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Questioni di diritto costituzionale

Capitoli


I. La Chiesa, Sacramento della Trinità

Come ogni realtà cristiana anche la Chiesa trova l’origine e la spiegazione esemplare ultima della sua struttura nel mistero dell’unità e pluralità del Dio uno e trino[1]. Non sarebbe possibile perciò spiegare l’unità e la pluralità della Chiesa argomentando semplicemente con motivazioni filosofiche o storiche[2]. La tensione nella quale si realizza la pluralità delle Chiese particolari nell’unità della Chiesa universale sfocerebbe inevitabilmente in una insuperabile antinomia, perché la Chiesa è «…il popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo»[3]. Questa polivalenza della Chiesa è stata percepita fin dagli inizi della riflessione teologica. San Paolo e poi San Cipriano imprimono al termine «Chiesa» un significato sia locale che universale[4]. Sembra tuttavia che nella patristica abbia prevalso la visione della Chiesa universale[5], mentre sul piano delle strutture si impose in un primo tempo l’esperienza della realtà ecclesiale locale. In Occidente e in Oriente queste due linee di fatti e di pensiero si sono sviluppate in modo unilaterale, nel segno di una estraneità reciproca, ispirando una ecclesiologia e un Diritto canonico diverso, che hanno offerto le motivazioni ultime per la consumazione del grande scisma[6].

 


II. L’ecclesiologia della Chiesa particolare o della comunione.

1. La concezione della Chiesa

L’ecclesiologia della comunione, tipica, anche se non esclusiva, del pensiero orientale, affronta il problema della Chiesa partendo empiricamente dalla comunità locale e attingendo a componenti storico-antropologiche diverse da quelle occidentali. A differenza di quella latina, che si china di preferenza sulle realtà ecclesiali terrestri, la teologia orientale è segnata da un gusto ellenistico per l’ontologia di quelle celesti. La Chiesa è come una icone; è sacramento della realtà spirituale celeste. L’ecclesiologia è perciò essenzialmente sacramentaria ed eucaristica, incentrata sulla comunità locale, nella quale la Chiesa universale si realizza in modo sempre uguale e perfetto[7]. Il principio informante del diritto inter-ecclesiale divenne in oriente quello di tradurre concretamente il mistero dell’alleanza universale in Cristo fra le Chiese dell’ecumene. Ciò fu realizzato non tanto con norme dettate dall’alto, quanto piuttosto dalla prassi dei rapporti tra le diverse comunità, al livello personale (lettere, ospitalità, diaconia), cultuale (eulogia, fermento, scomunica) e più tardi istituzionale (sinodi, ecc…). In questa dinamica ecclesiale il ruolo del vescovo di Roma è relativo. Più che autorità con un potere di diritto divino superiore a quello degli altri vescovi, è considerato come il custode dell’unità ecclesiale con un potere non «sulla» Chiesa, ma «nella» comunione ecclesiale[8]. Quest’ultima a sua volta è generata più da un vincolo di amore nello Spirito Santo («sobor- nost»), che dalla legittimità di un’autorità monarchica fondata sul possesso di un ufficio ecclesiastico[9].

2. La struttura sinodale

Questa ecclesiologia si è tradotta nell’ortodossia in un sistema sinodale acefalo[10]. Poiché la Chiesa deve rispecchiare con fedeltà l’uguaglianza esistente tra le Persone della SS. Trinità, e i vescovi, in forza della consacrazione, sono uguali tra di loro, la struttura del sistema sinodale è paritaria: la competenza ultima non spetta mai ad un’autorità individuale, ma al corpo dei vescovi[11]. L’istituto nel quale si è riflessa con maggiore precisione questa concezione ecclesiologica è il sinodo «endemousa», grazie al quale la Chiesa bizantina si sente in una situazione sinodale permanente. È a regime paritario. Il patriarca non vi ha lo stesso potere che il papa godeva sul sinodo romano, rivendicava su quello ecumenico e otterrà più tardi anche sui concili provinciali. Il sinodo non può procedere senza il patriarca e quest’ultimo non può decidere definitivamente senza di esso[12].

3. La funzione del vescovo

L’immagine mistico-cultuale prevale su quella canonico-giuridica. Il vescovo è l’immagine tipologica del Padre in mezzo alla Chiesa, il liturgo che riunisce tutta la comunità locale in una tensione di ritorno verso il Padre e in un vincolo di comunione con tutte le altre Chiese[13]. La dimensione collegiale fu vista come così coessenziale alla funzione episcopale[l4], da negare ogni autorità personale superiore di tipo monarchico. Per riflesso l’autorità episcopale risultò rafforzata sul piano della Chiesa particolare. I vescovi superiori (patriarca, metropolita) hanno dei poteri solo in quanto gli sono riconosciuti dal corpo episcopale (concilio ecumenico, sinodo patriarcale) [15]. Tecnicamente ciò si tradusse sul piano giuridico in un sistema di concessioni, non dall’alto verso il basso come nella Chiesa latina, ma dal basso verso l’alto, eliminando così ogni possibilità di interferenze di tipo personale nell’ambito giurisdizionale dei vescovi inferiori, che di conseguenza godono di un’ampia libertà d’azione locale[16].

 


III. L’ecclesiologia della Chiesa universale

1. La concezione della Chiesa

In occidente l’ecclesiologia ha subito uno sviluppo diverso grazie anche ad una differente teologia eucaristica. In Oriente prevale l’idea di trascendenza, per cui nella frazione del pane tutti i vescovi rappresentano Cristo allo stesso modo. In Occidente l’eucaristia è vista più giuridicamente; come sacrificio della riconciliazione, in rapporto con il potere di sciogliere e legare. L’atto redentivo celebrato dai vescovi nel sacrificio eucaristico è compiuto in modo eminente dal successore di Pietro (Mt 16, 19), che perciò gode di un primato sugli altri[17]. La concezione agostiniana, secondo la quale nella celebrazione locale dell’eucaristia si manifesta l’unità di tutta la Chiesa universale, è raccolta in modo unilaterale dal medioevo, per il quale la Chiesa diventa sinonimo di totalità, dove tutti i credenti sono incorporati in un vertice organizzativo[18].

