istituzioni sinodali-pastorali (ìSinodalità) anche dalla base ecclesiale contestatrice.
Il problema per la teologia cattolica non è perciò quello di produrre la prova teologica del’esistenza del diritto canonico, che in ultima analisi non è neppure dottrinalmente messo in discussione, quanto piuttosto di saper dare una giustificazione teologicamente corretta di una realtà che appartiene già, se non sempre nella prassi, almeno a livello di coscienza teorica, al contenuto della fede. Il problema è perciò quello del metodo. Si tratta, infatti, di giustificare il diritto canonico non più a partire da presupposti giusnaturalistici o sociali ma da uno spunto nettamente teologico. Esso deve sapere individuare con precisione il locus theologicusdel diritto ecclesiale, all’interno del nexus mysteriorum, per eliminare in sede di riflessione esplicita l’affermata esistenza – nel comportamento e nella pubblicistica divulgativa – di un’antinomia tra diritto e libertà, istituzione e carisma, “legge e grazia”.
Bisogna riconoscere che la canonistica e la teologia moderne si sono trovate, salvo qualche eccezione, disarmate di fronte all’urgenza di dare una risposta plausibile alla contestazione ecclesiale. La canonistica soprattutto si è trovata sprovveduta di una nozione teologica unitaria di diritto, capace sia di diventare categoria interpretativa sintetica di tutti gli aspetti con i quali la teologia affronta tradizionalmente il concetto di diritto e di giustizia, sia di stabilire il rapporto esatto tra ìchiesa e diritto in quanto elemento che ne determina il suo essere sacramentale e la sua esistenza di signum elevatum in nationibus. Come fa osservare molto acutamente Rouco Varela, esistono molte varianti più o meno eterogenee dell’idea di diritto nei diversi settori teologici, biblici e storici ma anche sistematici, come in quello della soteriologia dove si parla della giustizia di Dio, della sacramentologia ed ecclesiologia a proposito dell’ordo e delle successione apostolica, e della teologia morale nelle parti dedicate al de lege e al de iustitia et iure. Anzi non mancano neppure tentativi, come in quello della teologia politica, nei quali si tenta di dare implicitamente alla categoria del diritto una funzione ermeneutica centrale per l’impianto di tutta la teologia. La scienza canonistica stessa non dà nessuna definizione teologica del proprio obiectum formale quod. Essa si accontenta di appoggiarsi sulla nozione di diritto soggiacente al CIC e formulata dal Suàrez come sintesi di tutto il pensiero filosofico cristiano precedente (Stiegler).
La canonistica medioevale come quella moderna definisce il diritto con la categoria del iustum o dell’obiectum virtutis iustitiae, ma è evidente che essa, essendo di estrazione filosofica, non è in grado di spiegare la struttura giuridica interna della chiesa, anche se la canonistica ha cercato di stabilire il legame con la sua dimensione soteriologica determinando gli obblighi sub gravi osub levi imposti dal diritto canonico alla coscienza cristiana (Rouco Varela). L’apice di questa operazione è stato raggiunto dal Suàrez, il quale non solo ha stabilito, come il Medina e il Cajetano, che lo stato può obbligare in coscienza a compiere atti esterni, ma che il legislatore ecclesiastico può imporre come obbligo anche quello di compiere atti puramente interni, come quello reperibile nel CIC e ingiunto ai religiosi di tendere alla perfezione (can. 593). Evidentemente ciò non è sufficiente per stabilire un raccordo della filosofia con la teologia, ma solo tra la prima e la morale. Questo equivoco ha creato una confusione tra lo statuto metodologico ed epistemologico del diritto canonico e della morale dalla quale nessuno ha ricavato beneficio.
b) Alla sfida sostanziale e metodologica lanciata nei sec. XVIII e XIX dalla scienza giuridica giusnaturalistica del ius publicum, diventato lo strumento con cui lo stato illuminista e liberale ha imposto l’esclusività della propria sovranità territoriale-giuridica in tutti i settori della vita sociale e ecclesiale, le forze cattoliche hanno risposto creando la nuova scienza del ius publicum ecclesiasticum (De la Hera). La sua novità sta nell’aver elaborato una disciplina giuridica nuova dal profilo metodologico rispetto alla canonistica classica e di aver affrontato per la prima volta, nella parte dedicata al ius publicum internum, il problema della natura del diritto della chiesa, superando così lo status quaestionis medioevale.
La categoria centrale dei trattati del ius publicum ecclesiaticum – quella della societas perfecta – non era in grado di mediare una comprensione teologica del diritto ecclesiale, sia perché è di evidente estrazione giusnaturalistica, sia perché presuppone – come maggiore del sillogismo con cui si conclude all’esistenza del diritto ecclesiale – l’asserto assiomatico “ubi societas ibi et ius”, che oltre ad essere esso stesso di origine giusnaturalista usa lo stesso concetto formale di diritto della tradizione canonistica precedente. L’equivoco metodologico è stato quello di voler trovare confermati nella s. Scrittura i principi base della filosofia dello stato per poterli applicare alla chiesa, servendosi nell’argomentazione di una preconcezione secolare del diritto, estranea ai così detti passi gerarcologicidel NT. Questo equivoco ha tuttavia un nesso preciso con la cultura teologica del tempo, impostata nel XVII e XVIII sec. sulla dimostrazione della corrispondenza della ragione con la rivelazione. Il fatto che il XIX sec. abbia invertito questa problematica per dimostrare la corrispondenza della rivelazione con la ragione, spiega il progresso registrato dal ius publicum ecclesiasticum con la scuola romana del Tarquini e del Cavagnis, i quali hanno epurato le loro opere dagli elementi più vistosi del giusnaturalismo della scuola di Würzburg, cercando una migliore, ma evidentemente ancora artificiosa, fondazione scritturistico-teologica dei loro trattati. Tuttavia la connessione ultima tra chiesa, società perfetta, e diritto ecclesiale è fatta dipendere ultimamente non dalla struttura interna della chiesa in quanto tale, ma volontaristicamente ed estrinsecisticamente dalla volontà di Cristo, il quale avrebbe voluto costituire la chiesa sia come società perfetta sia come società giuridica.
c) Gli stessi limiti metodologici sono riscontrabili, malgrado un primo tentativo di superamento, nella canonistica di Georg Phillips. Nel solco del romanticismo tedesco e della restaurazione politica della prima metà del secolo scorso, il Phillips ha definito la chiesa sostituendo la categoria societas perfecta con quella biblica di regnum: la chiesa è il regno di Cristo sulla terra. Da una preconcezione politico-istituzionale di “regno” il canonista tedesco deduce l’esistenza nella chiesa di un ordinamento giuridico fondato sull’unità del potere ecclesiastico.
d) Più gravi dal profilo teologico sono i limiti della scuola canonistica laica italiana moderna. Il suo tentativo, che condivide l’istanza giuridico-apologetica di fondo del ius publicum ecclesiasticum– quello di dimostrare la validità giuridica dell’ordinamento canonico rispetto a quello statuale – rappresenta un regresso malgrado si tratti di uno degli sforzi più brillanti intrapresi dalla canonistica di tutti i tempi. Appoggiandosi alla soggiacente categoria della societas perfecta essa ha cercato in un certo senso di fondare il diritto canonico a partire dal sistema canonico stesso, senza evidentemente assumere in sede teorica la “dottrina pura del diritto” (Reine Rechtslehre) di un Kelsen. Essa prende infatti come asse portante di tutta l’elaborazione scientifica il concetto di “ordinamento giuridico primario”, apparentemente non derivato da nessun presupposto filosofico previo, ma in realtà preso a prestito, anche se epurato dalle sue implicazioni più compromettenti, dalla pandettistica, nata in Germania nel secolo scorso come frutto del positivismo giuridico e sfociata nella scienza della “teoria generale” del diritto (allgemeine Rechtslehre).Quando però i canonisti italiani si sono trovati a dover rendere conto della natura specifica del diritto canonico rispetto a quello statuale hanno dovuto costatare l’“incapacità epistemologica della loro metodologia” (Rouco Varela). Essi hanno perciò rinviato il problema della fondazione teologica del diritto canonico alla teologia, dichiarandolo di natura para-giuridica (De la Hera). Ciò è emerso in tutta la sua evidenza nella categoria della salus animarum, considerata dalla scuola italiana come fine ultimo dell’ordinamento canonico (Fedele). Anche i correttivi portati dalla scuola stessa (D’Avack) o da quella curiale (Bidagor, Bertrams, Robleda) per superare la valenza palesemente troppo escatologica e individualistica (e perciò estrinsecistica dal profilo giuridico) della salus animarum, sostituendola con il concetto del bonum commune ecclesiae, non hanno risolto il problema. Infatti anche il concetto del bonum commune ecclesiae non è di estrazione teologica ma socio-filosofica.
e) Avendo costatato la radicale incapacità della dottrina dell’“ordinamento giuridico” di risolvere il problema teologico di fondo del diritto canonico, i canonisti della scuola di Navarra – che intendono proseguire il lavoro di elaborazione tecnico-scientifica dei maestri e colleghi italiani riadattando la “teoria generale” soprattutto in sede di diritto costituzionale (Lex fundamentalis)- hanno sentito il bisogno di assicurare nel clima del dopo-concilio una più solida infrastruttura teologica alla scienza canonistica. Non senza un certo parallelismo con la moderna dottrina protestante i canonisti di Navarra hanno cercato il locus theologicus nella cristologia ed ecclesiologia prendendo come categoria centrale quella di “popolo di Dio” (Hervada-Lombardia), oppure nel mistero della Trinità (Viladrich). La radice positivista italiana del nuovo tentativo è tuttavia riemersa nel fatto che i canonisti di Navarra, usando un concetto monistico di diritto, sono costretti ad affermare che dal profilo epistemologico il diritto canonico non è una scienza teologica ma giuridica (Rouco Varela). L’infrastruttura teologica arrischia perciò di rimanere semplicemente un limite formale all’interno del quale la canonistica deve muoversi per non sconfinare in soluzioni tecnico-giuridiche inconciliabili con l’ecclesiologia, senza investire la nozione stessa di diritto canonico. La dipendenza dalla scienza giuridica secolare spiega come Pedro Lombardia possa sostenere che il problema centrale della costituzione della chiesa sia quello di elaborare i diritti fondamentali del cristiano.
f) Benché non manchino autori di validissima tempra (Robleda, Monnet) che affermano il contrario, non ci sembra che il sistema estremamente unitario elaborato da Wilhelm Bertrams superi i limiti metodologici precedenti, sebbene dal profilo dei contenuti abbandoni l’alveo del ius publicum ecclesiasticum e della scuola italiana per affrontare una tematica chiaramente teologica. L’assunto teologico di fondo del sistema sta nella tesi – che vanta del resto una lunga tradizione cattolica – secondo cui la chiesa è una società umana elevata alla sfera soprannaturale (Aymans). Dal profilo ontologico-sistematico , invece, il punto centrale del sistema consiste nella dimostrazione che anche nella chiesa, come in ogni società umana, la struttura metafisica interna non può attuarsi senza la mediazione della struttura socio-giuridica esterna, allo stesso modo che l’anima non può manifestarsi nell’uomo senza la mediazione del corpo (Gundlach). La dimensione giuridica è data perciò dalla struttura esterna della chiesa, imposta dal fatto, universalmente riconosciuto in sede di antropologia filosofica, che la struttura interna dell’uomo tende ad esprimersi in forme sociali. Ne consegue che l’unità tra l’elemento metafisico-sacramentale interno della chiesa e quello esterno è giustificata a partire da un orizzonte filosofico neoscolastico. Il principio giusnaturalista ubi societas ibi et ius riemerge perciò sotto altra veste. Infatti la struttura esterna non pone soltanto le condizioni formali per l’esercizio del diritto – ontologicamente già presente nella struttura interna dell’economia della salvezza e della chiesa – ma lo crea, dandogli un contenuto reale. Secondo il Bertrams infatti i diritti fondamentali, radicati nel battesimo, non solo vengono sospesi nel loro esercizio, ma non esistono neppure quando il cristiano si pone al di fuori dell’ordinamento giuridico esterno previsto dalla chiesa. Malgrado la forte coscienza che il Bertrams ha della natura teologica del diritto canonico, le motivazioni da lui portate per stabilire il legame tra chiesa e diritto restano a un livello di metodologia filosofica, non teologica.
g) La debolezza di una teologia del diritto canonico che ricorre alla filosofia per dare la motivazione razionale ultima della sua esistenza è tanto piu grande se poi ad una necessità di ordine metafisico ne venisse sostituita una di ordine sociologico. Mentre un regresso metodologico di questo tipo non sarebbe più possibile neppure all’interno della teologia protestante moderna, esso sta invece verificandosi in campo cattolico – di pari passo con la contestazione antigiuridica del dopo-concilio – con il programma di “de-teologizzazione” e “de-giuridizzazione” proposto dalla rivista Concilium. Esso è fondato sul principio della “universalità del teologico” e della “relatività del canonico” (Rouco Varela), che secondo Jiménez Urresti trova un riscontro in sede di logica formale nel carattere dottrinale del linguaggio teologico, che tenderebbe a definire e in quello pragmatico del linguaggio giuridico che tenderebbe solo a prescrivere e dare giudizi pratici.
A parte la scorrettezza di quest’ultimo assunto che confonde la scienza giuridica – a livello di “teoria generale” essa tende senza dubbio a definire – con certi aspetti della tecnica legislativa, il sistema, così come è stato ridefinito recentemente da Peter Huizing, è fondato su un ecletticismo dottrinale che lo rende incapace di dare una risposta qualificante alla problematica teologica posta dal fenomeno giuridico ecclesiale. Il diritto canonico – definito con la categoria “servizio” mutuata dalla teologia protestante (Calvino, Barth) – avrebbe secondo l’Huizing come funzione quella di appianare i conflitti sempre emergenti tra la chiesa dell’amore e quella del diritto, tra il carisma e l’istituzione. D’altra parte, la capacità del diritto canonico di impegnare il cristiano in coscienza – senza per altro poterlo costringere malgrado l’istituto della scomunica – non è motivata a partire da una normatività intrinseca alla realtà teologica ma da un moralismo di tipo neo-kantiano slegato dalla metafisica. Infatti la forza vincolante delle norma canonica non sembra essere derivata dalla struttura metafisico-teologica della legge stessa, poiché l’ultima istanza normativa non è neppure costituita dalle chiesa in quanto istituzione, ma dallo Spirito santo cui è trascendentalmente attribuito il compito fondamentale della discretio spirituum. Dal profilo formale alla nozione di diritto canonico non è perciò attribuito carattere giuridico ma solo quello di essere una funzione di “ordine” (Kirchenordnung). La sua esistenza è d’altra parte giustificata sociologicamente e giusnaturalisticamente a partire dalla costatazione della sua imprescindibilità di fatto, poiché una comunità ecclesiale che rifiuta l’“ordine” si espone al rischio dell’autodistruzione.
Il programma di Concilium, senza sostenersi con una teoresi esplicita, riduce tendenzialmente il diritto canonico ad elemento solo estrinseco, postulato da un’esigenza di convivenza socio-ecclesiale e ritenuto incapace di determinare intrinsecamente e strutturalmente l’esistenza cristiana se non al livello solo etico. La disarmonia ideologica e metodologica, in forza della quale ci si limita a costatare empiricamente il dualismo esistente tra l’istituzione e il carisma, senza tentare una risposta, per affidare all’“ordine” ecclesiale il compito estrinseco di risolverne i conflitti è troppo palese per poter sostenere un confronto scientifico in sede teologica.
h) Contemporaneamente ai tentativi del Bertrams, della scuola di Navarra e al programma diConcilium, alcuni teologi e canonisti hanno cercato un altro spunto metodologico proponendo il mistero dell’incarnazione come luogo teologico dal quale dedurre, all’interno di un processo immanente alla gnoseologia teologica, un rapporto intrinseco tra la struttura socio-sacramentale della chiesa e il diritto canonico. Il merito di aver individuato nella cristologia il punto di inserzione del diritto canonico risale, come abbiamo visto, al Phillips, che era stato attratto dal fascino della nuova ecclesiologia dell’università di Tubinga. Mentre però il Phillips si era impossessato solo di un aspetto parziale della stessa – quello della regalità di Cristo – interpretandola con i parametri del diritto pubblico secolare, i maestri di Tubinga (Möhler) tendevano a inquadrare il problema del rapporto Cristo-chiesa-società nella prospettiva totale del mistero di Cristo e della chiesa, considerata come la continuazione nella storia dell’incarnazione del Cristo. Il prevalere sia della preoccupazione storico-sistematica della pandettistica, che in campo canonistico aveva raggiunto un alto livello di elaborazione con l’Hinschius, il Scherer e il Wernz, sia del pragmatismo esegetico-manualistico della canonistica ecclesiastica posteriore alla codificazione, ma soprattutto la crisi modernista che contribuì a mantenere intatto il “prestigio accademico” (Rouco Varela) del ius publicum ecclesiasticum fino al Vat II, hanno impedito non solo alla canonistica ma anche all’ecclesiologia di quest’ultimo secolo di sfruttare il filone teologico di Tubinga, ricuperato solo più tardi dalla Mystici corporis. Autori come il Salaverri – prima del Vat II – lo Stickler e l’Heimerl hanno perciò tentato di collocare nel mistero dell’incarnazione del Figlio di Dio la radice ultima del carattere sociale della chiesa affermando sia che Cristo, incarnandosi, ha assunto e coinvolto la natura umana in tutte le sue dimensioni, compresa quella socio-comunitaria che raggiunge proprio la sua pienezza nella chiesa (Stickler), sia che essa è postulata dal fatto che la chiesa, in quanto momento storico applicativo della salvezza, continua a mediare soteriologicamente l’intervento di Cristo in forza anche della sua imperatività normativa (Heimerl). Questa linea metodologica che tenta di superare l’estrinsecismo di quelle precedenti è stata avallata, sia pure in modo non esplicito e riflesso, dal Vat II. Nella LG (n. 8) e nel decreto OT (n. 16) è stato infatti stabilito un nesso indissolubile tra la dimensione socio-visibile della chiesa – che è la totalità del mistero dell’incarnazione – e l’esistenza della dimensione giuridica. Evidentemente l’assunto dottrinale del magistero, anche se perfettamente valido a livello di contenuto, non è riuscito a rendere plausibile in sede di argomentazione teorica l’esistenza del diritto stesso. In primo luogo il concilio, non avendo ridefinito teologicamente il concetto formale di diritto canonico, è costretto a mutuarlo implicitamente dalla filosofia sociale della chiesa; in secondo luogo, se è vero che il mistero dell’incarnazione postula la visibilità della chiesa, non è altrettanto vero che la visibilità postuli necessariamente la giuridicità, poiché essa potrebbe esprimersi – come ha sostenuto Sohm – anche attraverso una struttura solo carismatica. Ne consegue che la normatività giuridica viene ultimamente postulata dalla struttura sociale della convivenza umana preesistente alla sua assunzione nel mistero dell’incarnazione, per cui la filigrana del pensiero giusnaturalista resta presente in profondità.
i) I termini del problema non cambiano anche se al mistero dell’incarnazione si dovesse sostituire quello della presenza dello Spirito santo nella chiesa, come il magistero stesso ha fatto recentemente (discorso di Paolo VI al secondo Congresso internazionale di diritto canonico del 1973). Infatti, per risolvere il problema non è sufficiente affermare che “tutti gli elementi istituzionali e giuridici” – come del resto anche quelli carismatici – “sono sacri perché vivificati dallo Spirito santo”, né che lo “Spirito e il diritto nella loro stessa fonte formano un’unione”, per cui la “polarità tra l’indole spirituale-soprannaturale e quella istituzionale-giuridica della chiesa, lungi dal diventare fonte di tensione, è sempre orientata verso il bene della chiesa, che è interiormente animata, ed esteriormente suggellata, dallo Spirito santo” (L’Osservatore Romano 1973, n. 213), perché questo discorso presuppone il fatto dell’esistenza del diritto ecclesiale. Il fatto giuridico non può essere direttamente derivato dallo Spirito santo senza la mediazione istituzionale della chiesa. Non si può perciò prescindere dal costatare che in queste due posizioni metodologiche né la dinamica teologica dell’elevazione della chiesa (in quanto società umana) alla sfera soprannaturale – che riemerge tra le righe -, né la soluzione volontaristica secondo la quale sarebbero Cristo e lo Spirito santo a volere direttamente la giuridicità della chiesa, vengono superate.
Evidentemente non sarebbe neppure possibile dimostrare che la dimensione giuridica della chiesa è già presente negli elementi strutturali attraverso i quali Cristo e lo Spirito santo – in obbedienza alle modalità specifiche con le quali il Padre si è manifestato nella storia – sono presenti e vivificano la chiesa, senza doversi domandare perché Dio ha voluto e scelto queste modalità. Il problema perciò si ripropone più a monte, ma viene a coincidere con la questione ultima di ogni sistema teologico al quale alternativamente e da sempre è stata data una risposta realistica oppure volontaristica. Si tratta nella fattispecie di evitare una soluzione volontaristica di comodo, facendo dipendere l’esistenza del diritto nella chiesa – in quanto problema particolare – dalla volontà di Cristo, perché non si riesce ad offrire un’altra risposta organica all’interno di una opzione teologica di fondo.
l) Evitando sia la soluzione volontaristica che giusnaturalistica inerente alle soluzioni cristologiche proposte dalla teologia cattolica moderna, Klaus Mörsdorf ha cercato l’aggancio teologico del diritto ecclesiale negli elementi costitutivi della chiesa stessa, vale a dire nella parola e nel sacramento. Parola e segno simbolico, in quanto elementi primordiali e strutturalmente reciproci di comunicazione umana, sono sempre stati usati dalla cultura mondiale come strumenti atti ad esprimere un’intimazione giuridica. Cristo, ponendosi dentro la dinamica della storia della salvezza in cui Dio si era già manifestato non solo attraverso la parola ma anche attraverso fatti simbolici, ne ha esplicitato tutta la loro forza vincolante imprimendo loro – in forza dell’incarnazione stessa – un valore ultimo, cioè sacramentale nel senso fondamentale della espressione. La parola diventa kerygma e il simbolo segno sacramentale della presenza di Dio. Incarnandosi, Cristo ha dato alla parola e al sacramento – che interpellano l’uomo nel più intimo della sua persona e urgono una risposta – un valore definitivo per l’esistenza umana. Nell’intuizione del Mörsdorf emerge l’elemento chiave di tutta la teologia fondamentale cattolica, quello delle locutio Dei attestans. Contro la dottrina protestante di Sohm, con il quale polemizza direttamente, il Mörsdorf ribadisce la tesi secondo cui la parola e il sacramento non obbligano l’uomo a dare la sua adesione in forza della loro verità intrinseca, soggettivamente percepita, ma per il fatto stesso che Dio ha parlato e si è manifestato. La parola e il sacramento – che perciò hanno forza vincolante formale – generano a partire dalla loro struttura intrinseca una nuova forma di aggregazione sociale destinata in quanto tale ad essere segno della presenza di Dio nel mondo. La chiesa è perciò una comunità kerygmatico-sacramentale che ha globalmente lo stesso valore vincolante della parola e del sacramento da cui è geneticamente costituita. Il principio “incarnazione” trova la sua realizzazione nella chiesa – sia pure senza relazione di identità totale con l’incarnazione di Cristo – attraverso la mediazione della parola e del sacramento dando a tutta la realtà ecclesiale una valenza sacramentale primordiale. Esso garantisce perciò il rapporto di necessarietà esistente tra la chiesa e il diritto canonico.
Il merito del Mörsdorf non sta solo nell’aver individuato un locus theologicus sicuro, anche se non esclusivo, ma anche e soprattutto nell’aver applicato un metodo rigorosamente teologico, senza fare concessioni a postulati filosofici. Rimane per contro aperto il problema del significato teologico-formale della nozione di diritto. Che il Mörsdorf non abbia risolto soddisfacentemente il problema emerge dalla citatissima definizione da lui data al diritto canonico, che sarebbe “eine theologische Disziplin mit iuristischer Methode”. Se è vero che per non incorrere in un’opzione positivistica il metodo deve essere definito a partire dalla natura dell’oggetto e non viceversa, in che senso è possibile applicare il metodo giuridico ad una realtà teologica?

3. Lo statuto ontologico e epistemologico
a)
II tentativo più lucido per superare questa antinomia è stato intrapreso recentemente da Antonio Rouco Varela, uno dei pionieri della teologia del diritto canonico. Senza avere la pretesa di dare una vera e propria definizione teologico-formale del diritto canonico, il canonista di Salamanca propone un elenco di elementi per l’elaborazione dello statuto “ontologico ed epistemologico”, e perciò anche metodologico, del diritto ecclesiale. Il presupposto fondamentale per cogliere dal profilo teologico lo statuto ontologico è quello di non affrontare il problema veicolando una preconcezione filosofica della nozione formale di diritto. Infatti il diritto canonico, a differenza di quello secolare, non è generato dal “dinamismo spontaneo (“biologico”) alla convivenza umana”, ma da quello specifico inerente alla natura della chiesa, la cui socialità è prodotta geneticamente dalla grazia ed è conoscibile solo attraverso la fede.
Il secondo assunto è che non si deve affrontare il problema del fenomeno giuridico ecclesiale concentrando l’attenzione su un solo aspetto particolare del mistero della chiesa, come potrebbero essere “l’atto di fondazione” di Cristo, le categorie “popolo di Dio” e “corpo mistico”, la parola e il sacramento. Secondo Rouco Varela bisogna procedere progressivamente tenendo conto di tutti i nessi essenziali da cui è costituito il mistero della chiesa. Il primo momento chiave è la definizione della chiesa come “popolo di Dio”, non perché questa categoria teologica debba offrire ancora una volta la possibilità di giustificare l’esistenza del diritto ecclesiale facendo ricorso al principio giusnaturalistico ubi societas ibi et ius, ma perché essa costringe a dare un significato antropologico alla nozione “diritto” e permette di evitare lo scoglio della spiritualizzazione ad oltranza del ius divinum, contro il quale è naufragata sistematicamente la teologia protestante, da Lutero agli autori moderni che hanno cercato un aggancio teologico diretto nelle categorie trascendentali della cristologia e del mistero della Trinità. Il fatto che la chiesa, oltre ad essere “popolo di Dio”, é anche “corpo mistico di Cristo”, offre d’altra parte l’orizzonte cristologico necessario per qualificare la socialità e la visibilità della chiesa non a partire da parametri secolari – come aveva fatto il Bellarmino paragonando la visibilità delle chiesa a quella della repubblica di Venezia – ma dalla struttura del sacramento. La visibilità della chiesa è di natura sacramentale. In terzo luogo bisogna tener conto del fatto che la chiesa è una comunità fondata sulla parola e sul sacramento la cui forza vincolante ultima non è rivolta solo all’homo interior ma a tutta la realtà antropologica, interna ed esterna, della persona umana. Rouco Varela sottolinea da ultimo come non si possa prescindere, nella valutazione della giuridicità della chiesa, dal principio della successione apostolica in quanto garanzia dell’autenticità attuale dell’intimazione canonica della chiesa. Ne consegue che lo “statuto ontologico” del diritto canonico deve essere determinato a partire dalla funzione che esso ha di “esprimere nella linea dell’incarnazione” la dimensione attraverso la quale la chiesa si compromette in modo vincolante sociale e comunitario come “sacramento della salvezza in Cristo”, oppure in quella di essere “la dimensione strutturale implicita nella comunione ecclesiale”.
Il pregio dell’elaborazione di Rouco Varela, rispetto a quella del Mörsdorf, da cui riprende lo spunto metodologico centrale, è duplice: in primo luogo sta nell’aver esplicitato con estrema stringenza lostatus quaestionis al quale la teologia del diritto canonico deve oggi dare una risposta. Non si tratta infatti di sapere solo se la chiesa “tollera il diritto come elemento determinante della sua vita o se essa vi possa acconsentire per ragioni storiche più o meno congiunturali”, oppure se essa ne abbia bisogno “per necessità propria interna in quanto comunità che vive una condizione umana, o a causa del peccato”. Si tratta di sapere invece se la “chiesa come tale, a partire da ciò da cui è costituita positivamente, ha bisogno del diritto per necessità interna, vale a dire per essere se stessa in quanto sacramento della salvezza cristiana che vive nel soffio dello Spirito santo nella fede, speranza e carità”. Il secondo pregio è senza dubbio quello di aver tentato di allargare la prospettiva della riflessione a tutto il mistero della salvezza, così come si concretizza nella chiesa che ne è la modalità definitiva.
Tenendo conto del fatto che l’autore si ripropone di tornare sull’argomento in modo più analitico, ci sembra opportuno sottolineare fin d’ora che un elenco degli elementi costitutivi dello statuto ontologico del diritto canonico (popolo di Dio, corpo mistico, ecc.) richiede una valutazione circostanziata del “peso specifico” teologico che ciascuno possiede nel processo di fondazione della forza vincolante formale del fenomeno giuridico ecclesiale. In particolare ci sembra che il principio formale della “successione apostolica” presupponga l’esistenza della parola e del sacramento. La chiesa non è vincolante giuridicamente in forza della successione apostolica – cui possono rifarsi, sia pure con criteri diversi, anche le chiese protestanti ed eventualmente anche certe comunità ecclesiali carismatiche – se non nel senso che essa garantisce l’autenticità dell’intimazione giuridica ontologicamente già radicata nelle struttura fondamentalmente sacramentale della chiesa.
b) Concludendo, si possono fare le seguenti considerazioni. L’analisi dell’“iter” metodologico seguito dalla canonistica cattolica, dalla metà del XVII sec. fino ad oggi, nell’elaborare i presupposti dottrinali necessari per fondare in sede teologica l’esistenza del diritto ecclesiale, mostra chiaramente come ogni tentativo sia rimasto incompiuto nella misura in cui non è riuscito a stabilire uno “statuto teologico” preciso del diritto canonico. Il magistero stesso ha di recente dato l’indicazione che la problematica della fondazione teologica del diritto ecclesiale deve essere affrontata all’interno di un orizzonte globale, quello cioè di una teologia del diritto canonico (L’Osservatore Romano, 1973, n. 213). La mancanza d’una teologia del diritto canonico che sappia già oggi fissare con precisione lo statuto ontologico ed epistemologico – e di conseguenza la metodologia propria alla scienza canonistica – elaborando una definizione formale del diritto ecclesiale, avrà del resto come conseguenza inevitabile quella di rendere “a priori” solo interlocutoria l’attuale riforma del CIC. In effetti si tratta di superare il preconcetto metodologico da cui è nata polemicamente la formula medievale: “Legista sine canonibus parum, canonista sine legibus nihil valet”. Essa riflette l’orizzonte culturale proprio al regime di cristianità in cui la funzione del diritto canonico non si limitava all’ambito ecclesiastico ma si estendeva anche a quello secolare, poiché aveva la pretesa di possedere un valore normativo universale.
In mancanza di una definizione teologica positiva del diritto canonico rimane utile il ricorso all’analogia implicita nella formula che definisce il diritto canonico come un diritto sui generis. Se l’analogia rivela prima di tutto l’esistenza di una radicale diversità qualitativa tra il diritto canonico e quello statuale, essa non implica affatto una negazione del valore normativo-vincolante dello stesso, cioè della sua giuridicità. Infatti gli stessi dati ecclesiologici che portano a sostenere la peculiarità teologica del diritto canonico costringono anche a riconoscere il suo carattere giuridico. La “teologizzazione” o “sacramentalizzazione” del diritto canonico non portano alla sua “de-giuridizzazione”, poiché la normatività che emerge dalla chiesa – evidenziata dall’istituto della scomunica – sono indici inequivocabili di un’autentica giuridicità, cioè dell’esistenza di un’intimazione vincolante per i rapporti intersoggettivi dei cristiani nei confronti dell’autorità ecclesiale e tra loro. Non esiste infatti realtà più fortemente vincolante e imperativa del fatto che Dio si manifesti agli uomini attraverso la concretezza storica della chiesa. Attribuire alla realtà della chiesa forza formale giuridica non significa tentare solo un’approssimazione concettuale umana, ma intensificare ed assolutizzare la normatività del diritto ecclesiale – almeno nei suoi elementi fondanti – rispetto a quello statuale. Il diritto canonico ha una forza vincolante tanto più grande rispetto a1 diritto secolare quanto più è profondamente radicato nella normatività delius divinum, non primariamente naturale ma positivo, cioè della rivelazione. È infatti un diritto che a differenza di quello secolare non ha la pretesa di domandare un’obbedienza a livello solo etico, ma a quello del destino ultimo e soprannaturale dell’uomo, la salvezza. Esso é perciò analogico, cioè diverso da quello secolare, in tutta la totalità dei suoi elementi, non solo in quanto realtà teologica ma anche giuridica. Allo stesso modo che la sua realtà teologica è anche giuridica, così la sua realtà giuridica è anche teologica senza possibilità di dicotomia. Ciò significa che la realtà teologica non si contrappone tanto alla realtà giuridica in quanto tale, quanto ad una realtà giuridica che pretendesse di essere solo antropologico-razionale. Ogni dicotomia apre le porte al vizio di metodo che travaglia la scienza canonistica: quello cioè di credere che dopo aver dimostrato l’esistenza di uno statuto teologico del diritto canonico sia ancora possibile trattarlo dal profilo giuridico come realtà secolare. La scienza canonistica deve applicare con rigore il metodo teologico, lasciando a quello giuridico – così come è stato elaborato dalla scienza giuridica moderna – il ruolo di disciplina solo ausiliare, poiché il nesso tra il diritto divino e quello canonico-umano può essere stabilito soltanto all’interno della logica e della metodologia proprie alla fede.
I1 fine ultimo dell’ordinamento canonico non è semplicemente quello di garantire il bonum commune ecclesiae, ma di realizzare la communio. Essa infatti è la modalità specifica con la quale, all’interno della comunità ecclesiale, diventano giuridicamente vincolanti sia i rapporti intersoggettivi, sia quelli esistenti ad un livello più strutturale tra le chiese particolari e quella universale. La realtà della communio ha perciò una forza vincolante che supera i limiti tendenzialmente solo mistici della sobornost orientale. Ne consegue che il principio della communio deve essere considerato come il principio formale del diritto canonico, cioè della nova lex evangelii, a partire dalla quale deve essere declinata sia a livello formale che materiale la struttura giuridica degli istituti canonici. La certezza giuridica ultima dell’ordinamento canonico non è infatti garantita dalla. littera legis in se stessa, come negli ordinamenti statuali, dove l’epicheia giuridica non è possibile, ma dalla communio che la informa. Non si può più perciò parlare di certezza giuridica nel sistema canonico se non per analogia; anzi, se il punto di riferimento fossero gli ordinamenti statuali moderni, la si deve negare.
La diversità radicale esistente tra il bonum commune ecclesiae – inteso filosoficamente – e lacommunio, in quanto realtà teologica fondata nella rivelazione, è qualitativa, come qualitativo è lo scarto esistente nell’analogia tra la lex Moysis e lanova lex evangelii, cioè la grazia. Esso é creato dal fatto che la grazia, “incarnandosi” ontologicamente nell’uomo, lo inserisce in un rapporto nuovo con Dio e con gli altri uomini: quello della comunione.
Essa è perciò la modalità nuova, specificamente ecclesiale, dell’esistenza del ius divinum in quanto radice di una socialità visibile diversa da ogni forma di socialità solo umana, ma tanto più vincolante, a livello non solo etico ma anche strutturale, perché ha la pretesa di mediare, incarnandola attraverso l’istituzione “chiesa”, la salvezza, cioè la giustizia di Dio.

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I. Mancanza di una teoria generale

La prima constatazione che si impone è che la canonistica non ha ancora tentato una teoria generale dell’atto “contra legem”. Le ragioni sono molteplici. Sarebbe comunque inesatto attribuire unilateralmente il fatto solo a quella pigrizia intellettuale, da altri già denunciata, che nei decenni che seguirono la promulgazione del CIC ha spesso indotto la scienza canonistica ad optare per il metodo dell’esegesi, meno impegnato e anche meno creativo, a scapito di quello piu moderno e scientifico della teoria generale 1.
Le radici più profonde di questo fenomeno vanno infatti colte sia nella decadenza in cui è scivolata la scienza canonistica a partire dalla fine dell’età classica, sia nella natura teologica del diritto canonico e, di riflesso, della canonistica in quanto disciplina scientifica. Pur tenendo conto di alcune clamorose eccezioni, come quella dello “ius publicum ecclesiasticum” -sfociato peraltro in una scuola canonistica autonoma 2 – oppure, in tempi piu recenti, quella della canonistica laica italiana, si può senza dubbio affermare che la canonistica, soprattutto a partire dal Concilio di Trento, è restata di preferenza aggrappata alle soluzioni date dal pensiero cristiano-medioevale, che hanno trovato la loro sintesi più espressiva -ricorrente ancora nel sistema del CIC 3 – nella grande opera del Suarez, evitando il confronto con le correnti del pensiero filosofico e giuridico moderno e continuando di conseguenza a riproporre soluzioni dottrinali e pratiche non dialettizzate e perciò poco culturalizzate.
La scienza giuridica moderna per contro ha svolto una mole di lavoro immenso nel tentativo di risignificare a livello teorico tutti gli istituti giuridici tradizionali -creandone anche di nuovi- a partire dalle molteplici proposte avanzate dalla filosofia moderna. Se le fluttuazioni subite dal pensiero filosofico-giuridico moderno hanno provocato a catena soluzioni diverse per ogni singolo istituto -all’interno di un pluralismo giuridico ricco anche di contraddizioni- esse hanno però anche permesso alla scienza giuridica di affinare, con perfezione forse mai raggiunta nella storia, il proprio bagaglio concettuale.
A questa ragione storica che va di pari passo con la progressiva emarginazione che l’esperienza cristiana ha subito ad opera del pensiero moderno, deve essere aggiunta un’altra motivazione di carattere più teorico, la quale offre una spiegazione ancora più esauriente del ritardo accusato dalla canonistica moderna sulla scienza giuridica laica. In un’epoca di innegabile ripresa scientifica e di radicalizzazione del discorso metodologico in tutte le discipline, anche la canonistica ha preso piena coscienza, fino a investirne il Magistero 4 di essere una disciplina teologica. Per riflesso essa ha preso atto anche delle incertezze e degli errori in cui sono incorse quelle scuole che, come quella canonistica laica italiana, hanno fatto tentativi peraltro estremamente avvincenti di aggiornamento culturale e scientifico.
La canonistica ha così capito di non essere ancora in grado di controllare con assoluta padronanza le implicazioni mondano-positivistiche di natura dottrinale e sistematica insite nel metodo della teoria generale. Quest’ultimo, infatti, tende per sua natura a trattare il sistema canonico alla stessa stregua di quelle realtà giuridiche, ontologicamente sempre più autosufficienti, che nella scienza moderna passano sotto la denominazione di ordinamenti giuridici primari 5 .

II. Esigenze concettuali di una teoria generale

Comunque, ponendosi il problema dell’elaborazione di una teoria generale dell’atto “contra legem”, è lecito dubitare che essa sia possibile a partire dal significato indefinito che questo concetto ha all’interno della tradizione canonistica. Infatti più che una categoria dai contorni giuridicamente precisi, essa dà l’impressione di essere un concetto che la canonistica ha trascinato lungo la sua storia come un masso erratico, senza mai rielaborarlo con le tecniche proprie della scienza giuridica moderna.
Il concetto di atto o comportamento “contra legem” appare a prima vista, e forse a ragione, così vasto da essere difficilmente utilizzabile come punto di partenza per un discorso sintetico e organico, quando non si voglia correre il rischio di riassumere attorno ad esso, per pura preoccupazione formale, realtà giuridicamente eterogenee tra di loro.
Ci si può domandare, per il vero, fino a che punto si possa ricondurre alla categoria di atto contra legem, in vista di una sua utilizzazione reale, realtà giuridiche così diverse come gli atti compiuti in forza di una consuetudine “contra legem”, o di una scelta epicheietica, quelli giuridicamente viziati, i fatti antigiuridici ecc….. 6
I1 discorso si farebbe molto arduo proprio nel momento in cui avesse la pretesa di diventare preciso. Da un punto di vista del metodo sarebbe probabilmente necessario differenziare gli atti “contra legem” in diritto privato, da quelli in diritto pubblico, costituzionale e amministrativo, penale e disciplinare 7.
In questo caso però diventerebbe anche inevitabile ridiscutere a fondo l’applicabilità al diritto canonico di queste categorie, che nella scienza giuridica secolare delimitano settori della realtà giuridica rispondenti a logiche interne diverse.
Un esempio può dare l’idea dell’ampiezza che il discorso potrebbe assumere anche in diritto canonico proprio a partire dalla distinzione tra l’atto amministrativo e quello giudiziario, che fino ad oggi non hanno ancora trovato nella scienza canonica una elaborazione definitiva soddisfacente. La scienza giuridica secolare ha sviluppato per impulso della dottrina germanica un elaboratissimo discorso sulle diverse conseguenze dell’atto illecito -canonisticamente parlando qualificabile forse come atto “contra legem”- nel diritto amministrativo e in quello giudiziario.
In diritto amministrativo il provvedimento acquista efficacia, diventando perciò fonte di diritto, anche se “ictu oculi” è invalido. Anzi, conserva la sua efficacia anche se impugnato, fino a quando non è annullato dall’istanza competente, così da non perderla se non per volontà del suo autore, diventando, grazie al principio dell’autotutela, addirittura esecutorio.
Sia pure con alterna fortuna, la scienza giuridica si è inoltre accorta che l’atto amministrativo invalido risponde a leggi diverse rispetto a quelle della regiudicata. Infatti il provvedimento amministrativo non tende, come l’atto giudiziario, verso l’immutabilità, perché la sua autoritarietà è volta a tutelare la volontà dell’istanza emanante, in quanto disposizione, non in quanto decisione. Il provvedimento amministrativo nullo, mancando della perpetuità dell’eccezione di nullità, propria dell’atto giudiziario, resta sempre efficace se non impugnato in termine, perché non esige quell’accertamento dei fatti che nelle sentenze è presente come momento logico necessario, non separabile dalla disposizione8 .
Per contro, il giudicato ingiusto (o “contra legem”) -a differenza del disposto amministrativo, della usucapione o prescrizione ed eventualmente anche della transazione 9 – non diventa mai fonte di diritto. Mentre questi atti creano una realtà giuridica nuova sganciata da quella preesistente, essendo causa originaria di acquisto o di estinzione di diritto, il giudicato si limita ad enunciare una realtà giuridica che esistente o meno prima, deve essere considerata in modo irrefutabile come essere la realtà giuridica anteriore. In questo senso non crea una situazione giuridica nuova, ma fissa e rende incontrovertibile l’esistenza o inesistenza della situazione giuridica anteriore. Perciò il principio “ius facit inter partes” non può essere interpretato nel senso che il giudicato crei un “ius”, come lo farebbe una norma astratta, in quanto fonte di diritto obiettivo, o un atto amministrativo in quanto fonte di diritto prevista dalla norma oggettiva 10 .
Ad ogni buon conto il giudicato diventa l’unica realtà certa sia del passato che del futuro. 11
Questo esempio preso dalla dogmatica giuridica secolare mette in evidenza il cammino che la canonistica deve ancora compiere a livello di una teoria generale dell’atto “contra legem”, quando fosse possibile considerarlo come categoria sintetica, capace di abbracciare tutta la problematica dell’illecito giuridico-canonico.

III. Il metodo teologico come fondamento per una teoria generale canonica.

1. Il principio della certezza del diritto negli ordinamenti statuali.

Affermata la validità e la necessita di un discorso canonico a livello di teoria generale, deve però essere anche ribadito che non sarebbe possibile condurlo prescindendo dal fatto teologico. Una teoria generale non potrebbe mai cogliere la verità ultima del sistema canonico se dovesse muoversi semplicemente a partire da un tipo di riflessione propria al metodo della dogmatica giuridica 12.
Anzi non sarebbe neppure sufficiente usare della teologia come se fosse solo l’orizzonte esterno entro il quale il discorso giuridico deve muoversi per non sconfinare su conclusioni eterodosse da un punto di vista dell’ecclesiologia o della fede. L’elemento teologico deve informare dall’interno il metodo stesso della teoria generale, perché è una dimensione essenziale del discorso canonico in quanto tale. Ogni altro tentativo che dovesse prescindere o dovesse usare con criteri puramente estrinsecistici i contenuti teologici, di per se immanenti ai contenuti giuridico-canonici, è destinato a fallire. L’esperienza piena di equivoci, fatta in questo senso dalle scuole canonistiche più recenti, giustifica almeno in parte la reticenza con la quale una frangia della canonistica tradizionale e moderna ha accolto il metodo della teoria generale.
Dovendo affrontare il problema del valore degli atti “contra legem” all’interno di un discorso che verte attorno alle fonti formali o di produzione del diritto canonico 13 e dovendo fare delle scelte di priorità -dato che uno studio globale del problema supererebbe le possibilità offerte da questa esposizione- è necessario impostare con correttezza prima di tutto il problema del metodo.
In questa prospettiva è fondamentale rendersi conto che il discorso sul valore degli atti “contra legem” è sostanzialmente un discorso sulla certezza giuridica.
Da un punto di vista di una teoria generale, infatti, gli atti o comportamenti giuridici prodotti all’interno di istituti come l’epicheia, la consuetudine, “l’aequitas canonica”, la creatività del giudice nei casi di lacuna della legge, il procedimento amministrativo e la regiudicata, nella misura in cui sono atti “contra legem”, mettono direttamente in discussione il principio della certezza giuridica 14 .
Se è vero che la possibilità di conflitto tra legalità (o certezza del diritto) e giustizia (o verità effettiva) è un fenomeno comune a tutti gli ordinamenti giuridici, tra i quali non fa eccezione il diritto canonico, è altrettanto sintomatico il fatto che le soluzioni date dagli ordinamenti giuridici moderni e dal diritto canonico sono diverse.
Negli ordinamenti statuali moderni il principio della certezza del diritto prevale su quello della verità oggettiva. In caso di conflitto è la giustizia ad essere sacrificata per garantire sia la stabilità che la sicurezza dei rapporti giuridici, sia l’autorità dell’ordinamento come base della fiducia dei cittadini. Così avviene, come abbiamo visto, nel caso di errore giudiziario, dove l’immutabilità del giudicato -esperiti che siano i mezzi a disposizione per impugnarlo- prevale, in vista della certezza del diritto, su tutte le altre considerazioni.
Sarebbe comunque errato ritenere che questa garanzia formale data dagli ordinamenti statuali moderni ai rapporti giuridici sia giustificata solo da esigenze pragmatistiche, come potrebbe esserlo per esempio la necessità che i cittadini conservino la fiducia nell’ordinamento giuridico. Essa è imposta dall’impianto dottrinale stesso degli ordinamenti giuridici che trovano il loro momento genetico nella filosofia moderna, la quale, nel solco della scuola giusnaturalista di estrazione razionalista ha progressivamente escluso ogni possibilità di ricorso ad una istanza trascendente 15.
Questo riscontro filosofico spiega come, per attutire lo scandalo provocato dall’imporsi della legalità sulla giustizia, si sia potuto sostenere che non esiste altra possibilità di conoscere la verità e la giustizia al di fuori della sentenza giudiziaria 16.
In realtà non si tratta solo di un’attenuante, ma di una conseguenza strettamente dipendente dalla logica stessa di ogni ordinamento giuridico, che, a differenza del diritto ecclesiale e cristiano, non ammette più la possibilità per Dio di essere fonte immediata di diritto 17.

2. La certezza del diritto come criterio di ricupero in diritto canonico

Il diritto canonico esige che il principio della certezza giuridica, e perciò della legalità, venga sacrificato per lasciar spazio alla giustizia e alla verità oggettiva. Ciò è imposto dal fatto che non può esistere certezza giuridica ultima, vincolante a livello di salvezza, al di fuori della certezza teologica.
La sostanza di questo discorso è già stata colta dal Fedele nel suo Discorso generale sull’ordinamento canonico 18.
Tuttavia è giunto forse il momento di precisare questo discorso all’interno di una problematica teologica più stringente.
Il Fedele ha giustificato il prevalere della giustizia sulla legalità invocando esigenze di diritto divino 19le quali si specificano nel principio della “salus animarum”, considerata come realtà esprimente quel tipo di “bonum publicum” a cui tende e dal quale è determinato l’ordinamento canonico 20 .
Le precisazioni, fatte dal Capograssi 21 -in dialettica con il Giacchi, che ritiene eccessive le affermazioni del Fedele- 22 e riprese dal Mazzacane 23 , non colgono ancora a nostro avviso tutta la verità del problema.
Da una parte, infatti se può essere giusto affermare, che in diritto canonico “la certezza come legalità e la certezza come obbiettività si identificano”, formulare il problema dicendo che la “giustizia come certezza coincide con la giustizia come verità in quanto la giustizia, quale esplicazione ed applicazione della legge etica, diventa l’oggetto della instaurazione della certezza positiva dell’ordinamento” 24 può equivalere ad una “petitio principii” o all’instaurazione di un positivismo di tipo canonico.
Il problema non è quello di eliminare la possibilità di scarto effettivo tra certezza legale e verità obiettiva ma di affermare che la certezza legale ultimamente non esiste se non quando esiste la certezza obiettiva, cioè se non quando in essa è stata colta anche la verità obiettiva.
D’altra parte il problema non può essere affrontato cogliendo solo l’aspetto filosofico giuridico del rapporto tra forma e sostanza. Come abbiamo già notato, sarebbe insufficiente attribuire alla teologia una valenza solo estrinseca rispetto alla legge canonica, così come potrebbe averla l’etica rispetto agli ordinamenti statuali moderni, che nella migliore delle ipotesi la considerano come presupposto meta o extra-giuridico.
Il diritto canonico in quanto realtà teologica porta in sé stesso la verità dogmatica 25 , perché partecipa della normatività propria alla Parola e al Sacramento26 ; non è solo una sovrastruttura sociale o sociologica del mistero della Chiesa, come potrebbe essere il diritto moderno in rapporto all’etica, o come il diritto canonico potrebbe esserlo, nella concezione protestante tradizionale, rispetto alla Chiesa invisibile, considerata come unica vera Chiesa 27 .
Tra il diritto canonico e le altre discipline o realtà teologiche come la dogmatica, l’ecclesiologia o la morale, ecc., non esiste differenza essenziale, né intercorre solo un rapporto di interdipendenza. Il diritto canonico non coglie neppure un solo settore della teologia dogmatica o morale, come potrebbe farlo -almeno nella concezione tradizionale corrente- il diritto rispetto all’etica. Si tratta di discipline teologiche che colgono, con un’autonomia di mezzi propria, l’unico mistero dell’Incarnazione, il quale non si manifesta solo, e neppure principalmente a livello di dottrina dogmatica o morale, ma come fatto storico, come Tradizione che continua nella Chiesa, di cui la legge e gli istituti canonici, in quanto fatti storici concreti, portano in se stessi una pane del contenuto, esprimendo in modo tangibile la dimensione giuridicamente vincolante del mistero della Incarnazione e della Chiesa.
In quanto realtà ecclesiale, formata da istituti giuridici in cui si concretizza nella storia la dimensione giuridicamente vincolante della Chiesa, il diritto canonico è una delle realtà essenziali in cui si manifesta per fatti concludenti la Tradizione della Chiesa e di conseguenza la verità contenuta nella Parola e nel Sacramento.
Tutto ciò equivale ad affermare che in diritto canonico non solo esiste un’identità di principio e assoluta tra la certezza legale (o formale) e la giustizia obiettiva, ma anche che questa si realizza a partire più che da una convergenza estrinseca tra fatto giuridico e verità teologica (dogmatica o morale), dall’interno, in quanto il fatto giuridico -quando coglie con precisione il mistero della Chiesa- è in se stesso espressione di verità teologica. Bisogna però anche ammettere che in diritto canonico, come in ogni altra disciplina teologica, è possibile uno scarto di fatto tra la formulazione e la verità, tra la forma e la sostanza. Di conseguenza la certezza formale deve essere considerata come riformabile ogni qualvolta è in gioco, come dice il Fedele, il diritto divino e la “salus animarum”.
Queste considerazioni hanno un preciso riscontro istituzionale per es. negli istituti canonici citati sopra, come l’epicheia, l’“aequitas”, la regiudicata, ecc., perché tendono a relativizzare continuamente il valore della certezza formale rispetto a quello della verità teologica effettiva.
Il modo con il quale il diritto canonico regola il problema della regiudicata deve essere considerato come paradigmatico per definire il tipo di rapporto esistente tra verità formale e materiale, cioè tra certezza formale canonica e quella teologica.
Anche in diritto canonico la sentenza, esauriti che siano tutti i rimedi giuridici, pur godendo, almeno secondo la formulazione data dalla dottrina tradizionale, di una presunzione assoluta di rispondenza alla verità come negli altri ordinamenti giuridici 28 , subisce una deroga di fondo in tutte le sentenze emesse nelle cause “de statu personarum”.
Anzi il diritto delle Decretali, come osserva il Mazzacane, ammetteva una deroga al principio della immutabilità del giudicato per un numero molto più grande di controversie (quelle criminali e in materia di benefici, le sentenze chiaramente inique, quelle emesse su falsi documenti, in base a falso giuramento o testimonianza), accettando perfino il principio della sentenza nulla “ipso iure” 29 . Anche volendo riassumere parte di questi casi sotto quello dello “status personarum”, è evidente che la riduzione fatta del diritto codificatorio a quest’ultimo tradisce un adeguamento allo spirito positivista del diritto moderno che, per necessità immanente ai suoi fondamenti filosofici, ha assolutizzato sia il principio della uguaglianza davanti alla legge sia quello della certezza giuridica.
Alcune di queste cause, come del resto tante altre di natura prevalentemente civilistica, potrebbero eventualmente anche scomparire dal diritto canonico, man mano che questo accettasse di abbandonare la funzione di supplenza avuta nella cristianità medioevale, per ridiventare un diritto più esclusivamente ecclesiale.
Tuttavia, l’incidenza della deroga del c. 1903, ripresa a proposito dell’istituto matrimoniale nel c. 1938, è tale da investire alla radice, non solo questi casi particolari, ma tutto il sistema canonico.
La forza di questa deroga deve essere valutata prendendo anche atto che la dottrina ha abusivamente ristretto l’ambito della sua applicazione allo stato clericale, religioso, e matrimoniale. Il c. 1903, come ha ribadito il Mazzacane, è estensibile infatti a tutte le cause inerenti non solo allo “status religiosus” (stato giuridico dei fedeli, dei chierici e dei religiosi, con i diritti essenziali derivanti dallo stesso) e a quello “familiae” (filiazione, legittima e naturale, nullità del matrimonio e diritti fondamentali che nascono dal diritto matrimoniale), ma anche allo “status civitatis” (diritti essenziali dell’uomo, come libertà, capacità giuridica, ecc. 30 ).
Un diritto che in un settore essenziale come quello dello “status personarum”, che in quanto stato costituzionale comprende tutti i diritti fondamentali primari e derivati, scritti ma anche (dato che nel sistema canonico il diritto divino come quello naturale sono sempre applicabili anche se non canonizzati dal legislatore) non scritti, non tollera divario tra certezza legale e verità effettiva, denuncia il principio stesso della certezza del diritto, come principio fondamentale del sistema.
Non ha importanza far qui la critica al concetto di “salus animarum”, che pure vanta una grande tradizione teologica, come categoria incapace di esprimere per la sua connotazione individualistica e estrinsecistica il fine ultimo storico ed ad un tempo escatologico, verso il quale converge il diritto canonico e dal quale riceve la sua impronta fenomenologico-giuridica 31 .
Importante è constatare come questa categoria, teologicamente superata, esprima comunque una priorità rispetto a tutti gli altri valori giuridico-sociali di estrazione solo filosofico-giuridica.
È perciò necessario invertire rigorosamente i termini della questione. Quando e nella misura in cui sono in gioco i valori fondamentali, tentativamente espressi con l’idea della “salus animarum”, non è mai la certezza formale ma la verità teologica e soteriologica che fa stato. All’interno di un discorso teologicamente più corretto ciò significa che quando la norma canonica tocca gli elementi base su cui si articola la “communio ecclesiae et ecclesiarum”, cioè prima di tutto la struttura costituzionale della Chiesa stessa -colta dalle Decretali sotto la denominazione delle “cause beneficiali”- 32 e, subordinatamente, i diritti fondamentali dei cristiani, con tutte le implicazioni che da questi settori possono derivare, la certezza formale non può mai essere l’ultimo criterio.

3. La “communio” come fondamento della certezza del diritto

Si deve perciò anche avere il coraggio di affermare che in diritto canonico il principio secondo il quale la giustizia obiettiva prevale sulla certezza formale vale come regola fondamentale del sistema e non solo come importante deroga, o eccezione di ricupero, per alcuni casi particolari 33 . Il principio della certezza del diritto diventa perciò rigorosamente applicabile solo in questioni o ambiti giuridici che non hanno una incidenza strutturale per il realizzarsi della “communio ecclesiae et ecclesiarum” che, in quanto valore supremo dell’esperienza ecclesiale, coincide con il concetto tradizionale di “bonum publicum” cui tende il diritto canonico.
La differenza con gli ordinamenti statuali non potrebbe essere più radicale. Ciò fa capire come una riflessione sulla natura teologica del diritto canonico non può essere derivata dal diritto secolare, ma deve rimanere metodologicamente autonoma. Il diritto secolare resta solo un punto di riferimento analogico “a posteriori”. Se queste affermazioni relativizzano il principio della certezza del diritto, non relativizzano affatto la normatività del diritto canonico, al quale peraltro il concetto stesso di “diritto” non è applicabile univocamente 34.
Il diritto canonico deriva la pretesa intrinseca di essere vincolante in ordine al destino dell’uomo dall’autorità della Parola e del Sacramento che, garantite nella loro oggettività dalla Successione Apostolica, costituiscono la realtà inter-soggettiva della comunione nella quale e attraverso la quale si realizza la salvezza storico-ecclesiale ed escatologica del cristiano.
È una giuridicità che più di ogni altra ha forza vincolante perché profondamente radicata nella normatività stessa del cosiddetto diritto divino.
D’altra parte anche la certezza del diritto, laddove può e deve essere garantita, non lo è in forza di una logica puramente giuridica. Il criterio della certezza giuridica -quando non fosse possibile stabilire con assoluta sicurezza la verità effettiva- si impone non tanto come criterio formale ed estrinseco, ma piuttosto come esigenza intrinseca alla norma canonica il cui scopo primario è quello di garantire l’unità all’interno della “communio”.
L’unità, infatti, non è solo un valore formale, come potrebbe esserlo la certezza del diritto negli ordinamenti statuali, ma il contenuto essenziale dell’esperienza ecclesiale stessa. 35
Nella misura in cui non fosse possibile superare il dubbio circa la verità effettiva, il criterio che rende vincolante la legge canonica o la sentenza del giudice, non è tanto la volontà del legislatore o dell’ordinamento giuridico -come suggerirebbe una soluzione volontaristica del problema- ma l’unità tra i cristiani e le Chiese particolari, in quanto valore essenziale alla salvezza storica ed escatologica del cristiano. È la stessa “salus animarum” o “communio ecclesiae et ecclesiarum” che possono esigere il rispetto della certezza formale.

IV. L’epicheia come caso paradigmatico di atto “contra legem”
con rilevanza giuridica diretta

1. Significato dell’elasticità del diritto canonico

Queste premesse teologiche sul problema della certezza del diritto nel sistema canonico sono determinanti per impostare correttamente il problema del valore degli atti “contra legem”, a livello di teoria generale.
Quando è in causa la verità ultima della “communio”, in quanto “bonum publicum ecclesiae”, deve essere riconosciuto valore giuridico e perciò effetto creativo anche agli atti compiuti “contra legem” 36 quando esistessero sufficienti garanzie per escludere l’arbitrio e non dovessero emergere motivi, dettati dalla “communio” stessa, in favore dell’osservanza della certezza formale.
Questa esigenza regge tutto il diritto canonico da sempre ed è stata colta dalla canonistica italiana con la categoria della “elasticità” 37 .
Tuttavia, giova ripeterlo, neppure la nota dell’elasticità può essere ridotta a nota correttiva di natura solo giuridica, quasi che servisse unicamente a qualificare il diritto canonico rispetto agli ordinamenti statuali presi come termine di confronto per la loro rigidità giuridico formale. L’elasticità non esprime semplicemente la capacità del diritto canonico di adattarsi e piegarsi alla situazione specifica del caso particolare grazie alla presenza di istituti come l’“aequitas”, la dispensa, il privilegio, ecc., ma è una caratteristica più radicale, che investe non solo l’aspetto tecnico-giuridico del problema, ma anche e primariamente il modo -specifico e analogico rispetto agli ordinamenti statuali- con il quale il diritto della Chiesa intende essere giuridicamente e teologicamente vincolante. Significa perciò che una norma canonica è ultimamente vincolante solo nella misura in cui coglie un’esigenza della “communio”, sia in quanto esprima il contenuto di una sua struttura portante, sia in quanto la “communio”, come criterio formale d’unità, può imprimere forza vincolante ad una norma per la quale non è ancora stato possibile trovare un contenuto alternativo, più corrispondente alla verità teologica.
A partire da queste considerazioni, emerse da sempre nella canonistica in modo più o meno cosciente, si può affermare che il principio dell’elasticità è stato applicato ed è tuttora applicabile, dopo la codificazione, anche quando non è previsto dalla norma positiva. Basterebbe come verifica la breve disanima storico-sistematica fatta dall’Hering a proposito dell’“aequitas non scripta” o “contra legem” per rendersi conto del fatto che questo tipo di “aequitas” -soprannominata dagli autori, non senza scherno, “aequitas cerebrina” o “ex corde”- può essere fatta valere anche in quei casi non previsti dalla norma positiva, nei quali, o viene a cadere lo scopo della legge, o nasce una collisione di norme, o non è possibile ottemperare alla norma stessa 38 .
Di conseguenza ci sembra abbiano avuto ragione coloro che hanno contestato il Giacchi 39 per aver affermato che l’ordinamento canonico, più di ogni altro ordinamento “non tollera la sostituzione della volontà della singola persona fisica investita d’imperio alla volontà espressa dalla norma” a meno che questa sostituzione sia almeno implicitamente riconosciuta dalla norma stessa quasi che ciò implicasse “un sovvertimento non soltanto di principi giuridici, ma d’immutabili esigenze teologiche”40 .

2. L’epicheia come istituto giuridico

Fatte queste costatazioni si deve concludere che il problema dell’epicheia diventa veramente acuto solo quando è in causa la sua rilevanza giuridica in rapporto agli atti “contra legem” posti da persone fisiche non investite d’imperio, cioè da coloro che con espressione ecclesiologicamente discutibile, sono solitamente definiti come “sudditi” della legge.
La storia canonistica dell’epicheia è, da questo punto di vista, molto concludente. Salvo qualche eccezione 41 , la dottrina non ha mai riconosciuto valore giuridico diretto all’<<epikeia>> 42 . Ne ha costantemente circoscritto l’efficacia all’ambito morale, pur ammettendo, che per riflesso -cioè in quanto elemento attenuante da un punto di vista penale- essa può acquistare rilevanza anche giuridica 43 .
I problemi posti dall’epicheia a livello di definizione concettuale sono molto ardui. Ne sono la prova non solo il fatto che sarebbe possibile elencare definizioni diverse -quasi sempre derivate da presupposti filosofici d’impostazione realistica o volontaristica- ma anche il fatto che, a partire dalla stessa definizione, gli autori possono divergere nell’interpretazione o nell’applicazione della stessa al caso pratico.
Non mancano per il vero studi di grande erudizione che, percorrendo lo sviluppo storico-sistematico subito dall’epicheia lungo i secoli -da Platone, che se ne è occupato solo di striscio, ad Aristotele, che le ha dato un assetto solidissimo fino a S. Tommaso, che, identificandola con l’“aequitas” ha creato un equivoco protrattosi fino ad oggi, e a Suarez, che le ha impresso una forte svolta volontaristica 44 – hanno tentato di chiarire la sua specificità rispetto ad altri istituti giuridici paralleli 45 .
Il problema che ci interessa in questo contesto non è quello della definizione, bensì quello del valore giuridico da attribuire all’epicheia, in quanto istituto paradigmatico e perciò fondamentale in vista di una teoria generale, in forza del quale anche la persona fisica non investita d’imperio può porre atti “contra legem”.
Da questo punto di vista si deve costatare un fatto preciso. Nella misura in cui l’epicheia viene identificata dagli autori con l’“aequitas contra legem”, è riconosciuta come istituto giuridico che permette all’istanza investita del potere d’imperio d’intervenire e procedere anche “contra legem” 46Anzi, esiste una convergenza della dottrina piu autorevole nell’affermare che non solo l’“aequitas contra legem” -come abbiamo già visto-, ma anche l’epicheia -entrambe ignorate dal CIC, che pur fa riferimento all’“aequitas” ben 33 volte- sono applicabili nella prassi ecclesiale anche quando il testo della legge non lo prevede 47 .
Per contro, laddove il discorso diventa più rigoroso fino a distinguere l’epicheia dall’“aequitas non scripta” o “contra legem”, allora si deve constatare che la dottrina rinuncia a riconoscere all’epicheia qualsiasi rilevanza giuridica diretta.
Determinante per questa soluzione è stata senza dubbio la necessità di salvare dall’arbitrio il principio della certezza del diritto e di conseguenza la paura di ammettere che il “suddito”, sia esso rivestito di funzioni gerarchiche o meno, possa dare origine ad una realtà giuridica valida in forza di un atto o comportamento “contra legem”. È prevalso perciò il criterio giuridico.
Dato che l’epicheia si impone come fatto culturale insopprimibile, grazie alla forza con la quale rinvia all’intangibilità della coscienza e per riflesso alla trascendenza, si è preferito aggirare l’ostacolo relegando l’epicheia nell’ambito extragiuridico della morale, al quale essa fa oltretutto direttamente appello.
La consacrazione più pregnante di questa dottrina anche canonica può essere riscontrata nella formula usata dall’Hering secondo il quale, il ruolo assegnato all’“aequitas” nel foro esterno è svolto dall’epicheia per quello della coscienza 48 .
Questo sistema trova il suo risvolto preciso anche in quegli autori che sostengono, contro il Suarez e la maggior parte della dottrina, che nel caso delle leggi irritanti e inabilitanti si può applicare l’“aequitas”, ma non l’epicheia 49 , essendo quest’ultima un istituto non giuridico ma morale che interessa esclusivamente il foro della coscienza.
Una revisione della dottrina canonistica sull’epicheia si impone, oggi, a partire da considerazioni diverse.
Prima di tutto bisogna tener conto del primato della persona sull’istituzione, impostosi come fatto culturale universale, di cui la Chiesa si è fatta portavoce in questo ultimo secolo, soprattutto con le encicliche sociali. Ciò ha portato la teologia morale a rivalutare, tra le altre cose, anche l’epicheia, sia allargandone il campo d’applicazione50 , sia considerandola non più come eccezione da tollerare, ma come virtù morale da praticare normalmente nella vita cristiana.
Questo cambiamento nella dottrina è avvenuto negli anni quaranta, soprattutto in seguito ad un articolo di Egenter 51 , dove l’epicheia non è più considerata solo come principio giuridico d’interpretazione in vista di liberare il suddito dall’obbligo della legge sulla base di una presunta e benevola concessione del legislatore, ma come aspetto virtuoso di una vita cristiana matura. L’epicheia, però, non è più vista come “lesione” della legge, o come minor male, ma come “emendamento positivo” della stessa. L’uso prudente dell’epicheia non costituisce, di conseguenza una “diminuzione” del diritto, ma una sua “correzione”: aiuta ad applicare la legge positiva secondo il suo vero senso, sulla base dei più alti principi della legge naturale 52 .
Da una concezione intellettualistica e volontaristica di estrazione platonico-suaresiana, in cui si cercava soprattutto d’interpretare la volontà del legislatore, si è ritornati alla concezione oggettivistica di Aristotele e di San Tommaso, per i quali l’epicheia non si oppone al vero diritto, ma solo a quello positivo, per correggerlo in favore della vera giustizia. È considerata perciò come elemento soggettivo della giustizia, il cui oggetto è il miglior diritto 53 .
Esistono però anche motivi più strettamente canonistici per un ripensamento dell’istituto dell’epicheia.
La dottrina comune, che la relega all’ambito della coscienza, ha come sfondo, entro il quale si muove più o meno coscientemente, la distinzione tra foro esterno e foro interno, che è una distinzione così tipica del diritto canonico da distinguerlo da tutti gli altri ordinamenti giuridici.
Questa distinzione si è progressivamente trasformata in una vera separazione con il prevalere della confessione privata sulla prassi penitenziale pubblica, avvenuta nel medio evo. Mentre però gli scolastici continuarono ad attribuire carattere giuridico a tutti e due i fori, la canonistica posteriore ha identificato il foro interno con quello della coscienza, inteso come foro nel quale l’uomo, sottratto all’influsso mediatore e giuridico della Chiesa, si trova solo davanti a Dio. Questa riduzione ha provocato una separazione istituzionale dei due fori: al foro interno (o di coscienza) venne assegnata la morale, a quello esterno il diritto 54 .
In questa dicotomia affiora quella concezione dualistica della Chiesa -sfociata nella separazione netta tra Chiesa visibile e invisibile di Lutero- che risale alla distinzione medioevale tra il “corpus Christi verum” -sul quale ha potere solo la “hierarchia ordinis”- e il “corpus Christi mysticum” -riservato alla “hierarchia iurisdictionis”- 55.
Sotto l’impulso del Mörsdorf, parte della canonistica moderna ha riscoperto e ribadito con forza, che anche il foro interno è un foro giuridico “coram ecclesia”, né più né meno di quello esterno, e che la differenza dei due fori è legata solo al modo diverso con cui la Chiesa procede: in foro interno con una differenziata garanzia di segretezza -secondo che si tratti del foro sacramentale o extra sacramentale-, in foro esterno, invece, con piena pubblicità.
Malgrado questo ricupero dell’unità dei due fori e malgrado la canonistica moderna sia rimasta profondamente convinta, come quella antica, che la legge canonica vincola anche in coscienza, essa continua a sostenere, non senza contraddizione, che l’epicheia non ha effetti giuridici diretti.
Evidentemente non si può escludere l’esistenza di un foro di coscienza nel quale l’uomo, senza passare per la mediazione della Chiesa e del diritto canonico, viene in rapporto diretto con Dio. Dato che non si possono imporre limiti all’intervento salvifico di Dio, i teologi ammettono questa possibilità, la quale però non mette in discussione la struttura ordinaria dell’economia della salvezza, essenzialmente sacramentale ed ecclesiale 56.
D’altra parte, non bisogna dimenticare che anche il foro della coscienza, in quanto foro della morale distinto da quello giuridico interno, è -all’interno dell’economia ordinaria della salvezza- un foro “coram ecclesia”. La riscoperta della dimensione ecclesiale della penitenza da parte del Vaticano II, che l’ha definita come sacramento di riconciliazione con Dio e con la Chiesa 57 , non lascia nessun dubbio in merito. La coscienza morale del cristiano ha come elemento specifico e discriminante rispetto all’etica naturale, la dimensione ecclesiale, nel senso che il comportamento del cristiano è giudicato nella sua eticità non a partire dai principi della legge naturale, ma dalla sua conformità alla “communio”, vale a dire dalla sua ecclesialità.
Anche questa è una delle ragioni che impediscono di separare il diritto canonico dalla morale. Infatti, diritto e morale, che non sono realtà adeguatamente distinte dato che l’ambito morale può avere risvolti giuridici e viceversa, hanno in comune il fatto di essere due realtà che toccano gli stessi ambiti: la coscienza e la “communio”, cioè la Chiesa.
Fatte queste constatazioni ed affermata l’ecclesialità della coscienza, sia essa chiamata in causa in foro morale che in quello giuridico, il rifiuto della canonistica di riconoscere carattere giuridico all’epicheia, che in quanto istituto morale ha comunque già rilevanza ecclesiale, diventa sempre meno comprensibile.
Le principali ragioni per opporsi al riconoscimento del carattere giuridico dell’epicheia sono senza dubbio, da una parte, la paura di dover sacrificare il principio della certezza del diritto, dall’altra, quella di svuotare il sistema giuridico della Chiesa di ogni forza vincolante reale.
Per quanto concerne la certezza del diritto abbiamo già visto che non si tratta di un principio da cui dipende la giuridicità del diritto canonico. Nella sua accezione più stretta, vale a dire, come principio che fa prevalere la verità formale su quella sostanziale, non è applicabile in diritto canonico se non come criterio di ricupero, cioè quando l’unità della “communio ecclesiae et ecclesiarum” esige di attenersi ad una norma o ad una sentenza, anche se la loro corrispondenza con la verità teologica non fosse perfetta. In questo caso è l’unità in se stessa ad essere verità teologica.
Per quanto concerne il problema della giuridicità del diritto canonico si deve tener conto del fatto, che il riconoscere all’epicheia il potere di liberare dalla norma giuridica facendo appello alla coscienza morale, significa concepire il diritto canonico solo come una sovrastruttura sociale, cioè come realtà la cui verità risiede altrove, nella morale o nella dogmatica. Una simile concezione può eventualmente essere accettata per il diritto statuale. È sintomatico, del resto, che l’istituto dell’epicheia sia stato elaborato all’interno di una riflessione filosofica, dove il valore dell’etica, intesa come giustizia superiore, è contrapposto, come al diritto positivo, inteso come manifestazione meno perfetta della vera giustizia.
In diritto canonico una simile concezione non è possibile, perché né la dogmatica né la morale, in quanto realtà capaci di cogliere la verità teologica, sono necessariamente superiori al diritto canonico, quasi fossero la sua unica ragione e fonte di esistenza.
Il diritto canonico, come realtà in cui si istituzionalizza storicamente l’esperienza della Chiesa -assolutamente irriducibile ad esperienza dottrinale- porta in se stesso, come elemento essenziale in cui si declina la Tradizione, almeno una parte della verità rivelata, cogliendone il senso con autonomia di mezzi e con logica proprie.
Di conseguenza, nella misura in cui l’epicheia rinvia al foro morale, con la pretesa di dare al cristiano una sicurezza che il foro giuridico non può dargli, relativizza alla radice la verità e perciò la giuridicità del diritto canonico stesso.
Dato che il diritto canonico non può essere considerato come una sovrastruttura sociologica rispetto alla realtà ecclesiale, perché è un elemento essenziale attraverso il quale si manifesta la Chiesa nella forza vincolante della sua verità, l’epicheia deve poter essere riconosciuta come istituto le cui conseguenze restano immanenti al foro giuridico stesso. Invece di diminuire la forza vincolante del sistema giuridico della Chiesa, un’epicheia così strutturata non farebbe che rafforzarne la giuridicità.
Visto che la canonistica non ha ancora risolto in modo definitivo il problema dei diritti soggettivi, ci sembra che la questione se da un atto epicheietico possa nascere o meno un diritto soggettivo, può essere rinviata ad altra sede.
Ci basta qui, poter affermare che da un atto epicheietico, in quanto atto “contra legem”, può nascere non tanto un’attenuante morale di cui il giudice tiene conto, ma piuttosto una realtà giuridica valida, opponibile in foro esterno.
La dottrina dovrà, evidentemente, fissare, come del resto ha fatto con molta precisione per l’“aequitas non scripta” o “contra legem” 58, le condizioni per l’uso dell’epicheia. Se si accetta che l’“aequitas scripta” -contraria per sua natura al principio della certezza del diritto- non distrugge la giuridicità del sistema canonico, ma la qualifica nella sua specificità, allora si deve prendere atto che anche un’epicheia con valenza pienamente giuridica si inserirebbe nel sistema, senza portare squilibri di fondo.
Oltrettutto si tratta di un sistema giuridico, la cui forza vincolante non scaturisce primariamente dalla volontà del legislatore, quanto piuttosto dalla sua verità teologica ed ecclesiale. Infatti nella misura in cui la norma canonica diventa stringente per la salvezza, il legislatore canonico, più che essere chiamato a deciderla, la deve autorevolmente constatare 59.
Fatta questa premessa si deve pure ammettere che anche un cristiano non investito della potestà d’imperio è in grado di cogliere la verità teologica e comunionale di un comportamento o di un atto giuridico. Per impedire tuttavia, il rischio che un uso abusivo dell’epicheia dissolva l’esperienza cristiana in un’esperienza soggettivistica, sarebbe necessario che un atto o comportamento “contra legem”, risultante da un atto epicheietico, per essere opponibile in foro esterno, venisse constatato nella sua legittimità formale da chi nella Chiesa ha potere d’imperio, a partire da criteri che il diritto o la dottrina dovrebbero elaborare.

1  Sulla diatriba sorta a questo proposito tra canonisti laici e curiali, cfr. per es. P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico (Padova 1962), pp. 155, 22-227; A. C. Jemolo, Recensione a F. Roberti, De processibus, I (Romae 1926) “Rivista di Diritto processuale civile”, V, 1 (1928), pp. 372 ss.; D. Staffa, Immobilità e sviluppo della scienza canonistica, “Apollinaris”, 29 (1956), pp. 413 ss.

2  Cfr. A. De La Hera-Ch. Munier, Le droit public à travers ses définitions, “Revue de Droit canonique, 14 (1964), pp. 32 ss.; A. De La Hera, Introducción a la ciencia del derecho canónico (Madrid 1967), pp. 38 ss.

3 Cfr. A. Stiegler, Der kirchliche Rechtsbegriff. Elemente und Phasen seiner Erkenntnisgeschichte (München-Zürich 1958), pp. 151 ss.

4 Il documento più esplicito del Magistero sul carattere teologico della canonistica e sulla necessità di una teologia del diritto canonico è il discorso di Paolo VI al II Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Milano 1973), “L’Osservatore Romano”, n.° 213, 17-18 sett. 1973.

5  La monografia più diffusa sul problema e quella di J. Hervada, El ordenamento canónico. I. Aspectos centrales de la construcción del concepto (Pamplona 1966); cfr. anche P. J. Viladrich, Hacia una teoria fundamental del derecho canónico, “Ius Cananicum”, X (1970), pp. 5 ss.

6  Cfr. per es. B. Albanese, Illecito, “Enciclopedia del Diritto”, XX (Milano 1970), pp. 50 ss.

7  Un esempio di come queste categorie non siano sempre recepite dalla canonistica è l’articolo di G. May, Rechtsfolgen schuldhaften Verhaltens ohne Strafcharakters im CIC, “Österreichisches Archiv für Kirchenrecht”, 128 (1959), pp. 174 ss.

8  Cfr. M. S. Giannini, Atto amministrativo, “Enciclopedia del Diritto”, IV (Milano 1959), pp. 181-194.

9 Su tutta la questione cfr. G. Pugliese, Giudicato civile “Enciclopedia del Diritto”, XVIII (Milano 1969), pp. 727 ss.

10 I sostenitori della teoria sostanziale pensano che il giudicato ingiusto crei la situazione sostanziale che in realtà era inesistente; i seguaci della teoria processuale per contro accettano che la situazione sostanziale realmente esistente rimanga immutata e che il giudicato vincoli solo il futuro giudice, ibid., p. 822, n.° 165.

11 Cfr. ibid., pp. 830, 887.

12  Solo non tenendo conto del fatto che la scienza canonistica è una disciplina teologica, il Del Giudice ha potuto affermare che “una questione del metodo nello studio del diritto canonico non esiste”, [Sulla questione del metodo nello studio del diritto canonico, “Il Diritto ecclesiastico”, 50 (1939), pp. 221 ss.], quasi si trattasse semplicemente di un problema di tecnica. Questa tesi ha avuto senza dubbio gravi strascichi per lo sviluppo della canonistica laica italiana.

13  Cfr. V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico (Milano 1970), pp. 36 ss.

14  Cfr. E. Mazzacane, Il giudicato canonico e la certezza del diritto, “Raccolta di scritti in onore di A. C. Jemolo”, I, 2 (Milano 1963), pp. 881 ss.

15  Cfr. per es. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie. Ihre Grundlagen und Hauptprobleme in geschichtlieher Form (Wien2 1965), pp. 100 ss.

16 Cfr. per es. A. Segni, Della tutela giurisdizionale dei diritti. Commentario del Codice Civile cura di Scialoia e Branca, libro sesto (art. 2900-2969) (Bologna-Roma 1953), p. 289.

17  Cfr. per es. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, I11 (München-Paderborn-Wien 1964), p. 114.

18  (Padova 1941), per es. pp. 106 ss.; cfr. anche idem, Diritto canonico, “Enciclopedia del Diritto”, XII (Milano 1964), pp. 888 ss.

19   Cfr. per es. La certezza del diritto e l’ordinamento canonico, “Archivio di Diritto ecclesiastico”, 5 (1943), pp. 360 ss.

20  Su tutta la questione del fine ultimo del diritto canonico cfr. E. Corecco, Il rinnovo metodologico del diritto canonico, “La Scuola Cattolica”, 126 (1969), pp. 11 ss.

21  La certezza del diritto nell’ordinamento canonico, “Ephemerides Iuris Canonici”, 1 (1945), pp. 26 ss.

22  Diritto canonico e dommatica giuridica, “Foro italiano”, LXIV (1939), 41-47 estr.

23  Mazzacane, art. cit., p. 887.

24  Capograssi, art. cit., p. 28.

25 Un esempio estremamente significativo in questo senso è la formulazione del primato pontificio nel c. 218; cfr. Y. M. J. Congar, L’ecclésiologie de la révolution française au Concil du Vatican, sous le signe de l’affirmation de l’autorité: L’ecclésiologie au XX.e siecle (Paris 1960), pp. 100 ss.

26  Cfr. K. Mörsdorf, Zur Grundlegung des Rechtes der Kirche, “Münchener Theologische Zeitschrift”, 3 (1952), pp. 1 ss; id, Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung, “Archiv für katholisches Kirchenrecht”, 134 (1965), pp. 72 ss.

27  Cfr. per es. Joh. Heckel, Initia iuris ecclesiastici protestantium: Das blinde, undeutliche Wort “Kirche”. Gesammelte Aufsätze hrsg. von S. Grundmann (Köln-Graz 1964), pp. 132 ss.

28  Cfr. P. Fedele, Giudicato (diritto canonico), “Encidopedia del Diritto”, XVIII (Milano 1969), pp. 924 ss.

29  Cfr. Mazzacane, art. cit., pp. 888 ss.

30  Le fonti del Mazzacane Sono il Pirhing e il Reiffenstuel (cfr. ibid., p. 888, n. 21).

31  Cfr. E. Corecco, Diritto Canonico, “Dizionario enciclopedico di Teologia morale”, diretto da L. Rossi e A. Valsecchi (Roma 1974), pp. 233 ss.

32  Cfr. nota 29.

33  Ci sembra che anche il Fedele, che pure ha usato espressioni molto decise come: “il principio della certezza del diritto è lettera morta nel diritto canonico”, oppure “che non si possa parlare di certezza del diritto” (cfr. Diritto Canonico, art. cit., pp. 888 ss.) abbia dato, malgrado tutto, una portata troppo limitata alla negazione del principio, come se si riferisse solo a determinati settori dell’ordinamento canonico. Ciò dipende probabilmente dal fatto di non aver stabilito una teoria generale a partire da una chiara impostazione teologica.