La «Chiesa di Roma», intesa anticamente con riferimento locale, diventa equivalente a «Chiesa cattolica», in una visione imperiale universale, alla quale il genio latino delle decretali impone una disciplina uniformatrice. Con la riforma gregoriana avviene in Occidente uno sganciamento della Chiesa dalle strutture teocratiche feudali, che le permette di affermarsi come società perfetta, con una autonomia e un diritto propri, nei confronti del potere secolare[19], e di trasformarsi in una specie di grande diocesi, nella quale anche i nuovi ordini religiosi sono incorporati direttamente[20]. Il papa ha la «plenitudo potestatis», è la «fons et origo» di tutta la vita ecclesiale e il primo vescovo di ogni diocesi[21]. Il principio informatore dei rapporti giuridici con i vescovi diventa quello della distribuzione dei singoli pastori «in partem sollecitudinis papae». Ciò induce la dottrina a declassarli nella posizione di semplici vicari o legati[22].

2. La struttura sinodale

In questa visione universale e piramidale latina, si precisa anche una diversa struttura conciliare. I concili generali più che assemblee di vescovi deliberanti sono una rappresentazione di tutta la cristianità, riunita per consigliare il sommo pontefice. Il papa è il capo, i vescovi le membra. Non sono presenti sullo stesso piano e neppure come corpo, ma piuttosto come singoli individui[23]. Con il Tridentino è avvenuto un ricupero di fatto dell’episcopato nelle sue responsabilità collegiali[24]. Tuttavia l’ecclesiologia, condizionata dalle pressioni protestanti e gallicane, evolve ulteriormente verso una concezione incentrata sul papa e sulla Chiesa universale, che lascia in ombra il concetto di «communio», per insistere sul carattere societario, tradottosi nell’idea del primato giuridico[25]. Ciò compromise sempre di più l’autonomia e la vitalità sinodale delle Chiese particolari[26].

3. La funzione del vescovo

In seguito alla tensione nata nei rapporti tra la Chiesa universale e particolare, la figura giuridica del vescovo ha registrato in occidente forti fluttuazioni[27]. Come in Oriente fino al iv secolo l’autorità del vescovo come capo della Chiesa particolare, è indiscussa («Ein gewaltiger Herr»)[28]. Fa perno sul possesso delle funzioni legislative, giudiziarie e amministrative e si esprime simbolicamente nella celebrazione dell’unica eucaristia, alla quale partecipa tutto il presbiterio e tutto il popolo[29]. Nelle sue decisioni si sente legato al consiglio del presbiterio, ai desideri del popolo e alla tradizione locale. La necessità di adattarsi ad un mondo nuovo, che si impone per la sua unità politicoreligiosa, trasforma il vescovo in un rappresentante amministrativo locale di un’organizzazione onnipresente di governo ecclesiastico e statale, spersonalizzando i suoi rapporti con la comunità locale (prassi dell’ordinazione assoluta). La progressiva centralizzazione condotta da Roma, se da una parte indebolisce l’istituto metropolitano (concepito ormai solo come un’emanazione del Primato), dall’altra riduce i vescovi d’Occidente, che pure avevano consolidato la loro posizione in forza di rapporti di diritto privato (sistema della Chiesa propria) e di diritto pubblico (funzioni feudali, «bannus»), alla situazione di suffraga- nei, simile a quella esistente nelle diocesi suburbicarie[30]. L’autorità episcopale è minata profondamente anche all’interno della giurisdizione diocesana. Dal primo Medioevo la diffusione della struttura parrocchiale aveva poco a poco polverizzato il presbiterio, trasformando il prete in un ministro, che vanta poteri propri e che ha perso in grande parte il legame strutturale collegiale con il suo vescovo[31]. Nell’alto Medioevo la concessione di innumerevoli privilegi ed esenzioni (conventi, ordini religiosi, fondazioni, università) e la politica beneficiale della Santa Sede (riserve), hanno rafforzato, assieme al diritto particolare e consuetudinario, in modo sproporzionato i capitoli cattedrali (capitolazioni), i prelati superiori (arcidiaconi, vescovi ausiliari) e i laici (giuspatronato). Questo duplice fenomeno di indebolimento dell’ufficio episcopale sia verso l’alto che verso il basso, ha coinvolto anche la teologia scolastica. Il potere di giurisdizione, visto ormai slegato da quello di ordine[32], è considerato solo come una emanazione di quello papale, mentre sul piano del potere di ordine il vescovo è assimilato al semplice sacerdote (stesso potere di ordine, non sacramentalità dell’episcopato)[33]. Nella cultura universalistica medioevale, che non riesce a concepire un’autorità se non sotto la forma di un capo comandante a un corpo, il vescovo è visto isolatamente, come funzionario papale legato ad una realtà locale[34], tenuto al giuramento di obbedienza e alla visita «ad limina». E sottovalutato sia come custode della Chiesa particolare, per le troppe interferenze di terzi, sia come anello di congiunzione con le altre Chiese e quella universale, perché a dispetto di un’intensa attività sinodale, il Medioevo ha avuto una scarsa coscienza della collegialità episcopale[35]. La riforma tridentina ha intrawisto che la crisi ecclesiale proveniva dagli squilibri che avevano indebolito l’ufficio episcopale. Non avendo saputo risolvere la questione di fondo dell’origine divina o umana della giurisdizione dei vescovi[36], cercò di superare lo spinoso problema posto dalla necessità di rafforzare non solo il potere papale ma anche quello dei vescovi diocesani, ricorrendo pragmatisticamente all’istituto della delegazione «a iure», con la quale passò ad essi, «a prestito», facoltà ritenute proprie dell’ufficio prima- ziale[37]. Per ridurre gli abusi provocati dalle esenzioni restaurò il diritto di visitazione e di sorveglianza (amministrazione dei beni ecclesiastici) dell’ordinario, gli riconobbe il diritto di legiferare nel proprio territorio senza approvazione papale e quello di dispensare in casi particolari dal diritto comune. Impose anche degli obblighi (residenza), contribuendo a ricuperare un’immagine più sacrale del vescovo[38]. Non fu una vera restaurazione del potere dei vescovi, perché ancora una volta furono considerati, come del resto anche con la codificazione del 1917, in una visuale di dipendenza troppo stretta dal papa e in un contesto ecclesiologico individualistico, che non teneva debito conto della loro funzione e responsabilità collegiale.