34  Cfr. A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico (Milano 1971), pp. 62 ss.

35  Cfr W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum als Gestaltgesetz der einen Kirche, “Archiv für katholisches Kirchenrecht”, 139 (1970), pp. 69 ss.

36   Sul problema del rapporto epicheia e diritto naturale o divino, cfr. Joh. Haring, Die Lehre von der Epikie. Eine rechtswissenschaftlich-moraltheologische Studie, “Theologischpraktische Quartalschrift” 47 (1899), pp. 806 ss.

37  Cfr. per es. Del Giudice, Nozioni, op. cit., pp. 21 ss.; Fedele, Diritto canonico, art. cit., pp. 888 ss.

38  Cfr. C. J. Hering, Die Billigkeit im kanonischen Recht: Beiträge zur Rechtsforschung hrsg. von Ernst Wolf, “Zeitschrift für Ausländiches und Internationales Privatrecht”, 15 (1950), pp. 107 e 109.

39  Cfr. Fedele, Diritto canonico, art. cit., pp. 889 ss.

40  Diritto canonico e dommatica giuridica, art. cit., p. 44.

41  Cfr. Hering, art. cit., p. 109, il quale però non cita nessuna fonte.

42  Cfr. per es. S. d’Angelo, De aequitate in Codice Iuris Canonici, “Periodica”, 16 (1927), pp. 222 ss.

43  Cfr. Mörsdorf, Lehrbuch, op. cit., p. 114.

44  Cfr. per es. E. Wohlhaupter, Aequitas canonica (Paderborn 1931); V.Del Giudice, Privilegio, dispensa e epicheia nel diritto canonico, “Scritti in onore del Prof F. Innamorati” (Perugia 1932), pp. 231 ss.; E. Hamel, Epicheia, “Dizionario enciclopedico diTeologia morale…”, cit., pp. 357 ss.

45  Come per es. l’interpretazione, il permesso presunto, la dispensa, l’autodifesa, la causa scusante ecc. Cfr. Haring, art. cit., pp. 581 ss.; Hamel, art. cit., p. 362; P. G. Caron, “Aequitas” romana, “misericiordia” patristica ed “epicheia” aristotelica nella dottrina dell’“aequitas canonica” (dalle origini al Rinascimento) (Milano 1971).

46  Cfr. per es. A. Szentirmai, Der Umfang der verpflichtenden Kraft des Gesetzes im kanonischen Recht, “Archiv des öffentlichen Rechts”, 47 (1960), pp. 349 ss. Gli istituti giuridici nei quali la nota dell’elasticità si è positivamente declinata sono quasi esclusivamente concepiti in vista dell’uso che di essi ne può fare l’autorità legislativa, giudiziaria e amministrativa. Anche l’istituto della “consuetudo contra legem”, soprattutto nell’assetto datole dal CIC -più positivistico rispetto a quello goduto sotto il regime delle Decretali-non fa eccezione alla regola, in quanto che l’affermarsi della consuetudine “contra legem”, come fonte di diritto, dipende ultimamente dall’approvazione da parte di chi detiene la potestà d’imperio. Sarebbe anche necessario rivedere le basi teologiche con le quali si intende oggi rilanciare il diritto consuetudinario canonico. Non ci sembra, anche se abbiamo condiviso questa opinione (cfr. Il rinnovo metodologico, art. cit., p. 29), che l’elemento carismatico della Chiesa possa essere preso come elemento discriminante. Alla stessa stregua si potrebbe giustificare anche la partecipazione del laicato all’attività legislativa della Chiesa, all’interno degli istituti sinodali moderni [Cfr. invece J. Arias, Las comunidades cristianas y la costumbre, “El Proyecto de ley fundamental de la Iglesia. Texto bilingüe y análisis crítico” (Pamplona 1971), pp. 191 ss.]. Per la consuetudine potrebbero bastare motivazioni più tecniche, essendo una tipica manifestazione della decentralizzazione [Cfr. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (Vicenza 1963), pp. 128 ss., 313 ss.]. Comunque anche la·decentralizzazione non implica necessariamente uno spazio per la consuetudine, per cui anche la problematica teologica concernente il rapporto tra Chiesa Universale e Chiesa Particolare non offrirebbe una base teologica indiscutibile.

47  Cfr. Hering, art. cit., pp. 100 ss.

48  Cfr. ibid., p. 100.

49  L’Haring cita alcuni di questi autori a p. 809 (art. cit.). Tra i moderni cfr. per. es. A. VAN Hove, Commentarium Lovaniense im CIC, II (Mecheln 1928), p. 294; Mörsdorf, Lehrbuch, op. cit., p. 115.

50  Oltre ai tre casi classici d’applicazione dell’epicheia enumerati dal Suarez (legge superiore alle forze, legge manchevole e perciò intollerabile, interpretazione restrittiva della presunta volontà del legislatore -quest’ultimo caso ha determinato in modo unilaterale le definizioni date dell’epicheia dopo il Suarez-), alcuni autori moderni, sostenitori della rivalutazione dell’epicheia come virtù morale, ne propongono un quarto, detto di giustizia sociale, in cui l’epicheia esige una prestazione superiore alla legge, quando la norma fosse incapace a cogliere con giustizia una situazione, cfr. Hamel, art. cit., pp. 363 ss.

51  Ueber die Bedeutung der Epikie im sittlichen Leben, “Philosophisches Jahrbuch”, 53 (1940), pp. 115 ss.

52  Cfr. Hamel, art. cit., pp. 358 ss.

53   fr. ibid., passim.

54  Su tutta la questione cfr. K. Mörsdorf, Der Rechtscharakter der iurisdictio fori interni, “Münchener Theologische Zeitschrift”, 8 (1957), pp. 161 ss.; Id., Der hoheitliche Charakter des sakramentalen Lossprechung, “Trierer Theologische Zeitschrift”, 57 (1948), pp. 335 ss., Id, Lehrbuch, II9, op. cit., pp. 68 ss.; M. Schmaus, Reich Gottes und Bussakrament, “Münchener Theologische Zeitschrift”, 1 (1960), pp. 20 ss.

55 Cfr. H. De Lubac, Corpus mysticum. L’Eucharistie et l’Eglise au Moyen Age (Paris 1949); J. Ratzinger, Leib Christi “Lexikon für Theologie und Kirche”, 2VI, pp. 910 ss.

56  Cfr. K. Rahner, Die Disziplin der Kirche, “Handbuch der Pastoraltheologie”, I (Freiburg-Basel-Wien 1964), pp. 336 ss.

57  Const. Lumen Gentium, n. 11.

58  Cfr. Wohlahupter, op. cit., p. 181; Hering, art. cit., p. 108.

59  Sul significato del voto e delle decisioni dei vescovi nel governo della Chiesa cfr. E. Corecco, Kirchliches Parlament oder synodale Diakonie?, “Internationale Katholische Zeitschrift: Communio”, 1 (1972), pp. 36 ss.; Id., Struttura sinodale o democratica della Chiesa particolare?, “Miscelánea en honor de Juan Becerril Y Antón-Miralles” (Madrid 1974), pp. 279 ss.

1. Premessa

Un congresso internazionale di canonisti, che si celebra periodicamente non può esimersi dal rispondere alla questione centrale che agita il mondo canonistico. Se lo facesse si sottrarrebbe alla sua funzione e responsabilità più propria, che non può ridursi a semplice stimolazione scientifica, ma impone il tentativo di individuare orientamenti per il futuro.
La questione centrale può essere sinteticamente formulata nel seguente modo: dove si colloca oggi, nello sviluppo storico della scienza canonistica (la cui data convenzionale di nascita risale a quella, non ben accertata, di pubblicazione del Decretum Gratiani) il nostro quotidiano lavoro? Quale presa di coscienza domanda la Chiesa alla scienza canonistica alla vigilia della nuova codificazione e forse della promulgazione della LEF?
Lo statuto dei diritti fondamentali, di estrazione culturale extra-ecclesiale, è caratterizzato, come hanno ampiamente dimostrato in questa sedePedro Lombardìa 1 e Cesare Mirabelli 2 , da una multiforme e spesso incerta problematica. Essa è venuta, all’improvviso, a porsi nel cuore stesso dell’ecclesiologia delle tre grandi confessioni e non potrà essere accolta, dal legislatore e dalla canonistica, senza provocare una riflessione più ampia sulla natura del diritto canonico e sul metodo del suo approccio scientifico.
Il canonista o l’ecclesiasticista che insegna da una cattedra ecclesiastica o statale, l’operatore giuridico che applica la norma in sede operativa o il libero professionista, svolge un compito che in modo più o meno diretto obbedisce ad una vocazione di servizio ecclesiale. La preoccupazione che gli strumenti scientifici di cui dispone siano adeguati al bisogno emerso dal Vaticano II, di scoprire e riformulare più precisamente l’identità della Chiesa ad intra ed ad extra, dovrebbe essere quella prevalente su quelle di scuola, ma anche su quella del significato della presenza del diritto canonico nelle università laiche, dove il servizio è diviso tra il bisogno culturale dello Stato moderno e quello della Chiesa.

2. Le tappe di sviluppo della teologia dogmatica

La teologia dogmatica ha già fatto o sta facendo un profondo esame di coscienza. A nessuno di noi è sfuggita, in questi ultimi decenni, l’ampia discussione in corso sulla sua natura scientifica e istituzionale. Il carattere scientifico della teologia, il rapporto teologia e scienze umane, il rapporto teologia e magistero, lo statuto del teologo nella Chiesa sono i temi più ricorrenti di questa vastissima revisione scientifica e culturale in atto nella Chiesa. Anzi la teologia ha già compiuto una considerevole riflessione critica anche sulla propria storia, cosa che la canonistica non ha ancora fatto, almeno con la determinazione necessaria a ricavarne indicazioni metodologiche per il proprio lavoro scientifico.
L’analisi dei grandi metodi storici di approccio teologico al mistero della salvezza in Cristo, ha permesso alla teologia di dare un giudizio critico sulla loro capacità e incapacità ermeneutiche. Non vorrei affermare che questo lavoro di autocritica abbia già permesso alla teologia moderna – emancipatasi dagli schemi tradizionali dopo il Vaticano II, ma le cui radici di rinnovamento affondano in epoche più lontane e diverse -, di trovare un orientamento omogeneo tale da permettere una sintesi nuova. Tuttavia è evidente che questa presa di coscienza critica della propria metodologia è di estrema importanza per il futuro.
Quattro sono le tappe principali di questo sviluppo, che non sono senza parallelismi positivi e negativi con lo sviluppo avvenuto nella canonistica.
La prima è quella della teologia patristica gnostico-sapienziale: essa non è speculativa, ma esistenziale e tende ad una conoscenza globale del mistero in cui intervengono affetto, volontà, concetto, raziocinio, interesse e prassi 3 .
Cerca di dare una risposta globale al significato dell’esistenza concreta dell’uomo, ma è fragile nell’elaborazione ontologica e metafisica del dato rivelato perché sostenuta solo su un eclettismo filosofico di estrazione neoplatonica, non sempre in armonia con la logica del pensiero cristiano.
La seconda tappa è quella della scolastica per la quale il lavoro teologico consiste nel cercare di inserire e interpretare il dato rivelato negli schemi concettuali e nella concezione di scienza aristotelica. I suoi limiti sono l’eccessiva ontologizzazione, l’astrazione concettualistica e deduttivamente astorica oltre che l’incapacità di dare – a partire dai diversi gradi e modi dell’essere in, cui la verità rivelata è catalogata – una risposta ai bisogni concreti della liturgia, della mistica, alle esigenze operative concrete della pastorale. Questa incapacità ha senza dubbio provocato la separazione strutturale e metodologica del diritto canonico dalla teologia, consumata in Graziano.
Superando le diverse variazioni subite dal metodo scolastico di base con l’intervento dell’elemento religioso francescano, sacrale e volontarista, e quelle della seconda scolastica spagnola più intimisticamente rivolta verso i problemi morali dell’uomo, la teologia produce un terzo modello, quello del metodo positivo-apologetico. Alla quaestiosi sostituisce la thesis dove predomina la preoccupazione della prova razionale e controversista – spesso in funzione anti-protestante, dei dati offerti dall’insegnamento del magistero ufficiale della Chiesa, il cui intervento è sempre più capillare e autoritativo.
La tesi è formulata a partire dai documenti del magistero – stilizzati in seguito nel Denzinger -; si indicano gli avversari, per passare alla prova ex scriptura, ex traditione e ex ratione theologica; si confutano eventuali obiezioni e si aggiunge qualchescholion pietatis. Venuta a mancare la forza creativa della metafisica scolastica nelle riduzioni di questo modello sostanzialmente apologetico – che però si era sforzato, nel manuale, di assumere dalle scienze umane moderne il metodo filologico, storico, critico, il senso del divenire storico -, la teologia si è rivelata incapace di proporre la fede con categorie adatte alla cultura del mondo moderno. Ha lasciato irrisolti anche problemi posti dai nuovi fermenti emersi all’interno della teologia stessa, come quello della scuola di Tubinga e quelli del modernismo.
La teologia nata attorno al Vaticano II rappresenta la quarta tappa. È caratterizzata da spunti diversi ma soprattutto da un forte interesse per l’antropologia, rivela aspetti intellettualistici, è vicina alla patristica per certe sue inclinazioni sapienziali, ma senza dubbio, più ancora della patristica è cedente metodologicamente – e spesso sul fondo – a livello filosofico, rispetto alle molteplici tendenze in cui la filosofia moderna si è disgregata. Diventando spesso effimera, assume con troppa disinvoltura le metodologie immanentiste delle scienze umane. I tentativi sono più che lodevoli, ma la crisi metodologica è diventata troppo evidente, soprattutto se confrontata con il recente magistero di Paolo VI, nella sua ultima fase, e con quello diGiovanni Paolo II che si sforza di ridare alla teologia la coscienza di possedere una forza autonoma e primaria di ermeneutica del mistero cristiano.

3. Le tappe di sviluppo della canonistica

Anche in diritto canonico si possono distinguere quattro fasi cui corrispondono quattro diversi modelli.
Il canone o la decretale dei primi secoli hanno, come la teologia patristica, carattere prevalentemente sapienziale. Tendono a risolvere i problemi concreti della Chiesa senza la pretesa di essere l’espressione di un sistema organico, concettualmente elaborato. Subiscono, senza grossi complessi, inflessioni imposte dal diritto romano o dal diritto germanico, secondo i diversi momenti e le diverse situazioni geografiche. Nel primo medioevo si trasformano spesso in capitolari, ma, nella loro funzione originale, le norme canoniche hanno solo la pretesa di tradurre operativamente, nella vita concreta della disciplina ecclesiale, l’immagine teologica che la Chiesa ha del mistero della incarnazione e della esperienza ascetica del cristiano.
I monumenti storici di questo diritto sapienziale sono le raccolte greche e latine che ci sono pervenute, mentre monumento ancora vivente e operante sono i 102 canoni del Concilio Trullano, che rappresentano, ancora oggi, il nucleo della disciplina canonistica orientale.
Per comprendere i limiti di questa produzione legislativa frammentaria, che raramente trova un riconoscimento universale e di conseguenza non può generare una riflessione teorica, non bisogna dimenticare che il regime costituzionale della Chiesa è quello di una comunione di Chiese, più che di una Chiesa comune universale 4 . Rudolf Sohm ha forse giustamente definito questo diritto canonico come diritto sacramentale perché non ha la preoccupazione di adeguarsi al modello culturale del diritto secolare 5 .
Il sorgere di questa preoccupazione culturale e il bisogno di trovare un’identità scientifica propria e autonoma rispetto alla riflessione ontologico-metafisica ma troppo astratta della scolastica, ha fatto nascere, con Graziano, la scienza del diritto canonico. La distinzione metodologico-sistematica del diritto canonico dalla teologia permette e favorisce un confronto più stretto con la metodologia specifica del diritto romano, rifiorito a Bologna e recepito in tutta Europa. 6
L’elaborazione concettuale del diritto canonico si stacca da quella ontologico-metafisica fondata sulla ragione teorica della scolastica. Essa si basa infatti sul raziocinio e sul sillogismo della ragione pratica, in stretta dipendenza reciproca dal diritto romano e permette al ius canonicum, coltivato ormai solo dai latini, di assurgere a scienza generale del diritto, riconosciuta in tutta la cristianità.
Il diritto canonico ha l’autorità di un diritto comune che ordina indistintamente, come ha giustamente osservato Pirson, rapporti giuridici ecclesiali e secolari. Non è il contenuto che diversifica le due scienze, ma la loro fonte legislativa. Il diritto canonico appare di conseguenza come ramo di un ordinamento giuridico universale, che partendo da un’unica e medesima nozione formale di diritto – quella elaborata dalla filosofia scolastica – è capace di dare una risposta a qualsiasi problema di giustizia materiale, ecclesiale e secolare 7 .
Era inevitabile che questa stretta simbiosi scientifica con il diritto secolare impedisse alla canonistica di mediare una conoscenza in profondità del mistero della Chiesa. Ne è prova il fatto che né la canonistica né la scolastica hanno saputo cogliere la specificità ecclesiale del diritto canonico. Neppure San Tommaso, cui pure va il merito di aver perfezionato l’unità ontologica del diritto nella trilogia – di estrazione storico-ciceroniana -, lex aeterna, lex naturalis e lex humana, è giunto a tale risultato 8 . Infatti il concetto di ius humanum è usato per lo più dall’Aquinate indistintamente per il diritto promulgato dai principi e dai prelati.
Dovranno passare tre secoli prima che Francisco Suarez possa porre chiaramente la questione dell’identità specifica del diritto canonico rispetto a quello secolare 9 . Ormai però la creatività del legislatore canonico si è già spenta e la scienza canonistica ha già visto sfiorire il suo secolo d’oro.
La terza fase della evoluzione storica coincide con il notevole sviluppo scientifico della canonistica, registratosi nell’era moderna dal diritto pubblico, che prima aveva sempre subito la indiscussa supremazia culturale e scientifica del ius civile. La nuova scienza parallela allo ius publicum, in campo ecclesiale, è lo IPE.
Esso nasce come diritto confessionale e il suo compito primario, identicamente a quello della teologia positiva, è di natura apologetica. La visibilità istituzionale della Chiesa cattolica e il suo diritto di cittadinanza come societas perfecta diventano i capisaldi di una vera e propria battaglia contro il protestantesimo da una parte, e lo Stato assolutista e secolarizzato dall’altra. I princìpi gius-naturalisti della territorialità e della sovranità rompono definitivamente l’unità politica del mondo medioevale, già compromessa del resto nella rottura dell’unità religiosa 10.
Non intendo soffermarmi sull’analisi dell’IPE come nuova disciplina della scienza canonistica, poiché molti giudizi, dopo i lavori di Alberto De la Hera 11 , Fogliasso 12 e recentemente anche di Joseph Listl13 , sono diventati di patrimonio comune. Mi limito ad osservare che lo IPE è una scienza che, a differenza di quella canonistica medioevale, non ha trovato una traduzione legislativa proprio per la sua fragilità ecclesiologica intrinseca. Ha trovato invece la sua applicazione operativa a livello concordatario. Il CIC ne ha assunto alcuni elementi, ma in sostanza ha codificato il diritto canonico classico, riformato nei suoi contenuti, più che nella sua impostazione di fondo, dal Concilio di Trento.
Se ha contribuito in modo decisivo a salvare lalibertas ecclesiae dall’assolutismo statale moderno, lo IPE non è stato assolutamente in grado, sempre per la sua sfocatura teologico-metodologica, di dare una risposta alla questione fondamentale della natura del diritto canonico posta da Lutero, radicalizzata da Rudolf Sohm e ampiamente dibattuta dalla recente canonistica protestante 14.
Uno dei risultati apparentemente più paradossali del Vaticano II, la cui sottile vena anti-giuridica avrebbe potuto far prevedere ben altri sviluppi, è stato quello di provocare un’abbondantissima produzione legislativa nella Chiesa universale e nelle Chiese particolari, oltre ad una ripresa della politica concordataria. Questo fenomeno, forse inatteso, ma inevitabile e ricorrente dopo ogni grande Concilio ecumenico, è stato accompagnato anche da una vivace ripresa della scienza canonistica.
Il fatto di cui dobbiamo prendere coscienza oggi, per non cedere all’illusione di poter continuare sulla spinta di inerzia del passato, è che si sta delineando una nuova scienza canonistica. Anche la canonistica – come la teologia speculativa – è entrata nel suo quarto periodo storico, dopo quello sapienziale-sacramentale, quello classico medioevale e quello post-tridentino dell’IPE 15 , sfociando, come per tratti successivi di una stessa linea direttrice, in modelli canonistici di grande interesse giuridico e culturale negli ultimi 50 anni che però non ne hanno modificato i parametri metodologici 16 .
Il magistero ha preso tempestivamente atto di questa svolta radicale della canonistica e non ha mancato di favorirla con ripetuti interventi, nei quali ha esortato non solo a stabilire un nesso stringente tra la teologia e il diritto, ma anche ad elaborare una vera e propria teologia del diritto canonico 17 . Come Antonio Rouco Varela ha sottolineato in questa sede 18, la teologia del diritto canonico in quanto tale deve essere considerata come disciplina particolare dell’ecclesiologia.
Ne consegue tuttavia che anche quella parte della scienza canonistica, che non si occupa direttamente della formazione teologica del diritto ecclesiale ma della elaborazione sistematica dei suoi contenuti materiali, appartiene, come scienza, alla scienza teologica.
Questa affermazione incontra ancora molte resistenze. Un certo settore della canonistica teme di perdere, accogliendo tale affermazione con tutte le conseguenze, la propria legittimazione scientifico-istituzionale, soprattutto se insegna in una università laica. Non voglio aprire quest’ultimo aspetto del problema, benché meriterebbe grande attenzione, poiché molto più urgente è affrontare la questione sostanziale sopra esposta; quella del significato del concetto di scienza giuridica e discienza teologica.
Come ha ben mostrato Chenu 19 , le coordinate del problema per quanto concerne la teologia risalgono a Boezio, passano da San Tommaso per riprendere nelle discussioni più recenti. Mi sforzerò di semplificare i termini del problema sollevato daLadislas Örsy 20, esponendolo nei suoi dati elementari.

4. Scienza teologica e scienza giuridica

La tradizione scolastica, mai ricusata dalla scienza canonistica moderna, ha sostenuto che la ragione da cui la legge, sia nella valenza di norma morale che in quella di norma giuridica, dipende, è la ragion pratica. S. Tommaso in particolare ha sviluppato articolatamente questa dottrina, riprendendo la formulazione aristotelica, fin dal Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo 21
Ma per Tommaso e la scolastica ciò non indicava in alcun modo l’esclusione dalla teologia, delle scienze dipendenti dalla ragion pratica. Basti pensare ai fondamenti, squisitamente teologici, della trattazione tomista del tema della legge e del diritto nella Summa Theologiae 22 . Per Tommaso, ma anche per tutta la seconda scolastica, la trattazione di questi temi è parte integrante della scienza teologica 23 . Infatti la ragion pratica non è mai concepita dalla scolastica come a sé stante, ma solo in precisa relazione con la ragione speculativa. Se è vero poi che la ragione speculativa è considerata, da Tommaso, come la più nobile, perché è per se stessa, è anche vero che essa si mantiene sempre strettamente correlata alla ragion pratica, dal momento che la ragione speculativa indica a quella pratica, a quale grado di perfezione quest’ultima debba condurre l’uomo, attraverso la legge 24 .
Quindi, a ben vedere, è l’intero dinamismo della ragione, fatto di dimensione speculativa e pratica, ad entrare in gioco, coniugato alla volontà, nella formulazione della legge e per ciò stesso nella costruzione della scienza (teologica) della legge. È quindi del tutto superficiale e debitrice a quegli aspetti della filosofia moderna che riducono la ragione a pura ragione strumentale, la posizione di chi afferma che la scienza giuridica non può mai rientrare nella sfera della teologia (come è il caso della canonistica), perché la teologia sarebbe il frutto della ragione speculativa, mentre ogni scienza giuridica deriverebbe dalla ragion pratica 25 .
D’altra parte anche la logica formale del raziocinio o del sillogismo in quanto tale non è necessariamente diversa nelle due scienze, poiché la logica – o le diverse logiche – per loro natura sono universali. Non c’è chi sostiene che la giustizia possa oggi essere realizzata attraverso l’applicazione al computer della logica matematica?
Per contro il giurista occidentale – ma molto meno quello anglosassone, come ha sottolineato la relazione di Germain Lesage 26 – non usa della conoscenza simbolica che invece ha predominato nella patristica e caratterizza tutt’ora il metodo teologico orientale, che a differenza della teologia latina e scolastica non è stato marcato dall’influsso culturale del diritto romano. La differenza tra le due scienze, teologica e giuridica, nasce invece dal diverso oggetto formale e materiale.
Per definizione il giurista – cultore di una scienza umana non teologica – usa come unico strumento di conoscenza la ragione e si occupa di un oggetto, il diritto secolare in genere, di origine e natura umana. È positivista solo se crede, con Hegel, che lo Stato sia l’unica fonte del diritto 27. Non è positivista se ammette l’esistenza di norme universali etiche o giuridiche emergenti razionalmente dalla struttura intrinseca della natura creata da Dio, precedenti ogni forma di organizzazione della convivenza civile.
Per definizione il teologo usa come criterio ultimo di conoscenza la fede e si occupa di un oggetto non naturale, ma rivelato. Nel nostro caso il canonista si occupa del diritto divino rivelato e del diritto umano, che per essere autentico dovrebbe sempre essere un’emanazione più o meno mediata del diritto divino positivo.
L’unità ontologica tra diritto divino e umano, con o senza la mediazione del diritto naturale, è uno dei principali fondamenti di tutta la teologia cattolica daSant’Agostino in poi 28 . Il ritorno della teologia moderna, almeno in certi suoi settori, ad un tipo di conoscenza sapienziale, ha inoltre messo in evidenza che la fede, se non è vissuta realmente come criterio pratico di vita, si rivela ultimamente anche incapace di svolgere un ruolo reale come strumento conoscitivo e di giudizio 29 .
Tralascio qui intenzionalmente il problema del rapporto fede vissuta e giudizio di fede. Chi è allora il canonista? Il canonista si contrappone al giurista perché è teologo, in quanto opera in forza dellafides qua e della fides quae creditur. Si distingue dal teologo sistematico poiché il suo oggetto materiale di conoscenza non è il mistero cristiano nella sua globalità, bensì le implicazioni istituzionali dello stesso, vale a dire il ius divinum positivum da cui deriva il ius humanum canonicum.
Il canonista si occupa di una realtà che nella cultura umana universale ha preso il nome di diritto (invece che di etica o di arte), ma che all’interno del mistero della salvezza ha assunto una natura diversa rispetto al diritto secolare e allo stesso ius divinum naturale della tradizione filosofica cristiana che, giova ricordarlo come ha fatto Pedro Lombardia 30, non è il diritto naturale dello stato di giustizia originale, ma quello dello stato di natura dopo il peccato. Infatti, il diritto canonico non si occupa della giustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio, della giustizia rivelata che si manifesta, come ha mostrato Jean Beyer, nella Communio cum Deo et hominibus 31 .
Che rapporto esiste tra la giustizia umana e quella rivelata o ecclesiale? È lo stesso di quello esistente tra la natura e la soprannatura, tra la ragione e la fede, ma di questo parleremo più avanti a proposito dell’applicabilità dei diritti fondamentali dell’uomo nell’ambito del diritto ecclesiale.
Ogni canonista che accetta questi due presupposti gnoseologici, la fede come oggetto formale quo e la fede come oggetto formale quod, per dirla con il linguaggio degli scolastici, svolge nella Chiesa il servizio teologale di iuris-consultus. A livello teorico i termini della questione sono semplici e probabilmente ammessi da tutti. Il problema è piuttosto quello di saperne fare un’applicazione pratica coerente. Come il teologo sistematico o il moralista possono lasciarsi determinare nella loro ricerca dai dati offerti dalle scienze umane più che da quelli offerti dalla fede, compromettendo in tal modo il giudizio finale, così anche il canonista può lasciarsi determinare, magari inconsapevolmente, dai principi ultimi della giustizia umana più che da quelli della giustizia di Dio, diventata istituzione della Chiesa. Esistono in effetti diversi accenti nel modo di coltivare la scienza del diritto canonico. Di ciò dobbiamo tenere conto, ma dobbiamo anche riconoscere che esistono punti fermi qualificanti.
La svolta in atto oggi nella scienza canonistica domanda di sapere usare un’applicazione più coerente del metodo teologico, senza il falso timore di svuotare la norma canonica della sua forza giuridica vincolante, o ancora peggio, della sua natura. Nulla è più vincolante della giustizia di Dio. La funzione delle diverse scuole non è quella di opporsi aprioristicamente, ma di essere complementari.
In merito alla nozione giustizia di Dio, Sobanski ha dato un notevole contenuto attirando l’attenzione sul fatto che i suoi contenuti non sono quelli della giustizia naturale, ma quelli delle tre virtù: fede, speranza, carità 32. Questa osservazione ha le sue implicazioni anche in rapporto al problema dei diritti fondamentali, poiché essi, come hanno fatto osservare Alexander Hollerbach 33 e Amadeo de Fuenmayor 34 , sono correlati a valori fondamentali. Il compito specifico del canonista, ma anche del legislatore, è quello di saper formulare nella norma canonica le implicazioni giuridiche dei valori teologici essenziali, dettati dalla struttura della Chiesa come Communio ecclesiae et ecclesiarum.
Il rinvio alla trascendenza, contenuto nell’istituto classico della aequitas canonica 35 , assume oggi dimensioni ben più vaste di prima, che superano l’orizzonte della filosofia cristiana, per investire quello più specifico della teologia e della ecclesiologia. Se il canonista dovesse rinunciare a priori al compito di cogliere la dimensione giuridica dei valori fondamentali, fede, speranza e carità, dai quali derivano tutti gli altri, saremmo costretti a inchinarci davanti a Sohm che ha teorizzato l’impossibilità di sradicare dall’esperienza cristiana, giustamente definita da Erik Wolf 36 come paradossale, l’antinomia tra diritto e carità, che impedisce al christifidelis contemporaneo di vivere un’esperienza di unità della sua persona nella Chiesa.
Del resto, al di là delle divergenze e diatribe di scuola, è evidente ormai la preoccupazione di tutti i canonisti contemporanei di dare alla loro disciplina un’identità teologica più precisa. Questa svolta verso la quarta fase dello sviluppo storico della canonistica si è imposta anzitutto sotto la spinta della teologia moderna cattolica e protestante (in particolare di Barth37 ; in secondo luogo in forza della constatazione ineludibile che la secolarizzazione della società moderna ha eliminato anche gli ultimi resti di cristianità, alla cui sopravvivenza con anacronismo storico, il legislatore del 1917 aveva ancora creduto.
Nel frattempo i sintomi e i segni favorevoli ad un approfondimento del metodo teologico dei diritto canonico si sono moltiplicati, non da ultimo da parte del legislatore; anche se sono ancora inorganici e riflettono spesso la mancanza di una chiara determinazione nella politica dell’autore della legge. La sistematica del futuro codice, in particolare, potrebbe essere un segno di questa nuova determinazione, anche se, nella fattispecie, una più precisa volontà politica avrebbe potuto far scegliere altri orientamenti, come ad esempio quellosacramentale proposto a suo tempo da Stefan Kuttner 38 . È evidente in ogni caso che il futuro codice non intende più essere il codice di una Chiesa intesa come societas perfecta, ma intesa primariamente come Popolo di Dio.
In questo ampio contesto si pone il problema dei diritti fondamentali attorno ai quali tutti i nodi metodologici della canonistica sembrano proprio venire al pettine.
Diventata negli ultimi decenni una delle voci più autentiche della promozione dei diritti dell’uomo nel mondo contemporaneo, per una questione di principio, la Chiesa sembra – a parere di molti – non potersi esimere da un pronunciamento al suo interno. Pena la perdita della propria credibilità, essa dovrebbe riconoscere non solo, per analogia con lo Stato, l’esistenza di diritti fondamentali specifici del cristiano, ma addirittura la validità immediata degli stessi diritti naturali dell’uomo nel proprio ordinamento giuridico.
Sono due aspetti del problema che interessano inevitabilmente la riflessione teorica generale sul diritto canonico: il primo perché tocca il problema dell’analogia, da sempre cerniera, più o meno consapevole, per mediare l’influsso reciproco tra diritto secolare e canonico; il secondo perché tocca una delle questioni chiave e più delicate di tutta la teologia: il rapporto natura-soprannatura. Per raffrontare correttamente questi due problemi, li separerò l’uno dall’altro.

5. L’applicazione dell’analogia

La canonistica ha sempre avuto coscienza che, rispetto al diritto secolare, quello della Chiesa è un diritto sui generis. La letteratura moderna incomincia inoltre a interrogarsi sull’uso stesso dell’analogia 39 . In ogni caso avverte l’impossibilità di considerare il diritto secolare come analogatum princeps di quello ecclesiale 40 . Nell’accezione aristotelico-tomista – che è quella che conta ai fini del nostro discorso – l’analogia indica prima di tutto un simpliciter diversum e solo in seguito unsecundum quid idem. Essa permette quindi di cogliere negativamente la diversità tra i due ordini giuridici, ma non è in grado di definire positivamente la natura specifica del diritto ecclesiale. Tanto meno permette di elaborare, in modo esauriente, una teoria generale del diritto canonico, che ne rispetti la ascendenza teologica.
Nell’analogia proportionalitatis che, come ha sottolineato recentemente Hubert Müller 41 , e quella fondamentale, il rapporto non si stabilisce direttamente tra le due realtà messe a confronto, ma attraverso la mediazione di un elemento comune che le trascende. Questo tertium non può essere il diritto statuale, ma la nozione di diritto in quanto tale. Essa al pari della nozione dell’essere, del buono e del bello è trascendente ad ogni forma concreta di diritto.
La nozione di essere infatti è trascendente all’applicazione suprema che di essa si realizza in Dio. Come ha precisato Wilhelm Bertrams 42 , in uno degli ultimi scritti, la nozione di diritto si realizza in modo diverso, così come l’essere si realizza in modo diverso in Dio e nella creatura: simpliciter diversum e solo secundum quid idem.
Di questa stessa legge dell’essere, che per sua definizione è analogico, bisogna tener correttamente conto anche a proposito dei diritti fondamentali. L’istituto statuale non è quindi l’analogatum princepsdi quello canonico. Il punto di riferimento comune è senza dubbio la nozione di diritto, che si realizza in modo diverso nei due ordinamenti.

6. Il concetto di “fondamentalità” nell’“ordinamento canonico”

Resta da vedere se anche la categoria espressa dall’aggettivo fondamentale è trascendente i due ordinamenti giuridici, quello statuale e quello ecclesiale, così da poter essere applicata a tutti e due sulla base dell’analogia proportionalitatis. Nella fattispecie penso che la categoria espressa dall’aggettivo fondamentale non sia trascendente, ma specifica del diritto pubblico costituzionale dello stato moderno. Infatti, non esiste identità, neppure sotto il profilo del diritto statuale, tra i diritti dell’uomo in quanto tali e i diritti fondamentali.
Il concetto di fondamentalità è correlativo alla funzione che i diritti del l’uomo acquistano all’interno del sistema costituzionale dello Stato moderno. In campo ecclesiale potrebbe essere più corretto perciò non definire i diritti del cristiano come diritti fondamentali, ma eventualmente come diritti primari o semplicemente come diritti. La disputa avvenuta attorno all’esistenza o meno, in diritto canonico, di diritti soggettivi, cui ha fatto allusione anche Giorgio Feliciani 43 , dimostra che anche in altri settori della canonistica l’uso dell’analogia è legittimo solo se rigoroso.
Nell’ordinamento costituzionale dello Stato moderno la nozione di diritto fondamentale significa originariamente due cose: preesistenza della persona come soggetto giuridico rispetto allo Stato, e, di conseguenza, garanzia di uno spazio di autonomia per l’individuo. Come ha dimostratoAlexander Hollerbach 44 in particolare la nozione storicamente originaria dei diritti fondamentali è evoluta fino al punto da trasformare la stessa nozione originaria del moderno Stato di diritto. Dallo Stato chiamato a garantire l’applicazione del diritto, si è passati allo Stato sociale, chiamato a programmare e promuovere il benessere materiale e si è giunti al modello di Stato culturale chiamato a promuovere anche l’attività culturale e spirituale del cittadino.
La struttura originaria di bipolarità concorrenziale tra cittadino e Stato è tuttavia rimasta sostanzialmente intatta. In tutte e tre le forme di evoluzione del modello statale occidentale, il cittadino continua a rivendicare uno spazio di autonomia individuale e lo Stato continua a limitare l’uso del proprio potere anche se è chiamato positivamente a moltiplicare i suoi interventi in favore del cittadino, ben al di là delle previsioni insite nel modello originale dello Stato di diritto. Il problema si risolve non eliminando la bipolarità strutturale ma nel regolarla secondo il principio del check and balance.
Era inevitabile che nel corso di questa evoluzione anche la questione dei doveri del cittadino subisse precisazioni ulteriori. Se la libertà, come ha detto S. E. il Card. Ratzinger 45 , è libertà solo quando accetta di essere vincolata, anche i doveri del cittadino si sono moltiplicati, rispetto a quelli primari dello Stato di diritto, riducibili al dovere di scolarità, di contributo fiscale e di servizio militare.
Concludendo si può dire che la potenzialità intrinseca ai diritti dell’uomo, ma anche ai diritti fondamentali, che ha sempre debordato i confini individuali, ha alla fine investito tutta la struttura costituzionale dello Stato. Il principio democratico, la separazione dei poteri, il principio della costituzionalità e della legalità, quello della socialità e il federalismo sono derivazioni, più o meno lineari, dei diritti fondamentali, che hanno determinato il passaggio dallo stato assolutista a quello democratico.
Il carattere di fondamentalità assunto dai diritti dell’uomo nel sistema costituzionale dello Stato è tale perché determina profondamente la struttura stessa della costituzione, il cui telos è quello di garantire che questi stessi diritti vengano realizzati, non solo dal profilo formale ma anche da quello materiale. Queste sono le implicazioni immanenti alla nozione di fondamenlalità propria di taluni diritti del cittadino.
Ci si deve allora chiedere se sotto il profilo metodologico sia possibile risolvere il problema dei diritti dei cristiani nella Chiesa applicando loro, per analogia, la stessa nozione della fondamentalità; oppure se non si debba procedere, in modo autonomo a partire da una riflessione ecclesiologica, accontentandosi eventualmente della analogia attributionis, che però non è costitutiva.
Qualsiasi scienza, ma in modo particolare quella teologica, e perciò quella canonistica, che procedesse solo per imitazione di contenuti di altre scienze senza avere la forza di elaborare il proprio progetto culturale non avrebbe più nulla di vero e profetico da dire all’uomo. Anche la scienza canonistica deve perciò costruirsi a partire dalla coscienza profonda delle proprie capacità, delle proprie fonti ermeneutiche e della certezza incrollabile di partecipare non in modo derivato, ma originale ed autonomo, alla natura e alla conoscenza della ricchezza analogica dell’essere.
Il carattere di fondamentalità sembra dunque essere non l’elemento che unisce la posizione giuridica della persona nello Stato e nella Chiesa, ma l’elemento che la diversifica.
La prima constatazione che si impone è la seguente: la struttura costituzionale della Chiesa non ha come telos quello di garantire la realizzazione dei diritti dei fedeli. Forse rifacendosi a presupposti teologici differenti Dietrich Pirson 46 ha espresso questo stesso concetto quando ha affermato che il diritto costituzionale delle Chiese luterane non ha mai avuto come funzione primaria quella di occuparsi della posizione giuridica del singolo cristiano. Ha avuto piuttosto il compito di garantire una struttura organizzativa: è unOrganisationsrecht.
Come è sottolineato da Antonio Rouco Varela 47 ,la costituzione della Chiesa ha come scopo primario quello di dare la garanzia che la Parola e il Sacramento celebrati oggi nella Chiesa siano ancora la stessa Parola e lo stesso Sacramento istituiti da Cristo. Essa deve conservare autentico il messaggio di salvezza attraverso la mediazione della Chiesa, che si esprime concretamente appunto nella sua struttura costituzionale. Il soggetto ultimo operante nella Chiesa è Cristo, è il Cristo che ha inviato lo Spirito Santo.
La Chiesa ha una responsabilità propria, ma la sua soggettività non è esclusiva e autonoma rispetto a Cristo capo invisibile della Chiesa.
La seconda constatazione è la seguente: i diritti specifici dei cristiani non sono preesistenti alla Chiesa, ma conferiti dalla stessa attraverso il battesimo e gli altri sacramenti. A questo proposito mi sembra opportuno osservare che potrebbe essere teologicamente scorretto considerare il battesimo come unico ed esclusivo fondamento dei diritti fondamentali del cristiano. Sotto il profilo ecumenico e nella prospettiva di Sobanski 48 , potrebbe essere giustificato, tuttavia non bisogna dimenticare che il battesimo è solo la ianua degli altri sacramenti. Ignorarli in questo contesto potrebbe equivalere a svuotarli del loro significato, poiché non sono solo uno sviluppo ulteriore del battesimo: sono costitutivi della personalità ecclesiale globale. Questo brevissimo accenno mette per lo meno in luce il fatto che il problema dei diritti fondamentali non è ancora stato colto in tutti i suoi aspetti teologici.
La terza constatazione è che anche il concetto di autonomia individuale derivante dai diritti fondamentali non è applicabile alla costituzione della Chiesa. Ciò non significa che il cristiano non goda di una propria autonomia, ma solo che le implicazioni legate al concetto del diritto fondamentale non sono ad essa applicabili. Del resto anche il concetto di autonomia assume nella Communio ecclesiae et ecclesiarum – dove esiste un’autonomia della Chiesa particolare rispetto a quella universale 49 – connotazioni specifiche e proprie.
Da questo breve raffronto degli elementi centrali del problema si deve concludere che la teoria generale dei diritti fondamentali propria del diritto pubblico costituzionale dello Stato, non può essere impunemente ripresa nella teoria generale del diritto canonico. Il carattere della fondamentalità non sembra essere un concetto che trascende i due ordinamenti, statuale e canonico, e di conseguenza non può essere applicato per analogia proportionalitatis alle due realtà. Prima di dare un giudizio definitivo comunque è necessario fare un’altra verifica affrontando il problema non più perviam negationis o comparationis, ma per via positiva. Questo coincide col porsi il problema della esatta valenza costituzionale, della categoria ecclesiologica e canonistica di Communio.

7. La nozione di “communio”

Quello di Communio, a causa della poliedricità dell’uso, è diventato un concetto tra i più fluidi e ambigui del linguaggio teologico post-conciliare. È ilpasse-par-tout con il quale si pensa di poter dare una risposta a tutti i problemi. All’interno dell’oscillazione cui è normalmente sottoposto (psicologica, etica, spirituale-mistico, pastorale), si tratta di isolare il nocciolo strutturale e perciò istituzionale del suo significato.
Il locus theologicus della nozione di Communio è l’ecclesiologia e in particolare l’art. 23,1 della LG dove per altro il termine Communio in quanto tale non appare. È stato Winfried Aymans nella linea diKlaus Mörsdorf 50 , che mi onoro di chiamar maestro – in una rilevante monografia 51 a mettere in evidenza la genialità teologica della formula conciliare, contenuta in questo articolo: “in quibus et ex quibus una et unica ecclesia catholica exsistit”. La Communio ecclesiarum non nasce dal fatto che ogni Chiesa particolare è Chiesa perché realizza concretamente e con fedeltà più o meno grande la Chiesa universale, concepita quasi platonicamente come modello o archetipo astratto. In questa linea tende a muoversi la teologia ortodossa orientale, che in effetti non usa la categoria Communio ma quella Sobornost 52 .
La Chiesa universale non si realizza neppure in forza della volontà corporativa delle Chiese particolari, che ha spinto ben presto le Chiese e le comunità ecclesiali nate dalla Riforma ad associarsi in federazioni piu vaste. È questa una concezione che si muove sullo sfondo della filosofia nominalista, propria del tardo medioevo – che concepiva la Chiesa e il Concilio Generale corporativisticamente53 – di cui Lutero e gli altri riformatori hanno subito l’influsso.
Nella concezione ecclesiologica del Vaticano II laCommunio nasce dal fatto che la Chiesa universale esiste concretamente solo nella misura in cui si realizza nelle Chiese particolari e dal fatto che essa, in quanto realtà concreta – non solo ideale e astratta – è costituita a sua volta dalle Chiese particolari. La Chiesa universale che si realizza nelle Chiese particolari è la stessa che si costituisce dalle Chiese particolari. La formula “in quibus et ex quibus”, della LG 23,1, coglie il mistero della Chiesa nella sua essenza istituzionale. È perciò un modello conoscibile solo per fede che, in forza di una logica precisa, non trova riscontro adeguato in nessun modello costituzionale statale, neppure in quello federalistico. È evidente che lo sfondo culturale aristotelico-ilemorfistico, in cui si è mossa di preferenza tutta la teologia latina, non è estraneo a questa formula conciliare, che ha ripreso e perfezionato la ben nota formula di San Cipriano 54. Questo sia detto, anche se la formula della fede, per tutte le confessioni, trascende sempre, nel suo nocciolo, i presupposti culturali filosofici da cui essa immediatamente dipende.
Il significato strutturale della categoria Communio è stato espresso con un’altra formula, particolarmente efficace, da Hans-Urs von Balthasar 55 nel titolo del suo libro Il tutto nel frammento. Tutta la Chiesa è presente nel frammento della Eucarestia; d’altra parte la Chiesa stessa nella sua totalità si costituisce, a sua volta, a partire dalla celebrazione di tutte le Eucarestie.
Questa dinamica strutturale della Communio rimane la stessa anche quando dalla ecclesiologia si passa alla antropologia teologica. La personalità del cristiano, in quanto uomo nuovo che ha abbandonato l’uomo vecchio, è determinata dalla comunione. La sua identità metafisica e giuridica è data dal fatto che in forza del battesimo l’uomo è stato radicato strutturalmente, e non solo dal·profilo etico, nel Cristo. Il cristiano rappresenta il Cristo poiché in lui è presente tutto il Cristo con il suo Corpo Mistico. Il cristiano non può perciò essere concepito come una entità individuale contrapposta a quella collettiva, ma come soggetto al quale tutta la comunità dei cristiani è misteriosamente, ma realmente, immanente. Sul piano giuridico il rapporto con tutti gli altri membri della comunità cristiana – anche con quelli che esprimono la funzione di servizio dell’Autorità – cambia strutturalmente. Non esiste più come rapporto di polarità concorrenziale.
Questa integrazione è strutturale e totale. Il canone 87 del CIC testimonia fino ad oggi che questa è la coscienza antropologica più profonda della Chiesa. Il cristiano è visto, da una parte, come colui che è sminuito nella sua personalità ontologica e giuridica se vive extra-communionem, dall’altra, come colui che non può sottrarsi totalmente allo statuto ontologico della comunione stessa. Egli appartiene costituzionalmente, per sempre, all’unica Chiesa di Cristo mediante il battesimo: semel christianus, semper christianus.
La struttura costituzionale della Chiesa e il rapporto giuridico proprio alla sua concezione antropologica, non coincidono né con il modello dello Stato liberale democratico moderno, né con quello dello Stato socialista.  Nel primo l’individuo è concepito a partire dalla sua alterità ripresso alla collettività. Anche se i nessi strutturali dei due poli stanno diventando sempre più complessi e stringenti, l’elemento del in quibus non si realizza. L’individuo non realizza in sé tutta la collettività, come lo Stato federato non realizza in se tutta la Confederazione.
Non dobbiamo ingenuamente credere che lo Stato occidentale moderno, anche nelle sue espressioni teoriche e pratiche, ritenute migliori nel mondo occidentale, sia una emanazione autentica del diritto naturale e perciò espliciti con fedeltà la natura dei rapporti intersoggettivi così come Dio li avrebbe costituiti in nuce nella creazione. Basterebbe la testimonianza data da Leonardo Boff 56 per richiamare alla coscienza di tutti questa fonda mentale verità. Il diritto naturale moderno, di estrazione razionalistica e naturistica, non coincide necessariamente neppure con il ius divinum naturaledi tradizione cattolica suareziana, in quanto diritto proprio allo stato di natura dopo il peccato originale.
Nello Stato socialista la situazione strutturale è capovolta. L’individuo è finalizzato allo sviluppo storico-dialettico del collettivo. L’autonomia del singolo è negata e la collettività non e concepita come costituita da tutti gli individui: l’elemento dell’ex quibus è sacrificato. Non faccio in questa sede riferimenti al modello dei diritti fondamentali che alcuni autori chiamano terzomondista perché non sembra ancora essere interpretabile in modo concettualmente univoco 57 .
Da questo esame della struttura comunionale della Chiesa e dell’antropologia teologica cristiana mi sembra che la prova positiva della impossibilità di applicare la categoria della fondamentalità mediante l’analogia proportionalitatis, ai diritti del cristiano nella Chiesa, possa essere considerata sufficientemente valida.

8. La nozione di “diritto” come “dovere”

Ci si può tuttavia ancora chiedere se non sia possibile risolvere il problema capovolgendo il rapporto tradizionale diritto-dovere, in dovere-diritto. Dal congresso non mi sembra sia venuta nessuna indicazione stringente in questo senso. Le due formule sono state usate indistintamente senza la pretesa di mettere a tema la natura e l’ordine dei due termini del rapporto. Anche i cataloghi progettati per il nuovo codice Lex fundamentalisalternano i due valori senza lasciarne apparire precisi criteri di scelta.
Il problema è stato però posto in modo estremamente chiaro e brillante da Piero Bellini 58in un suo recente articolo. Gli ordinamenti giuridici dello Stato e della Chiesa non obbediscono allo stesso modello, da Bellini chiamato culturale, per differenziare il suo approccio al problema da quello tradizionale, filosofico e teologico. Il modello laico è fondato sul diritto naturale, quello ecclesiale su una concezione religiosa sacrale. In essa la posizione del credente è definita primariamente dal concetto di dovere. Il dovere postula per sua natura il diritto di potersi realizzare.
Per quanto interessante e storicamente documentabile, attraverso Jacques Maritain 59 , questa posizione potrebbe tradire una opzione filosofica diversa da quella in cui si è mosso fino ad oggi il dibattito canonico sui diritti fondamentali. Come ha fatto osservare Dietrich Pirson 60 , ma anche Ulrich Scheuner 61 in un suo articolo, determinate inclinazioni del luteranesimo hanno esercitato un influsso sulla idea di diritto come dovere 62 . In effetti anche la scuola francescana del tardo medioevo, da cui Lutero dipende, aveva interpretato la categoria di lex aeterna che sta all’apice della trilogia tomista lex divina, lex naturalis, lex humana, non come espressione della ragione divina, ma come espressione della voluntas Dei 63 .
In sintesi credo che la sostituzione del modello tradizionale, di ispirazione realista, con un modello volontarista – più incline al positivismo giuridico – non sia sufficiente per dirimere la questione del significato costituzionale dei diritti del cristiano nella Chiesa. La tradizione cattolica ha sempre individuato nella ontologia l’infrastruttura filosofica che meglio di ogni altra le poteva garantire l’equidistanza degli estremi. In realtà più che di compiere una volontà di Dio, concepita come intervento eteronomo rispetto alle cose, si tratta di prendere coscienza della struttura che le cose hanno per loro natura. In essa Dio manifesta la sua volontà. Comunque anche questo problema rimane aperto.

9. Clausole garantiste

Concludendo questa prima parte del discorso relativa ai diritti del cristiano nella Chiesa è necessario sottolineare con ogni chiarezza che l’eventuale negazione del carattere di fondamentalità dei diritti del cristiano nella Chiesa non implica per nulla la negazione dell’esistenza dei diritti del cristiano nella Chiesa; diritti tra cui esiste un’evidente scala gerarchica di priorità.
I·dibattiti del Congresso – in modo particolare quelli concernenti la II. e la III. Sessione, hanno permesso di mettere a fuoco moltissimi problemi e messo in luce i molti limiti dell’attuale formulazione.
In particolare, se è vero come ha sostenuto Helmut Schnitzer 64 , che il progetto legislativo si è sforzato di cogliere la specificità dei diritti del cristiano rispetto ai diritti naturali apponendo tutta una serie di precisazioni e cautele, è altrettanto vero che proprio queste clausole salvatorie sono, come ha sostenuto Jean Bernhard 65 , di natura garantista. Esse mirano più a conservare intatta la posizione della gerarchia che a precisare i diritti stessi dei fedeli. Basterebbe questo giudizio critico per evidenziare la necessità di procedere, comunque, ad un nuovo esame della loro formulazione, prima della promulgazione del nuovo CIC o della LEF.

10. Conseguenze della non “fondamentalità”

I problemi conseguenti alla negazione dellafondamentalità dei diritti del cristiano nella Chiesa, sono molteplici. Capisco di non poter soffermarmi, per cui mi limito ad enumerarne qualcuno, tenendo conto soprattutto di quelli emergenti in forza della logica propria alla tecnica giuridica:
– problema della collocazione sistematica dei diritti del cristiano (nel CIC o nella LEF),
– problema della loro protezione giuridica specifica,
– problema della opportunità stessa di promulgare una LEF come quella attuale.
Si tratta infatti di un modello di Legge Fondamentale che coglie il mistero della Chiesa a livello di elementi ecclesiologici non primari, ma derivati 66: diritti fondamentali – distribuzione del potere (rapporto papa-vescovi) ed esercizio del potere (tria munera). Gli elementi primari, Parola-Sacramento e carismi, che pure hanno una valenza giuridica non emergono come elementi portanti 67 . Infatti troppo spesso il discorso scivola ad un livello di pura tecnica giuridica. Passo perciò alla seconda questione di fondo.

11. Correlazione tra i valori fondamentali e i diritti del cristiano

In che senso è legittimo affermare che i diritti dell’uomo derivati dal suo statuto creazionale, cioè dalla dignitas humanae naturae – espressione culturale già contenuta nella lettera di Clemente ai Corinti e trasmessa al medioevo dalla eloquenza di papa Leone Magno 68 – sono applicabili anche come diritti del cristiano nella Chiesa? Il canone 3 dell’ultimo progetto (1978) della LEF elude il problema 69 , ma la dottrina canonistica deve saper dare una risposta chiarificatrice all’interrogativo, qualche volta inquietante 70 , posto non solo dall’opinione pubblica ma anche dagli ambienti scientifici.
Il problema è risolvibile solo subordinatamente alla questione più radicale che gli sta a monte: il rapporto tra natura e soprannatura, tra ragione e fede, da sempre una crux theologorum. Qualche precisazione comunque è possibile. Man mano che la Chiesa riesce a mettere a tema la propria esperienza, la ragione permette di conoscere con profondità sempre maggiore la ragionevolezza intrinseca dei contenuti della fede. La fede permette a sua volta di mettere in luce la verità ultima e propria dei contenuti della conoscenza razionale. Secondo la tradizione cattolica non esiste contradditorietà tra le due conoscenze anche se la salvezza viene dalla fede e non dalla ragione. Si tratta di una interdipendenza fondata sulla preminenza della fede rispetto alla ragione, poiché la certezza ultima della fede non si appoggia sulla ragione e poiché solo la fede, in quanto dono gratuito di Dio, assicura la conoscenza certa e definitiva del significato dell’uomo e della storia.
I diritti dell’uomo, anche quando dovessero essere formulati a partire dalla coscienza cristiana già illuminata dalla fede alla quale allude la formula di estrazione suareziana del ius divinum naturale (e non a partire dal diritto naturale moderno di estrazione razionalistica), non possono essere considerati come fonte di conoscenza adeguata e come parametro dei diritti del cristiano nella Chiesa.
Il discorso assume una precisione ancora maggiore se si tien conto della distinzione e della correlazione esistente tra diritti fondamentali e valori fondamentali.
Si tratta di una distinzione e di una correlazione del problema, che esistono anche a livello teologico e canonistico. I lavori del Congresso l’hanno messo più volte in evidenza. L’osservazione, fatta daAmadeo de Fuenmayor 71 , circa l’ambiguità e lo scarto reperibili tra la formulazione dei diritti fondamentali del cittadino e i valori fondamentali della società e dello Stato, è illuminante. Anche in diritto canonico non si può prescindere, nell’affrontare i diritti del Cristiano nella Chiesa, dal rapporto di correlazione esistente tra norma giuridica e valore.
Persino nell’ipotesi che i diritti fondamentali e costituzionali del cittadino riuscissero a declinare in un determinato momento storico i valori specifici delius divinum naturale (che comunque rappresenta il diritto proprio allo status naturae dopo il peccato originale e non quello della natura umana dello stato di giustizia originale) non potrebbero ancora essere considerati come criterio qualificante l’esperienza ecclesiale. Infatti i valori umani fondamentali, pur non essendo, per principio, contradditori a quelli soprannaturali non coincidono con essi; anzi, se applicati in modo assoluto, potrebbero diventare di ostacolo ad una esperienza ecclesiale.
Lo scarto esistente tra i due cataloghi (quello dei diritti fondamentali dell’uomo e quello dei diritti del cristiano nella Chiesa) è lo stesso che esiste tra la funzione del decalogo per la convivenza sociale umana e la funzione del discorso della montagna per l’esperienza ecclesiale. È vero che il cristianesimo ha assunto i valori etici del diritto naturale, attraverso la mediazione culturale dello stoicismo, ma è altrettanto vero che le quattro virtù cardinali, in quanto espressione sintetica di questi valori, non possono essere messe sullo stesso piano delle tre virtù teologali. Remigiusz Sobanski72 ha fatto notare, giustamente, che, nella Chiesa, non esistono due piani diversi ugualmente validi: quello della giustizia e quello dell’amore (come una certa manualistica del passato ha potuto invece far credere).
Le virtù teologali, di cui la carità è l’espressione globale, non rappresentano il livello di valore non necessario rispetto alla giustizia. Se si dovesse accettare questa dicotomia tra etica naturale necessaria e carità non necessaria, bisognerebbe allora accettare l’affermato antagonismo tra diritto e carità, che non ha fondamento nell’ecclesiologia.
È stato sottolineato da più parti che il diritto principale del cristiano è quello di poter ricevere dai pastori l’annuncio integrale della fede 73 , della speranza e della carità, attraverso la mediazione dei Sacramenti e della Parola. Da questo diritto ne deriva un altro: quello di partecipare responsabilmente, secondo modalità, funzioni e carismi diversi, alla costruzione della Chiesa. A sua volta questo diritto è il fondamento che permette di individuare con maggior precisione la valenza teologico-canonistica che dovrebbe essere riconosciuta al sensus fidelium 74 .
Chi non pratica la fede, la speranza e la carità, da cui dipendono e verso cui convergono tutti i valori fondamentali dell’esperienza cristiana, non pratica, ultimamente, la giustizia ecclesiale: non garantisce agli altri ciò cui hanno diritto, non realizza l’unicuiquesuum 75 . La fede, la speranza e la carità sono valori sociali che costituiscono il tessuto intersoggettivo della struttura comunionale della Chiesa, radicata nella forza, giuridicamente vincolante, della Parola e del Sacramento.

12. Applicabilità dei diritti naturali?

 Quale valore deve allora essere riconosciuto nella Chiesa ai diritti naturali dell’uomo? Mons. Antonio Rouco Varela 76 ha proposto come criterio di soluzione la categoria della sussidiarietà. I diritti naturali dell’uomo in quanto tali da una parte, e i diritti fondamentali, formulati costituzionalmente dal diritto pubblico moderno, dall’altra, sarebbero applicabili, in modo sussidiario, sia dal profilo contenutistico che giuridico. Questo a condizione che non risultino concretamente contradditori alla specificità propria dei diritti del cristiano e a condizione che contribuiscano positivamente al perseguimento dei fini propri del diritto canonico.
In vista di una teoria generale del diritto canonico mi sembra possibile precisare ulteriormente la questione. Il principio di sussidiarietà così come è stato formulato da Gustav Gundlach 77 e dalla dottrina sociale della Chiesa, ma anche dal diritto canonico moderno, implica due elementi. Da una parte regola il rapporto di potere tra l’istanza superiore e quella inferiore (e non viceversa!), dall’altra ammette che l’istanza inferiore possa risolvere la controversia in questione in modo definitivamente valido. Ciò equivale a dire che il valore, implicito nella decisione dell’istanza inferiore, ha in se stesso carattere assoluto. I valori naturali dei diritti dell’uomo non hanno per contro valore assoluto, ma sono semplicemente relativi rispetto ai valori soprannaturali e ai diritti del cristiano nella Chiesa.
Questa relatività si manifesta a due livelli diversi. Nel grado di conoscenza, perché, come abbiamo visto, solo la fede dà una certezza assoluta di verità; nel grado di applicabilità, perché possono avere solo una funzione di supplenza. Sono applicabili solo quando la fede non è ancora arrivata ad una conoscenza della verità e dei valori superiore a quella della ragione, oppure quando la mancanza concreta di fede, nei cristiani o nei pastori, esige il ricorso a criteri più facilmente diffusi e accettati da tutti. La pratica dei diritti naturali potrebbe perciò costituire concretamente il presupposto o la conditio sine qua non per salvare l’unità nella Communio, in mancanza di altri criteri capaci di promuoverla positivamente.
Mi sembra che il principio scolastico, radicato nel cuore stesso della teologia cattolica, gratia perficit, non destruit naturam, dia la chiave di soluzione del problema. La natura non produce la grazia; la grazia presuppone la esistenza di una natura, quella dellostatus peccati originalis, sufficientemente sana per essere capace di offrire ancora il supporto necessario affinché la grazia non diventi una sovrastruttura alla storia ma possa penetrare in essa trasformandola. Questo principio teologico, applicato del resto in diritto canonico a proposito del rapporto contratto matrimoniale sacramento, non può non essere impiegato, in tutto il suo rigore, dalla canonistica, anche a proposito dei diritti del cristiano 78.
Il paradigma del rapporto tra diritti naturali dell’uomo e diritti del cristiano, appare del resto in modo evidente nel diritto alla libertà di coscienza. Esso non è applicabile come diritto fondamentale del cristiano nella Chiesa, tuttavia costituisce il presupposto naturale senza del quale neppure la Chiesa potrebbe costituirsi. Già Graziano, citato come fonte dal canone 1351 del CIC, fa stato di questa coscienza antica della Chiesa 79 . Il cristiano non gode della libertà di coscienza nel senso che la comunità ecclesiale non possa domandargli, come condizione della sua appartenenza, un comportamento confessionale vincolante; ma, come è già stato sottolineato da più parti in questa sede 80 , gode del diritto che nei suoi confronti la Chiesa non eserciti alcuna forma di costrizione usando mezzi per loro natura estranei al proprio ordinamento giuridico.
La libertà di coscienza è stata indicata ripetutamente dal magistero come diritto fondamentale dell’uomo in cui convergono tutti gli altri diritti naturali e costituzionali 81 . In questo senso costituisce il parametro del rapporto tra natura e soprannatura, tra ragione e fede. Non è possibile infatti stabilire limiti alla possibilità di espansione della fede e alla possibilità di un suo approfondimento totale.
Lo stato ecclesiale dei consigli evangelici (che sta accanto a quello laicale e presbiteriale in un rapporto di interdipendenza circolare poiché ognuno dei tre stati ha una qualche priorità sugli altri) ha esattamente la funzione di richiamare tutti i fedeli alla possibilità di una adesione totale alla fede, alla speranza e alla carità, slegata da vincoli e limiti umani propri allo stato di natura corrotta. In effetti lo stato dei consigli evangelici rende costante testimonianza alla dimensione escatologica di tutta la Chiesa. Solo nell’escatologia sarà realizzata, nel suo compimento totale, la natura umana, secondo lo statuto che le fu proprio nello stato di giustizia originale: quello di essere feconda in modo verginale; quello di possedere senza sottostare a limiti; e quello di essere libera pur praticando un’obbedienza totale 82 .
In questo senso mi sembra di poter integrare anche l’ammonimento fatto da Leonardo Boff 83 circa il diritto fondamentale del povero nella Chiesa. È vero che i cataloghi dei diritti fondamentali del cristiano espressi nella LEF e nel secondo libro del progetto di codificazione non formulano alcun diritto particolare del povero. In sede di teoria generale si tratterebbe anzitutto di riuscire a definirne la configurazione giuridica. Due brevi osservazioni comunque mi sembrano opportune.
Anche nell’ipotesi che si possa isolare uno statuto giuridico del povero in quanto tale, non si tratterebbe comunque d’introdurre nella Chiesa un catalogo di diritti sociali naturali in sua garanzia. Caso mai si tratterebbe di identificare l’eventuale rapporto giuridico esistente tra i cristiani a livello dei beni patrimoniali. Il diritto del povero nella Chiesa dovrebbe essere quello di poter partecipare pienamente alla comunione dei beni. Criterio che dovrebbe essere considerato come l’unico, autenticamente cristiano, di possesso patrimoniale. Come si può ancora vedere nelle stupende e insuperate pagine di Jacques Maritain 84 sulla proprietà privata e il bene comune. Il nuovo progetto di diritto patrimoniale non afferma purtroppo il criterio della comunione dei beni come principio generale; tuttavia lo applica in modo esplicito a proposito di certi nuovi istituti (introdotti peraltro solo in funzione del clero) 85 .

13. Conclusioni

 Diritti naturali dell’uomo validi anche per il cristiano nella Chiesa? La risposta è un sì e un no allo stesso tempo. Un sì perché i diritti naturali sono un limite e una condizione previa affinché la Communiopossa realizzarsi, un no perché essi in quanto espressione di valori non soprannaturali non sono di per se stessi capaci di generare la Communio ecclesiae et ecclesiarum in quanto tale. Un sì perché la Chiesa in un determinato momento storico potrebbe ritenere necessario di ricorrere ad essi per provocare una riflessione più profonda sulla natura dei diritti del cristiano; un no perché la loro funzione può essere considerata solo come provvisoria e interlocutoria, più che sussidiaria, in attesa che i cristiani recuperino totalmente nella fede, nella speranza e nella carità i valori e i criteri che dovrebbero determinare la specificità della loro esperienza ecclesiale.
Il diritto canonico non può rinunciare a queste precisazioni non solo in sede teoretica generale ma anche in sede legislativa. A mio avviso al canone 3 dell’ultimo progetto della LEF dove la Chiesa professa la propria stima e il proprio impegno in favore dei diritti fondamentali dell’uomo, andrebbe aggiunto un secondo paragrafo in cui si affermi:“caveant tamen christifideles ne, recursu exclusivo ad jura fundamentalia hominum in ecclesia, natura communionis cum Deo et hominibus evanescat”.
In questo momento di svolta storica della legislazione canonica e della scienza canonistica, credo non sia possibile, in sede di teoria generale del diritto canonico, rinunciare ad una applicazione rigorosa dei postulati propri alla teologia senza esitare a varcare la soglia che dalla ragione sfocia nella profezia. Solo a questa condizione la Chiesa potrebbe ancora sottoscrivere come ha fatto in altri tempi a partire da presupposti e da motivazioni diverse l’augurio scritto sul frontespizio della sala dell’università di Salamanca: “juri canonico, quo sit Ecclesia Christi felix”. Al diritto canonico che può assicurare alla Chiesa di Cristo una vita felice.


1  Cfr. Los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia y en la societad. Conferenza inaugurale del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, pubblicata in questo volume; Sessione d’apertura. Le relazioni presentate al Congresso, alle quali sarà fatto riferimento in questa sede, saranno citate solo secondo il loro titolo e la Sessione in cui sono state pronunciate.

2   Cfr. La protezione giuridica dei diritti fondamentali; III Sessione.

3   Per l’analisi dello sviluppo metodologico della teologia nei suoi diversi modelli cfr. la grande e vigorosa Teologia di C. Vagaggini, in: Nuovo Dizionario di Teologia. A cura di G. Barbaglio e S. Dianich, Alba 1977, 1597-1711.

4  Su questo tema cfr. l’articolo, rimasto fondamentale anche se datato, di Y. Congar, De la communion des Eglises à une Ecclésiologie de l’Eglise Universelle: L’Episcopat et l’Eglise Universelle. Ouvrage publié sous la direction de Y.Congar et B. -D. Dupuy, Paris 1962, 227-260.

5  Cfr. Das altkatholische Kirchenrecht und das Dekret Gratians, Darmstadt 1967, München und Leipzig 1918, passim, per es. 552.

6  Grundrechte in Recht und Tradition der reformatorischen Kirche; IV Sessione.

7  Cfr. A. Rouco Varela, Le statut ontologique et épistémologique du droit canonique. Notes pour une théologie du Droit canonique, RSPhTh 57 (1973) 206-208.

8  Cfr. G. Fassò Storia della filosofia del diritto. Vol I: Antichità e Medioevo, Bologna 19702, 254-270.

9  Tractatus de Legibus ac de Deo Legislatore. Pars I, Napoli 1872. Per constatare questo fatto basterebbe fare il confronto tra il Libro III e il Libro IV. Nel primo Suarez tratta della legge positiva umana civile (chiedendosi in che miusura anche la Chiesa potrebbe promulgare leggi civili per i cristiani), nel secondo tratta invece esclusivamente della legge positiva canonica.

10  Cfr. per es. A. Freiherr von Campenhausen, Staatskirchenrecht, München 1973, 26-37.

11  Introducción a la ciencia del derecho canónico, Madrid 1967, 38-52; cfr. anche A. de la Hera – Ch. Munier, Le droit publique ecclésiastique à travers ses définitions, RDC 14 (1964) 32-63

12 . Per la sistematicità e la funzionalità del “Ius Publicum Ecclesiasticum”, Sal 25 (1963) 412 ss.

13 Kirche und Staat in der neueren katholischen Kirchenrechtswissenschaft, Berlin 1978.

14   Cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico in: Nuovo Dizionario di Teologia, o.c., 1711-1753; Id., Theologie des Kirchenrechts Methodologische Ansätze, Trier 1980, 59-70.

15  Cfr. Id., “Ordinatio Rationis” o “Ordinatio Fidei” ? Appunti sulla definizione della legge canonica: Strumento Internazionale per un lavoro Teologico, Communio 36 (1977) 48-52.

16  Per un’analisi di questi modelli cfr. A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e Diritto: antinomia nella Chiesa? Milano 1971, 24-64.

17  Cfr. per es. il discorso di Papa Paolo VI ai partecipanti al II Congresso Internazionaie di Diritto Canonico del 1973: Persona e Ordinamento nella Chiesa. Atti del II Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Milano 10-16 settembre 1973, Milano 1975, 579-588.

18   Cfr. Fundamentos eclesiologicos de una teoria de los derechos fundamentales del cristiano en la iglesia; I Sessione.

19   Cfr. La théologie comme science au XIIIe siècle, Paris 19573 67-92; Id., La théologie au douzième siècle, Paris 1957, 249-250.

20    Cfr. The fundamental rights of christians an the exercise of the munus sanctificandi; II Sessione.

21   Cfr. Liber II, d. 37, q. I, a. 1, ad Ium; ibid., Liber IV, d.49, q. I, a. 1; ma cfr. soprattutto la S. Theologiae, I, q. 79, a. 11, resp.

22  Cfr. ibid. I/II q. 90-105 (legge); II/II, q. 57-59 (diritto).

23  Basti pensare che un grande dommatico e metafisico come Suarez dedicò, complessivamente, più di 10 anni per scrivere il De Legibus, in cui egli sviluppa, a partire da precisi fondamenti filosofici e teologici, sia una teoria generale della Lex che dello Ius.

24   Cfr. i passaggi già citati sopra in nota 21. Su questo problema cfr. A. Scola, La legge naturale in S. Tommaso (in corso di pubblicazione).

25  Ci si rifensce alla profonda trasformazione della ragione, non priva di appiattimento, operatasi nel pensiero moderno dopo Kant. Su questa evoluzione della ragione, come è noto ha riflettuto molto la Scuola di Francoforte; cfr. per es. Th. W. Adorno, Negative Dialektik, Franfurt a.M. 1973, spec. 137-294.

26  Cfr. Les droits fondamentaux de la personne dans la perspective du Common Law; V Sessione.

27  Cfr. per es. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie. Ihre Grundlagen und Hauptprobleme in geschichtlicher Form, Wien 19632, 159-162.

28  Cfr. E. Corecco, Diritto, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare. Vol. I, Torrino 1977. spec. 120-133; id., Theologie des Kirchenrechts, o.c., 33-44.

29  Cfr. per es. C. Vagaggini, Teologia, in: Nuovo Dizionario di Teologia, o.c. 1589-1606.

30  Cfr. Los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia y en la societad; Sessione d’apertura.

31  Cfr. La communio comme critère des droits fondamentaux: I Sessione.

32  Cfr. Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, AfkKR 147 (1978) spec. 360-376.

33  Cfr, Grundwerte und Grundrechte in der Gesellschaft und im Staat; V Sessione.

34  Cfr. Derechos fundamentales y familia cristiana; VI Sessione.

35   Cfr. P. Fedele, Aequitas canonica, in: Enciclopedia del Diritto, Milano 1958, Vol. XV, 147-160.

36  Cfr. Ordnung der Kirche. Lehr- und Handbuch des Kirchenrechts auf ökumenischer Basis, Frankfurt a.M. 1961, 5-7.

37  Cfr. A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e Diritto: Antinomia nella Chiesa? o.c., 48-52.

38  Betrachtung zur Systematik eines neuen Codex Iuris Canonici: Ex Aequo et Bono. Willibald M. Plöchl zum 70. Geburtstag, hrsg P. Leisching – P. Pototsching – E. Potz, Innsbruck 1977, 15-21.

39  Cfr. F. Coccopalmerio, De conceptu et natura iuris ecclesiae, PRMCL 66 (1977) 447-4474.

40  Cfr. G. Ghirlanda, Il diritto civile “analogatum princeps” del diritto canonico?, Rassegna di Teologia 16 (1975) 588-594.

41  De analogia inter Verbum Incarnatum et Ecclesiam (L.G. 8a). PRMCL 66 (1977) 499-512.

42  De natura iuris ecclesiae proprii notanda, PRMCL 66 (1977) 567-582.

43  Cfr. I diritti fondamentali dei cristiani e l’esercizio dei munera docendi et regendi; II Sessione.

44  Cfr. Grundwerte und Grundrechte in der Gesellschaft und im Staat; V Sessione.

45  Cfr. Freiheit und Bindung in der Kirche; I Sessione.

46  Cfr. Grundrechte in Recht und Tradition der reformatorischen Kirchen; IV Sessione.

47  Cfr. Fundamentos eclesiologicos de una teoria de los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia; I Sessione.

48  Cfr. Ökumenismus und Veruwirklichung der Grundrechte der Getauften; IV Sessione.

49   Cfr. K. Mörsdorf, L’autonomia della Chiesa locale. Atti del Congresso Internazionale di Diritto Canonico: La Chiesa dopo il Concilio (Roma 14-19 gennaio) Milano 1972. I 163-185.

50   Cfr. LThK, Konzil II, 151 n. 4.

51  Cfr. Das Synodale Element der Kirchenverfassung, Munchen 1970, 318-366.

52  Infatti quest’ultima è generata secondo gli Orientali più da un vincolo di amore nello Spirito Santo, che dalla legittimità di un’autorità fondata sul possesso di un ufficio ecclesiastico; cfr. M. J. Le Guillou, Mission et Unité. Les exigeances de la communion, Paris 1960, II 184-200; cfr. anche E. v. Ivanka, Sobornost in: LThK, Freiburg 19642. IX 841-842.

53   Cfr. H. Jedin, Strukturprobleme der ökumenischen Konzilien (Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein – Westfalen. Geisteswissenschaften. Heft 115), Köln und Opladen 1963, 11-13.

54  “Una Ecclesia per totum mundum in multa membra divisa” (Epist. 55-24).

55   Milano 1970. Testo onginale: Das Ganze im Fragment. Aspekte der Geschichtstheologie, Einsiedeln 1963.

56  Cfr. Derechos fundamentales del hombre en la perspectiva latino-americana; V Sessione.

57   Cfr. J. M. Lochmann, Ideologie oder Theologie der Menschenrechte: Die Problematik des Menschenrechtsbegriffs heute, Conc. 15 (1979) 204-209. In questo contesto può essere citato dallo stesso quaderno di Concilium l’articolo di W. Huber, Menschenrechte. Ein Begriff und eine Geschichte, 199-204.

58   Diritti fondamentali dell’uomo, diritti fondamentali del cristiano, EJCan 34 (1978) 211-246.

59  Cfr. Les droits de l’homme et la loi naturelle, New York 1942, 80-88. Per la fondazione dei diritti dell’uomo in J. Maritain si veda soprattutto A. Scola. La fondazione dei “Diritti dell’Uomo” in J. Maritain; V Sessione.

60  Cfr. Grundrechte in Recht und Tradition der reformatorischen Kirchen; IV Sessione.

61   Les droits de l’homme à l’intérieur des Eglises protestantes, RHPhR 4 (1978) 379-397.

62  Tipici rappresentanti di questa tendenza nella filosofia del diritto sono stati i protestanti Samuel Pufendorf e Christian Wolff e, nella loro scia anche Hegel, che considera come supremo dovere dell’individuo quello di essere membro dello Stato: “Der Staat… hat… das höchste Recht gegen die Einzelnen., deren höchste Pflicht es ist, Mitglied des Staats zu sein” (Grundlinien der Philosophie des Rechts, Leipzig 1911 §258, 195. Ch. Wolff, da parte sua, aveva affermato nel suo Ius naturae (Gesammelte Werke, II. Abt., Band 17, Hildesheim-New York 1972, §§ 24 e 25, 20-21): “Quoniam ius oritur ex obligatione… Obligatio prior est iure, hoc est, ante ponenda est aliqua obligatio, quam ius aliquod concipi possit… Si nulla esset obligatio, nec ius ullum foret”; cfr. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie. o.c., 128-163.

63   Cfr. E. Corecco, Diritto, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, o.c. 127-128; cfr. anche il recentissimo e stimolante volume di Piero Bellini, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica dell’Europa preumanista, Firenze 1981, spec. 29-77.

64  Cfr. Individuelle und gemeinschaftliche Verwirklichung der Grundrechte; III Sessione.

65  Les droits fondamentaux dans la perspective de la Lex Fundamentalis et de la révision du Code de Droit canonique; III Sessione.

66  Questo metodo di approccio ai problemi ecclesidogici è presente anche nei testi del Vaticano II. Nei confronti di questa ecclesiologia vale la critica di peccare di sistematicità – a scapito della storia – e di pragmatismo, mossa contro Rahner stesso che fu uno dei principali ispiratori della teologia della Lumen Gentium; cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, in: la Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970, 23-30; cfr. anche D.T. Strottmann, Primauté et Céphalisation. A propos d’une étude du P. Karl Rahner, Iren. 37 (1964) 187-197.

67  Il Documento di Puebla ha saputo affrontare il problema ecclesiologico ad un livello più fondamentale; cfr. E. Corecco, Prospettive per la Lex Ecclesiae Fundamentalis e la revisione del Diritto Canonico nel Documento di Puebla, DEC 1 (1980) 3-23.

68  Cfr. C.-J. Pinto de Oliveira, Evangile et droits de l’homme. 3. Originalité théologique de Jean Paul II in: Jean Paul II et les Droits de l’homme. Une année de pontificat. Fribourg – Paris 1980, 65-67.

69  “Ecclesia omnibus et singulis hominibus, utpote ad imaginem Dei creatis, dignitatem humanae personae propriam recognoscit et profitetur, itemque officia et iura quae ex eadem profluunt agnoscit atque, omnium hominum vocationis ad salutem ratione, etiam tuetur”. Il fatto che la Chiesa “agnoscit” i doveri e i diritti derivanti dalla dignità della natura umana non significa ancora che li recepisce nel proprio ordinamento giuridico. D’altra parte ci si può chiedere perché solo la protezione tuetur e non anche il riconoscimento agnoscit è sottoposta alla clausola omnium hominum vocationis ad salutem ratione.

70  Per tutti valga l’esempio dell’articolo di J. A. Coriden, Menschenrechte in der Kirche. Eine Frage der Glaubwürdigkeit und Authentizitat. Conc, o.c. 234-239. Un altro esempio di come la problematica dell’applicazione dei diritti dell’uomo nella Chiesa venga posta più con intenti di mobilitazione dell’opinione pubblica che di analisi scientifica è l’articolo di A. Macheret, Jean Paul II et les Droits de l’homme. 2. Appréciation politique et juridique, in: Jean Paul II et les Droits de l’homme, o.c., 49,52.

71   Derechos fundamentales y familia cristiana; VI Sessione.

72   Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, AfkKR 1. c., spec. 369-372.

73  Cfr. per es. J. Ratzinger, Freiheit und Bindung in der Kirche; I Sessione.

74   Cfr. per es. W. Aymans, Munus und Sacra potestas; II Sessione.

75  Cfr. R. Sobanski, Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, 1. c. 370.

76  Fundamentos eclesiologicos de una teoria de los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia; I Sessione.

77  Cfr. O. von Nell-Breuning, Subsidiaritätsprinzip, in: StLex, Freiburg 1962, VII 826-833.

78   Cfr. E. Corecco, L’inseparabilità tra contratto matrimoniale e sacramento, alla luce del principio scolastico Gratia perficit, non destruit naturam: Strumento Internazionale per un lavoro Teologico, Communio 16 (1974) 28-41 e 17 (1974) 30-51 (traduzione tedesca in AfkKR 143 (1974) 379-442); Id., Il sacramento del matrimonio: cardine della costituzione della Chiesa: Strumento internazionale per un lavoro Teologico, Communio 51 (1980) 3-29 (traduzione in AfkKR 148 (1979) 353-379).

79   Per es. Graziano nel C. 3 che porta il titolo “Non asperis, sed blandis verbis ad finem sunt aliqui provocandi” – della D. XLV, si rifà ad un brano della lettera di Papa Gregorio al vescovo Pascasius di Napoli (Lib. XI, epist. 15), in cui, in merito alla conversione forzata degli ebrei, si afferma: “Nam quid utilitatis est, quando etsi contra longum usum fuerint vetiti, ad fdei illis conversionem nihil proficit”.

80   Cfr. per es. W. Aymans, Munus und Sacra potestas; II Sessione.

81  O. Höffe (Le Pape Jean Paul II et les Droits de l’homme, 1. Réflections philosophiques. in: Jean Paul II et les Droits de l’homme, o.c. 30-31) critica questa riduzione dei diritti fondamentali dell’uomo al diritto della libertà di coscienza. Tuttavia a sua volta, affermando che il dintto alla vita è primario, non tiene conto della diversità dei piani e dei fini a cui devono essere riferiti i singoli diritti fondamentali. Non c’è dubbio che in ordine alla salvezza il diritto alla libertà di coscienza prevalga su tutti gli altri diritti.