 


IV. La riforma del Vaticano II

1. L’ecclesiologia

Il valore della Chiesa particolare è stato affermato dal Vaticano II come da nessun altro Concilio[39]. Nella dialettica del pensiero conciliare tuttavia essa emerge in una visuale leggermente strumentalizzata, quale mezzo e luogo di realizzazione della Chiesa universale[40]. L’affermazione di fondo (Vat. Eccl. 26, 1) sulla Chiesa particolare è stata introdotta tardivamente negli schemi della Lumen gentium, cosicché non ha potuto inserirsi come principio strutturale alla pari dell’idea della Chiesa universale. Resta il fatto comunque che il Concilio ha giustificato appieno un’ecclesiologia che prenda lo spunto dalla comunità eucaristica[41]. La tentazione di considerare la Chiesa particolare come una semplice circoscrizione amministrativa di quella universale, è stata nettamente superata; infatti la sua esistenza viene giustificata non partendo da imperativi storico-socio- logici, bensì dogmatici. Essa realizza in se stessa la totalità della Chiesa in quanto rende presente nella celebrazione episcopale della Parola e del Sacramento il mistero trinitario, offrendo nello stesso tempo il punto di incontro indispensabile attraverso il quale l’uomo concreto può venire in contatto con il mistero della salvezza[42], rappresentato nella sua totalità simbolica solo dalla Chiesa universale[43], che è il sacramento in Cristo dell’unione con Dio e con tutto il genere umano[44]. Poiché l’unità della Chiesa non nasce dall’uniformità, ma dalla pluralità[45], le Chiese particolari, nella loro originalità propria, diventano le componenti essenziali, in una scala gerarchica di possibilità rappresentative, che il Vaticano ha saputo valorizzare fino in fondo (patriarcato, diocesi, parrocchia, Chiesa domestica[46], comunità ecclesiali separate)[47]. Il Concilio non è entrato in merito alla questione dibattuta sulla priorità della Chiesa universale o particolare. Ha affermato la legittimità delle due ecclesiologie, purché siano concepite in una prospettiva di rapporto reciproco. In realtà esiste sia una struttura della Chiesa universale (primato, collegio episcopale), sia una struttura della Chiesa particolare (ufficio episcopale)[48]. Cristo non ha istituito prioritariamente né la Chiesa universale[49], né quella particolare, bensì la Chiesa come tale, con la complementarietà della sua duplice struttura.

2. La struttura collegiale

Partendo dall’esperienza concreta, l’antichità ha sempre considerato l’idea del collegio universale dei vescovi come secondaria, mettendo in primo piano quello delle Chiese particolari. La teologia moderna, che oltre a non aver conosciuto un’esperienza ecclesiale di attività sinodale, risente ancora della impostazione culturale illuministica, ha affrontato il problema, non storicamente ma speculativamente[50]. Il Vaticano II ha perciò subito, al livello strutturale della collegialità, l’influsso della teologia latina della Chiesa universale in misura ancora più marcata che non a quello puramente ecclesiologico. Infatti non ha riconosciuto il carattere della collegialità in senso stretto che al collegio di tutti i vescovi, ponendo come problemi centrali quello del rapporto con il primato e quello dell’esistenza di un unico o di un duplice soggetto di potere[51]. Se ha rivalutato le forme conciliari particolari[52], concentrandosi specialmente sulla forma moderna delle conferenze episcopali[53], non ha però attribuito ad esse, da un punto di vista del contenuto, la qualifica della collegialità, scartando l’ipotesi che potessero essere una forma di partecipazione al potere supremo del collegio universale[34]. In realtà sono vere forme collegiali, ma di tipo particolare, che si differenziano dalla prima per il fatto di non poter rivendicare un potere su tutta la Chiesa. Mentre il CIC aveva visto in esse solo delle istituzioni derivanti dal primato, il Vaticano II ha riconosciuto le forme collegiali particolari, come istituti che hanno la loro giustificazione ultima nel potere ordinario e proprio dei vescovi. In particolare ha fatto delle conferenze dei vescovi delle vere istanze intermedie di tipo sinodale tra il potere centrale e i vescovi locali, avviate ormai ad assumere competenze generali e non solo in casi particolari come attualmente[55].

3. La funzione del vescovo

a) La Chiesa particolare come criterio di definizione

La figura teologico-giuridica del vescovo è uscita dal Vaticano II radicalmente restaurata nella sua funzione originale, sia verso l’alto che verso il basso. La dottrina della collegialità ha rimesso in risalto le sue responsabilità giuridiche e morali nei confronti di tutta la Chiesa. La rivalutazione della Chiesa particolare ha restaurato le sue funzioni originali come responsabile della stessa. Poiché la Chiesa particolare è Chiesa solo in quanto è in grado di realizzare gli aspetti essenziali di quella universale, e parallelamente il vescovo è legittimo suo capo solo in quanto è membro del collegio episcopale, la Chiesa locale deve essere presa come criterio per definire le funzioni del vescovo, che la presiede e rappresenta in seno al collegio di tutti i vescovi[56]. Non è perciò solo per considerazioni organizzative che il Vaticano II, per la prima volta nella storia dei Concili, si è preoccupato di definire la natura della diocesi[57].