82  Su questo problema cfr. H. Urs von Balthasar, Christlicher Stand, Einsiedeln 1977, spec. 294-314.

83  Cfr. Derechos fundamentales del hombre en la perspectiva latino-americana; V Sessione.

84  Cfr. Du régime temporel et de la liberté, Paris 1934, Annexe I.

85   I principi portanti del Libro V De bonis Ecclesiae temporalibus del progetto di codificazione sono prevalentemente di stampo apologetico e presi a prestito dal IPE. La preoccupazione è quella di affermare prima di tutto che la Chiesa gode di un ius nativum di acquistare e possedere beni propri (Can. 1205 §1). Da questo diritto deriva quello, comune ai sistemi fiscali di tutti i tempi, di esigere dai cristiani i mezzi finanziari necessari al raggiungimento dei propri scopi sociali (Can. 1211). Anche nel § 2 del Can. 1205, dove il discorso verte sul fine dei beni ecclesiastici, l’idea della comunione dei beni non è resa esplicita.

1. Premessa

Un congresso internazionale di canonisti, che si celebra periodicamente non può esimersi dal rispondere alla questione centrale che agita il mondo canonistico. Se lo facesse si sottrarrebbe alla sua funzione e responsabilità più propria, che non può ridursi a semplice stimolazione scientifica, ma impone il tentativo di individuare orientamenti per il futuro.
La questione centrale può essere sinteticamente formulata nel seguente modo: dove si colloca oggi, nello sviluppo storico della scienza canonistica (la cui data convenzionale di nascita risale a quella, non ben accertata, di pubblicazione del Decretum Gratiani) il nostro quotidiano lavoro? Quale presa di coscienza domanda la Chiesa alla scienza canonistica alla vigilia della nuova codificazione e forse della promulgazione della LEF?
Lo statuto dei diritti fondamentali, di estrazione culturale extra-ecclesiale, è caratterizzato, come hanno ampiamente dimostrato in questa sedePedro Lombardìa 1 e Cesare Mirabelli 2 , da una multiforme e spesso incerta problematica. Essa è venuta, all’improvviso, a porsi nel cuore stesso dell’ecclesiologia delle tre grandi confessioni e non potrà essere accolta, dal legislatore e dalla canonistica, senza provocare una riflessione più ampia sulla natura del diritto canonico e sul metodo del suo approccio scientifico.
Il canonista o l’ecclesiasticista che insegna da una cattedra ecclesiastica o statale, l’operatore giuridico che applica la norma in sede operativa o il libero professionista, svolge un compito che in modo più o meno diretto obbedisce ad una vocazione di servizio ecclesiale. La preoccupazione che gli strumenti scientifici di cui dispone siano adeguati al bisogno emerso dal Vaticano II, di scoprire e riformulare più precisamente l’identità della Chiesa ad intra ed ad extra, dovrebbe essere quella prevalente su quelle di scuola, ma anche su quella del significato della presenza del diritto canonico nelle università laiche, dove il servizio è diviso tra il bisogno culturale dello Stato moderno e quello della Chiesa.

2. Le tappe di sviluppo della teologia dogmatica

La teologia dogmatica ha già fatto o sta facendo un profondo esame di coscienza. A nessuno di noi è sfuggita, in questi ultimi decenni, l’ampia discussione in corso sulla sua natura scientifica e istituzionale. Il carattere scientifico della teologia, il rapporto teologia e scienze umane, il rapporto teologia e magistero, lo statuto del teologo nella Chiesa sono i temi più ricorrenti di questa vastissima revisione scientifica e culturale in atto nella Chiesa. Anzi la teologia ha già compiuto una considerevole riflessione critica anche sulla propria storia, cosa che la canonistica non ha ancora fatto, almeno con la determinazione necessaria a ricavarne indicazioni metodologiche per il proprio lavoro scientifico.
L’analisi dei grandi metodi storici di approccio teologico al mistero della salvezza in Cristo, ha permesso alla teologia di dare un giudizio critico sulla loro capacità e incapacità ermeneutiche. Non vorrei affermare che questo lavoro di autocritica abbia già permesso alla teologia moderna – emancipatasi dagli schemi tradizionali dopo il Vaticano II, ma le cui radici di rinnovamento affondano in epoche più lontane e diverse -, di trovare un orientamento omogeneo tale da permettere una sintesi nuova. Tuttavia è evidente che questa presa di coscienza critica della propria metodologia è di estrema importanza per il futuro.
Quattro sono le tappe principali di questo sviluppo, che non sono senza parallelismi positivi e negativi con lo sviluppo avvenuto nella canonistica.
La prima è quella della teologia patristica gnostico-sapienziale: essa non è speculativa, ma esistenziale e tende ad una conoscenza globale del mistero in cui intervengono affetto, volontà, concetto, raziocinio, interesse e prassi 3 .
Cerca di dare una risposta globale al significato dell’esistenza concreta dell’uomo, ma è fragile nell’elaborazione ontologica e metafisica del dato rivelato perché sostenuta solo su un eclettismo filosofico di estrazione neoplatonica, non sempre in armonia con la logica del pensiero cristiano.
La seconda tappa è quella della scolastica per la quale il lavoro teologico consiste nel cercare di inserire e interpretare il dato rivelato negli schemi concettuali e nella concezione di scienza aristotelica. I suoi limiti sono l’eccessiva ontologizzazione, l’astrazione concettualistica e deduttivamente astorica oltre che l’incapacità di dare – a partire dai diversi gradi e modi dell’essere in, cui la verità rivelata è catalogata – una risposta ai bisogni concreti della liturgia, della mistica, alle esigenze operative concrete della pastorale. Questa incapacità ha senza dubbio provocato la separazione strutturale e metodologica del diritto canonico dalla teologia, consumata in Graziano.
Superando le diverse variazioni subite dal metodo scolastico di base con l’intervento dell’elemento religioso francescano, sacrale e volontarista, e quelle della seconda scolastica spagnola più intimisticamente rivolta verso i problemi morali dell’uomo, la teologia produce un terzo modello, quello del metodo positivo-apologetico. Alla quaestiosi sostituisce la thesis dove predomina la preoccupazione della prova razionale e controversista – spesso in funzione anti-protestante, dei dati offerti dall’insegnamento del magistero ufficiale della Chiesa, il cui intervento è sempre più capillare e autoritativo.
La tesi è formulata a partire dai documenti del magistero – stilizzati in seguito nel Denzinger -; si indicano gli avversari, per passare alla prova ex scriptura, ex traditione e ex ratione theologica; si confutano eventuali obiezioni e si aggiunge qualchescholion pietatis. Venuta a mancare la forza creativa della metafisica scolastica nelle riduzioni di questo modello sostanzialmente apologetico – che però si era sforzato, nel manuale, di assumere dalle scienze umane moderne il metodo filologico, storico, critico, il senso del divenire storico -, la teologia si è rivelata incapace di proporre la fede con categorie adatte alla cultura del mondo moderno. Ha lasciato irrisolti anche problemi posti dai nuovi fermenti emersi all’interno della teologia stessa, come quello della scuola di Tubinga e quelli del modernismo.
La teologia nata attorno al Vaticano II rappresenta la quarta tappa. È caratterizzata da spunti diversi ma soprattutto da un forte interesse per l’antropologia, rivela aspetti intellettualistici, è vicina alla patristica per certe sue inclinazioni sapienziali, ma senza dubbio, più ancora della patristica è cedente metodologicamente – e spesso sul fondo – a livello filosofico, rispetto alle molteplici tendenze in cui la filosofia moderna si è disgregata. Diventando spesso effimera, assume con troppa disinvoltura le metodologie immanentiste delle scienze umane. I tentativi sono più che lodevoli, ma la crisi metodologica è diventata troppo evidente, soprattutto se confrontata con il recente magistero di Paolo VI, nella sua ultima fase, e con quello diGiovanni Paolo II che si sforza di ridare alla teologia la coscienza di possedere una forza autonoma e primaria di ermeneutica del mistero cristiano.

3. Le tappe di sviluppo della canonistica

Anche in diritto canonico si possono distinguere quattro fasi cui corrispondono quattro diversi modelli.
Il canone o la decretale dei primi secoli hanno, come la teologia patristica, carattere prevalentemente sapienziale. Tendono a risolvere i problemi concreti della Chiesa senza la pretesa di essere l’espressione di un sistema organico, concettualmente elaborato. Subiscono, senza grossi complessi, inflessioni imposte dal diritto romano o dal diritto germanico, secondo i diversi momenti e le diverse situazioni geografiche. Nel primo medioevo si trasformano spesso in capitolari, ma, nella loro funzione originale, le norme canoniche hanno solo la pretesa di tradurre operativamente, nella vita concreta della disciplina ecclesiale, l’immagine teologica che la Chiesa ha del mistero della incarnazione e della esperienza ascetica del cristiano.
I monumenti storici di questo diritto sapienziale sono le raccolte greche e latine che ci sono pervenute, mentre monumento ancora vivente e operante sono i 102 canoni del Concilio Trullano, che rappresentano, ancora oggi, il nucleo della disciplina canonistica orientale.
Per comprendere i limiti di questa produzione legislativa frammentaria, che raramente trova un riconoscimento universale e di conseguenza non può generare una riflessione teorica, non bisogna dimenticare che il regime costituzionale della Chiesa è quello di una comunione di Chiese, più che di una Chiesa comune universale 4 . Rudolf Sohm ha forse giustamente definito questo diritto canonico come diritto sacramentale perché non ha la preoccupazione di adeguarsi al modello culturale del diritto secolare 5 .
Il sorgere di questa preoccupazione culturale e il bisogno di trovare un’identità scientifica propria e autonoma rispetto alla riflessione ontologico-metafisica ma troppo astratta della scolastica, ha fatto nascere, con Graziano, la scienza del diritto canonico. La distinzione metodologico-sistematica del diritto canonico dalla teologia permette e favorisce un confronto più stretto con la metodologia specifica del diritto romano, rifiorito a Bologna e recepito in tutta Europa. 6
L’elaborazione concettuale del diritto canonico si stacca da quella ontologico-metafisica fondata sulla ragione teorica della scolastica. Essa si basa infatti sul raziocinio e sul sillogismo della ragione pratica, in stretta dipendenza reciproca dal diritto romano e permette al ius canonicum, coltivato ormai solo dai latini, di assurgere a scienza generale del diritto, riconosciuta in tutta la cristianità.
Il diritto canonico ha l’autorità di un diritto comune che ordina indistintamente, come ha giustamente osservato Pirson, rapporti giuridici ecclesiali e secolari. Non è il contenuto che diversifica le due scienze, ma la loro fonte legislativa. Il diritto canonico appare di conseguenza come ramo di un ordinamento giuridico universale, che partendo da un’unica e medesima nozione formale di diritto – quella elaborata dalla filosofia scolastica – è capace di dare una risposta a qualsiasi problema di giustizia materiale, ecclesiale e secolare 7 .
Era inevitabile che questa stretta simbiosi scientifica con il diritto secolare impedisse alla canonistica di mediare una conoscenza in profondità del mistero della Chiesa. Ne è prova il fatto che né la canonistica né la scolastica hanno saputo cogliere la specificità ecclesiale del diritto canonico. Neppure San Tommaso, cui pure va il merito di aver perfezionato l’unità ontologica del diritto nella trilogia – di estrazione storico-ciceroniana -, lex aeterna, lex naturalis e lex humana, è giunto a tale risultato 8 . Infatti il concetto di ius humanum è usato per lo più dall’Aquinate indistintamente per il diritto promulgato dai principi e dai prelati.
Dovranno passare tre secoli prima che Francisco Suarez possa porre chiaramente la questione dell’identità specifica del diritto canonico rispetto a quello secolare 9 . Ormai però la creatività del legislatore canonico si è già spenta e la scienza canonistica ha già visto sfiorire il suo secolo d’oro.
La terza fase della evoluzione storica coincide con il notevole sviluppo scientifico della canonistica, registratosi nell’era moderna dal diritto pubblico, che prima aveva sempre subito la indiscussa supremazia culturale e scientifica del ius civile. La nuova scienza parallela allo ius publicum, in campo ecclesiale, è lo IPE.
Esso nasce come diritto confessionale e il suo compito primario, identicamente a quello della teologia positiva, è di natura apologetica. La visibilità istituzionale della Chiesa cattolica e il suo diritto di cittadinanza come societas perfecta diventano i capisaldi di una vera e propria battaglia contro il protestantesimo da una parte, e lo Stato assolutista e secolarizzato dall’altra. I princìpi gius-naturalisti della territorialità e della sovranità rompono definitivamente l’unità politica del mondo medioevale, già compromessa del resto nella rottura dell’unità religiosa 10.
Non intendo soffermarmi sull’analisi dell’IPE come nuova disciplina della scienza canonistica, poiché molti giudizi, dopo i lavori di Alberto De la Hera 11 , Fogliasso 12 e recentemente anche di Joseph Listl13 , sono diventati di patrimonio comune. Mi limito ad osservare che lo IPE è una scienza che, a differenza di quella canonistica medioevale, non ha trovato una traduzione legislativa proprio per la sua fragilità ecclesiologica intrinseca. Ha trovato invece la sua applicazione operativa a livello concordatario. Il CIC ne ha assunto alcuni elementi, ma in sostanza ha codificato il diritto canonico classico, riformato nei suoi contenuti, più che nella sua impostazione di fondo, dal Concilio di Trento.
Se ha contribuito in modo decisivo a salvare lalibertas ecclesiae dall’assolutismo statale moderno, lo IPE non è stato assolutamente in grado, sempre per la sua sfocatura teologico-metodologica, di dare una risposta alla questione fondamentale della natura del diritto canonico posta da Lutero, radicalizzata da Rudolf Sohm e ampiamente dibattuta dalla recente canonistica protestante 14.
Uno dei risultati apparentemente più paradossali del Vaticano II, la cui sottile vena anti-giuridica avrebbe potuto far prevedere ben altri sviluppi, è stato quello di provocare un’abbondantissima produzione legislativa nella Chiesa universale e nelle Chiese particolari, oltre ad una ripresa della politica concordataria. Questo fenomeno, forse inatteso, ma inevitabile e ricorrente dopo ogni grande Concilio ecumenico, è stato accompagnato anche da una vivace ripresa della scienza canonistica.
Il fatto di cui dobbiamo prendere coscienza oggi, per non cedere all’illusione di poter continuare sulla spinta di inerzia del passato, è che si sta delineando una nuova scienza canonistica. Anche la canonistica – come la teologia speculativa – è entrata nel suo quarto periodo storico, dopo quello sapienziale-sacramentale, quello classico medioevale e quello post-tridentino dell’IPE 15 , sfociando, come per tratti successivi di una stessa linea direttrice, in modelli canonistici di grande interesse giuridico e culturale negli ultimi 50 anni che però non ne hanno modificato i parametri metodologici 16 .
Il magistero ha preso tempestivamente atto di questa svolta radicale della canonistica e non ha mancato di favorirla con ripetuti interventi, nei quali ha esortato non solo a stabilire un nesso stringente tra la teologia e il diritto, ma anche ad elaborare una vera e propria teologia del diritto canonico 17 . Come Antonio Rouco Varela ha sottolineato in questa sede 18, la teologia del diritto canonico in quanto tale deve essere considerata come disciplina particolare dell’ecclesiologia.
Ne consegue tuttavia che anche quella parte della scienza canonistica, che non si occupa direttamente della formazione teologica del diritto ecclesiale ma della elaborazione sistematica dei suoi contenuti materiali, appartiene, come scienza, alla scienza teologica.
Questa affermazione incontra ancora molte resistenze. Un certo settore della canonistica teme di perdere, accogliendo tale affermazione con tutte le conseguenze, la propria legittimazione scientifico-istituzionale, soprattutto se insegna in una università laica. Non voglio aprire quest’ultimo aspetto del problema, benché meriterebbe grande attenzione, poiché molto più urgente è affrontare la questione sostanziale sopra esposta; quella del significato del concetto di scienza giuridica e discienza teologica.
Come ha ben mostrato Chenu 19 , le coordinate del problema per quanto concerne la teologia risalgono a Boezio, passano da San Tommaso per riprendere nelle discussioni più recenti. Mi sforzerò di semplificare i termini del problema sollevato daLadislas Örsy 20, esponendolo nei suoi dati elementari.

4. Scienza teologica e scienza giuridica

La tradizione scolastica, mai ricusata dalla scienza canonistica moderna, ha sostenuto che la ragione da cui la legge, sia nella valenza di norma morale che in quella di norma giuridica, dipende, è la ragion pratica. S. Tommaso in particolare ha sviluppato articolatamente questa dottrina, riprendendo la formulazione aristotelica, fin dal Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo 21
Ma per Tommaso e la scolastica ciò non indicava in alcun modo l’esclusione dalla teologia, delle scienze dipendenti dalla ragion pratica. Basti pensare ai fondamenti, squisitamente teologici, della trattazione tomista del tema della legge e del diritto nella Summa Theologiae 22 . Per Tommaso, ma anche per tutta la seconda scolastica, la trattazione di questi temi è parte integrante della scienza teologica 23 . Infatti la ragion pratica non è mai concepita dalla scolastica come a sé stante, ma solo in precisa relazione con la ragione speculativa. Se è vero poi che la ragione speculativa è considerata, da Tommaso, come la più nobile, perché è per se stessa, è anche vero che essa si mantiene sempre strettamente correlata alla ragion pratica, dal momento che la ragione speculativa indica a quella pratica, a quale grado di perfezione quest’ultima debba condurre l’uomo, attraverso la legge 24 .
Quindi, a ben vedere, è l’intero dinamismo della ragione, fatto di dimensione speculativa e pratica, ad entrare in gioco, coniugato alla volontà, nella formulazione della legge e per ciò stesso nella costruzione della scienza (teologica) della legge. È quindi del tutto superficiale e debitrice a quegli aspetti della filosofia moderna che riducono la ragione a pura ragione strumentale, la posizione di chi afferma che la scienza giuridica non può mai rientrare nella sfera della teologia (come è il caso della canonistica), perché la teologia sarebbe il frutto della ragione speculativa, mentre ogni scienza giuridica deriverebbe dalla ragion pratica 25 .
D’altra parte anche la logica formale del raziocinio o del sillogismo in quanto tale non è necessariamente diversa nelle due scienze, poiché la logica – o le diverse logiche – per loro natura sono universali. Non c’è chi sostiene che la giustizia possa oggi essere realizzata attraverso l’applicazione al computer della logica matematica?
Per contro il giurista occidentale – ma molto meno quello anglosassone, come ha sottolineato la relazione di Germain Lesage 26 – non usa della conoscenza simbolica che invece ha predominato nella patristica e caratterizza tutt’ora il metodo teologico orientale, che a differenza della teologia latina e scolastica non è stato marcato dall’influsso culturale del diritto romano. La differenza tra le due scienze, teologica e giuridica, nasce invece dal diverso oggetto formale e materiale.
Per definizione il giurista – cultore di una scienza umana non teologica – usa come unico strumento di conoscenza la ragione e si occupa di un oggetto, il diritto secolare in genere, di origine e natura umana. È positivista solo se crede, con Hegel, che lo Stato sia l’unica fonte del diritto 27. Non è positivista se ammette l’esistenza di norme universali etiche o giuridiche emergenti razionalmente dalla struttura intrinseca della natura creata da Dio, precedenti ogni forma di organizzazione della convivenza civile.
Per definizione il teologo usa come criterio ultimo di conoscenza la fede e si occupa di un oggetto non naturale, ma rivelato. Nel nostro caso il canonista si occupa del diritto divino rivelato e del diritto umano, che per essere autentico dovrebbe sempre essere un’emanazione più o meno mediata del diritto divino positivo.
L’unità ontologica tra diritto divino e umano, con o senza la mediazione del diritto naturale, è uno dei principali fondamenti di tutta la teologia cattolica daSant’Agostino in poi 28 . Il ritorno della teologia moderna, almeno in certi suoi settori, ad un tipo di conoscenza sapienziale, ha inoltre messo in evidenza che la fede, se non è vissuta realmente come criterio pratico di vita, si rivela ultimamente anche incapace di svolgere un ruolo reale come strumento conoscitivo e di giudizio 29 .
Tralascio qui intenzionalmente il problema del rapporto fede vissuta e giudizio di fede. Chi è allora il canonista? Il canonista si contrappone al giurista perché è teologo, in quanto opera in forza dellafides qua e della fides quae creditur. Si distingue dal teologo sistematico poiché il suo oggetto materiale di conoscenza non è il mistero cristiano nella sua globalità, bensì le implicazioni istituzionali dello stesso, vale a dire il ius divinum positivum da cui deriva il ius humanum canonicum.
Il canonista si occupa di una realtà che nella cultura umana universale ha preso il nome di diritto (invece che di etica o di arte), ma che all’interno del mistero della salvezza ha assunto una natura diversa rispetto al diritto secolare e allo stesso ius divinum naturale della tradizione filosofica cristiana che, giova ricordarlo come ha fatto Pedro Lombardia 30, non è il diritto naturale dello stato di giustizia originale, ma quello dello stato di natura dopo il peccato. Infatti, il diritto canonico non si occupa della giustizia degli uomini, ma della giustizia di Dio, della giustizia rivelata che si manifesta, come ha mostrato Jean Beyer, nella Communio cum Deo et hominibus 31 .
Che rapporto esiste tra la giustizia umana e quella rivelata o ecclesiale? È lo stesso di quello esistente tra la natura e la soprannatura, tra la ragione e la fede, ma di questo parleremo più avanti a proposito dell’applicabilità dei diritti fondamentali dell’uomo nell’ambito del diritto ecclesiale.
Ogni canonista che accetta questi due presupposti gnoseologici, la fede come oggetto formale quo e la fede come oggetto formale quod, per dirla con il linguaggio degli scolastici, svolge nella Chiesa il servizio teologale di iuris-consultus. A livello teorico i termini della questione sono semplici e probabilmente ammessi da tutti. Il problema è piuttosto quello di saperne fare un’applicazione pratica coerente. Come il teologo sistematico o il moralista possono lasciarsi determinare nella loro ricerca dai dati offerti dalle scienze umane più che da quelli offerti dalla fede, compromettendo in tal modo il giudizio finale, così anche il canonista può lasciarsi determinare, magari inconsapevolmente, dai principi ultimi della giustizia umana più che da quelli della giustizia di Dio, diventata istituzione della Chiesa. Esistono in effetti diversi accenti nel modo di coltivare la scienza del diritto canonico. Di ciò dobbiamo tenere conto, ma dobbiamo anche riconoscere che esistono punti fermi qualificanti.
La svolta in atto oggi nella scienza canonistica domanda di sapere usare un’applicazione più coerente del metodo teologico, senza il falso timore di svuotare la norma canonica della sua forza giuridica vincolante, o ancora peggio, della sua natura. Nulla è più vincolante della giustizia di Dio. La funzione delle diverse scuole non è quella di opporsi aprioristicamente, ma di essere complementari.
In merito alla nozione giustizia di Dio, Sobanski ha dato un notevole contenuto attirando l’attenzione sul fatto che i suoi contenuti non sono quelli della giustizia naturale, ma quelli delle tre virtù: fede, speranza, carità 32. Questa osservazione ha le sue implicazioni anche in rapporto al problema dei diritti fondamentali, poiché essi, come hanno fatto osservare Alexander Hollerbach 33 e Amadeo de Fuenmayor 34 , sono correlati a valori fondamentali. Il compito specifico del canonista, ma anche del legislatore, è quello di saper formulare nella norma canonica le implicazioni giuridiche dei valori teologici essenziali, dettati dalla struttura della Chiesa come Communio ecclesiae et ecclesiarum.
Il rinvio alla trascendenza, contenuto nell’istituto classico della aequitas canonica 35 , assume oggi dimensioni ben più vaste di prima, che superano l’orizzonte della filosofia cristiana, per investire quello più specifico della teologia e della ecclesiologia. Se il canonista dovesse rinunciare a priori al compito di cogliere la dimensione giuridica dei valori fondamentali, fede, speranza e carità, dai quali derivano tutti gli altri, saremmo costretti a inchinarci davanti a Sohm che ha teorizzato l’impossibilità di sradicare dall’esperienza cristiana, giustamente definita da Erik Wolf 36 come paradossale, l’antinomia tra diritto e carità, che impedisce al christifidelis contemporaneo di vivere un’esperienza di unità della sua persona nella Chiesa.
Del resto, al di là delle divergenze e diatribe di scuola, è evidente ormai la preoccupazione di tutti i canonisti contemporanei di dare alla loro disciplina un’identità teologica più precisa. Questa svolta verso la quarta fase dello sviluppo storico della canonistica si è imposta anzitutto sotto la spinta della teologia moderna cattolica e protestante (in particolare di Barth37 ; in secondo luogo in forza della constatazione ineludibile che la secolarizzazione della società moderna ha eliminato anche gli ultimi resti di cristianità, alla cui sopravvivenza con anacronismo storico, il legislatore del 1917 aveva ancora creduto.
Nel frattempo i sintomi e i segni favorevoli ad un approfondimento del metodo teologico dei diritto canonico si sono moltiplicati, non da ultimo da parte del legislatore; anche se sono ancora inorganici e riflettono spesso la mancanza di una chiara determinazione nella politica dell’autore della legge. La sistematica del futuro codice, in particolare, potrebbe essere un segno di questa nuova determinazione, anche se, nella fattispecie, una più precisa volontà politica avrebbe potuto far scegliere altri orientamenti, come ad esempio quellosacramentale proposto a suo tempo da Stefan Kuttner 38 . È evidente in ogni caso che il futuro codice non intende più essere il codice di una Chiesa intesa come societas perfecta, ma intesa primariamente come Popolo di Dio.
In questo ampio contesto si pone il problema dei diritti fondamentali attorno ai quali tutti i nodi metodologici della canonistica sembrano proprio venire al pettine.
Diventata negli ultimi decenni una delle voci più autentiche della promozione dei diritti dell’uomo nel mondo contemporaneo, per una questione di principio, la Chiesa sembra – a parere di molti – non potersi esimere da un pronunciamento al suo interno. Pena la perdita della propria credibilità, essa dovrebbe riconoscere non solo, per analogia con lo Stato, l’esistenza di diritti fondamentali specifici del cristiano, ma addirittura la validità immediata degli stessi diritti naturali dell’uomo nel proprio ordinamento giuridico.
Sono due aspetti del problema che interessano inevitabilmente la riflessione teorica generale sul diritto canonico: il primo perché tocca il problema dell’analogia, da sempre cerniera, più o meno consapevole, per mediare l’influsso reciproco tra diritto secolare e canonico; il secondo perché tocca una delle questioni chiave e più delicate di tutta la teologia: il rapporto natura-soprannatura. Per raffrontare correttamente questi due problemi, li separerò l’uno dall’altro.

5. L’applicazione dell’analogia

La canonistica ha sempre avuto coscienza che, rispetto al diritto secolare, quello della Chiesa è un diritto sui generis. La letteratura moderna incomincia inoltre a interrogarsi sull’uso stesso dell’analogia 39 . In ogni caso avverte l’impossibilità di considerare il diritto secolare come analogatum princeps di quello ecclesiale 40 . Nell’accezione aristotelico-tomista – che è quella che conta ai fini del nostro discorso – l’analogia indica prima di tutto un simpliciter diversum e solo in seguito unsecundum quid idem. Essa permette quindi di cogliere negativamente la diversità tra i due ordini giuridici, ma non è in grado di definire positivamente la natura specifica del diritto ecclesiale. Tanto meno permette di elaborare, in modo esauriente, una teoria generale del diritto canonico, che ne rispetti la ascendenza teologica.
Nell’analogia proportionalitatis che, come ha sottolineato recentemente Hubert Müller 41 , e quella fondamentale, il rapporto non si stabilisce direttamente tra le due realtà messe a confronto, ma attraverso la mediazione di un elemento comune che le trascende. Questo tertium non può essere il diritto statuale, ma la nozione di diritto in quanto tale. Essa al pari della nozione dell’essere, del buono e del bello è trascendente ad ogni forma concreta di diritto.
La nozione di essere infatti è trascendente all’applicazione suprema che di essa si realizza in Dio. Come ha precisato Wilhelm Bertrams 42 , in uno degli ultimi scritti, la nozione di diritto si realizza in modo diverso, così come l’essere si realizza in modo diverso in Dio e nella creatura: simpliciter diversum e solo secundum quid idem.
Di questa stessa legge dell’essere, che per sua definizione è analogico, bisogna tener correttamente conto anche a proposito dei diritti fondamentali. L’istituto statuale non è quindi l’analogatum princepsdi quello canonico. Il punto di riferimento comune è senza dubbio la nozione di diritto, che si realizza in modo diverso nei due ordinamenti.

6. Il concetto di “fondamentalità” nell’“ordinamento canonico”

Resta da vedere se anche la categoria espressa dall’aggettivo fondamentale è trascendente i due ordinamenti giuridici, quello statuale e quello ecclesiale, così da poter essere applicata a tutti e due sulla base dell’analogia proportionalitatis. Nella fattispecie penso che la categoria espressa dall’aggettivo fondamentale non sia trascendente, ma specifica del diritto pubblico costituzionale dello stato moderno. Infatti, non esiste identità, neppure sotto il profilo del diritto statuale, tra i diritti dell’uomo in quanto tali e i diritti fondamentali.
Il concetto di fondamentalità è correlativo alla funzione che i diritti del l’uomo acquistano all’interno del sistema costituzionale dello Stato moderno. In campo ecclesiale potrebbe essere più corretto perciò non definire i diritti del cristiano come diritti fondamentali, ma eventualmente come diritti primari o semplicemente come diritti. La disputa avvenuta attorno all’esistenza o meno, in diritto canonico, di diritti soggettivi, cui ha fatto allusione anche Giorgio Feliciani 43 , dimostra che anche in altri settori della canonistica l’uso dell’analogia è legittimo solo se rigoroso.
Nell’ordinamento costituzionale dello Stato moderno la nozione di diritto fondamentale significa originariamente due cose: preesistenza della persona come soggetto giuridico rispetto allo Stato, e, di conseguenza, garanzia di uno spazio di autonomia per l’individuo. Come ha dimostratoAlexander Hollerbach 44 in particolare la nozione storicamente originaria dei diritti fondamentali è evoluta fino al punto da trasformare la stessa nozione originaria del moderno Stato di diritto. Dallo Stato chiamato a garantire l’applicazione del diritto, si è passati allo Stato sociale, chiamato a programmare e promuovere il benessere materiale e si è giunti al modello di Stato culturale chiamato a promuovere anche l’attività culturale e spirituale del cittadino.
La struttura originaria di bipolarità concorrenziale tra cittadino e Stato è tuttavia rimasta sostanzialmente intatta. In tutte e tre le forme di evoluzione del modello statale occidentale, il cittadino continua a rivendicare uno spazio di autonomia individuale e lo Stato continua a limitare l’uso del proprio potere anche se è chiamato positivamente a moltiplicare i suoi interventi in favore del cittadino, ben al di là delle previsioni insite nel modello originale dello Stato di diritto. Il problema si risolve non eliminando la bipolarità strutturale ma nel regolarla secondo il principio del check and balance.
Era inevitabile che nel corso di questa evoluzione anche la questione dei doveri del cittadino subisse precisazioni ulteriori. Se la libertà, come ha detto S. E. il Card. Ratzinger 45 , è libertà solo quando accetta di essere vincolata, anche i doveri del cittadino si sono moltiplicati, rispetto a quelli primari dello Stato di diritto, riducibili al dovere di scolarità, di contributo fiscale e di servizio militare.
Concludendo si può dire che la potenzialità intrinseca ai diritti dell’uomo, ma anche ai diritti fondamentali, che ha sempre debordato i confini individuali, ha alla fine investito tutta la struttura costituzionale dello Stato. Il principio democratico, la separazione dei poteri, il principio della costituzionalità e della legalità, quello della socialità e il federalismo sono derivazioni, più o meno lineari, dei diritti fondamentali, che hanno determinato il passaggio dallo stato assolutista a quello democratico.
Il carattere di fondamentalità assunto dai diritti dell’uomo nel sistema costituzionale dello Stato è tale perché determina profondamente la struttura stessa della costituzione, il cui telos è quello di garantire che questi stessi diritti vengano realizzati, non solo dal profilo formale ma anche da quello materiale. Queste sono le implicazioni immanenti alla nozione di fondamenlalità propria di taluni diritti del cittadino.
Ci si deve allora chiedere se sotto il profilo metodologico sia possibile risolvere il problema dei diritti dei cristiani nella Chiesa applicando loro, per analogia, la stessa nozione della fondamentalità; oppure se non si debba procedere, in modo autonomo a partire da una riflessione ecclesiologica, accontentandosi eventualmente della analogia attributionis, che però non è costitutiva.
Qualsiasi scienza, ma in modo particolare quella teologica, e perciò quella canonistica, che procedesse solo per imitazione di contenuti di altre scienze senza avere la forza di elaborare il proprio progetto culturale non avrebbe più nulla di vero e profetico da dire all’uomo. Anche la scienza canonistica deve perciò costruirsi a partire dalla coscienza profonda delle proprie capacità, delle proprie fonti ermeneutiche e della certezza incrollabile di partecipare non in modo derivato, ma originale ed autonomo, alla natura e alla conoscenza della ricchezza analogica dell’essere.
Il carattere di fondamentalità sembra dunque essere non l’elemento che unisce la posizione giuridica della persona nello Stato e nella Chiesa, ma l’elemento che la diversifica.
La prima constatazione che si impone è la seguente: la struttura costituzionale della Chiesa non ha come telos quello di garantire la realizzazione dei diritti dei fedeli. Forse rifacendosi a presupposti teologici differenti Dietrich Pirson 46 ha espresso questo stesso concetto quando ha affermato che il diritto costituzionale delle Chiese luterane non ha mai avuto come funzione primaria quella di occuparsi della posizione giuridica del singolo cristiano. Ha avuto piuttosto il compito di garantire una struttura organizzativa: è unOrganisationsrecht.
Come è sottolineato da Antonio Rouco Varela 47 ,la costituzione della Chiesa ha come scopo primario quello di dare la garanzia che la Parola e il Sacramento celebrati oggi nella Chiesa siano ancora la stessa Parola e lo stesso Sacramento istituiti da Cristo. Essa deve conservare autentico il messaggio di salvezza attraverso la mediazione della Chiesa, che si esprime concretamente appunto nella sua struttura costituzionale. Il soggetto ultimo operante nella Chiesa è Cristo, è il Cristo che ha inviato lo Spirito Santo.
La Chiesa ha una responsabilità propria, ma la sua soggettività non è esclusiva e autonoma rispetto a Cristo capo invisibile della Chiesa.
La seconda constatazione è la seguente: i diritti specifici dei cristiani non sono preesistenti alla Chiesa, ma conferiti dalla stessa attraverso il battesimo e gli altri sacramenti. A questo proposito mi sembra opportuno osservare che potrebbe essere teologicamente scorretto considerare il battesimo come unico ed esclusivo fondamento dei diritti fondamentali del cristiano. Sotto il profilo ecumenico e nella prospettiva di Sobanski 48 , potrebbe essere giustificato, tuttavia non bisogna dimenticare che il battesimo è solo la ianua degli altri sacramenti. Ignorarli in questo contesto potrebbe equivalere a svuotarli del loro significato, poiché non sono solo uno sviluppo ulteriore del battesimo: sono costitutivi della personalità ecclesiale globale. Questo brevissimo accenno mette per lo meno in luce il fatto che il problema dei diritti fondamentali non è ancora stato colto in tutti i suoi aspetti teologici.
La terza constatazione è che anche il concetto di autonomia individuale derivante dai diritti fondamentali non è applicabile alla costituzione della Chiesa. Ciò non significa che il cristiano non goda di una propria autonomia, ma solo che le implicazioni legate al concetto del diritto fondamentale non sono ad essa applicabili. Del resto anche il concetto di autonomia assume nella Communio ecclesiae et ecclesiarum – dove esiste un’autonomia della Chiesa particolare rispetto a quella universale 49 – connotazioni specifiche e proprie.
Da questo breve raffronto degli elementi centrali del problema si deve concludere che la teoria generale dei diritti fondamentali propria del diritto pubblico costituzionale dello Stato, non può essere impunemente ripresa nella teoria generale del diritto canonico. Il carattere della fondamentalità non sembra essere un concetto che trascende i due ordinamenti, statuale e canonico, e di conseguenza non può essere applicato per analogia proportionalitatis alle due realtà. Prima di dare un giudizio definitivo comunque è necessario fare un’altra verifica affrontando il problema non più perviam negationis o comparationis, ma per via positiva. Questo coincide col porsi il problema della esatta valenza costituzionale, della categoria ecclesiologica e canonistica di Communio.

7. La nozione di “communio”

Quello di Communio, a causa della poliedricità dell’uso, è diventato un concetto tra i più fluidi e ambigui del linguaggio teologico post-conciliare. È ilpasse-par-tout con il quale si pensa di poter dare una risposta a tutti i problemi. All’interno dell’oscillazione cui è normalmente sottoposto (psicologica, etica, spirituale-mistico, pastorale), si tratta di isolare il nocciolo strutturale e perciò istituzionale del suo significato.
Il locus theologicus della nozione di Communio è l’ecclesiologia e in particolare l’art. 23,1 della LG dove per altro il termine Communio in quanto tale non appare. È stato Winfried Aymans nella linea diKlaus Mörsdorf 50 , che mi onoro di chiamar maestro – in una rilevante monografia 51 a mettere in evidenza la genialità teologica della formula conciliare, contenuta in questo articolo: “in quibus et ex quibus una et unica ecclesia catholica exsistit”. La Communio ecclesiarum non nasce dal fatto che ogni Chiesa particolare è Chiesa perché realizza concretamente e con fedeltà più o meno grande la Chiesa universale, concepita quasi platonicamente come modello o archetipo astratto. In questa linea tende a muoversi la teologia ortodossa orientale, che in effetti non usa la categoria Communio ma quella Sobornost 52 .
La Chiesa universale non si realizza neppure in forza della volontà corporativa delle Chiese particolari, che ha spinto ben presto le Chiese e le comunità ecclesiali nate dalla Riforma ad associarsi in federazioni piu vaste. È questa una concezione che si muove sullo sfondo della filosofia nominalista, propria del tardo medioevo – che concepiva la Chiesa e il Concilio Generale corporativisticamente53 – di cui Lutero e gli altri riformatori hanno subito l’influsso.
Nella concezione ecclesiologica del Vaticano II laCommunio nasce dal fatto che la Chiesa universale esiste concretamente solo nella misura in cui si realizza nelle Chiese particolari e dal fatto che essa, in quanto realtà concreta – non solo ideale e astratta – è costituita a sua volta dalle Chiese particolari. La Chiesa universale che si realizza nelle Chiese particolari è la stessa che si costituisce dalle Chiese particolari. La formula “in quibus et ex quibus”, della LG 23,1, coglie il mistero della Chiesa nella sua essenza istituzionale. È perciò un modello conoscibile solo per fede che, in forza di una logica precisa, non trova riscontro adeguato in nessun modello costituzionale statale, neppure in quello federalistico. È evidente che lo sfondo culturale aristotelico-ilemorfistico, in cui si è mossa di preferenza tutta la teologia latina, non è estraneo a questa formula conciliare, che ha ripreso e perfezionato la ben nota formula di San Cipriano 54. Questo sia detto, anche se la formula della fede, per tutte le confessioni, trascende sempre, nel suo nocciolo, i presupposti culturali filosofici da cui essa immediatamente dipende.
Il significato strutturale della categoria Communio è stato espresso con un’altra formula, particolarmente efficace, da Hans-Urs von Balthasar 55 nel titolo del suo libro Il tutto nel frammento. Tutta la Chiesa è presente nel frammento della Eucarestia; d’altra parte la Chiesa stessa nella sua totalità si costituisce, a sua volta, a partire dalla celebrazione di tutte le Eucarestie.
Questa dinamica strutturale della Communio rimane la stessa anche quando dalla ecclesiologia si passa alla antropologia teologica. La personalità del cristiano, in quanto uomo nuovo che ha abbandonato l’uomo vecchio, è determinata dalla comunione. La sua identità metafisica e giuridica è data dal fatto che in forza del battesimo l’uomo è stato radicato strutturalmente, e non solo dal·profilo etico, nel Cristo. Il cristiano rappresenta il Cristo poiché in lui è presente tutto il Cristo con il suo Corpo Mistico. Il cristiano non può perciò essere concepito come una entità individuale contrapposta a quella collettiva, ma come soggetto al quale tutta la comunità dei cristiani è misteriosamente, ma realmente, immanente. Sul piano giuridico il rapporto con tutti gli altri membri della comunità cristiana – anche con quelli che esprimono la funzione di servizio dell’Autorità – cambia strutturalmente. Non esiste più come rapporto di polarità concorrenziale.
Questa integrazione è strutturale e totale. Il canone 87 del CIC testimonia fino ad oggi che questa è la coscienza antropologica più profonda della Chiesa. Il cristiano è visto, da una parte, come colui che è sminuito nella sua personalità ontologica e giuridica se vive extra-communionem, dall’altra, come colui che non può sottrarsi totalmente allo statuto ontologico della comunione stessa. Egli appartiene costituzionalmente, per sempre, all’unica Chiesa di Cristo mediante il battesimo: semel christianus, semper christianus.
La struttura costituzionale della Chiesa e il rapporto giuridico proprio alla sua concezione antropologica, non coincidono né con il modello dello Stato liberale democratico moderno, né con quello dello Stato socialista.  Nel primo l’individuo è concepito a partire dalla sua alterità ripresso alla collettività. Anche se i nessi strutturali dei due poli stanno diventando sempre più complessi e stringenti, l’elemento del in quibus non si realizza. L’individuo non realizza in sé tutta la collettività, come lo Stato federato non realizza in se tutta la Confederazione.
Non dobbiamo ingenuamente credere che lo Stato occidentale moderno, anche nelle sue espressioni teoriche e pratiche, ritenute migliori nel mondo occidentale, sia una emanazione autentica del diritto naturale e perciò espliciti con fedeltà la natura dei rapporti intersoggettivi così come Dio li avrebbe costituiti in nuce nella creazione. Basterebbe la testimonianza data da Leonardo Boff 56 per richiamare alla coscienza di tutti questa fonda mentale verità. Il diritto naturale moderno, di estrazione razionalistica e naturistica, non coincide necessariamente neppure con il ius divinum naturaledi tradizione cattolica suareziana, in quanto diritto proprio allo stato di natura dopo il peccato originale.
Nello Stato socialista la situazione strutturale è capovolta. L’individuo è finalizzato allo sviluppo storico-dialettico del collettivo. L’autonomia del singolo è negata e la collettività non e concepita come costituita da tutti gli individui: l’elemento dell’ex quibus è sacrificato. Non faccio in questa sede riferimenti al modello dei diritti fondamentali che alcuni autori chiamano terzomondista perché non sembra ancora essere interpretabile in modo concettualmente univoco 57 .
Da questo esame della struttura comunionale della Chiesa e dell’antropologia teologica cristiana mi sembra che la prova positiva della impossibilità di applicare la categoria della fondamentalità mediante l’analogia proportionalitatis, ai diritti del cristiano nella Chiesa, possa essere considerata sufficientemente valida.

8. La nozione di “diritto” come “dovere”

Ci si può tuttavia ancora chiedere se non sia possibile risolvere il problema capovolgendo il rapporto tradizionale diritto-dovere, in dovere-diritto. Dal congresso non mi sembra sia venuta nessuna indicazione stringente in questo senso. Le due formule sono state usate indistintamente senza la pretesa di mettere a tema la natura e l’ordine dei due termini del rapporto. Anche i cataloghi progettati per il nuovo codice Lex fundamentalisalternano i due valori senza lasciarne apparire precisi criteri di scelta.
Il problema è stato però posto in modo estremamente chiaro e brillante da Piero Bellini 58in un suo recente articolo. Gli ordinamenti giuridici dello Stato e della Chiesa non obbediscono allo stesso modello, da Bellini chiamato culturale, per differenziare il suo approccio al problema da quello tradizionale, filosofico e teologico. Il modello laico è fondato sul diritto naturale, quello ecclesiale su una concezione religiosa sacrale. In essa la posizione del credente è definita primariamente dal concetto di dovere. Il dovere postula per sua natura il diritto di potersi realizzare.
Per quanto interessante e storicamente documentabile, attraverso Jacques Maritain 59 , questa posizione potrebbe tradire una opzione filosofica diversa da quella in cui si è mosso fino ad oggi il dibattito canonico sui diritti fondamentali. Come ha fatto osservare Dietrich Pirson 60 , ma anche Ulrich Scheuner 61 in un suo articolo, determinate inclinazioni del luteranesimo hanno esercitato un influsso sulla idea di diritto come dovere 62 . In effetti anche la scuola francescana del tardo medioevo, da cui Lutero dipende, aveva interpretato la categoria di lex aeterna che sta all’apice della trilogia tomista lex divina, lex naturalis, lex humana, non come espressione della ragione divina, ma come espressione della voluntas Dei 63 .
In sintesi credo che la sostituzione del modello tradizionale, di ispirazione realista, con un modello volontarista – più incline al positivismo giuridico – non sia sufficiente per dirimere la questione del significato costituzionale dei diritti del cristiano nella Chiesa. La tradizione cattolica ha sempre individuato nella ontologia l’infrastruttura filosofica che meglio di ogni altra le poteva garantire l’equidistanza degli estremi. In realtà più che di compiere una volontà di Dio, concepita come intervento eteronomo rispetto alle cose, si tratta di prendere coscienza della struttura che le cose hanno per loro natura. In essa Dio manifesta la sua volontà. Comunque anche questo problema rimane aperto.

9. Clausole garantiste

Concludendo questa prima parte del discorso relativa ai diritti del cristiano nella Chiesa è necessario sottolineare con ogni chiarezza che l’eventuale negazione del carattere di fondamentalità dei diritti del cristiano nella Chiesa non implica per nulla la negazione dell’esistenza dei diritti del cristiano nella Chiesa; diritti tra cui esiste un’evidente scala gerarchica di priorità.
I·dibattiti del Congresso – in modo particolare quelli concernenti la II. e la III. Sessione, hanno permesso di mettere a fuoco moltissimi problemi e messo in luce i molti limiti dell’attuale formulazione.
In particolare, se è vero come ha sostenuto Helmut Schnitzer 64 , che il progetto legislativo si è sforzato di cogliere la specificità dei diritti del cristiano rispetto ai diritti naturali apponendo tutta una serie di precisazioni e cautele, è altrettanto vero che proprio queste clausole salvatorie sono, come ha sostenuto Jean Bernhard 65 , di natura garantista. Esse mirano più a conservare intatta la posizione della gerarchia che a precisare i diritti stessi dei fedeli. Basterebbe questo giudizio critico per evidenziare la necessità di procedere, comunque, ad un nuovo esame della loro formulazione, prima della promulgazione del nuovo CIC o della LEF.

10. Conseguenze della non “fondamentalità”

I problemi conseguenti alla negazione dellafondamentalità dei diritti del cristiano nella Chiesa, sono molteplici. Capisco di non poter soffermarmi, per cui mi limito ad enumerarne qualcuno, tenendo conto soprattutto di quelli emergenti in forza della logica propria alla tecnica giuridica:
– problema della collocazione sistematica dei diritti del cristiano (nel CIC o nella LEF),
– problema della loro protezione giuridica specifica,
– problema della opportunità stessa di promulgare una LEF come quella attuale.
Si tratta infatti di un modello di Legge Fondamentale che coglie il mistero della Chiesa a livello di elementi ecclesiologici non primari, ma derivati 66: diritti fondamentali – distribuzione del potere (rapporto papa-vescovi) ed esercizio del potere (tria munera). Gli elementi primari, Parola-Sacramento e carismi, che pure hanno una valenza giuridica non emergono come elementi portanti 67 . Infatti troppo spesso il discorso scivola ad un livello di pura tecnica giuridica. Passo perciò alla seconda questione di fondo.

11. Correlazione tra i valori fondamentali e i diritti del cristiano

In che senso è legittimo affermare che i diritti dell’uomo derivati dal suo statuto creazionale, cioè dalla dignitas humanae naturae – espressione culturale già contenuta nella lettera di Clemente ai Corinti e trasmessa al medioevo dalla eloquenza di papa Leone Magno 68 – sono applicabili anche come diritti del cristiano nella Chiesa? Il canone 3 dell’ultimo progetto (1978) della LEF elude il problema 69 , ma la dottrina canonistica deve saper dare una risposta chiarificatrice all’interrogativo, qualche volta inquietante 70 , posto non solo dall’opinione pubblica ma anche dagli ambienti scientifici.
Il problema è risolvibile solo subordinatamente alla questione più radicale che gli sta a monte: il rapporto tra natura e soprannatura, tra ragione e fede, da sempre una crux theologorum. Qualche precisazione comunque è possibile. Man mano che la Chiesa riesce a mettere a tema la propria esperienza, la ragione permette di conoscere con profondità sempre maggiore la ragionevolezza intrinseca dei contenuti della fede. La fede permette a sua volta di mettere in luce la verità ultima e propria dei contenuti della conoscenza razionale. Secondo la tradizione cattolica non esiste contradditorietà tra le due conoscenze anche se la salvezza viene dalla fede e non dalla ragione. Si tratta di una interdipendenza fondata sulla preminenza della fede rispetto alla ragione, poiché la certezza ultima della fede non si appoggia sulla ragione e poiché solo la fede, in quanto dono gratuito di Dio, assicura la conoscenza certa e definitiva del significato dell’uomo e della storia.
I diritti dell’uomo, anche quando dovessero essere formulati a partire dalla coscienza cristiana già illuminata dalla fede alla quale allude la formula di estrazione suareziana del ius divinum naturale (e non a partire dal diritto naturale moderno di estrazione razionalistica), non possono essere considerati come fonte di conoscenza adeguata e come parametro dei diritti del cristiano nella Chiesa.
Il discorso assume una precisione ancora maggiore se si tien conto della distinzione e della correlazione esistente tra diritti fondamentali e valori fondamentali.
Si tratta di una distinzione e di una correlazione del problema, che esistono anche a livello teologico e canonistico. I lavori del Congresso l’hanno messo più volte in evidenza. L’osservazione, fatta daAmadeo de Fuenmayor 71 , circa l’ambiguità e lo scarto reperibili tra la formulazione dei diritti fondamentali del cittadino e i valori fondamentali della società e dello Stato, è illuminante. Anche in diritto canonico non si può prescindere, nell’affrontare i diritti del Cristiano nella Chiesa, dal rapporto di correlazione esistente tra norma giuridica e valore.
Persino nell’ipotesi che i diritti fondamentali e costituzionali del cittadino riuscissero a declinare in un determinato momento storico i valori specifici delius divinum naturale (che comunque rappresenta il diritto proprio allo status naturae dopo il peccato originale e non quello della natura umana dello stato di giustizia originale) non potrebbero ancora essere considerati come criterio qualificante l’esperienza ecclesiale. Infatti i valori umani fondamentali, pur non essendo, per principio, contradditori a quelli soprannaturali non coincidono con essi; anzi, se applicati in modo assoluto, potrebbero diventare di ostacolo ad una esperienza ecclesiale.
Lo scarto esistente tra i due cataloghi (quello dei diritti fondamentali dell’uomo e quello dei diritti del cristiano nella Chiesa) è lo stesso che esiste tra la funzione del decalogo per la convivenza sociale umana e la funzione del discorso della montagna per l’esperienza ecclesiale. È vero che il cristianesimo ha assunto i valori etici del diritto naturale, attraverso la mediazione culturale dello stoicismo, ma è altrettanto vero che le quattro virtù cardinali, in quanto espressione sintetica di questi valori, non possono essere messe sullo stesso piano delle tre virtù teologali. Remigiusz Sobanski72 ha fatto notare, giustamente, che, nella Chiesa, non esistono due piani diversi ugualmente validi: quello della giustizia e quello dell’amore (come una certa manualistica del passato ha potuto invece far credere).
Le virtù teologali, di cui la carità è l’espressione globale, non rappresentano il livello di valore non necessario rispetto alla giustizia. Se si dovesse accettare questa dicotomia tra etica naturale necessaria e carità non necessaria, bisognerebbe allora accettare l’affermato antagonismo tra diritto e carità, che non ha fondamento nell’ecclesiologia.
È stato sottolineato da più parti che il diritto principale del cristiano è quello di poter ricevere dai pastori l’annuncio integrale della fede 73 , della speranza e della carità, attraverso la mediazione dei Sacramenti e della Parola. Da questo diritto ne deriva un altro: quello di partecipare responsabilmente, secondo modalità, funzioni e carismi diversi, alla costruzione della Chiesa. A sua volta questo diritto è il fondamento che permette di individuare con maggior precisione la valenza teologico-canonistica che dovrebbe essere riconosciuta al sensus fidelium 74 .
Chi non pratica la fede, la speranza e la carità, da cui dipendono e verso cui convergono tutti i valori fondamentali dell’esperienza cristiana, non pratica, ultimamente, la giustizia ecclesiale: non garantisce agli altri ciò cui hanno diritto, non realizza l’unicuiquesuum 75 . La fede, la speranza e la carità sono valori sociali che costituiscono il tessuto intersoggettivo della struttura comunionale della Chiesa, radicata nella forza, giuridicamente vincolante, della Parola e del Sacramento.

12. Applicabilità dei diritti naturali?

 Quale valore deve allora essere riconosciuto nella Chiesa ai diritti naturali dell’uomo? Mons. Antonio Rouco Varela 76 ha proposto come criterio di soluzione la categoria della sussidiarietà. I diritti naturali dell’uomo in quanto tali da una parte, e i diritti fondamentali, formulati costituzionalmente dal diritto pubblico moderno, dall’altra, sarebbero applicabili, in modo sussidiario, sia dal profilo contenutistico che giuridico. Questo a condizione che non risultino concretamente contradditori alla specificità propria dei diritti del cristiano e a condizione che contribuiscano positivamente al perseguimento dei fini propri del diritto canonico.
In vista di una teoria generale del diritto canonico mi sembra possibile precisare ulteriormente la questione. Il principio di sussidiarietà così come è stato formulato da Gustav Gundlach 77 e dalla dottrina sociale della Chiesa, ma anche dal diritto canonico moderno, implica due elementi. Da una parte regola il rapporto di potere tra l’istanza superiore e quella inferiore (e non viceversa!), dall’altra ammette che l’istanza inferiore possa risolvere la controversia in questione in modo definitivamente valido. Ciò equivale a dire che il valore, implicito nella decisione dell’istanza inferiore, ha in se stesso carattere assoluto. I valori naturali dei diritti dell’uomo non hanno per contro valore assoluto, ma sono semplicemente relativi rispetto ai valori soprannaturali e ai diritti del cristiano nella Chiesa.
Questa relatività si manifesta a due livelli diversi. Nel grado di conoscenza, perché, come abbiamo visto, solo la fede dà una certezza assoluta di verità; nel grado di applicabilità, perché possono avere solo una funzione di supplenza. Sono applicabili solo quando la fede non è ancora arrivata ad una conoscenza della verità e dei valori superiore a quella della ragione, oppure quando la mancanza concreta di fede, nei cristiani o nei pastori, esige il ricorso a criteri più facilmente diffusi e accettati da tutti. La pratica dei diritti naturali potrebbe perciò costituire concretamente il presupposto o la conditio sine qua non per salvare l’unità nella Communio, in mancanza di altri criteri capaci di promuoverla positivamente.
Mi sembra che il principio scolastico, radicato nel cuore stesso della teologia cattolica, gratia perficit, non destruit naturam, dia la chiave di soluzione del problema. La natura non produce la grazia; la grazia presuppone la esistenza di una natura, quella dellostatus peccati originalis, sufficientemente sana per essere capace di offrire ancora il supporto necessario affinché la grazia non diventi una sovrastruttura alla storia ma possa penetrare in essa trasformandola. Questo principio teologico, applicato del resto in diritto canonico a proposito del rapporto contratto matrimoniale sacramento, non può non essere impiegato, in tutto il suo rigore, dalla canonistica, anche a proposito dei diritti del cristiano 78.
Il paradigma del rapporto tra diritti naturali dell’uomo e diritti del cristiano, appare del resto in modo evidente nel diritto alla libertà di coscienza. Esso non è applicabile come diritto fondamentale del cristiano nella Chiesa, tuttavia costituisce il presupposto naturale senza del quale neppure la Chiesa potrebbe costituirsi. Già Graziano, citato come fonte dal canone 1351 del CIC, fa stato di questa coscienza antica della Chiesa 79 . Il cristiano non gode della libertà di coscienza nel senso che la comunità ecclesiale non possa domandargli, come condizione della sua appartenenza, un comportamento confessionale vincolante; ma, come è già stato sottolineato da più parti in questa sede 80 , gode del diritto che nei suoi confronti la Chiesa non eserciti alcuna forma di costrizione usando mezzi per loro natura estranei al proprio ordinamento giuridico.
La libertà di coscienza è stata indicata ripetutamente dal magistero come diritto fondamentale dell’uomo in cui convergono tutti gli altri diritti naturali e costituzionali 81 . In questo senso costituisce il parametro del rapporto tra natura e soprannatura, tra ragione e fede. Non è possibile infatti stabilire limiti alla possibilità di espansione della fede e alla possibilità di un suo approfondimento totale.
Lo stato ecclesiale dei consigli evangelici (che sta accanto a quello laicale e presbiteriale in un rapporto di interdipendenza circolare poiché ognuno dei tre stati ha una qualche priorità sugli altri) ha esattamente la funzione di richiamare tutti i fedeli alla possibilità di una adesione totale alla fede, alla speranza e alla carità, slegata da vincoli e limiti umani propri allo stato di natura corrotta. In effetti lo stato dei consigli evangelici rende costante testimonianza alla dimensione escatologica di tutta la Chiesa. Solo nell’escatologia sarà realizzata, nel suo compimento totale, la natura umana, secondo lo statuto che le fu proprio nello stato di giustizia originale: quello di essere feconda in modo verginale; quello di possedere senza sottostare a limiti; e quello di essere libera pur praticando un’obbedienza totale 82 .
In questo senso mi sembra di poter integrare anche l’ammonimento fatto da Leonardo Boff 83 circa il diritto fondamentale del povero nella Chiesa. È vero che i cataloghi dei diritti fondamentali del cristiano espressi nella LEF e nel secondo libro del progetto di codificazione non formulano alcun diritto particolare del povero. In sede di teoria generale si tratterebbe anzitutto di riuscire a definirne la configurazione giuridica. Due brevi osservazioni comunque mi sembrano opportune.
Anche nell’ipotesi che si possa isolare uno statuto giuridico del povero in quanto tale, non si tratterebbe comunque d’introdurre nella Chiesa un catalogo di diritti sociali naturali in sua garanzia. Caso mai si tratterebbe di identificare l’eventuale rapporto giuridico esistente tra i cristiani a livello dei beni patrimoniali. Il diritto del povero nella Chiesa dovrebbe essere quello di poter partecipare pienamente alla comunione dei beni. Criterio che dovrebbe essere considerato come l’unico, autenticamente cristiano, di possesso patrimoniale. Come si può ancora vedere nelle stupende e insuperate pagine di Jacques Maritain 84 sulla proprietà privata e il bene comune. Il nuovo progetto di diritto patrimoniale non afferma purtroppo il criterio della comunione dei beni come principio generale; tuttavia lo applica in modo esplicito a proposito di certi nuovi istituti (introdotti peraltro solo in funzione del clero) 85 .

13. Conclusioni

 Diritti naturali dell’uomo validi anche per il cristiano nella Chiesa? La risposta è un sì e un no allo stesso tempo. Un sì perché i diritti naturali sono un limite e una condizione previa affinché la Communiopossa realizzarsi, un no perché essi in quanto espressione di valori non soprannaturali non sono di per se stessi capaci di generare la Communio ecclesiae et ecclesiarum in quanto tale. Un sì perché la Chiesa in un determinato momento storico potrebbe ritenere necessario di ricorrere ad essi per provocare una riflessione più profonda sulla natura dei diritti del cristiano; un no perché la loro funzione può essere considerata solo come provvisoria e interlocutoria, più che sussidiaria, in attesa che i cristiani recuperino totalmente nella fede, nella speranza e nella carità i valori e i criteri che dovrebbero determinare la specificità della loro esperienza ecclesiale.
Il diritto canonico non può rinunciare a queste precisazioni non solo in sede teoretica generale ma anche in sede legislativa. A mio avviso al canone 3 dell’ultimo progetto della LEF dove la Chiesa professa la propria stima e il proprio impegno in favore dei diritti fondamentali dell’uomo, andrebbe aggiunto un secondo paragrafo in cui si affermi:“caveant tamen christifideles ne, recursu exclusivo ad jura fundamentalia hominum in ecclesia, natura communionis cum Deo et hominibus evanescat”.
In questo momento di svolta storica della legislazione canonica e della scienza canonistica, credo non sia possibile, in sede di teoria generale del diritto canonico, rinunciare ad una applicazione rigorosa dei postulati propri alla teologia senza esitare a varcare la soglia che dalla ragione sfocia nella profezia. Solo a questa condizione la Chiesa potrebbe ancora sottoscrivere come ha fatto in altri tempi a partire da presupposti e da motivazioni diverse l’augurio scritto sul frontespizio della sala dell’università di Salamanca: “juri canonico, quo sit Ecclesia Christi felix”. Al diritto canonico che può assicurare alla Chiesa di Cristo una vita felice.


1  Cfr. Los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia y en la societad. Conferenza inaugurale del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, pubblicata in questo volume; Sessione d’apertura. Le relazioni presentate al Congresso, alle quali sarà fatto riferimento in questa sede, saranno citate solo secondo il loro titolo e la Sessione in cui sono state pronunciate.

2   Cfr. La protezione giuridica dei diritti fondamentali; III Sessione.

3   Per l’analisi dello sviluppo metodologico della teologia nei suoi diversi modelli cfr. la grande e vigorosa Teologia di C. Vagaggini, in: Nuovo Dizionario di Teologia. A cura di G. Barbaglio e S. Dianich, Alba 1977, 1597-1711.

4  Su questo tema cfr. l’articolo, rimasto fondamentale anche se datato, di Y. Congar, De la communion des Eglises à une Ecclésiologie de l’Eglise Universelle: L’Episcopat et l’Eglise Universelle. Ouvrage publié sous la direction de Y.Congar et B. -D. Dupuy, Paris 1962, 227-260.

5  Cfr. Das altkatholische Kirchenrecht und das Dekret Gratians, Darmstadt 1967, München und Leipzig 1918, passim, per es. 552.

6  Grundrechte in Recht und Tradition der reformatorischen Kirche; IV Sessione.

7  Cfr. A. Rouco Varela, Le statut ontologique et épistémologique du droit canonique. Notes pour une théologie du Droit canonique, RSPhTh 57 (1973) 206-208.

8  Cfr. G. Fassò Storia della filosofia del diritto. Vol I: Antichità e Medioevo, Bologna 19702, 254-270.

9  Tractatus de Legibus ac de Deo Legislatore. Pars I, Napoli 1872. Per constatare questo fatto basterebbe fare il confronto tra il Libro III e il Libro IV. Nel primo Suarez tratta della legge positiva umana civile (chiedendosi in che miusura anche la Chiesa potrebbe promulgare leggi civili per i cristiani), nel secondo tratta invece esclusivamente della legge positiva canonica.

10  Cfr. per es. A. Freiherr von Campenhausen, Staatskirchenrecht, München 1973, 26-37.

11  Introducción a la ciencia del derecho canónico, Madrid 1967, 38-52; cfr. anche A. de la Hera – Ch. Munier, Le droit publique ecclésiastique à travers ses définitions, RDC 14 (1964) 32-63

12 . Per la sistematicità e la funzionalità del “Ius Publicum Ecclesiasticum”, Sal 25 (1963) 412 ss.

13 Kirche und Staat in der neueren katholischen Kirchenrechtswissenschaft, Berlin 1978.

14   Cfr. E. Corecco, Teologia del Diritto Canonico in: Nuovo Dizionario di Teologia, o.c., 1711-1753; Id., Theologie des Kirchenrechts Methodologische Ansätze, Trier 1980, 59-70.

15  Cfr. Id., “Ordinatio Rationis” o “Ordinatio Fidei” ? Appunti sulla definizione della legge canonica: Strumento Internazionale per un lavoro Teologico, Communio 36 (1977) 48-52.

16  Per un’analisi di questi modelli cfr. A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e Diritto: antinomia nella Chiesa? Milano 1971, 24-64.

17  Cfr. per es. il discorso di Papa Paolo VI ai partecipanti al II Congresso Internazionaie di Diritto Canonico del 1973: Persona e Ordinamento nella Chiesa. Atti del II Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Milano 10-16 settembre 1973, Milano 1975, 579-588.

18   Cfr. Fundamentos eclesiologicos de una teoria de los derechos fundamentales del cristiano en la iglesia; I Sessione.

19   Cfr. La théologie comme science au XIIIe siècle, Paris 19573 67-92; Id., La théologie au douzième siècle, Paris 1957, 249-250.

20    Cfr. The fundamental rights of christians an the exercise of the munus sanctificandi; II Sessione.

21   Cfr. Liber II, d. 37, q. I, a. 1, ad Ium; ibid., Liber IV, d.49, q. I, a. 1; ma cfr. soprattutto la S. Theologiae, I, q. 79, a. 11, resp.

22  Cfr. ibid. I/II q. 90-105 (legge); II/II, q. 57-59 (diritto).

23  Basti pensare che un grande dommatico e metafisico come Suarez dedicò, complessivamente, più di 10 anni per scrivere il De Legibus, in cui egli sviluppa, a partire da precisi fondamenti filosofici e teologici, sia una teoria generale della Lex che dello Ius.

24   Cfr. i passaggi già citati sopra in nota 21. Su questo problema cfr. A. Scola, La legge naturale in S. Tommaso (in corso di pubblicazione).

25  Ci si rifensce alla profonda trasformazione della ragione, non priva di appiattimento, operatasi nel pensiero moderno dopo Kant. Su questa evoluzione della ragione, come è noto ha riflettuto molto la Scuola di Francoforte; cfr. per es. Th. W. Adorno, Negative Dialektik, Franfurt a.M. 1973, spec. 137-294.

26  Cfr. Les droits fondamentaux de la personne dans la perspective du Common Law; V Sessione.

27  Cfr. per es. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie. Ihre Grundlagen und Hauptprobleme in geschichtlicher Form, Wien 19632, 159-162.

28  Cfr. E. Corecco, Diritto, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare. Vol. I, Torrino 1977. spec. 120-133; id., Theologie des Kirchenrechts, o.c., 33-44.

29  Cfr. per es. C. Vagaggini, Teologia, in: Nuovo Dizionario di Teologia, o.c. 1589-1606.

30  Cfr. Los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia y en la societad; Sessione d’apertura.

31  Cfr. La communio comme critère des droits fondamentaux: I Sessione.

32  Cfr. Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, AfkKR 147 (1978) spec. 360-376.

33  Cfr, Grundwerte und Grundrechte in der Gesellschaft und im Staat; V Sessione.

34  Cfr. Derechos fundamentales y familia cristiana; VI Sessione.

35   Cfr. P. Fedele, Aequitas canonica, in: Enciclopedia del Diritto, Milano 1958, Vol. XV, 147-160.

36  Cfr. Ordnung der Kirche. Lehr- und Handbuch des Kirchenrechts auf ökumenischer Basis, Frankfurt a.M. 1961, 5-7.

37  Cfr. A. Rouco Varela – E. Corecco, Sacramento e Diritto: Antinomia nella Chiesa? o.c., 48-52.

38  Betrachtung zur Systematik eines neuen Codex Iuris Canonici: Ex Aequo et Bono. Willibald M. Plöchl zum 70. Geburtstag, hrsg P. Leisching – P. Pototsching – E. Potz, Innsbruck 1977, 15-21.

39  Cfr. F. Coccopalmerio, De conceptu et natura iuris ecclesiae, PRMCL 66 (1977) 447-4474.

40  Cfr. G. Ghirlanda, Il diritto civile “analogatum princeps” del diritto canonico?, Rassegna di Teologia 16 (1975) 588-594.

41  De analogia inter Verbum Incarnatum et Ecclesiam (L.G. 8a). PRMCL 66 (1977) 499-512.

42  De natura iuris ecclesiae proprii notanda, PRMCL 66 (1977) 567-582.

43  Cfr. I diritti fondamentali dei cristiani e l’esercizio dei munera docendi et regendi; II Sessione.

44  Cfr. Grundwerte und Grundrechte in der Gesellschaft und im Staat; V Sessione.

45  Cfr. Freiheit und Bindung in der Kirche; I Sessione.

46  Cfr. Grundrechte in Recht und Tradition der reformatorischen Kirchen; IV Sessione.

47  Cfr. Fundamentos eclesiologicos de una teoria de los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia; I Sessione.

48  Cfr. Ökumenismus und Veruwirklichung der Grundrechte der Getauften; IV Sessione.

49   Cfr. K. Mörsdorf, L’autonomia della Chiesa locale. Atti del Congresso Internazionale di Diritto Canonico: La Chiesa dopo il Concilio (Roma 14-19 gennaio) Milano 1972. I 163-185.

50   Cfr. LThK, Konzil II, 151 n. 4.

51  Cfr. Das Synodale Element der Kirchenverfassung, Munchen 1970, 318-366.

52  Infatti quest’ultima è generata secondo gli Orientali più da un vincolo di amore nello Spirito Santo, che dalla legittimità di un’autorità fondata sul possesso di un ufficio ecclesiastico; cfr. M. J. Le Guillou, Mission et Unité. Les exigeances de la communion, Paris 1960, II 184-200; cfr. anche E. v. Ivanka, Sobornost in: LThK, Freiburg 19642. IX 841-842.

53   Cfr. H. Jedin, Strukturprobleme der ökumenischen Konzilien (Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein – Westfalen. Geisteswissenschaften. Heft 115), Köln und Opladen 1963, 11-13.

54  “Una Ecclesia per totum mundum in multa membra divisa” (Epist. 55-24).

55   Milano 1970. Testo onginale: Das Ganze im Fragment. Aspekte der Geschichtstheologie, Einsiedeln 1963.

56  Cfr. Derechos fundamentales del hombre en la perspectiva latino-americana; V Sessione.

57   Cfr. J. M. Lochmann, Ideologie oder Theologie der Menschenrechte: Die Problematik des Menschenrechtsbegriffs heute, Conc. 15 (1979) 204-209. In questo contesto può essere citato dallo stesso quaderno di Concilium l’articolo di W. Huber, Menschenrechte. Ein Begriff und eine Geschichte, 199-204.

58   Diritti fondamentali dell’uomo, diritti fondamentali del cristiano, EJCan 34 (1978) 211-246.

59  Cfr. Les droits de l’homme et la loi naturelle, New York 1942, 80-88. Per la fondazione dei diritti dell’uomo in J. Maritain si veda soprattutto A. Scola. La fondazione dei “Diritti dell’Uomo” in J. Maritain; V Sessione.

60  Cfr. Grundrechte in Recht und Tradition der reformatorischen Kirchen; IV Sessione.

61   Les droits de l’homme à l’intérieur des Eglises protestantes, RHPhR 4 (1978) 379-397.

62  Tipici rappresentanti di questa tendenza nella filosofia del diritto sono stati i protestanti Samuel Pufendorf e Christian Wolff e, nella loro scia anche Hegel, che considera come supremo dovere dell’individuo quello di essere membro dello Stato: “Der Staat… hat… das höchste Recht gegen die Einzelnen., deren höchste Pflicht es ist, Mitglied des Staats zu sein” (Grundlinien der Philosophie des Rechts, Leipzig 1911 §258, 195. Ch. Wolff, da parte sua, aveva affermato nel suo Ius naturae (Gesammelte Werke, II. Abt., Band 17, Hildesheim-New York 1972, §§ 24 e 25, 20-21): “Quoniam ius oritur ex obligatione… Obligatio prior est iure, hoc est, ante ponenda est aliqua obligatio, quam ius aliquod concipi possit… Si nulla esset obligatio, nec ius ullum foret”; cfr. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie. o.c., 128-163.

63   Cfr. E. Corecco, Diritto, in: Dizionario Teologico Interdisciplinare, o.c. 127-128; cfr. anche il recentissimo e stimolante volume di Piero Bellini, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro nella esperienza giuridica dell’Europa preumanista, Firenze 1981, spec. 29-77.

64  Cfr. Individuelle und gemeinschaftliche Verwirklichung der Grundrechte; III Sessione.

65  Les droits fondamentaux dans la perspective de la Lex Fundamentalis et de la révision du Code de Droit canonique; III Sessione.

66  Questo metodo di approccio ai problemi ecclesidogici è presente anche nei testi del Vaticano II. Nei confronti di questa ecclesiologia vale la critica di peccare di sistematicità – a scapito della storia – e di pragmatismo, mossa contro Rahner stesso che fu uno dei principali ispiratori della teologia della Lumen Gentium; cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, in: la Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970, 23-30; cfr. anche D.T. Strottmann, Primauté et Céphalisation. A propos d’une étude du P. Karl Rahner, Iren. 37 (1964) 187-197.

67  Il Documento di Puebla ha saputo affrontare il problema ecclesiologico ad un livello più fondamentale; cfr. E. Corecco, Prospettive per la Lex Ecclesiae Fundamentalis e la revisione del Diritto Canonico nel Documento di Puebla, DEC 1 (1980) 3-23.

68  Cfr. C.-J. Pinto de Oliveira, Evangile et droits de l’homme. 3. Originalité théologique de Jean Paul II in: Jean Paul II et les Droits de l’homme. Une année de pontificat. Fribourg – Paris 1980, 65-67.

69  “Ecclesia omnibus et singulis hominibus, utpote ad imaginem Dei creatis, dignitatem humanae personae propriam recognoscit et profitetur, itemque officia et iura quae ex eadem profluunt agnoscit atque, omnium hominum vocationis ad salutem ratione, etiam tuetur”. Il fatto che la Chiesa “agnoscit” i doveri e i diritti derivanti dalla dignità della natura umana non significa ancora che li recepisce nel proprio ordinamento giuridico. D’altra parte ci si può chiedere perché solo la protezione tuetur e non anche il riconoscimento agnoscit è sottoposta alla clausola omnium hominum vocationis ad salutem ratione.

70  Per tutti valga l’esempio dell’articolo di J. A. Coriden, Menschenrechte in der Kirche. Eine Frage der Glaubwürdigkeit und Authentizitat. Conc, o.c. 234-239. Un altro esempio di come la problematica dell’applicazione dei diritti dell’uomo nella Chiesa venga posta più con intenti di mobilitazione dell’opinione pubblica che di analisi scientifica è l’articolo di A. Macheret, Jean Paul II et les Droits de l’homme. 2. Appréciation politique et juridique, in: Jean Paul II et les Droits de l’homme, o.c., 49,52.

71   Derechos fundamentales y familia cristiana; VI Sessione.

72   Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, AfkKR 1. c., spec. 369-372.

73  Cfr. per es. J. Ratzinger, Freiheit und Bindung in der Kirche; I Sessione.

74   Cfr. per es. W. Aymans, Munus und Sacra potestas; II Sessione.

75  Cfr. R. Sobanski, Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, 1. c. 370.

76  Fundamentos eclesiologicos de una teoria de los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia; I Sessione.

77  Cfr. O. von Nell-Breuning, Subsidiaritätsprinzip, in: StLex, Freiburg 1962, VII 826-833.

78   Cfr. E. Corecco, L’inseparabilità tra contratto matrimoniale e sacramento, alla luce del principio scolastico Gratia perficit, non destruit naturam: Strumento Internazionale per un lavoro Teologico, Communio 16 (1974) 28-41 e 17 (1974) 30-51 (traduzione tedesca in AfkKR 143 (1974) 379-442); Id., Il sacramento del matrimonio: cardine della costituzione della Chiesa: Strumento internazionale per un lavoro Teologico, Communio 51 (1980) 3-29 (traduzione in AfkKR 148 (1979) 353-379).

79   Per es. Graziano nel C. 3 che porta il titolo “Non asperis, sed blandis verbis ad finem sunt aliqui provocandi” – della D. XLV, si rifà ad un brano della lettera di Papa Gregorio al vescovo Pascasius di Napoli (Lib. XI, epist. 15), in cui, in merito alla conversione forzata degli ebrei, si afferma: “Nam quid utilitatis est, quando etsi contra longum usum fuerint vetiti, ad fdei illis conversionem nihil proficit”.

80   Cfr. per es. W. Aymans, Munus und Sacra potestas; II Sessione.

81  O. Höffe (Le Pape Jean Paul II et les Droits de l’homme, 1. Réflections philosophiques. in: Jean Paul II et les Droits de l’homme, o.c. 30-31) critica questa riduzione dei diritti fondamentali dell’uomo al diritto della libertà di coscienza. Tuttavia a sua volta, affermando che il dintto alla vita è primario, non tiene conto della diversità dei piani e dei fini a cui devono essere riferiti i singoli diritti fondamentali. Non c’è dubbio che in ordine alla salvezza il diritto alla libertà di coscienza prevalga su tutti gli altri diritti.

82  Su questo problema cfr. H. Urs von Balthasar, Christlicher Stand, Einsiedeln 1977, spec. 294-314.

83  Cfr. Derechos fundamentales del hombre en la perspectiva latino-americana; V Sessione.

84  Cfr. Du régime temporel et de la liberté, Paris 1934, Annexe I.

85   I principi portanti del Libro V De bonis Ecclesiae temporalibus del progetto di codificazione sono prevalentemente di stampo apologetico e presi a prestito dal IPE. La preoccupazione è quella di affermare prima di tutto che la Chiesa gode di un ius nativum di acquistare e possedere beni propri (Can. 1205 §1). Da questo diritto deriva quello, comune ai sistemi fiscali di tutti i tempi, di esigere dai cristiani i mezzi finanziari necessari al raggiungimento dei propri scopi sociali (Can. 1211). Anche nel § 2 del Can. 1205, dove il discorso verte sul fine dei beni ecclesiastici, l’idea della comunione dei beni non è resa esplicita.

Per misurare l’entità dell’apporto della teologia, e soprattutto di quella cattolica, alla elaborazione di una teoria generale del diritto è indispensabile dare dapprima una valutazione globale dello sforzo di rinnovamento metodologico ed epistemologico della canonistica post-conciliare e poi – all’interno di questo orizzonte – cercare di mettere a fuoco alcuni, forzatamente pochi, dei contributi teoricamente più qualificanti offerti dal diritto canonico allo sviluppo contemporaneo della scienza giuridica.

I. La ripresa della scienza canonistica dopo il Concilio Vaticano II

 

1. Il rinnovamento metodologico ed epistemologico del diritto canonico

 

Uno dei risultati apparentemente più paradossali del Concilio Vaticano II, la cui sottile vena antigiuridica avrebbe potuto far prevedere altri sviluppi, è stato quello di provocare una rigorosa ripresa della scienza canonistica, per altro non ancora completamente registrata dalle altre discipline teologiche.

All’interno di questa ripresa comincia a delinearsi – sia pure su binari diversi – il formarsi di una nuova scienza del diritto canonico che potrebbe far entrare la canonistica nella terza fase della sua storia, dopo quella classica medioevale e quella post-tridentina del “Jus Publicum Ecclesiasticum”. La prima fase, incominciata con la distinzione metodologico-sistematica del diritto canonico dalla teologia, operata da Graziano, sfociava nel riconoscimento della canonistica come scienza generale del diritto all’interno della Cristianità, dove il diritto delle Decretali godeva, accanto a quello romano, autorità di diritto comune. La seconda fase, quella dell’IPE, formatosi come scienza nuova dopo la Riforma contemporaneamente alla nascita dello Stato assolutista moderno di estrazione giusnaturalista, consiste nell’elaborazione di un sistema giuridico confessionale il cui compito primario fu quello di garantire apologeticamente diritto di cittadinanza alla Chiesa cattolica come società perfetta nell’ambito culturale secolarizzato dell’evo moderno.

Al di là delle diverse metodologie seguite, la tendenza di fondo della canonistica post-conciliare è invece quella di ridare alla scienza del diritto canonico un’identità teologica più precisa, che non può non sfociare nell’elaborazione di un sistema giuridico concepito esclusivamente come ordinamento giuridico ecclesiale, cioè come diritto interno alla Chiesa cattolica. In questa prospettiva la funzione culturale esercitata direttamente dal diritto canonico medioevale sullo sviluppo della filosofia e della teoria generale del diritto come del resto il compito apologetico svolto dall’IPE vengono recuperati indirettamente dalla forza profetica del dato teologico enunciato dal diritto ecclesiale stesso.

Se la prima preoccupazione in questo nuovo orientamento della canonistica è stata quella di dare una giustificazione teologica all’esistenza del diritto canonico, il discorso incomincia ora a spostarsi a livello dell’ontologia, cioè della natura intrinseca del diritto ecclesiale, in vista di elaborare una vera e propria teoria generale del diritto canonico, che non mancherà di influenzare in qualche modo anche l’elaborazione di una teoria generale del diritto.

Se da sempre, sia pure in modo diversamente riflesso, la canonistica ha avuto coscienza che, rispetto al diritto secolare quello della Chiesa è un diritto “sui generis”, la letteratura moderna incomincia ad avvertire in modo più stringente l’impossibilità di continuare a considerare il diritto secolare come “analogatum princeps” di quello ecclesiale. Anzi, l’uso stesso dell’analogia incomincia ad essere messo in discussione, poiché se essa permette di cogliere negativamente la diversità tra i due ordini giuridici, non è sufficiente né a definire positivamente la natura specifica del diritto ecclesiale né tanto meno ad elaborare una teoria generale del diritto canonico di taglio non più solo giuridico, ma anche teologico.

È inevitabile che la ricerca di un nuovo statuto ontologico ed epistemologico del diritto canonico faccia venire al pettine i problemi nodali della scienza giuridica di sempre: quelli della definizione formale sia della nozione di “diritto” che di quella di “legge”.

Come ha molto acutamente constatato subito dopo il Concilio Vaticano II, la canonistica, dal momento che non intende più definirsi come scienza giuridica, ma come scienza teologica, deve porsi il problema della definizione formale del proprio oggetto “quod” cioè della propria nozione di diritto. Non può più accontentarsi di veicolare, senza ridiscuterla, la nozione di diritto formulata dal Suarez come sintesi di tutto il pensiero filosofico-giuridico della scolastica ed ancora soggiacente alla prima codificazione canonistica. Il presupposto fondamentale per cogliere dal profilo teologico lo statuto ontologico del diritto ecclesiale è perciò quello di non appoggiarsi più su una pre-concezione filosofica della nozione fondamentale di diritto, poiché il diritto canonico, a differenza di quello secolare, non è generato dal dinamismo spontaneo (biologico) della convivenza umana”, ma da quello specifico inerente alla natura stessa della comunione ecclesiale, la cui socialità è prodotta primariamente non dalla natura umana, ma dalla grazia che instaura rapporti intersoggettivi e strutturali diversi, propri alla costituzione della Chiesa e conoscibili nella loro specificità solo attraverso la fede. La canonistica medioevale e quella moderna hanno definito il diritto a partire dalla categoria del “iustum” e dell’“obiectum virtutis iustitiae”, ma è evidente che esse, essendo di estrazione filosofica, non sono in grado di spiegare in modo adeguato la dimensione giuridica specifica della Chiesa.

Il secondo aspetto fondamentale, anche se conseguente al primo, è il problema della definizione formale del concetto di legge canonica.