b) L’aspetto personale del potere

Analogicamente alla Chiesa universale esiste un principio personale ed uno collegiale di unità aü’interno della diocesi[58]. Il vescovo è il principio personale in quanto possiede per diritto divino tutto il potere di ordine e giurisdizione per esplicarvi gli uffici apostolici di insegnare, santificare e governare[59]. Il Concilio ha operato un capovolgimento radicale della prospettiva con la quale deve essere affrontato l’ufficio episcopale, restituendogli nella- sua pienezza la posizione goduta alle origini e conservata in modo più chiaro nella tradizione orientale. Ha definito il potere di ordine del vescovo non in rapporto a quello del prete, ma viceversa, attribuendo al primo la pienezza sacramentale del sacerdozio[60]. In rapporto al potere di giurisdizione invece ha eliminato la possibilità di vederlo come una derivazione da quello primaziale, affermando esplicitamente che il singolo vescovo ha «per sé» e originariamente tutti i poteri ordinari necessari per svolgere la sua funzione apostolica[61]. Dal sistema della concessione dei poteri dal papa al vescovo, si è passati a quello della riserva al papa. Poiché il diritto divino non esiste astrattamente, ma può realizzarsi solo storicamente attraverso l’esplicitazione del diritto umano[62], il problema è quello di sapere in concreto quali sono i poteri necessari al vescovo per poter custodire e promuovere la disciplina della sua Chiesa particolare, in modo che questa possa validamente rappresentare la Chiesa universale. La traduzione tecnico-giuridica del sistema della riserva urta contro una difficoltà di fondo. L’ufficio del vescovo deve essere circoscritto positivamente nei suoi contenuti, per evitare che la presunzione giuridica generale, creata dal Vaticano II in suo favore, non degeneri nell’arbitrio. Il problema evidentemente non può essere risolto solo con la concessione di una facoltà generale di dispensare dal diritto comune[63], ma anche ponendo il vescovo, con una revisione del CIC, nella possibilità di intervenire legislativamente, amministrativamente e giudiziariamente per sviluppare una disciplina particolare, che tenga conto della fisionomia e delle esigenze peculiari della sua diocesi[64]. Si tratta perciò di restituire alla Chiesa particolare quella autonomia e quell’unità interna, grazie alla quale sia possibile praticare una pastorale d’assieme omogenea, sotto la guida di un unico responsabile ultimo. In questa direzione si muovono per esempio quelle norme conciliari che positivamente tendono a mettere in risalto la responsabilità globale del vescovo in certi settori[65], e negativamente a rompere quegli elementi centrifughi che sottraevano il clero[66], i laici[67] e i religiosi[68], da un riferimento più diretto all’autorità del vescovo. In sostanza si tratta di tradurre in termini operativo- giuridici lo «specchio del vescovo» dato dal decreto Christus Dominus ai nn. 11-16[69].

c) L’aspetto sinodale del potere

Lo sviluppo assunto oggi dall’attività pastorale in una civiltà industrializzata e del consumo, dove le interferenze di tutti i settori sono in rapidissima espansione, implica il rischio di sopravvalutare le possibilità di una singola persona. Questa considerazione, ma soprattutto quelle teologiche di fondo, hanno fatto scoprire la dimensione dell’episcopato anche verso il basso.

La restaurazione teologica del presbiterio e la sua strutturazione rappresentativa nel consiglio presbiterale[70] e in misura solo analogica negli altri consigli e commissioni, nei quali non solo il clero e i religiosi[71], ma anche i laici sono chiamati ad agire con voto consultivo, mirano ad implicare tutti i settori diocesani in una responsabilità comunitaria e a sgravare il vescovo dall’isolamento in cui era caduto.

Questa situazione di isolamento conosciuta dal vescovo già nel medioevo, quando l’idea di una pastorale d’assieme era inconcepibile, data la scarsa coscienza collegiale dell’epoca[72], si era riflessa anche nei tempi moderni, malgrado lo sviluppo dell’impegno missionario, in un certo assenteismo dei vescovi dai problemi della Chiesa universale. La dottrina della collegialità e quella della Chiesa particolare, che deve rappresentare nel modo più veritiero quella universale, si sono tramutate in chiare direttive conciliari per il superamento nella Chiesa particolare di ogni particolarismo, verso una responsabilità inter-ecclesiale, per esempio sul piano della pastorale d’assieme[73], ecumenica[74] e missionaria[75].

In sostanza la dottrina centrale del Concilio sulla collegialità episcopale ha avuto come effetto quello di restaurare la posizione del vescovo nell’ambito della Chiesa universale, ma anche di rafforzarlo come capo della Chiesa particolare, legandolo però verso l’alto ad una disciplina inter-diocesana tramite l’istituzione di un’istanza intermedia collegiale (conferenze episcopali) e verso il basso al consiglio del presbiterio e dei laici.

 

 

[1] M. Philipon, La santissima Trinità e la Chiesa, in: La Chiesa del Vaticano II, ed. G. Barauna, Firenze 1965,328-331; E. Zoghby, Unità e diversità della Chiesa, in: ihid., 525, 535-537.

[2] W. Beinert, Die “Una Catholica” und die Partikularkirche, «Theologie und Phi- Iosophie» 42 (1967), 3-5.

[3] Vat. Eccl. 4, 2 (cfr. Documenti. Il Concilio Vaticano II, edizioni Dehoniane).

[4] Cfr. K. Rahner, Episkopat und Primat, Quaestiones Disputatae, II, Freiburg i.Br. 1961, 21-30; G. Dejaifve, La collegialità nella tradizione latina, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 838-840; J. Hajjar, La collegialità nella tradizione orientale, in: ihid., 816-817.

[5] A. Schmemann, La notion de primauté dans l’ecclésiologie orthodoxe, in: La primauté de Pierre dans l’Église Orthodoxe, Neuchâtel 1960, 141; M.-J. Guillou, Uexpérience orientale de la collégialité épiscopale et ses requêtes, in: La collégialité épiscopale, Unam Sanctam 52, Paris 1965, 176; Y. Congar, De la communion des Églises à une ecclésiologie de l’Église universelle, in: L’Épiscopat de l’Église Universelle, Unam Sanctam 39, Paris 1962, 228.

[6] Su tutta la questione e in particolare sui nn. II-III del presente articolo, cfr. Y. Congar, Neuf cents ans après. Notes sur le “schisme oriental’’, «Irénikon» (1954), 16- 181; Id., De la communion…, cit., 227-260; Id., Notes sur le destin de l’idée de collégialité épiscopale en Occident au Moyen Age (vii-xvi siècles), in: La collégialité épiscopale, cit., 99-129.