Il vecchio Codice di diritto canonico non dà alcuna definizione legale della legge canonica. Nel nuovo, il discorso non è sostanzialmente diverso, anche se a partire dai cann. 7 e 29 si possono determinare i quattro elementi formali o esterni di tale definizione, ossia: il “praescriptum generale”, che distingue la legge dalle decisioni in singoli casi, il “competens legislator”, la “communitas legis recipiendae capax” ed infine la “promulgatio”.

Del profilo sostanziale o degli elementi interni costitutivi della legge canonica, il testo codiciale “silet”, per cui occorre ricorrere alla dottrina, al cui livello però lo “status quaestionis,, non si discosta molto da quello posto da S. Tommaso, dato che – al di là del florilegio di diverse definizioni – non è difficile constatare una profonda convergenza degli autori nell’usare – come quadro di riferimento – quella classica di S. Tommaso: “quaedam rationis ordinatio ad bonum commune, ab eo qui curam communitatis habet, promulgata” (I-II, q. 90, a. 4, c).

2. Prospettive per una nuova definizione della nozione di legge

a) La legge canonica come “ordinatio fidei”

Il nocciolo della definizione tomista, composta da quattro elementi (ragione, legislatore, bene comune e promulgazione) è senza dubbio dato dal primo elemento, cioè dall’ordinatio rationis. Cosa ha inteso esprimere l’Aquinate definendo la legge come “ordinatio rationis”? Per rispondere alla domanda è necessario cercare di capire che cosa sia la “ratio” per S. Tommaso.

Nella visione teologica dell’Aquinate la “ratio” è la capacità dell’uomo di conoscere in modo discorsivo, cioè in modo diverso da quello proprio all’“intellectus”, che apprende “simpliciter” i primi principi (I, q. 79, a. 8, c). La “ratio”, che S. Tommaso non chiama “ratio Dei” ma solo “ratio divina” o addirittura “quasi ratio Dei”, pur rappresentando una realtà d’ordine intellettivo – in quanto anche in Dio formalmente distinguibile da quello volitivo – in realtà significa solo che Dio conosce in quanto ha in se stesso la ragione, cioè la spiegazione o la causa di tutte le cose. Quindi più che di un tipo di conoscenza intellettiva parallela, anche se eminentemente superiore, a quella umana, si tratta dello stesso principio o facoltà per cui Dio è origine di tutti gli esseri. Ora, se è vero che la “ratio” o l’“intellectus” sono la potenza conoscitiva per cui l’uomo partecipa ontologicamente alla essenza divina, cioè alla “lex aeterna” (da cui ha origine il diritto naturale), non si può per contro affermare la stessa cosa in rapporto alla “lex divina,, in quanto “ratio”, ossia in quanto piano espresso nel diritto divino positivo che ordina l’uomo al fine soprannaturale, cioè alla “beatitudo aeterna” poiché quest’ultima “excedit proportionem naturalis facultatis humanae” (I-II, q. 91, a. 4, c). L’uomo infatti non partecipa alla “lex divina” in forza della dinamica intrinseca alla sua razionalità, ma solo attraverso la “gratia”, che a livello conoscitivo si esprime come dono della fede. Dato che in Dio non esiste una “lex aeterna” diversa dalla “lex divina”, la duplicità delle leggi risulta esclusivamente dalla modalità diversa con la quale l’uomo conosce l’una o l’altra e vi partecipa, razionalmente o per fede. La distinzione tra il livello filosofico e quello teologico è possibile solo “ex parte hominis”, poiché in lui solo la conoscenza per fede è un modo più alto di partecipare alla “lex aeterna” (I-II, q. 91, a. 4, ad 1).

Pur riconoscendo che la legge naturale, cioè l’irradiazione della legge eterna nella razionalità umana, sia concepita dall’Aquinate come connaturalmente proiettata verso la trascendenza teologica della legge divina, bisogna però tener conto del fatto che egli, nel solco di Alberto Magno, fu pure estremamente deciso nel distinguere la legge naturale da quella divina rivelata (I-II, q. 91,a. 4). Ciò significa che l’Aquinate ha colto la diversità degli ordini nella conoscenza umana: quello filosofico, in cui egli, per la sua innegabile inclinazione razionalistica, prevalentemente si muove quando riflette sulla “lex aeterna”, e quello teologico, proprio della “lex divina”. Se da una parte S. Tommaso non ha voluto far dipendere la “lex divina” dalla “lex naturalis”, bensì agganciarla direttamente a quella “aeterna”, dall’altra non considera quest’ultima semplicemente come “analogatum maius” della “lex naturalis” e di quella “humana” – tutte e due di ordine razionale – dato che comprende anche il piano di salvezza di Dio ed è perciò conoscibile in quanto tale non solo attraverso l’“analogia entis” ma in modo qualitativamente diverso per fede, cioè attraverso l’“analogia fidei”.

Della “lex divina” l’Aquinate riprende a parlare quando ne specifica le modalità e i contenuti realizzatisi nella “lex vetus” (q. 98 ss.) e nella “lex evangelii seu nova” (q. 106 ss.) che sfocia nel trattato sulla “gratia” (q. 109 ss.). Il “Doctor angelicus” non affronta però direttamente e tanto meno in modo articolato il discorso sul diritto canonico cui spetta per sua natura – parallelamente al diritto umano secolare rispetto alla “lex aeterna”, mediata dalla “lex naturalis” – il compito di declinare ed esplicitare storicamente la “lex divina”. Pur riconoscendo l’esistenza di un preciso contesto cristologico ed ecclesiologico entro cui si muove il discorso sulla “lex nova”, bisogna anche prendere atto del fatto che l’Aquinate vede la stessa primariamente in relazione con la struttura mistico-interna della Chiesa, considerata in primo luogo come comunità spirituale tra Cristo e i credenti, e solo in secondo luogo – anche se si tratta di un aspetto essenziale – come istituzione. Anzi, sembra quasi che l’Aquinate abbia lasciato aperta una cesura tra il diritto divino e quello canonico, là dove mettendo praticamente sullo stesso piano il legislatore temporale e quello ecclesiastico (I-II, q. 108, a. 1, c.) afferma che essi sono pienamente liberi di procedere o meno a delle determinazioni, tenuto conto del fatto che tutto quanto è di necessità per la salvezza stato prescritto dalla “lex divina” stessa. Tra i precetti non necessari per la trasmissione della grazia – e perciò non ripresi dalla “lex vetus” nella “lex nova” – l’Aquinate enumera tutto il settore del diritto liturgico e di quello concernente la gestione della giustizia, cioè i rapporti intersoggettivi. La legge canonica perciò non sembra avere, in rapporto a quella divina, la stessa relazione di dipendente necessarietà che vige tra la legge umana e quella naturale (e, naturalmente, quella eterna). Questa relativizzazione della legge canonica rispetto agli elementi istituzionali promulgati direttamente dalla legge divina, organica con la tendenza dell’Aquinate (comune a tutta la scolastica formatasi alla scuola di S. Agostino) a concepire la Chiesa prima di tutto come realtà spirituale, può anche non sorprendere se si tien conto che il “Doctor angelicus” pur avendo elaborato una metafisica ed una teologia della legge non fu guidato affatto dalle preoccupazioni tipiche del canonista.

Anche se manca nella Somma una teologia sulla legge canonica non si può dubitare del fatto che l’Aquinate avrebbe applicato alla stessa, analogicamente, la sua definizione generale fondata sulla “ordinatio rationis”. Ora, prescindendo da ogni discorso ipotetico sul come l’Aquinate avrebbe applicato alla legge canonica la sua teoria generale della legge, è evidente che il problema fondamentale nell’elaborare una teologia della legge canonica, è quello posto dall’elemento centrale della definizione stessa, cioè appunto dall’“ordinatio rationis”.

In che senso la “lex canonica” è una “ordinatio rationis”? In un regime culturale di cristianità dove l’Aquinate poteva mettere sullo stesso piano i prelati “temporales” e quelli “spirituales” senza creare equivoci, perché tutta la cristianità era ultimamente considerata come retta e governata dalla “lex aeterna” e la “ratio humana” era ritenuta, di fatto, già come informata dalla fede, parlare di “ordinatio rationis” non creava problemi, malgrado la vivissima istanza razionalistica presente nella scolastica tomista. Il problema più scottante non era quello della contrapposizione tra “ratio” e “fides” – dato che si riconosceva la subordinazione della prima alla seconda, e la filosofia era pacificamente considerata come “ancilla” della teologia -, ma fra “ratio” e “voluntas” all’interno della tensione pendolare esistente tra le tradizioni di pensiero intellettualista e volontarista.

In un ambiente culturale come quello moderno, per contro, dove la fede – non solo in quanto supera le forze stesse della razionalità umana, ma anche in quanto la informa per aiutarla nel suo compito originario – non è più accettata come punto di riferimento del “bonum commune”,, poiché la “ratio”, slegata da ogni legame strutturale con la fede, è diventata, anche nell’ipotesi migliore dell’accettazione dell’esistenza di un diritto naturale, l’istanza ultima e insindacabile di ogni agire umano, anche la canonistica non può più continuare a definire la “lex canonica” come “ordinatio rationis” senza creare un equivoco grossolano sulla propria identità scientifica.

Mentre il corrispettivo umano della “lex aeterna”, intesa nella sua valenza primariamente filosofica, è la legge positiva in quanto “ordinatio rationis”, il corrispettivo umano della “lex aeterna”, intesa nella sua valenza primariamente teologica, cioè come “lex divina revelata” – che non è più la proiezione in Dio della razionalità o intelligenza umana, ma connota solo il modo irripetibile dell’“intelligere” proprio di Dio -, non può più essere la “ratio” in quanto modalità discorsiva o intellettiva dell’uomo, bensì un’altra modalità conoscitiva. La “ratio divina” che, come abbiamo visto, significa “motivazione” e “causa” di tutte le realtà contenute nel piano salvifico di Dio, trova il suo “analogatum minor” non nella “ratio” ma nella fede. La fede infatti non conosce secondo la modalità discorsiva dell’uomo, la cui motivazione è la forza dimostrativa intrinseca della “ratio”, sia speculativa che pratica, sibbene accettando l’autorità della “locutio Dei attestans”, cioè della “gratia”. La “causa”, cioè la motivazione propria alla conoscenza di fede, non è la logica umana ma la stessa “ratio divina” in quanto “ragione” o “causa” ultima di tutte le cose, che si esprime “ad extra” come “ordinatio”, cioè come autorità di Dio, e a cui l’uomo partecipa attraverso la “gratia”, cioè la virtù soprannaturale infusa della fede. Ciò significa che l’uomo conosce la “lex divina”, declinandola storicamente e incarnandola nel tempo, non in forza della logica stringente del sillogismo elaborato dalla propria “ratio”, ma della motivazione divina, cioè dell’autorità formale della Parola di Dio, che l’impulso della “gratia” gli fa accettare nell’atto di fede.

Se in filosofia del diritto è possibile operare con una nozione di legge concepita metafisicamente come “ordinatio rationis”, applicando l’analogia “entis”, in teologia l’analogia determinante è quella “fidei”. Ne consegue perciò che una teoria generale della legge canonica non può essere elaborata a partire da una definizione metafisica di legge, in cui è necessariamente presente una pre-concezione filosofica della legge stessa. Ne consegue che il criterio ultimo e determinante di conoscenza della natura stessa della legge non può essere la “ratio humana”, ma solo la fede, che opera comunque a livello della facoltà conoscitiva dell’uomo. L’elemento comune che giustifica l’esistenza della “analogia entis” tra la “ratio” e la “fides” è dato dal fatto che in tutte e due i casi si tratta di un processo conoscitivo, la cui natura però è, a partire dalla motivazione o causa, profondamente diversa.

 

b) Implicazioni in ambito civile-statuale

L’aver individuato nella cosiddetta “ordinatio fidei”, il nocciolo della definizione sostanziale di legge canonica ha delle conseguenze non solo per la canonistica ma anche per la scienza giuridica in generale. Se per la prima – come si è già lasciato ampiamente intendere – ciò significa che epistemologicamente e metodologicamente la “ordinatio fidei” prevale sulla “ordinatio rationis”, senza per altro eliminare la “analogia entis” e dunque senza slegare la canonistica in quanto disciplina teologica né dalla filosofia né dalle altre scienze umane, per la seconda lo stesso discorso apre la strada poi al superamento del dualismo, teorizzato dalla dottrina protestante, tra il diritto divino e quello umano, non soltanto canonico ma anche secolare.

Sotto il profilo metodologico ciò significa che il metodo giuridico – in quanto espressione della razionalità umana – non può essere applicato al diritto secolare prescindendo completamente dal confronto con il diritto canonico, senza correre il rischio di cadere in un mero positivismo giuridico, incapace di rispettare la dimensione trascendente della persona umana. Se dalla triade suaresiana “ius divinum, sive naturale sive positivum”, diventata patrimonio comune della canonistica cattolica tanto da essere recepita nel Codice piano-benedettino ai cann. 27 e 1509, si deduce che il diritto naturale contiene anche un vero e proprio obbligo, vincolante prima ancora di essere promulgato da una legge umana e perciò invalidante qualsiasi norma positiva contraria, ciò significa che ogni diritto umano – e dunque anche quello secolare – non può prescindere da questo obbligo senza ridursi da strumento al servizio della realizzazione storica concreta della giustizia a gioco formalistico e di potere.

Coscienti della scomoda attualità dell’affermazione polemica di Kant, secondo cui i giuristi sono sempre tuttora alla ricerca di una definizione comune di diritto, e della fine ironia di William Seagle, che considera questa definizione come “il gatto nero sul cammino della giurisprudenza” o come “la domanda a cui un avvocato non sa rispondere nemmeno se gli si offre un lauto onorario”, nonché a conoscenza della scoraggiante constatazione che da Aristotele ai moderni autori è possibile rubricare – come ha fatto nel 1958 Anton Stiegler – ben 42 definizioni diverse fra le più note, nessuno può avere oggi la pretesa di cimentarsi con l’ardua impresa di tentare una definizione di legge. Mancano infatti i presupposti filosofici ed interdisciplinari. Da una parte bisogna purtroppo constatare l’assoluta eterogeneità delle filosofie moderne, dall’altra occorre registrare – e ciò è ancora più grave – l’assenza stessa di una definizione omogenea della persona umana, nonostante il grande sviluppo attuale delle cosiddette scienze umane. In effetti se ci fosse almeno il consenso che solo l’uomo – e in tutte le fasi della sua esistenza – è l’unico soggetto del diritto, sarebbe necessario, per una convergenza sulla definizione del diritto, ammettere anche che l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio. Da questa lezione di antropologia dataci dalla Bibbia, sarebbe possibile riconoscere anche un diritto naturale aperto alla trascendenza e perciò una scienza giuridica che non faccia nessuna concessione a quel positivismo che, ultimamente, la distrugge.

Sulla base di queste osservazioni di carattere generale, ed ormai note ai più come capisaldi dottrinali della cosiddetta teologia del diritto canonico, per evidenziare ad un livello piu concreto e tecnico come i concetti “ius canonicum” e “ius civile”, proprio nella loro specificità, rinviano ad una nozione superiore o “analogatum princeps” di diritto e giustizia, è utile fissare ora, sia pure solo brevemente, lo sguardo su alcuni principi o istituti del diritto canonico che potrebbero avere una rilevanza non secondaria nell’elaborazione di una nuova teoria generale del diritto, all’interno della quale sia finalmente possibile definire la legge.

II. Suggestioni canonistiche per la scienza giuridica contemporanea

1. Identità tra persona ed istituzione nel sistema canonico

Non è possibile addentrarsi in questa sede nella pur importante questione relativa al fatto che nella realtà ecclesiale, in forza della valenza giuridica anche del carisma, “Costituzione” ed “Istituzione” non si identificano. Tuttavia, per mettere in evidenza l’apporto della teologia all’elaborazione di una teoria generale del diritto è importante sottolineare, come prima cosa, che nel diritto canonico la nozione “Istituzione” ha un significato diverso da quello assunto nell’ordinamento giuridico dello Stato moderno. Infatti, l’istituzione ecclesiale non è riducibile al sacerdozio ministeriale, di cui è investito il soggetto del potere ecclesiale o “sacra potestas”. All’istituzione ecclesiale appartiene anche il sacerdozio comune che, assieme al “sensus fidei”, costituisce il fondamento della partecipazione di tutti i fedeli alla missione della Chiesa nel mondo. Ne è una prova inconfutabile il fatto che il sacramento del battesimo, da sempre considerato la “ianua sacramentorum”, costituisce il criterio di differenziazione tra il regime di “religione” cristiana – proprio di molte sette e fondato esclusivamente sulla fede in Cristo attraverso la Parola – e il regime di “ecclesialità”, che, per essere tale, esige almeno lo spessore sacramentale del battesimo. Questa incorporazione irreversibile di una persona nella Chiesa che scaturisce dal sacramento del battesimo rivela tutta la valenza istituzionale dei Sacramenti e della Parola. Infatti il battesimo non è solo un evento soteriologico, i cui effetti potrebbero risultare irrilevanti dal profilo sociale, ma anche un atto giuridico costitutivo che determina l’appartenenza di una persona alla Chiesa e che nello stesso tempo condiziona in profondità tutta la struttura giuridica del sistema canonico. In questo modo, nel battesimo affiora paradigmaticamente la valenza giuridica di tutti i Sacramenti e di conseguenza anche della Parola, la quale, pur non essendo sempre annunciata in concomitanza con i Sacramenti, converge sempre, almeno nella forma sintetica e definitoria di ogni sacramento, a produrre l’effetto soteriologico e socio-giuridico del segno simbolico sacramentale.

La funzione del battesimo quale elemento portante non solo della Costituzione, ma anche dell’Istituzione ecclesiale, dà la misura di come il rapporto fedele-Chiesa non sia identico, né omologo a quello cittadino-Stato. Infatti, nella Chiesa come realtà di comunione, contrariamente a quanto avviene nello Stato moderno, ogni rapporto interecclesiale non si realizza secondo la dialettica persona-Istituzione, bensì come rapporto tra Istituzione ed Istituzione, cioè: tra persona e persona. Infatti i Sacramenti ed i Ministeri non esistono a guisa di realtà a sé stanti, cioè astrazioni istituzionali così come avviene invece nell’ipostatizzazione che caratterizza gli uffici nell’ambito dello Stato, ma esistono come componente ontologica delle persone battezzate ed ordinate con il sacramento dell’ordine. Se per Istituzione si intendono le strutture stabili e costitutive di una realtà sociale, bisogna convenire che questa struttura è conferita alla Chiesa dal Sacramento e dalla Parola, che si compenetrano a vicenda, dando origine tra l’altro a quella figura di soggetto canonico che è il “Christifidelis”, soggiacente ed immanente in tutti i tre stati di vita ecclesiale e dunque nelle persone dei laici, dei preti e dei religiosi. La Chiesa come Istituzione non coincide perciò semplicemente con l’organizzazione dei pubblici poteri, cioè dell’autorità. L’Istituzione ecclesiale si invera sempre attorno ai due poli del battesimo e dell’ordine sacro, convergenti con gli altri Sacramenti nell’Eucaristia. In effetti l’Eucaristia è la rappresentazione di tutta la Chiesa, perché è nel contempo la “fons et origo” nonché il “culmen” di tutta la vita della Chiesa, come afferma il Vaticano II (SC. 10).

In altri termini l’Istituzione consiste sostanzialmente negli sviluppi giuridico-strutturali conferiti storicamente dalla Chiesa sia al sacerdozio comune, sia al sacerdozio ministeriale. Nel sacerdozio comune, che comprende anche il “sensus fidei”, si realizza la partecipazione “suo modo e pro sua parte” (LG. 31, 1) di ogni fedele al sacerdozio di Cristo nella dimensione soggettiva. Nel sacerdozio ministeriale, che comprende anche la Parola nella sua forma magisteriale, invece, si realizza la partecipazione dei chierici al sacerdozio di Cristo nella dimensione oggettiva. Questa ultima partecipazione ministeriale si realizza nel conferimento della “sacra potestas” (23). Poiché queste due forme di sacerdozio, pur essenzialmente diverse (LG. 10, 1), consistono in una partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo non possono essere né disgiunte, né contrapposte, ma nella loro reciprocità ed interazione costituiscono i due elementi imprescindibili dell’Istituzione nella Chiesa: i laici e i chierici.

Prestare attenzione a questo dato potrebbe aprire alla scienza giuridica nuove strade verso il superamento dell’opposizione dialettica fra persona ed istituzione, che spesso caratterizza strutturalmente l’ordinamento giuridico dello Stato. Infatti questa dialettica è in gran parte conseguenza della concezione filosofica di stampo positivista, che, considerando lo Stato quale unica fonte di diritto, ne fa una personificazione astratta della realtà sociale. In un sistema giuridico-istituzionale così concepito l’uomo è inevitabilmente ridotto a “cittadino”, cioè a soggetto giuridico coevo allo Stato anziché ontologicamente preesistente ad esso. Il fatto che invece nel sistema canonico vi sia identità fra persona ed istituzione richiama ogni altro sistema giuridico alla priorità della persona rispetto a qualsiasi forma di organizzazione istituzionale, cioè di organizzazione pubblica o privata del potere. Ne consegue anche una assoluta necessità di evitare qualsiasi limite alla libertà religiosa e di coscienza che, proprio in forza del loro rinvio alla trascendenza, sono come la ragion d’essere delle altre libertà individuali e degli altri diritti fondamentali.

A tale riguardo non si può non citare il Congresso Internazionale di diritto canonico, tenuto all’Università di Friburgo nel 1980, sul tema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Infatti nello svolgersi dei lavori è stato ampiamente dimostrato che, malgrado la nozione storicamente originaria dei diritti fondamentali sia evoluta fino al punto da trasformare la stessa nozione originaria del moderno Stato di diritto in quella di Stato culturale chiamato a promuovere l’attività culturale e spirituale del cittadino, di fatto la struttura originaria di bipolarità concorrenziale tra cittadino e Stato è rimasta sostanzialmente intatta.

In tutte le forme di evoluzione del modello statale occidentale, il cittadino continua a rivendicare uno spazio di autonomia individuale e lo Stato continua a limitare l’uso del proprio potere anche se è chiamato positivamente a moltiplicare i suoi interventi in favore del cittadino, ben al di là delle previsioni insite nel modello originale dello Stato di diritto. Il problema, per lo meno dal profilo teorico, potrebbe anche risolversi non semplicemente eliminando questa bipolarità strutturale, ma riconcependola alla luce di quanto detto sull’identità fra persona e istituzione nella Chiesa, retta dal profilo strutturale dalla “communio”.

2. La concezione canonistica del rapporto fra legalità e giustizia

La scienza giuridica secolare ha sviluppato, per impulso della dottrina germanica, un elaboratissimo discorso sulle diverse conseguenze dell’atto illecito – canonisticamente parlando qualificabile forse come atto “contra legem” – nel diritto amministrativo e in quello giudiziario.

In diritto amministrativo il provvedimento acquista efficacia, diventando perciò fonte di diritto, anche se “ictu oculi” è invalido. Anzi, conserva la sua efficacia anche se impugnato, fino a quando non è annullato dall’istanza competente, così da non perderla se non per volontà del suo autore, diventando, grazie al principio dell’autotutela, addirittura esecutorio.

Sia pure con alterna fortuna, la scienza giuridica si è inoltre accorta che l’atto amministrativo invalido risponde a leggi diverse rispetto a quelle della regiudicata. Infatti il provvedimento amministrativo non tende, come l’atto giudiziario, verso l’immutabilità, perché la sua autoritarietà è volta a tutelare la volontà dell’istanza emanante, in quanto disposizione, non in quanto decisione. Il provvedimento amministrativo nullo, mancando della perpetuità dell’eccezione di nullità, propria dell’atto giudiziario, resta sempre efficace se non impugnato in termine, perché non esige quell’accertamento dei fatti che nelle sentenze è presente come momento logico necessario, non separabile dalla disposizione.

Per contro, il giudicato ingiusto (o “contra legem”) – a differenza del disposto amministrativo, della usucapione o prescrizione ed eventualmente anche della transazione – non diventa mai fonte di diritto. Mentre questi atti creano una realtà giuridica nuova sganciata da quella preesistente, essendo causa originaria di acquisto o di estinzione di diritto, il giudicato si limita ad enunciare una realtà giuridica che, esistente o meno prima, deve essere considerata in modo irrefutabile come essere la realtà giuridica anteriore. In questo senso non crea una situazione giuridica nuova, ma fissa e rende incontrovertibile l’esigenza o inesistenza della situazione giuridica anteriore. Perciò il principio “ius facit inter partes” non può essere interpretato nel senso che il giudicato crei un “ius”, come lo farebbe una norma astratta, in quanto fonte di diritto obiettivo, o un atto amministrativo in quanto fonte di diritto prevista dalla norma oggettiva. Ad ogni buon conto il giudicato diventa l’unica realtà certa sia del passato che del futuro.

Questo esempio preso dalla dogmatica giuridica secolare se da una parte mette in evidenza il cammino che la canonistica deve ancora compiere a livello di una teoria generale dell’atto “contra legem”, quando fosse possibile considerarla come categoria sintetica, capace di abbracciare tutta la problematica dell’illecito giuridico-canonico, dall’altra evidenzia quanto il diritto canonico ha da dire a quello civile sul problema del rapporto fra legalità e giustizia, che è sostanzialmente riducibile al problema della certezza giuridica.

Da un punto di vista di una teoria generale, infatti, nel diritto canonico gli atti o comportamenti giuridici prodotti all’interno di istituti come l’epicheia, la consuetudine, l’“aequitas canonica”, la creatività del giudice nei casi di lacuna della legge, il procedimento amministrativo e la regiudicata, nella misura in cui sono atti “contra legem”, mettono direttamente in discussione il principio della certezza giuridica.

Se è vero che la possibilità di conflitto tra legalità (o certezza del diritto) e giustizia (o verità effettiva) è un fenomeno comune a tutti gli ordinamenti giuridici, tra i quali non fa eccezione il diritto canonico, è altrettanto sintomatico il fatto che le soluzioni date dagli ordinamenti giuridici moderni e dal diritto canonico sono diverse.

Negli ordinamenti statuali moderni il principio della certezza del diritto prevale su quello della verità oggettiva. In caso di conflitto è la giustizia ad essere sacrificata per garantire sia la stabilità che la sicurezza dei rapporti giuridici, sia l’autorità dell’ordinamento come base della fiducia dei cittadini. Così avviene, come abbiamo visto, nel caso di errore giudiziario, dove l’immutabilità del giudicato – esperiti che siano i mezzi a disposizione per impugnarlo – prevale, in vista della certezza del diritto, su tutte le altre considerazioni.

Sarebbe comunque errato ritenere che questa garanzia formale data dagli ordinamenti statuali moderni ai rapporti giuridici sia giustificata solo da esigenze pragmatiche, come potrebbe esserlo per esempio la necessità che i cittadini conservino la fiducia nell’ordinamento giuridico. Essa è imposta dall’impianto dottrinale stesso degli ordinamenti giuridici che trovano il loro momento genetico nella filosofia moderna, la quale, nel solco della scuola giusnaturalista di estrazione razionalista ha progressivamente escluso ogni possibilità di ricorso ad una istanza trascendente.

Questo riscontro filosofico spiega come, per attutire lo scandalo provocato dall’imporsi della legalità sulla giustizia, si sia potuto sostenere che non esiste altra possibilità di conoscere la verità e la giustizia al di fuori della sentenza giudiziaria. In realtà non si tratta solo di un’attenuante, ma di una conseguenza strettamente dipendente dalla logica stessa di ogni ordinamento giuridico, che, a differenza del diritto ecclesiale e cristiano, non ammette più la possibilità per Dio di essere fonte immediata di diritto.

Il diritto canonico esige che il principio della certezza giuridica, e perciò della legalità, venga sacrificato per lasciar spazio alla giustizia e alla verità oggettiva. Ciò è imposto dal fatto che non può esistere certezza giuridica ultima, vincolante a livello di salvezza, al di fuori della certezza teologica.

La sostanza di questo discorso è stata colta dal Fedele nel suo Discorso generale sull’ordinamento canonico. Tuttavia è giunto forse il momento di precisare questo discorso all’interno di una problematica teologica più stringente, anche se è chiaro che il problema non è quello di eliminare la possibilità di scarto effettivo tra certezza legale e verità obiettiva ma di affermare che la certezza legale ultimamente non esiste se non quando esiste la certezza obiettiva, cioè se non quando in essa è stata colta anche la verità obiettiva. D’altra parte il problema non può essere affrontato cogliendo solo l’aspetto filosofico-giuridico del rapporto tra forma e sostanza. Come si è già notato, sarebbe insufficiente attribuire alla teologia una valenza solo estrinseca rispetto alla legge canonica, così come potrebbe averla l’etica rispetto agli ordinamenti statuali moderni, che nella migliore delle ipotesi la considerano come presupposto meta o extra-giuridico.

Il diritto canonico in quanto realtà teologica porta in se stesso la verità dogmatica perché partecipa della normatività propria alla Parola e al Sacramento; non è solo una sovrastruttura sociale o sociologica del mistero della Chiesa, come potrebbe essere il diritto moderno in rapporto all’etica, o come il diritto canonico potrebbe esserlo, nella concezione protestante tradizionale, rispetto alla Chiesa invisibile, considerata come unica vera Chiesa.

In quanto realtà ecclesiale, formata da istituti giuridici in cui si concretizza nella storia la dimensione giuridicamente vincolante della Chiesa, il diritto canonico è una delle realtà essenziali in cui si manifesta per fatti concludenti la Tradizione della Chiesa e di conseguenza la verità contenuta nella Parola e nel Sacramento. Tutto ciò equivale ad affermare che in diritto canonico non solo esiste un’identità di principio e assoluta tra la certezza legale (o formale) e la giustizia obiettiva, ma anche che questa si realizza a partire più che da una convergenza estrinseca tra fatto giuridico e verità teologica (dogmatica o morale), dall’interno, in quanto il fatto giuridico – quando coglie con precisione il mistero della Chiesa – è in se stesso espressione di verità teologica. Bisogna però anche ammettere che in diritto canonico, come in ogni altra disciplina teologica, è possibile uno scarto di fatto tra la formulazione e la verità, tra la forma e la sostanza. Di conseguenza la certezza formale deve essere considerata come riformabile ogni qualvolta è in gioco il diritto divino e la “salus animarum”.

Queste considerazioni hanno un preciso riscontro istituzionale per es. negli istituti canonici citati sopra, come l’epicheia, l’“aequitas”, la regiudicata, ecc., perché tendono a relativizzare continuamente il valore della certezza formale rispetto a quello della verità teologica effettiva.

Il modo con il quale il diritto canonico regola il problema della regiudicata deve essere considerato come paradigmatico per definire il tipo di rapporto esistente tra verità formale e materiale, cioè tra certezza formale canonica e quella teologica.

Anche in diritto canonico la sentenza, esauriti che siano tutti i rimedi giuridici, pur godendo, almeno secondo la formulazione data dalla dottrina tradizionale, di una presunzione assoluta di rispondenza alla verità come negli ordinamenti giuridici, subisce una deroga di fondo in tutte le sentenze emesse nelle cause “de statu personarum”.

Anzi il diritto delle Decretali ammetteva una deroga al principio della immutabilità del giudicato per un numero molto più grande di controversie (quelle criminali e in materia di benefici, le sentenze chiaramente inique, quelle emesse su falsi documenti, in base a falso giuramento o testimonianza), accettando perfino il principio della sentenza nulla “ipso iure”. Anche volendo riassumere parti di questi casi sotto quello dello “status personarum”, è evidente che la riduzione fatta del diritto codificatorio a quest’ultimo tradisce un adeguamento allo spirito positivista del diritto moderno che, per necessità immanente ai suoi fondamenti filosofici, ha assolutizzato sia il principio della uguaglianza davanti alla legge sia quello della certezza giuridica.

Tuttavia, secondo la dottrina più recente, l’incidenza della deroga “Numquam transeunt in rem iudicatam causae de statu personarum” (codificata dal can. 1903 del Codice piano-benedettino e ripresa in quello nuovo al can. 1643) è tale da investire alla radice non solo questi casi particolari, ma tutto il sistema canonico. Essa vale non solo per lo stato giuridico dei fedeli, chierici, religiosi e laici sposati, ma è estendibile anche ai casi inerenti il cosiddetto “status civitatis”, con i suoi diritti e la sua capacità giuridica.

Un diritto che in un settore essenziale come quello dello “status personarum”, che in quanto stato costituzionale comprende tutti i diritti fondamentali primari e derivati, scritti ma anche (dato che nel sistema canonico il diritto divino come quello naturale sono sempre applicabili anche se non canonizzati dal legislatore) non scritti, non tollera divario tra certezza legale e verità effettiva, denuncia il principio stesso della certezza del diritto, come principio fondamentale del sistema.

Non ha importanza far qui la critica al concetto di “salus animarum”, che pure vanta una grande tradizione teologica, come categoria incapace di esprimere per la sua connotazione individualistica ed estrinsecistica il fine ultimo storico e ad un tempo escatologico, verso il quale converge il diritto canonico e dal quale riceve la sua impronta fenomenologico-giuridica.

Importante è constatare come questa categoria, teologicamente superata, esprima comunque una priorità rispetto a tutti gli altri valori giuridico-sociali di estrazione solo filosofico-giuridica.

È perciò necessario invertire rigorosamente i termini della questione. Quando, e nella misura in cui sono in gioco i valori fondamentali, tentativamente espressi con l’idea della “salus animarum”, non è mai la certezza formale, ma la verità teologica e soteriologica che fa stato. All’interno di un discorso teologicamente più corretto ciò significa che quando la norma canonica tocca gli elementi base su cui si articola la “communio ecclesiae et ecclesiarum”, cioè prima di tutto la struttura costituzionale della Chiesa stessa – colta dalle Decretali sotto la denominazione delle “cause beneficiali” – e, subordinatamente, i diritti fondamentali dei cristiani, con tutte le implicazioni che da questi settori possono derivare, la certezza formale non può mai essere l’ultimo criterio.

Per completare l’orizzonte entro il quale si costruisce la concezione canonistica del rapporto tra legalità e giustizia occorrerebbe studiare anche la rilevanza giuridica dell’epicheia e dell’“aequitas canonica”, nonché il modo secondo cui nella Chiesa la “consuetudo” e il “carisma” sono fonti di diritto. Il discorso porterebbe però troppo lontano ed in questa sede dovrebbe invece bastare la sottolineatura di come quanto detto ha un’incidenza su uno dei settori piu tecnico-formali della scienza giuridica: quello del diritto processuale, con particolare attenzione alla nozione di sentenza che, secondo la convinzione comune della dottrina, è lo specchio di tutto l’ordinamento giuridico in cui esso opera.

3. La natura dichiarativa della sentenza canonica

Dopo il progressivo isolamento della nozione di azione dai diritti sostanziali, è invalsa anche nella canonistica come nella processualistica civile, la classificazione delle azioni, non sulla base del loro contenuto materiale, ma sulla base della natura del provvedimento giudiziario cui essa tende: vale a dire, la distinzione in azioni di puro accertamento, di condanna e costitutive.

Non si è comunque prestata molta attenzione al fatto che questa distinzione non coglie l’ordinamento processuale canonico nella sua identità profonda. In effetti le azioni di condanna e quelle costitutive, come per es. quella rescissoria, cui alludono per es. i cann. 125 § 2 e 126, appartengono o all’ambito giudiziario del contenzioso ordinario, che non tipicizza il sistema giuridico canonico; oppure appartengono a quello della giurisdizione amministrativa, che ancora fatica a trovare una sua identità ecclesiale precisa.

Nei processi più tipicamente canonici (concernenti il già citato “status personarum”,) il giudizio, sia che si esprima tecnicamente come sentenza, sia che si esprima come decreto di un’istanza amministrativa che agisce processualmente, è sempre e solo un giudizio di mero accertamento, cioè dichiarativo.

Questa constatazione è incontrovertibile se riferita alle sentenze sulla validità dei sacramenti, sull’ortodossia e sulla santità o martirio di un fedele.

Non sembra fare eccezione neppure la cosiddetta sentenza penale con la quale si constata il grado di appartenenza di un fedele alla comunione con la Chiesa cattolica. Ciò è vero non solo quando essa è definita dal diritto positivo come “declaratoria” di una pena “latae sententiae”, ma anche quando è definita come “irrogatoria” di una pena “ferendae sententiae” (can. 1314).

Come è stato recentemente dimostrato, la sanzione canonica “princeps”, cioè la scomunica, non può essere giuridicamente tipicizzata come pena, nel senso specifico della teoria generale del diritto. Ciò vale indipendentemente dal fatto che il legislatore continui a comminarla non solo come pena “latae sententiae”, ma anche come pena “ferendae sententiae”, pena quest’ultima che rende necessario un intervento positivo del vescovo, come giudice o come superiore amministrativo.

Se la scomunica non è una pena, allora la conseguenza ineluttabile è che pure le pene minori, medicinali (come la sospensione e l’interdetto), o espiatorie (come per esempio la privazione dell’ufficio o dello stato clericale) sono pene nel senso tecnico-giuridico della parola, indipendentemente dalla terminologia usata dal diritto positivo, devono essere considerate come semplici misure disciplinari, anche se mantengono un risvolto afflittivo-retributivo.

La scomunica, in effetti, è una situazione personale di non appartenenza alla piena comunione della Chiesa cattolica, in cui il fedele viene, di fatto, a trovarsi per propria iniziativa e colpa, già prima della sentenza irrogatoria. Quest’ultima perciò non ha carattere costitutivo ma solo declaratorio.

In effetti, lo scopo della dichiarazione della scomunica non ha come fine quello di punire il fedele, ma semplicemente quello di renderlo attento alla sua situazione di non-comunione, perché gli sia più facile convertirsi. Contrariamente alle pene vere e proprie, che nel diritto statuale generano una nuova situazione giuridica e che per loro natura esigono l’esecuzione, indipendentemente dalla volontà o dal pentimento del cittadino da esse colpito, la scomunica dipende totalmente dalla volontà di pentimento del fedele, per cui è in realtà solo una penitenza o meglio un tipo particolare di “penitenza”.

Se l’ordinamento canonico, nella sua struttura ontologica, è un ordinamento che non postula l’istituto giuridico della pena, allora bisogna convenire che anche tutte le altre sanzioni canoniche non solo non sono pene, ma non sono, in quanto tali, neppure necessarie per tutelare la realizzazione dell’ordinamento giuridico della Chiesa.

In realtà non si tratta neppure, come si è già visto, di garantire il realizzarsi dell’ordinamento canonico in quanto tale, bensì di garantire l’autenticità della celebrazione del Sacramento e della predicazione della Parola. Per raggiungere questo scopo sarebbe sufficiente che la Chiesa utilizzasse sanzioni o semplicemente “disciplinari” oppure tipicamente “penitenziali”, ossia legate alla volontà di pentimento del fedele. Tutto ciò dipende dal fatto che nella Chiesa il potere, cioè la sacra potestas, non è un potere come tutti gli altri. La “sacra potestas” non è un potere autonomo derivante in modo anonimo dall’ordinamento giuridico; esso coincide sempre con le persone concrete che lo detengono, vale a dire i vescovi.

Il rapporto fedeli-vescovo è di natura eminentemente personale. L’ordinamento giuridico non si sovrappone mai totalmente a questo rapporto personale, ultimamente ineliminabile. Lo dimostrano sia l’istituto della dispensa, rimasto, contrariamente agli ordinamenti giuridici moderni, chiave di volta del sistema canonico e ulteriormente sviluppato dal nuovo CIC grazie alla recezione del principio conciliare secondo cui il vescovo, in forza della sua ordinazione, possiede tutto il potere necessario per provvedere al bene spirituale dei suoi fedeli (can. 87); sia la discrezionalità di cui gode il vescovo nell’ambito del diritto sostanziale penale. Basterebbe ricordare, a questo proposito, che il vescovo è autorizzato a non irrogare una pena, anche quando la legge la statuisse in modo tassativo (can. 1344).

Si deve concludere da questi e molti altri elementi che l’ordinamento positivo canonico e in modo particolare il cosiddetto diritto penale, quando non tange direttamente il diritto divino “naturale positivo”, è, dal profilo ontologico (in contrasto con la coscienza che l’ordinamento positivo ha di se stesso), ultimamente solo indicativo. Serve da criterio per orientare il vescovo nell’uso della “sacra potestas”, senza poterlo vincolare direttamente in modo assoluto, dal momento che il vescovo rimane la fonte originaria della norma, dalla quale può dispensare, anche quando la legge ha carattere universale. Quest’ultima lo vincola “ad validitatem” solo indirettamente, cioè in forza dell’imperativo che incombe al vescovo di salvaguardare l’unità e la comunione, vale a dire il principio dell’immanenza della sua Chiesa particolare con quella universale. Il potere vincolante della norma positiva universale, la cui fonte è il papa o il collegio dei vescovi, non elimina la responsabilità del vescovo in forza di una dinamica volontaristica nella concezione della funzione dell’autorità e della legge ecclesiale, ma solo grazie al fatto che la comunione e l’unità oggettiva sono il criterio supremo dell’esercizio della “sacra potestas”.

Questa constatazione, che non coincide con una visione filosofico-teologica volontarista dell’impianto giuridico della Chiesa, coincide invece perfettamente con una infrastruttura teoretica realistica e di conseguenza anche con il carattere fondamentale dichiarativo o di accertamento della sentenza canonica affermato precedentemente.