[7] Cfr. Y. Congar, De la communion…, cit., 231-235.

[8] Cfr. A. Alivisatos, Les conciles oecuméniques V, VI, VII, Vili, in: Le Concile et les Conciles, Unam Sanctam (hors-série), Chevetogne 1960, 120; H. Marot, Conciles anténicéens et conciles oecuméniques, in: ibid., 42-43.

[9] Cfr. M.-J. Guillou, Mission et Unité. Les exigeances de la communion, Unam Sanctam 34, II, Paris 1960, 184-200; E. von Ivanka, Sobornost, in: Lexikon für Théologie und Kircbe, IX, 1964, 841-842.

[10] II sistema dell’acefalia non è una emanazione necessaria di quello sinodale. È possibile anche in un sistema monarchico, come fu visto in parte nella dottrina della pentarchia dai teologi bizantini medioevali. Cfr. V. Pospiscml, Der Patriarci] in der Serbisch-Orthodoxen Kirche, Wien 1966, 63-78, 64. Cfr. Loi organique de l’Église au- tocéphale de Grèce (1923) e Charte constitutionelle de l’Église de Grèce, pubblicate in «Istina» 7 (1960), 153-172, 279-300, dalle quali appare chiaramente che il Santo Sinodo è il supremo organo legislativo, giudiziario e amministrativo della Chiesa autocefala di Grecia.

[11] M.-J. Guillou, Mission et Unité, II, cit., 189.

[12] J. Hajjar, La collegialità nella tradizione orientale, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 818-831; ìd., Synode permanent et collégialité episcopale dans l’Église byzantine au premier millénaire, in: La collégialité épiscopale, cit., 151-166.

[13] Th. Strotmann, Lévêque dans la tradition orientale, in: L’Épiscopat et l’Église universelle, cit., 309-314. Nella teologia latina il vescovo è paragonato di preferenza a Cristo: cfr. J. Pascher, Die Hierarchie in sakramentaler Symbolik, in: Studien über das Bischofsamt, Regensburg 1949, 292.

[14] J. Hajjar, La collegialità…, cit., 829.

[15] V. Pospischil, op. cit., 64-65. Circa la discussione sull’esistenza di diritti personali patriarcali assoluti, cfr. ibid., 69-72.

[16] Cfr. catalogo dei diritti dei patriarchi e dei metropoliti in: N. Milasch, Das Kirchenrecht der morgenländischen Kirche, Mostar 1905, 326-329, 335-338. Circa i diritti dei vescovi di una eparchia (diocesi), ibid., 372-386, 456-458.

[17] C. Andresen, Geschichte der abendländischen Konzilien des Mittelalters, in: Die ökumenischen Konzilien der Christenheit, hrsg. von H. Margull, Stuttgart 1961, 79-84.

[18] B. Neunheuser, Chiesa universale e Chiesa locale, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 628-630.

[19] Y. Congar, Id ecclésiologie, de la Révolution française au Concile du Vatican, sous le signe de l’affirmation de l’autorité, in: Lecclésiologie au xix siècle, Unam Sanctam 34, Paris 1960, 90.

[20] O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ses vicissitudes dans l’Église ¿’Occident, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, cit., 286-287.

[21] Sull’incidenza ecclesiologica della querelle tra secolari e mendicanti nel xm secolo, che non fu una semplice controversia tra spiritualità diverse, cfr. J. Ratzinger, Der Einfluss des Bettelnordensstreites auf die Entwiklung der Lehre vom päpstlichen Universalprimat, unter besonderer Berücksichtigung des heiligen Bonaventura, in: Theologie in der Geschichte und Gegenwart. Festschrift zum 60. Geb. M. Schmaus, München 1957, 697-724; Y. Congar, Aspects ecclésiologiques de la querelle entre mendiants et séculiers dans la seconde moitié du xm et le début du xvi siècle, Arch. Hist. Doctr. Litér. MA, 28 (1961), 35-151.

[22] Y. Congar, De la communion…, cit., 238-240. Cfr. anche J. Rivière, In partem sollecitudinis… Évolution d’une formule pontificale, RSR 5 (1925), 210-231.

[23] C. Andresen, op. dt., 75-149; G. Fransen, Lecclésiologie des condles médiévaux, in: Le Concile et les Conciles, cit., 125-141; H. Jedin, Strukturprobleme der ökumenischen Konzilien, Köln 1963, 2-27.

[24] II conciliarismo di Costanza ebbe, malgrado la sua insistenza su «/’ecclésiologie de l’Église», uno scarso senso della collegialità. Cfr. Ch. Moeller, La collégialité au Condle de Constance, in: La collégialité épiscopale, cit., 149.

[25] Sull’impostazione dell’ecclesiologia in questo periodo, cfr. Y. Congar, Chiesa. II: nella storia del dogma, in: Dizionario teologico, I, Brescia 1966, 229-241; cfr. anche H. Fries, III: in teologia sistematica, ihid., 242-253.

[26] Dal Tridentino alla fine del xix secolo furono celebrati nella Chiesa latina circa 260 concili provinciali e plenari (13). Prendendo come base un minimo di 90 province ecclesiastiche si deve concludere che l’attività conciliare in questo periodo corrisponde in termini statistici al 2% di quella che a termine di legge avrebbe dovuto aver luogo. Cfr. E. Corecco, La formazione della Chiesa negli Stati Uniti d’America attraverso l’attività sinodale, con particolare riguardo al problema dell’amministrazione dei beni ecclesiastici, München 1962 (Kan-Diss. in pubblicazione), appendice, tabella comparativa.

[27] Su tutta la questione cfr. W. PlöCHL, Geschichte des Kirchenrechts, I, Wien I9602, 342-343, 165-166; II, 19622, 141-144; III, 1959, 257-258; H. Feine, Kirchliche Rechtsgeschichte, Köln 19644, 124-127, 213-219, 364-379, 533-539.

[28] U. Stutz, Kirchenrecht, in: Sonderabzug aus vom Holtzendorffs-Kohlers Enzyklopädie der Rechtswissenschaft, s.l., 1904, 825-826.

[29] Alla fine del IV secolo a Milano e a Cartagine si celebrava una sola eucaristia domenicale per tutta la città; cfr. V. Monachino, La cura pastorale a Milano, Cartagine e Roma nel secolo lv, Roma 1947, 55-56, 188-190.

[30] Sul problema delle tre zone di influenza di Roma, cfr. P. Batiffol, Cathedra Retri, Unam Sanctam 4, Paris 1938, 41-59.

[31] B. Bazatole, Leveque et la vie chrétienne au sein de l’Église locale, in: L’Épisco- pat et l’Église Universelle, cit., 342-348. Sulla storia dello sviluppo della parrocchia, cfr. A. Blöchlinger, Die heutige Pfarrei als Gemeinschaft, Einsiedeln 1962, 57-122.

[32] Sul problema cfr. K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, «Münchener Theol. Zeitschrift» 3 (1952), 1-16; K. Nasilowski, De distinctione potestatis in ordine in primaeva canonistarum doctrina, Monachii 1962 (in pubblicazione); E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. ’Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione, «La Scuola Cattolica» 96 (1968) gennaio-aprile.

[33] O. Rousseau, op. cit., 279-296.

[34] Y. Congar, Notes sur le destín…, cit., 113-127; G. Alberigo, Lo sviluppo della dottrina sui poteri nella Chiesa universale, Roma 1964, 4-7.

[35] Secondo Y. Congar (Notes sur le destín…, cit., 118-127), l’idea della collegialità episcopale fu «confiscata» nel medioevo dalla dottrina del diritto divino del collegio cardinalizio. Cfr. anche M. García Miralles, El Cardinalato de institución divina y el Episcopado en el problema de la succesión apostòlica según Juan de Torquemada, in: XVI Semana Española de Teologia, Madrid 1957, 249-274.

[36] W. Bertrams, De quaestione circa originem potestatis iurisdictionis episcoporum in concilio tridentino non resoluta, PRMCL 52 (1963), 458-462; G. Alberigo, op. cit., 11-101; H. Grisar, Die Frage der päpstlichen Primates und des Ursprunges der bischöflichen Gewalt auf dem Tridentinum, «Zeitschrift für katholische Theologie» 8 (1884), 453-507, 727-784.

[37] E. Rösser, Die gesetzliche Delegation (Görres-Gesellschaft Sektion für Rechtsund Staatswissenschaft, 26), Paderborn 1937, 113-127.

[38] H. Jedin, Das Bischofsideal der katholischen Reformation, Brügge 1953.

[39] F. Kantzenbach, Luthers Konzilstheologie und die Gegenwart, «Lutherischen Monatshefte» 5 (1966), 169.

[40] Cfr. W. Beinert, op. dt., 8-9.

[41] K. Rahner, Das Zweite Vatikanische Konzil, Kommentare 1, in: Lexikon für Theologie und Kirche, Freiburg 1966, 242-245 (abbr. Kommentare).

[42] W. Beinert, op. dt., 10-11.

[43] La Chiesa particolare esprime la totalità simbolica ecclesiale solo in quanto vive in comunione con la Chiesa universale. La comunione ecclesiale è una dimensione che trascende la sola Chiesa particolare.

[44] Vat. Eccl., 1.

[45] Vat. Eccl., 13.

[46] Vat. Eccl., 11,2; Vat. Late., 11,4.

[47] Vat. Oec., 13.

[48] Y. Congar, Neuf cents ans après…, cit., 84-85.

[49] Questo punto di vista è stato sostenuto dall’arcivescovo Veuillot nella relazione sul Textus emendatus 1964, cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 151, n. 4.

[50] J. Ratzinger, La collegialità episcopale: spiegazione teologica, in: La Chiesa del Vaticano II, cit., 745-747.

[51] Sulla questione cfr. W. Bertrams, II potere pastorale del papa e del collegio dei vescovi, Roma 1967, 62-122; C. Colombo, Costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato, in: La Costituzione «De Ecclesia», a cura di G. Ceriani, Milano 1965, 237-261; K. Mörsdorf, Vrimai und Kollegialität nach dem Konzil. Über das bischöfliche Amt (Veröffentlichungen der Kath. Akademie der Erzdiözese Freiburg), Karlsruhe 1966, 42-45.

[52] Vat. Ep., 36.

[53] Vat. Ep., 37-38; Eccl. Sane., I, 41.

[54] Bisogna distinguere tra l’aspetto formale e materiale della collegialità. Cfr. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1967, cap. 4, § 1 (Kan. Diss. in pubblicazione).

[55] Su tutta la questione cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 228-232, 237-238.

[56] K. Rahner, Bischof und Bistum, in: Handbuch der Vastoraltheologie, I, Freiburg 1964, 167-179.

[57] Mat. Ep., 11,1; 22-23.

[58] Circa la relazione di subordinazione dei due principi, cfr. K. Mörsdorf, Über die Zuordnung des Kollegialitätsprinzips zu dem Prinzip der Einheit von Haupt und Leib in der hierarchischen Struktur der Kirchenverfassung, in: Wahrheit und Verkündigung, M. Schmaus zum 70. Geburtstag, München 1967, II, 1435-1445.

[59] Vat. Eccl., 25-27. La Lumen gentium ha distinto espressamente tra ufficio e potere, perché non fosse confusa la dottrina dei tre uffici con quella dei «tre poteri». Sul rapporto del potere di ordine e giurisdizione con i tre uffici, cfr. K. Mörsdorf, Heilige Gewalt, in: Sacramentum Mundi, Freiburg 1967 ss., II (in pubblicazione), nn. I-III.

[60] Vat. Eccl., 21,2.

[61] Wat. Ep., 8/a.

[62] K. Rahner, Bischof und Bistum, cit., 176; Id., Über den Begriff des «Ius Divinum» im kath. Verständnis, in: Schriften zur Theologie, V, Einsiedeln 1962, 249-277; Id., Über Bischofskonferenzen, in: ibid., VI, Einsiedeln 1965, 438-442.

[63] Wat. Ep., 8/b.

[64] Su tutta la questione, cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 158-161, Exkursus, II, 166-171; Id., Neue Vollmachten und Privilegien der Bischöfe, AfkKR 133 (1964), 82-101.