Infatti, l’evoluzione avvenuta nella civilistica moderna dalla concezione della sentenza-parere alla sentenza-comando è stata provocata da molti elementi, ma in primo luogo dalla alternativa teorica creata dal pensiero volontarista di Kant e di Hegel alla filosofia illuminista di Montesquieu. Ora, se questa critica alla posizione di Montesquieu ha una sua giustificazione perché è vero che la sentenza è qualcosa di più di un semplice sillogismo, occorre però convenire che è altrettanto vero che al di fuori di una posizione realista, la sola alternativa storica possibile ad un intellettualismo di stampo illuminista è il contraccolpo di estrazione volontaristica. Il realismo tomista, concependo la ragione non come strumento conoscitivo autonomo e immanente a se stesso, bensì come strumento il cui compito è quello di interpretare la struttura ontologica intrinseca alle realtà create, non concepisce il diritto naturale come prodotto autonomo della ragione, ma come risultato della lettura che la ragione fa di una realtà oggettiva creata e preesistente, di cui l’uomo non può disporre, ma solo constatare.

La sentenza canonica (da “sentire”) è perciò in definitiva un atto di accertamento che non si esaurisce in un semplice sillogismo, ma tende a individuare la natura intima del rapporto sostanziale e giuridico oggettivo sottoposto al solo giudizio. In realtà, il giudice canonico nel valutare la validità intrinseca dei sacramenti (matrimonio e ordine), il grado di appartenenza alla comunione piena della Chiesa (processo penale), oppure la capacità o legittimazione di esercitare un ufficio o il ministero sacerdotale (processo disciplinare) come pure l’ortodossia di una dottrina o l’autenticità della santità di una persona, non fa altro che constatare la presenza o meno di una realtà ecclesiologica in base ad una valutazione il cui esito, la sentenza canonica appunto, non ha come scopo né quello di risolvere controversie né quello di attuare il diritto obiettivo o produrre l’effetto di cosa giudicata. Infatti, l’essenza della attività giudiziaria canonica, e di conseguenza della sentenza canonica, coincide con quella della “sacra potestas”, qualunque siano le modalità formali attraverso le quali essa si manifesti.

Essa consiste nel compito di garantire, attraverso un intervento autoritativo dichiarativo o di accertamento, l’oggettività dell’esperienza ecclesiale, fondata sulla validità dei Sacramenti e sull’autenticità della Parola (ortodossia); sulla verità della appartenenza alla comunione piena della Chiesa; sulla verità della santità e del martirio; tutti elementi che garantiscono ai fedeli di poter realizzare la loro comune vocazione di vivere la fede e la comunione con Dio e con la Chiesa.

Non per nulla il primo e principale dovere di tutti i fedeli, statuito dal can. 209 § I, è quello di vivere la comunione con la Chiesa in cui Dio e gli uomini vivono storicamente in un rapporto di comunione, cioè di immanenza reciproca.

III. Conclusione

In seguito al rinnovamento metodologico ed epistemologico provocato dal Concilio Vaticano II nel diritto canonico, la maggior parte dei canonisti è certamente consapevole della portata di due fatti innegabili.

Innanzitutto, del fatto che la scienza giuridica secolare ha svolto in questi ultimi secoli una mole di lavoro immenso nel tentativo di risignificare a livello teorico tutti gli istituti giuridici tradizionali – creandone anche di nuovi – a partire dalle molteplici proposte avanzate dalla filosofia moderna. Se le fluttuazioni subite dal pensiero filosofico-giuridico moderno hanno provocato a catena soluzioni diverse per ogni singolo istituto – all’interno di un pluralismo giuridico ricco anche di contraddizioni – esse le hanno però anche permesso di affinare, con perfezione forse mai raggiunta nella storia, il proprio bagaglio concettuale.

In secondo luogo, il fatto che la canonistica contemporanea deve compiere ulteriori sforzi per poter essere in grado di controllare con assoluta padronanza le implicazioni mondano-positivistiche di natura dottrinale e sistematica insite nel metodo della teoria generale. Quest’ultimo, infatti, tende per sua natura a trattare il sistema canonico alla stessa stregua di quelle realtà giuridiche, ontologicamente sempre più autosufficienti, che nella scienza moderna passano sotto la denominazione di ordinamenti giuridici primari.

Tuttavia, a partire da quanto detto in questa sede a livello di alcuni principi fondamentali del sistema canonico, si può legittimamente tirare la seguente conclusione.

In regime di cristianità il diritto canonico ha sempre esercitato un forte influsso sull’elaborazione degli istituti del diritto secolare, soprattutto nei settori del diritto matrimoniale, processuale e penale. La ragione di questa influenza sta ultimamente nel fatto che l’uomo medioevale era aperto alla conoscenza della fede e ne sapeva seguire i riflessi nel modo con il quale la Chiesa tentava di perfezionare i rapporti giuridici intersoggettivi e con l’autorità.

Da quando la Chiesa nell’epoca moderna si è presentata al mondo come “societas perfecta”, ponendosi sul terreno del diritto naturale e su un piano concorrenziale o difensivo rispetto al nascente Stato moderno, l’osmosi tra diritto ecclesiale e secolare si è progressivamente esaurita.

L’uomo contemporaneo, che non ha più la fede dell’uomo medievale, rifiuta di guardare alla Chiesa come una realtà sociale di natura giuridica simile a quella dello Stato o per lo meno ne è impedito dalla profonda convinzione – lasciatagli in eredità da Hegel – che solo lo Stato può essere fonte di diritto. Questo uomo, così sicuro dei mezzi della propria ragione, può ancora guardare alla Chiesa solo se in essa scopre un altro tipo di conoscenza che soddisfi la sua nostalgia di mistero e la sua sete di capire la verità iscritta nella sua persona. Questo mistero e questa verità – ultimamente conoscibili solo con la fede – non possono quindi essere disattesi dal canonista desideroso di svolgere il suo servizio teologale di “iuris – consultus” nella Chiesa e nella società. È solo applicando correttamente il suo metodo teologico, senza falsi timori di snaturare la norma canonica o di privarla della propria forza giuridica vincolante, che la scienza canonista sarà di nuovo in grado di esercitare un influsso positivo e profetico nei confronti della scienza giuridica. Quest’ultima, a sua volta sarà liberata dal pericolo di nuove ed ulteriori involuzioni anti-ecclesiali solo se riconoscerà la pluralità di fonti del diritto umano e guarderà alla loro rispettiva specificità non come dei limiti ma come altrettante provocazioni dottrinalmente feconde per la elaborazione di una teoria generale del diritto. In questo momento di svolte storico-culturali un po’ in tutti i settori della vita civile, proprio in sede di teoria generale del diritto non si può rifiutare il confronto con la provocazione lanciata dalla canonistica attraverso la riscoperta della specificità propria alla struttura giuridica della Chiesa, e qui esposta in alcuni dei suoi elementi più importanti, anche se tale sfida dovesse condurre a varcare la soglia che dalla ragione sfocia nella profezia.

I. Gli orizzonti culturali preesistenti all’esperienza cristiana

La specificità delle diverse risposte date dal pensiero giuridico occidentale alla questione della natura del diritto e della sua forza vincolante in rapporto alla coscienza dei «subditi legum», può essere colta solo tenendo conto delle opzioni culturali di fondo in cui i vari movimenti di pensiero si iscrivono storicamente.
Due sono stati gli sbocchi ricorrenti, pur nella varietà delle forme e dei contenuti, del tentativo dell’uomo di eludere «il circolo diabolico delle apparenze cosmiche», senza indugiarvi «come il serpente che si morde la coda».
La prima via, secondo Hans Urs von Balthasar, è quella orientale che, di fronte all’assolutezza dell’essere, accetta l’assoluta relatività della realtà e della storia e tenta perciò un’uscita dalla contingenza della storia verso l’alto, per ritornare all’originaria purezza del «divino», concepito come realtà indistinta, omogenea e infinita, trascendente tutto ciò che è umano.
Questa elevazione filosofica, perpendicolare alla direzione orizzontale della storia, permette platonicamente di superare le contraddizioni terrene, ma tradisce ultimamente il destino dell’uomo di appropriarsi il mondo, vivendo un’escatologia senza storia.
La seconda via, quella occidentale, fa leva invece sulla volontà dell’uomo di cogliere nel concreto della propria storia il destino ultimo di sé e della realtà. Essa tende a identificare Dio con la storia, intesa come progetto messo in atto dall’uomo, all’interno del quale esso vive un’esistenza priva di escatologia.  Questo tentativo, iniziato con il messianismo giudaico, è stato ripreso in Occidente da Marx, il quale, radicalizzando l’idea del progresso, ha dato corpo alla forma più consapevole e scaltrita del mito prometeico.
Il cristianesimo preclude, con il principio dell’«incarnazione», qualsiasi possibilità di fuga dal mondo verso l’alto e verso l’avanti. Il cristiano è chiamato ad assumere il mandato mondano, senza soggiacere alla tentazione di procurarsi la salvezza con la propria forza, ma inserendosi nel piano di salvezza del Dio incarnato.
Ciò non esclude che, all’interno della stessa tradizione cristiana, l’approccio teologico e, di conseguenza, anche quello riguardante la valenza assiologica da attribuire ai sistemi normativi, abbia subito fino ad oggi l’influsso delle posizioni fìlosofiche e teologiche fondamentali emerse nel pensiero occidentale. Non tanto per identificarvisi, perché il fatto filosofico e teologico rimane trascendente ad esse, ma per trovare in essi uno strumento interpretativo razionale e unificante.
tentativi compiuti dalla filosofia del diritto per risolvere il problema dell’unità del diritto sono stati molteplici e tutti devono essere letti all’interno del sistema filosofico costruito dai singoli pensatori o da intere scuole, per dare una risposta alle questioni fondamentali della vita dell’uomo, della società e della storia.
In effetti, il problema fondamentale posto nel pensiero occidentale a partire dagli albori della filosofia greca è stato proprio quello dell’unità del diritto; problema che si è riproposto quando è iniziata, in tempi più recenti, una riflessione teologica consapevole sull’esistenza e sulla natura di quel peculiare complesso normativo costituito dal diritto ecclesiale, cioè da una  teologia del Diritto canonico. La domanda alla quale la filosofìa e la teologia, hanno dovuto e devono rispondere è la seguente: esiste un nesso di dipendenza ontologica tra le norme umane, contingenti e mutevoli, ed un’eventuale forma superiore di diritto, naturale o divino, che, pur trascendendole, le giustifica, conferendo loro una forza vincolante per l’esperienza sociale umana o ecclesiale, fino a toccare le coscienze individuali?Di fronte al fenomeno giuridico civile o ecclesiale, sia l’uomo che il cristiano, da sempre, hanno fatto, come ha osservato Erik Wolf, un’esperienza paradossale, poiché hanno incontrato valori apparentemente contraddittori, ma inscindibili tra di loro. Se la legge dello Stato ha come funzione sociale quella di garantire la libertà, essa si manifesta anche come elemento di coercizione. Allo stesso modo anche la legge canonica, la cui funzione è quella di garantire l’unità dell’esperienza cristiana, si rivela spesso come ostacolo ingombrante per il dinamico manifestarsi del carisma e dello Spirito.
Il rifiuto della persona umana di accettare gli elementi negativi del fenomeno giuridico ha continuamente suscitato, sia pure con effetti sporadici, il fenomeno dell’anarchia, e ha dato esca, nell’esperienza ecclesiale, al sorgere di tutti quei movimenti spiritualistici, che hanno anticipato le tensioni esplose poi con la riforma protestante.
Il conflitto tra il relativo e l’assoluto, il contingente e il trascendente, il particolare e l’universale, come tra la storia e l’escatologia, ha caratterizzato l’esperienza giuridica dell’uomo, sia nella società civile che in quella ecclesiastica. Era dunque inevitabile che questa esperienza umana paradossale stimolasse, per la sua eterogeneità, la riflessione, sia filosofìca che teologica, a interrogarsi non solo sull’origine e la natura, ma anche sull’unità intrinseca del fenomeno giuridico e, di conseguenza, sulla forza eticamente vincolante delle sue norme positive.  Quello dell’unità del diritto è sempre stato, infatti, il problema centrale della filosofia greca e cristiana e, in seguito, della teologia del Diritto canonico. Secondo la tradizione cattolica, alla norma canonica, in modo eminente, è sempre stato riconosciuto un valore vincolante per la salvezza solo a condizione che essa derivasse ontologicamente la sua esistenza da una norma superiore, quella del diritto divino, sia naturale che positivo.

II.  I Modelli filosofici fondamentali adottati dal pensiero cristiano

In ambito cristiano si possono delineare, senza volerne escludere altri, tre modelli filosofici fondamentali, di cui la teologia, in modo implicito o esplicito, si è servita per dare una infrastruttura fìlosofica, con valenza ontologica variabile, ai propri sistemi.
Questi modelli si sono sviluppati sull’humus delle rispettive matrici culturali, quella orientale e quella occidentale, cui ho accennato in precedenza.

1) Il modello platonico – II primo modello è quello platonico, riassumibile nel principio «universalia ante res». La metafisica platonica si costituisce sull’identificazione dell’idea trascendente del bene con l’essere. Le singole cose partecipano in modo precario o imperfetto ali essere assoluto delle idee o essenze universali e trascendenti, di cui non sono che una debole traccia.
L’archetipo, infatti, non è immanente alle cose sensibili, per cui il giusto e la giustizia non si realizzano nelle singole decisioni storiche, ma solo nell’idea trascendente di diritto di giustizia e di etica. Ne consegue che alla legge umana, così come ha tatto osservare il Fassò, più che una funzione giuridica, è stato attribuito un compito di natura prevalentemente etico-pedagogica.
Questo profilo si riflette con particolare evidenza nell’istituto dell «epikeia», considerato nell’accezione platonica come un divergere dal valore assoluto, cioè dall’archetipo, tollerato come concessione alla precarietà dell’agire umano. Sul piano teologico il luogo parallelo è quello dell’istituto dell’economia, specifico della teologia ortodosso-orientale.
Anch’essa lascia trasparire una concezione dei canoni come sovrastrutture socio-ecclesiali la cui verità risiede altrove, cioè nel dogma. La verità salvifica non è considerata dall’ortodossia come intrinseca alle norme canoniche, ma come esistente al di fuori di esse, cioè nel dogma. Alla legge, che il Concilio Costantinopolitano III (680-1) definisce solo come «ordinanza terapeutica», è assegnata perciò un’autorità solo condizionata.

2) II modello nominalista-francescano – II secondo modello culturale soggiacente al pensiero occidentale è quello nominalista, riassumibile nel principio «universalia posi res». Nel solco di Boezio (t 524) che, incline a un rigido realismo di estrazione neoplatonica, aveva negato ogni contenuto reale alle categorie aristoteliche, la scuola francescana affermava nel Medioevo che solo gli individui esistono realmente e che, di conseguenza, le idee universali sono solo«nomina», cioè semplici nozioni convenzionali e astratte dell’intelletto, prive di identità e contenuto metafìsico reale.
Al posto della metafisica subentra così un sistema in cui l’essenza delle cose non è più presente nelle categorie universali, ma è stabilita volta per volta dalla volontà di Dio. Questa inevitabile svolta volontarista del nominalismo lo ha condotto ad affermare che, dal profilo etico, ciò che conta non è la realizzazione del «telos», o finalità intrinseca alla natura delle cose, bensì l’obbedienza alla volontà di Dio. Un atto è buono non perché lo è intrinsecamente, ma perché è voluto da Dio.  Se esistono solo cose singole, prive di contenuto metafisico, diventa impossibile per la ragione umana risalire, con la forza dell’astrazione, dalla conoscenza empirica alla conoscenza dell’essenza delle cose, con la conseguenza che Dio e le verità soprannaturali sfuggono all’indagine filosofica e possono essere conosciute solo con la fede. Rompendosi il nesso ontologico tra la trascendenza e l’immanenza si rompe anche il nesso intrinseco tra il diritto divino e quello umano.
Il nominalismo, di cui Duns Scoto e Ockham furono gli autori eminenti, sfocerà in un volontarismo e positivismo giuridico ancora più rigido e radicale del loro con la filosofia moderna, che sostituirà la volontà di Dio, in quanto fonte immediata e normativa dell’etica e del diritto, con la volontà dello Stato.

3) II modello aristotelico-tomista – II terzo modello è quello ilemorfìsta, riassumibile nel principio«universalia in rebus». Aristotele attribuisce la realtà dell’essere – conosciuto attraverso l’elaborazione concettuale dell’esperienza empirica, operata dall’intelletto -, non alle idee astratte trascendenti, ma alla forza sostanziale, immanente alle singole cose. È la forma immanente che determina i singoli enti, facendoli passare dalla potenza all’atto.
L’«epikeia» assume così la funzione di applicare la norma positiva generale al caso particolare concreto. Essa non è più l’esito di un processo negativo, ma positivo, poiché permette di realizzare il valore universale, cioè la forma, in modo più perfetto al caso particolare.
Ne consegue che anche la norma legislativa non ha più solo forza etico-pedagogica, ma diventa fondamento reale dello Stato. Essa è chiamata a declinare storicamente il diritto naturale, dedotto dall’intelletto, osservando la natura razionale dell’uomo.
In quanto espressione della natura razionale, essenzialmente sociale, dell’uomo, il diritto naturale esercita una funzione di norma, cioè di forma, rispetto al diritto positivo. Questo diritto umano, per essere valido e vincolante, deve essere intrinsecamente razionale, dedotto, cioè, razionalmente, dal diritto naturale, «per modum condusionis, determinationis vel additionis».
La tradizione cattolica ha trovato nella metafisica ilemorfistica una struttura ontologica e uno strumento logico particolarmente congeniali per conferire plausibilità razionale al proprio modo di credere e pensare il mistero della salvezza; mistero cui soggiace come principio fondamentale quello dell’incarnazione, realizzatesi nella sua pienezza paradigmatica in Cristo.  L’assunzione definitiva nel pensiero cristiano del sistema ilemorfìstico è avvenuta ad opera di San Tommaso d’Aquino.  Egli ha recepito nel pensiero cristiano, sia l’apporto centrale dato dalla filosofìa greca alla cultura occidentale, con l’idea dell’esistenza di un diritto naturale razionale, sia l’apporto, non meno importante, del pensiero biblico.
La tradizione veterotestamentaria ha dato infatti tré contributi fondamentali, rimasti indelebilmente iscritti nel pensiero cristiano, che ha peraltro saputo integrare profondamente nel proprio sistema anche l’apporto della tradizione germanica, accogliendo la consuetudine quale fonte di diritto.
La legge ebraica, infatti, non è il logos greco eterno, immutabile e nascosto nella natura cosmica o in quella razionale dell’uomo, ma una legge voluta e rivelata direttamente da Dio.
Nella concezione ebraica non c’è posto per l’idea di un fondalento razionale del diritto e, conseguentemente, per una distinzione tra diritto naturale e diritto divino positivo. Esiste solo un diritto divino rivelato.
Il secondo apporto del pensiero biblico è stato quello del valore pedagogico della legge. Il decalogo è la sintesi dell’ordine immanente alla Creazione per il comportamento dell’uomo verso Dio e verso gli altri uomini. Non è solo fonte di conoscenza dei principi etici, ma è, in modo eminente, anche fonte i diritto. Nei dieci comandamenti norma giuridica e morale si identificano.
Il terzo elemento è quello della interiorizzazione del diritto, già preannunciato nel nono e decimo comandamento, ma ulteriormente sviluppato dall’intervento dei profeti, che hanno approfondito il carattere religioso-sociale della legge ebraica, offuscato dalle sovrapposizioni legalistiche dei rabbini.
Predicando la conversione del cuore e la santità, i profeti lanno smantellato il ruolo della pratica solo esteriore della legge, provocando un approfondimento interiore dell’esperienza etico-giuridica del Popolo ebraico.
Questo approfondimento, in cui è awenuta un’identificazione della pratica della legge con l’obbedienza alla volontà di Dio, ha evidentemente accentuato l’elemento volontarista, ripreso filosofìcamente e messo a tema solo più tardi, dalla scuola francescana nominalista e volontarista.
Se il problema dell’unità del diritto per la filosofia greca e,in particolare,  per  lo  stoicismo,   era  stato  quello  di  stabilire  un apporto ontologico tra il diritto naturale razionale e il diritto mano, per la tradizione cristiana, invece, fu quello di garantire in nesso ontologico anche tra il diritto naturale razionale e quello rivelato dalle Sacre Scritture.
Per compiere questa sintesi l’Aquinate riprende da Cicerole, attraverso Sant’Agostino, l’idea dell’esistenza di una «lex aeterna», intesa da San Tommaso, dopo averla purgata da ogni valenza panteistica, come piano razionale, con cui Dio conduce I mondo verso il suo fine.
All’interno della trilogia «lex aeterna – lex naturalis – lex hunana» venutasi a creare dopo gli interventi di Cicerone e Sant’Agostino, San Tommaso crea un rapporto di unità metafisica, che ha come fulcro la capacità conoscitiva della ragione umana.  L’uomo conosce la «lex aeterna»attraverso l’irradiazione onto-logica che di essa egli trova nella propria natura razionale. Interpretando le inclinazioni fondamentali inerenti a questa sua natura razionale, l’uomo formula la «lex naturalis». Dalla legge naturale, la retta ragione pratica, che è precisamente ciò per cui l’uomo partecipa all’essenza divina, deriva la legge umana.
Ne consegue che una legge umana, contraria a quella naturale, è contraria anche alla «lex aeterna» e perde ogni forza vincolante in coscienza: cessa di esistere come legge, perché diventa una «corruptio legis», posta al di fuori della stessa sfera giuridica.
Il rigore assoluto con il quale San Tommaso fissa metafisicamente l’unità ontologica della legge umana, sia con quella naturale che con quella eterna, lo porta a ribadire con determinazione una dei principi fondamentali del pensiero cristiano antecedente: quello che le norme umane, quando sono giuste, non regolano solo le azioni esteriori dell’uomo, ma obbligano i sudditi anche «in forum conscientiae». Questo principio sancisce anche, sia pur nella loro distinzione, l’unità tra il diritto e la morale.  La sintesi del pensiero giuridico cristiano è stata elaborata da Francisco Suàrez (+ 1617) nel suo poderoso Tractatus de Legibus ac Deo Legislatore, tre secoli e mezzo dopo la morte di San Tommaso.
Il titolo dell’opera, in cui non a caso Dio appare come legislatore, lascia chiaramente intravedere la svolta nominalista-volontarista occamiana, che, dopo San Tommaso, era avvenuta in seno alla teologia cattolica. Nel sistema del «Doctor eximius» non solo il diritto positivo è rivelato, ma anche il diritto natura-le è dichiarato divino. Il principio dell’unità intrinseca di tutte le espressioni del diritto raggiunge con Suàrez la sua più stringente realizzazione ontologica.
In effetti, nel sistema suaresiano, mentre il diritto civile umano ha come ascendente il diritto divino naturale, il Diritto canonico trova la sua fonte immediata di derivazione nel diritto divino positivo. In forza della dipendenza ontologica del diritto civile umano dal diritto divino naturale, San Tommaso aveva affermato che il legislatore umano può vincolare i suoi sudditi non solo esternamente, ma anche in coscienza. Dalladipendenza ontologica specifica della legge canonica dal «ius ìivinum positivum», conoscibile solo per fede, il «Doctor eximius» arriva a concludere che il legislatore ecclesiastico ha anche il potere di esigere dai propri sudditi addirittura il compimento di atti umani solo interni, portando alle estreme conseguenze il processo di interiorizzazione del diritto, affermato dalla tradizione biblica, nel nono e decimo comandamento del Decalogo.
Il pensiero giuridico cristiano, che da sempre aveva affrontato il problema del diritto secolare e canonico servendosi dello stesso concetto formale di diritto e applicando lo stesso procedimento metodologico, ha raggiunto così l’apice del suo sviluppo. Da allora in poi non ha subito sostanziali modificazioni, malgrado la neoscolastica abbia tentato di riproporre lo stesso spunto secondo forme più consone al pensiero moderno.
Con san Tommaso, da una parte, ha affermato che la legge umana statale, quando è giusta, vincola non solo esteriormente, ma anche in coscienza; con Suàrez dall’altra, che la legge canonica può esigere dai fedeli addirittura il compimento di atti umani solo interni, come per esempio il dovere di tendere verso la santità per i religiosi (can. 593 del CIC del 1917) o quello, esteso a tutti i fedeli chierici, religiosi e laici, di conservare sempre la comunione anche interiore con la Chiesa (can. 209 § 1del nuovo CIC).
Ne consegue, sotto un profilo di ordine generale, che anche il Diritto canonico diventa essenziale all’esperienza cristiana, ne più ne meno del dogma, essendo parimenti ordinato al disegno salvifico.

III. Lo svilupppo del rapporto legge-coscienza nell’eopoca moderna

Quando Suàrez, nel 1612, pubblicava il suo trattato De Legibus, facendo l’ultima grande sintesi del pensiero giuridico cristiano, antico e medioevale, l’epoca moderna era già iniziata, sia con il Rinascimento, che con la Riforma protestante.
La rottura con la concezione scolastica del diritto, rimasta sempre integrata in una concezione teologica globale, si è consumata seguendo due direzioni reciprocamente contrapposte.
Mentre la riforma si qualifica per il suo spunto profondamente religioso e per il suo spiccato senso della trascendenza, il Rinascimento ha posto le condizioni per lo sviluppo di un diritto immanente e secolare fondato esclusivamente sulla ragione umana.
Elemento comune di questi due movimenti di pensiero fu l’individualismo, perseguito dal nominalismo e dal volontarismo, che si smaschererà come rottura radicale con la concezione medioevale oggettivistica del mondo e dell’uomo e perciò come posizione soggettivistica. Da questo spunto filosofico comune, che aveva una radice religiosa e una areligiosa, è nata una nuova concezione culturale in cui la filosofìa del diritto e la dottrina giuridica si sono secolarizzate, separandosi dalla morale.

1) L’ascendenza genealogica protestante – L’accentuazione medioevale della trascendenza si è dissolta, nel protestantesimo, in una concezione escatologica radicale della storia. Il mondo diventa il luogo dove Dio, che giustifica l’uomo solo estrinsecamente, esercita il suo dominio attraverso la sua legge positiva.
L’idea luterana della giustificazione, concepita solo come una «non imputatio peccati» estrinseca, ha creato un rapporto di libertà che sottrae l’uomo da ogni mediazione dell’autorità umana, ecclesiale e secolare.
L’uomo religioso, cioè l’«homo interior», gode della libertà «coram Deo». E tenuto ad obbedire alla «lex caritatis» o «lex Christi», preposta al Regno della mano destra, nel quale sta il credente, solo quando in forza della fede la riconosce come vincolante nell’intimo del suo cuore. In forza del principio della libertà cristiana questa «lex Chrisfi», o legge spirituale, esige solo una conversione inferiore, non un comportamento esterno. L’atto esteriore è semplicemente la derivazione spontanea della conversione interiore.
Nel Regno della mano sinistra, dove stanno invece gli increduli, vige il diritto dello Stato, fondato non più sull’amore, ma solo sul potere. Esso è rivolto all’«homo exterior» ed esige da lui solo un comportamento esteriore, prescindendo dalla coscienza.
Il potere secolare che si occupa solo dell’ordine esterno della comunità, fondato esclusivamente nella volontà del legislatore e non nella razionalità della norma, non raggiunge i credenti che vivono nel Regno di Cristo o Regno spirituale. Essi sono esenti. Tuttavia si sottomettono liberamente alla legge dello Stato, in obbedienza al precetto di Cristo dell’amore per il prossimo, per aiutare i non credenti a gestire la società. Mentre Hobbes dirà: «auctoritas, non veritas, facit ius», per Lutero bisognerebbe dire: «caritas, non auctoritas, facit ius».
Se, da una parte, la morale viene a coincidere con l’amore del prossimo e non più con l’adesione a valori positivi immanenti alla norma etica o giuridica, dall’altra, la posizione centrale assunta dalla libertà di coscienza «coram Deo», ha avuto in seno al protestantesimo una duplice e contraddittoria conseguenza. Da una parte la tentazione pietista di sottrarsi dall’impegno politico-morale, per coltivare esclusivamente un’interiorità soggettiva in un’attesa escatologica; dall’altra, l’abbandono progressivo del mondo alla sua dinamica di secolarizzazione, consumato dal protestantesimo liberale.

2) L’ascendenza genealogica rinascimentale – II Rinascimento pone l’uomo, con la sua ragione autonoma e la sua libertà sovrana, al centro dell’universo, quale «Deus in terra», come aveva affermato l’umanista Marsilio Ficino (1499). Grazie ai presupposti nominalistici, tuttavia, l’uomo non è più considerato, come invece nell’antichità, prioritariamente quale membro della città-Stato o, come dopo Alessandro Magno, quale membro della cosmopolis. Non è più considerato neppure quale soggetto del «Corpus mysticum» di Cristo e del «Sacrum Imperium», bensì come semplice individuo, dalla cui somma risulta lo Stato. All’interno di questo orizzonte individualista generale la filosofia del diritto si muove seguendo alcuni assi di sviluppo.
La maggioranza dei teorici dello Stato dei primi tre secoli dell’epoca moderna considera lo Stato, non come realtà risultante organicamente dalla natura sociale dell’uomo, bensì come una sovrastruttura posta in essere da un contratto sociale stipulato tra gli individui.
Il primo asse di sviluppo avviene sostituendo al metodo deduttivo della metafìsica il metodo empirico induttivo del nominalismo, coniugandolo con la scienza matematica, considerata quale scienza universale da Descartes e applicata alla dottrina dello Stato per la prima volta da Francis Bacon, nel suo Novum organum (1620).
In questa concezione meccanicistica il diritto è considerato come semplice tecnica, cioè quale strumento per perseguire qualsiasi scopo utile prefissato all’interno dell’organizzazione del potere. Quale oggetto di ricerca il diritto è sottratto così alla ricerca filosofìca, fino ad essere considerato, assieme alla morale, solo come espressione del potere, oppure come sovrastruttura rispetto al mondo reale.
Il secondo asse di sviluppo è quello che cerca di ricuperare, sempre nel solco della filosofìa greca, la natura sociale dell’uomo quale fonte del diritto; prima nel suo aspetto razionale, come in Grotius; poi nella sua dimensione istintiva, come in Hobbes, Spinoza, Locke e Rousseau.  Secondo lo sviluppo razionale, il diritto non è tuttavia considerato, a differenza della scolastica, come frutto della ragione illuminata dalla rivelazione, ma di una ragione autonoma ed immanente a se stessa. Come per san Tommaso, il diritto è, tuttavia, restituito da Leibniz alla dignità di essere oggetto della giustizia, di cui la fonte non è la volontà ma la giustizia di Dio.  Dopo l’esperienza del nominalismo si arriva così a riaffermare che il diritto non è diritto perché Dio lo vuole, ma che Dio lo vuole perché è giusto.
Questo superamento del nominalismo volontarista, tuttavia, non sfocia in una riabilitazione del pensiero scolastico, poiché autori appartenenti alla corrente protestante pietista, come Christian Thomasius (1728) e Samuel Pufendorf (1694) lo sottraggono definitivamente alla teologia. La«lex divina», quale fonte di diritto, è da loro eliminata definitivamente dalla storia del pensiero giuridico, provocando un’irreparabile rottura del rapporto della legge con la coscienza.
Secondo lo sviluppo naturalista il diritto cessa di essere un’ordine di norme etiche naturali, per diventare espressione dell’istinto, controllabile solo da un potere più forte, che, nella meccanica delle forze sociali, tende a costituirsi come dittatura della maggioranza. È proprio paradossalmente in Jean-Jacques Rousseau che l’idea di libertà totale si trasforma in potere dello Stato totale, che controlla tutta la vita dell’uomo.  Il terzo asse di sviluppo è quello del recupero, come fonte di diritto, non tanto della natura umana in quanto tale, ma della sua struttura comunitaria. La comunità non è più, per Hegel una limitazione, ma un potenziamento della libertà del singolo.’ Lo Stato non è subordinato nella sua sovranità, ne al diritto divino, ne a quello naturale: è una totalità etica che riunisce in sé diritto e morale. E un universo morale che assorbe in sé l’individuo, per il quale il dovere supremo è quello di essere membro dello Stato.
Non esistono più norme giuridiche immutabili, perché il diritto è solo storico e positivo e coincide con lo spirito oggettivo di un popolo determinato, in cui prende corpo lo spirito universale immanente al mondo. Lo Stato è l’interprete di questo spirito e si costituisce come l’unica fonte del diritto.  Un certo recupero fondamentale del rapporto diritto e coscienza è avvenuto, evidentemente, con Immanuel Kant, il quale, in polemica contro ogni forma di diritto naturalistico meccanicistico, ha esercitato senza dubbio un enorme influsso sulla concezione contemporanea del diritto e dello Stato.  Pilastro della sua costruzione filosofìca è la necessità di salvare la libertà dell’uomo, per conservarne intatta la capacità morale. La moralità, tuttavia, non è determinata dal contenuto buono della norma morale o giuridica, bensì solo dalla intenzione soggettiva.
Poiché è possibile costringere un altro a volere un fine buono con una buona intenzione, ne consegue, per Kant, che la forza vincolante della legge civile, la quale in se stessa deve essere morale, non è legata alla sua capacità di vincolare l’uomo in coscienza.
Se, da una parte, Kant esclude l’esistenza di una teoria del diritto di carattere solo empirico e positivista, dall’altra, però, non riesce a stabilire una relazione intrinseca, vincolante e ne-‘ cessarla, tra la legge statuale e la coscienza. Ciò che conta ultimamente, non è la possibilità di determinare la moralità dell’uomo, vincolando la sua coscienza attraverso il contenuto buono della legge, ma di garantire la realizzazione della legge in quanto tale, attraverso la forza.
3) Gli ultimi sviluppi – Da queste premesse è dato constatare come la legge abbia perso nel corso della modernità la sua connotazione pedagogica e morale, presente sia nella tradizione greca, specialmente platonica, sia in quella giudeo-cristiana, mantenendo solo quella ordinatoria. In tempi recentissimi la situazione si è ulteriormente aggravata, grazie alla complicità, prima di Max Weber, poi di Hans Kelsen.
Il primo, perché affida alla norma il compito di fissare in termini giuridici i comportamenti umani rilevati dalla sociologia, senza pretesa di riferimento ai valori morali; il secondo, perché identifica il concetto di diritto con la sua struttura puramente formale, cioè con il concetto della pura relazionalità, prescindendo totalmente dal contenuto, non solo economico, enfatizzato in precedenza da Karl Marx, ma anche sociologico ed ideologico.
La validità della norma, e di conseguenza la sua forza vincolante, che evidentemente prescinde da ogni pretesa sulla coscienza dell’individuo, non discende dal suo contenuto etico, ma solo dal fatto di essere emanata con atto particolare di volontà dello Stato – che si identifica con l’ordinamento giuridico – in conformità alla norma fondamentale, cioè alla Costituzione votata dall’assemblea dei cittadini.
Questa forma, ultima e più pura di positivismo giuridico, rinuncia così in modo definitivo ad affermare in assoluto cosa è giusto o ingiusto: rinuncia cioè al concetto stesso di giustizia, lasciando la coscienza del cittadino totalmente libera di fronte alla norma giuridica.
Questa linea di sviluppo sembra essere contrastata, ma forse solo temporaneamente, dalla riscoperta del diritto naturale dopo la seconda guerra mondiale, sia con la «Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo» del 1948 e la «Costituzione di Bonn», della Germania federale, ma anche dalla filosofia e dalla dottrina giuridica germanica. Quest’ultima ha stabilito, infatti, un chiaro rapporto tra i diritti fondamentali del cittadino e i valori fondamentali del sistema costituzionale.
A titolo di esempio possiamo enucleare una fattispecie particolare in cui l’estraneità tra il diritto e l’etica si manifesta attualmente con particolare evidenza: quello dell’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza, infatti, per definizione stessa, ha un ruolo paradigmatico nel rapporto tra legge e coscienza.  Le varie forme moderne di obiezioni, se dal profilo individuale sono determinate da un’opzione ideologica o etica, sono assecondate dalla norma statuale, non in tale loro intrinseco valore, ma solo perché giustificate in ragione di una libertà, che lo Stato e la norma statuiscono ai singoli, ritenendola compatibile con il sistema giuridico complessivo. Pertanto si può dire che le obiezioni di coscienza sono dal punto di vista dell’ordinamento una sempre più evidente espressione di una carenza di fondamenti ontologici ed etici.
In sostanza mi sembra di poter rilevare, nella dinamica in cui si realizzano concretamente le forme di obiezione, una prevalenza dell’aspetto ordinatorio e politico su quello etico. Si tende, cioè, ad ammettere l’obiezione come manifestazione di libertà, purché sia compatibile con l’ordinamento complessivo o di settore, anziché come espressione riconosciuta di valori etici oggettivi, come tali e nella loro efficacia derogatoria, ammessi ad una protezione da parte dell’ordinamento.
Per essere più esplicito vorrei portare l’esempio dell’ordinamento elvetico nel quale l’obiezione di coscienza al servizio militare, attualmente non ammessa, si pensa potrà esserlo in futuro per motivi religiosi e umanitari, ma non per motivi politici. Ciò denota per un verso il declassamento dell’elemento etico-religioso, e per altro verso e specularmente, la sopravvalutazione del profilo politico, che in sostanza coincide con esigenze di autoconservazione dello Stato, come ordine costituito.

IV. CONCLUSIONE

Le considerazioni sin qui svolte meriterebbero un più ampio sviluppo.
Nonostante ciò, credo possa facilmente individuarsi, come dato tendenziale dell’esperienza giuridica contemporanea, la progressiva affermazione della libertà – nelle sue innumerevoli estrinsecazioni – non in ragione dei valori di cui consente l’inveramento, ma come – e se – risultante di un bilanciamento di volizioni contrapposte e potenzialmente confliggenti.
Da un lato, la volontà statuale che si manifesta nel momento normativo; dall’altro, la volizione individuale che tende a sottrarsi a quel comando, in omaggio – e questo è il punto centrale – ad una libertà soggettiva, che tende ad autogiustificarsi, vale a dire, a non giustificarsi ne a motivarsi eticamente.
Il dato centrale di questa dialettica finisce così per essere non un confronto di valori, ma un equilibrio tra libertà, che si disconoscono nelle loro peculiari motivazioni.
Questa, a mio avviso, è la risultante di un processo involutivo avviato a partire dal divorzio avvenuto tra il diritto e la morale, iniziatesi con il nominalismo volontarista. A questo fattore, che ha condizionato profondamente tutta la cultura moderna, non solo quella giuridica e legislativa, si deve aggiungere, oggi, un altro fattore molto rilevante: quello del carattere pluralistico, se non addirittura cosmopolita, assunto dalla società democratica.  Anche se fosse ipotizzabile – ma lo si può fare solo con grande idealismo – un ritorno a lungo termine della metafisica, con una concezione del diritto più orientata verso la morale e perciò con la pretesa di essere più vincolante per le coscienze, non si può prescindere dal fatto che la legge di uno Stato pluralista post-moderno, di fatto, difficilmente potrà rivendicare di essere apportatrice di valori etici, se non universalmente riconosciuti, sostenuti almeno da un ampio consenso.
Di fronte a questa prevedibile, ulteriore perdita di valori e contenuti etici della legge, il cittadino può reagire in modo diverso, a dipendenza della sua posizione culturale. Da una parte, rivendicare in modo sempre più determinato il diritto all’obiezione di coscienza, quando constatasse che il contenuto etico (o non etico) della legge non coincide con le convinzioni della sua coscienza; dall’altra, impegnarsi democraticamente per un recupero etico nell’ordinamento giuridico statuale.  Ogni cittadino, e perciò anche il cristiano, ha il diritto e il dovere di porsi nella società democratica, qualificandosi secondo la propria identità. In particolare, il cristiano non può dimenticare che nella propria tradizione culturale è indelebilmente iscritta la convinzione che la legge, anche statuale, non solo deve essere giusta, ma svolge, per sua natura e di fatto, una funzione pedagogica, positiva o negativa, nei confronti della coscienza dei cittadini.
Il primo rimedio di fronte alla situazione attuale è senza dubbio quello di ricostruire le coscienze dei cristiani stessi, attraverso un impegno di rievangelizzazione, sia della comunità cristiana, che della società. Questo sforzo non può avere come conseguenza immediata se non quella di accentuare il fenomeno dell’obiezione di coscienza e di sottolineare contemporaneamente il suo diritto all’esistenza.
Il secondo rimedio, il cui esito, evidentemente, non dipende solo da chi lo pone in atto, ma anche dalle altre forze sociali e culturali presenti nella compagine democratica dello Stato, è quello di riproporre alla società, per il bene comune della stessa, una concezione della legge che non abdichi di fronte alla sua funzione pedagogica.
In questa convinzione, il cristiano è sorretto dalla propria esperienza ecclesiale. Nel corso di questo esposto ho fatto spesso riferimento al diritto canonico, sia perché dobbiamo rimanere consapevoli del fatto che l’ordinamento giuridico ecclesiale, non solo è l’unico diritto internazionale codificato, ma ha come referente almeno un sesto dell’umanità; sia perché è veicolo della tradizione della Chiesa nel senso proprio della parola. Una tradizione che ha la sua fonte nella rivelazione, la quale ha fatto conoscere all’uomo, non solo l’esistenzà di un diritto divino positivo, ma anche il carattere vincolante interiore della legge sulla coscienza dell’uomo e, di conseguenza, la sua funzione pedagogica. Il Diritto canonico ha perciò carattere profetico nei confronti della società e il cattolico non può misconoscerlo.
Karl Barth, pur partendo da presupposti dottrinali diversi da quelli della teologia cattolica, non ha esitato ad affermare che la Chiesa, essendo più vicina a Cristo dello Stato, conosce meglio lo Stato di quanto esso non conosca se stesso. Conosce perciò meglio anche la natura e la funzione della legge di quanto non la conoscano lo Stato e la società. E un’affermazione che non posso non condividere profondamente.