[65] Mentre il CIC aveva riconosciuto al vescovo un compito prevalentemente negativo di sorveglianza sull’applicazione delle norme liturgiche (cfr. can. 1261), il Concilio, abrogando il can. 1257, gli ha ridato una competenza generale di regolare la liturgia nella sua diocesi a norma del nuovo diritto. Cfr. Vat. hit. 22,1, Instr. Wat. hit. 22; K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, II, Paderborn 196711, 365-370.

[66] Wat. Ep., 31-32; Eccl. Sane., 20-21. Cfr. H. Schmitz, Amtsenthebung und Versetzung der Pfarrer im neuen Recht, «Trierer Theol. Zeitschrift» 76 (1967), 357-371.

[67] Vat. Ep., 28; Eccl. Sane., I, 18.

[68] Vat. Ep., 34-35; Eccl. Sane., 1,22-40. A. Scheuermann, Kommentar zum Ordensdekret des II. Vatikanischen Konzils, in: Das Konzil und die Orden, Köln 1967, 105- 108; Id., Die Ausführungsbestimmungen zu den Konzilsweisungen für die Ordensleute, in: ibid., 122-137.

[69] K. Mörsdorf, Kommentare II, cit., 173.

[70] Cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, AfkKR 136 (1967), 341-391; L. Weber, Der Priesterrat, «Der Seelsorger» 38 (1968), 105-118.

[71] I religiosi sono annoverati tra il clero diocesano, cfr. Vai. Ep., 34, 1.

[72] Y. Congar, Notes sur le destin…, cit., 118.

[73] Per esempio, Vat. Ep., 6; Val. Presb., 10; Vat. Miss., 19,4 e 20,1; Eccl. Sane., I, 1-5.

[74] Per esempio, Vat. Oec., 4, 11; 5 e 10, 1.

[75] Per esempio, Vat. Miss., 20 e 38, 1-2.

Per una valutazione critica post-conciliare delle strutture di una diocesi, il Vaticano II offre un materiale immenso. A rigore non esiste affermazione conciliare che valga esclusivamente per la Chiesa universale, senza avere delle implicazioni con la Chiesa particolare, poiché questa è il luogo dove la Chiesa si realizza concretamente. Ogni documento è carico di dimensioni e prospettive che attendono di essere tradotte sistematica- mente in movimenti religiosi, norme e strutture sul piano diocesano. Il Concilio stesso e la legislazione di applicazione susseguente hanno già dato delle direttive concrete, le quali però difettano ancora di omogeneità essendo frammentarie e sperimentali. In ordine al presente lavoro, che a sua volta non vuole essere un esame analitico esauriente delle strutture di una diocesi, ma solo esprimere alcuni giudizi per fare proposte concrete, abbiamo scelto tra i testi conciliari due idee che ci sembrano fonda- mentali. Prima di tutto l’idea che la Chiesa particolare è la realizzazione della Chiesa universale, nel senso pieno della parola; in secondo luogo quella, congiunta alla prima, che il principio della collegialità investe tutti i settori della vita ecclesiale.

I. La diocesi è la realizzazione della Chiesa universale

1. L’impostazione del problema

Il Concilio ha fatto l’affermazione teologica di fondo sulla Chiesa particolare nell’art. 26 cpv. 1 (348) della Lumen Genti- um (Vat. Eccl.): «Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime comunità locali di fedeli, le quali, in quanto aderenti ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiesa nel Nuovo Testamento. Esse infatti sono, nella loro sede, il Popolo nuovo chiamato da Dio con la virtù dello Spirito Santo e con grande abbondanza di doni»[1].

Questa affermazione è stata introdotta nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa {Vat. Eccl.) in una fase avanzata dei lavori, per cui non ha potuto diventare idea portante della ecclesiologia vaticana con una forza pari a quella della Chiesa universale.

Il Vaticano II è restato ancora fondamentalmente legato alla matrice teologica latina, nella quale ha prevalso l’idea astratta della Chiesa universale. La cultura universalistica medioevale ha soffocato in Occidente la concezione ecclesiologica ecumenica che aveva dominato nel primo millennio[2]. Il Concilio ha saputo tuttavia ripescare la tradizione orientale centrata sull’esperienza concreta della Chiesa particolare. Ha così giustificato pienamente non solo un’ecclesiologia che prende le mosse dalla Chiesa universale ma anche quella che parte dal mistero della celebrazione eucaristica – concepita come luogo dell’incontro concreto tra Dio e l’uomo[3] – e di conseguenza dalla Chiesa particolare[4]. Se al livello sacramentale la Chiesa di Dio si realizza in tutta la sua perfezione simbolica nella celebrazione dell’eucaristia, la Diocesi rappresenta, a livello strutturale, la realtà paradigmatica della Chiesa. Evidentemente la Chiesa particolare è Chiesa nel vero senso della parola solo nella misura in cui realizza gli aspetti essenziali della Chiesa universale e nella misura in cui vive in comunione, il più possibile cosciente, con essa e con tutte le altre Chiese particolari.

Non fu perciò una considerazione di ordine puramente organizzativo che ha indotto il Vaticano II a dare, per la prima volta nella storia dei Concili ecumenici, una definizione descrittiva della diocesi. L’idea di fondo espressa è che la diocesi deve essere una realtà grande a sufficienza (popolo, clero, strumenti e beni sufficienti), per poter realizzare i predicati essenziali della Chiesa universale. Solo così potrebbe inserirsi nel coro pluralistico di tutte le altre Chiese particolari come entità originale, avente una fisionomia e un’autonomia propria, capace di sostenere una testimonianza ed un discorso ecclesiale proprio[5]. Questo implica una duplice conseguenza: la Chiesa particolare, pur mantenendo la sua personalità sociologica, culturale e religiosa propria, deve da una parte vivere la stessa esperienza di apertura mondiale come la Chiesa universale[6] e dall’altra deve possedere tutti quegli organismi che rendono possibile una vita ecclesiale impostata sulla natura essenzialmente comunitaria del Popolo di Dio, la quale si esprime sinteticamente nella celebrazione eucaristica.

2. L’impegno missionario come pietra di paragone

Per illustrare il primo aspetto della questione, quello dell’inserimento della Chiesa particolare nella dinamica ecclesiale universale, l’impegno missionario ha valore paradigmatico.

Nel Decreto sull’attività missionaria della Chiesa (Vai. Miss.), il cui luogo teologico è l’art. 17 della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, il Concilio ha affrontato il problema missionario con un’urgenza ed un’ampiezza dottrinale, sconosciute ai Concili precedenti[7]. La Chiesa è essenzialmente missionaria[8], per cui l’impegno missionario non può essere considerato semplicemente come uno dei tanti settori occasionali della vita ecclesiale. Ogni Chiesa, anche particolare, deve vivere proiettata in missione[9]. A scanso di equivoci, tuttavia, il Concilio ha voluto definire con precisione il significato di missione. L’attività missionaria, nel senso tecnico della parola, consiste nella predicazione della Parola di Dio là dove ancora non è stata predicata. Il Concilio ha distinto così, senza avanzare però spiegazioni, l’attività missionaria dall’attività pastorale comune e dall’impegno ecumenico.

D’altra parte ha fatto una sintesi delle due correnti missio- nologiche, quella prevalente in campo protestante e quella detta curialista, ritenendo che gli elementi essenziali dell’attività missionaria sono due: la predicazione della Parola e la «planta- tio ecclesiae». La predicazione del Vangelo deve sfociare nella formazione di una comunità cristiana.

Il principio fondamentale tuttavia, messo in rilievo dal Concilio, è che tutta la Chiesa porta la responsabilità dell’espansione missionaria[10]. Nei confronti della tradizione precedente, il Vaticano II ha effettuato così un significativo spostamento delle responsabilità e delle competenze. Mentre antecedentemente si poteva avere l’impressione che la responsabilità delle missioni cadesse in ultima analisi solo sulla S. Sede[11], il Concilio ha affermato che tale responsabilità, pur spettando «singulari modo» al papa, incombe a tutto il collegio episcopale[12]. Le più importanti conseguenze tratte da questo principio, nuovo nella sua formulazione, ma che si aggancia alla prassi della Chiesa antica, furono le seguenti: la ristrutturazione di Propaganda Fide con l’inserimento dell’episcopato di tutto il mondo[13]; il diritto delle Chiese orientali di poter esplicare l’attività missionaria nel loro rito[14]; il dovere imposto ai vescovi, non fissato per altro in termini giuridici chiari, di mettere preti della propria diocesi a disposizione delle missioni[15].

L’impegno missionario è posto dal Concilio non tanto in termini di dovere morale individuale per i singoli cristiani, ma, in prospettiva profondamente ecclesiologica, come dovere della comunità cristiana. In termini, perciò, di scambio tra le diverse comunità cristiane; tra Chiesa locale e Chiesa locale[16]. Secondo il Vaticano II ogni diocesi deve inserirsi, come espressione socio-comunitaria, nella dialettica missionaria con una responsabilità propria[17]. Il concetto ripetuto anche in questo contesto, è che la Chiesa particolare deve «riprodurre alla perfezione la Chiesa universale»[18].

Da un punto di vista teologico altri due aspetti della questione ci sembrano essenziali. Prima di tutto l’atteggiamento tipicamente cristiano nell’impegno, sia missionario che caritativo, è quello della condivisione di una situazione[19]. Cristo ha assunto la situazione umana e attraverso questa condivisione totale ha salvato il mondo[20]. Dimenticare questo principio significa correre il rischio di cadere in un processo di colonizzazione. Il movente che spinge il cristiano non è in primo luogo il fatto che in un determinato ambiente ci possano essere dei bisogni religiosi, culturali o materiali, ma il bisogno imperativo di partecipare interamente ad una situazione, condividendone le aspirazioni e le necessità. L’atteggiamento è quello di vivere davvero in comunione, «incorporati vitalmente nella comunità locale». Solo così «l’essere umanamente degli stranieri non farà che risaltare meglio l’universalità del cristianesimo e la forza della Carità, la quale crea il vincolo di totale unità fra le persone che mentalità diverse e sentimenti nazionalistici terrebbero ordinariamente divise e lontane»[21].

Il secondo aspetto da sottolineare è quello del valore edu- cativo-pedagogico dell’impegno missionario. Se una comunità non sa vivere una dimensione missionaria, arrischia di perdere l’essenza dell’esperienza ecclesiale e perciò la coscienza di se stessa[22]. Nella misura in cui una Chiesa locale non è aperta alla comunione viva con gli altri cristiani, si priva anche della «possibilità di realizzare la propria personalità, di essere propriamente e autenticamente cattolica, si impoverisce e riflette una immagine meschina dell’“insondabile ricchezza” del mistero di Dio». La comunione missionaria di una comunità con un’altra Chiesa particolare («plantatio ecclesiae»!) è condizione perché ci sia un arricchimento della comunità di origine. La rinuncia ad un impegno del genere sarebbe un impoverimento, perché preclude il contatto con la vita degli altri membri della Chiesa: fa perdere di conseguenza il senso per l’universalità, che è «lo spazio cui è destinata quella comunione che è l’essenza del cristianesimo». Il senso per l’universalità si genera nell’individuo attraverso l’esperienza del contatto diretto con i problemi della comunità universale che è la Chiesa[23].

3. L’impegno missionario nella diocesi di Lugano

La diocesi ticinese è impegnata in campo missionario in due organismi diversi. Il primo è quello delle Opere Pontificie Missionarie che sfocia nella Giornata Missionaria e nella relativa colletta. Sul piano della formazione, la Giornata Missionaria si riduce spesso al fatto di una predica o, nella migliore delle ipotesi, a quello di una conferenza a livello parrocchiale o di gruppo organizzato tenuta da un missionario di passaggio. Sul piano dell’impegno concreto, l’attenzione è assorbita dalla colletta. Il cristiano medio viene difficilmente toccato nella sua vita personale e nei suoi orizzonti religiosi. Di partecipazione concreta all’esperienza missionaria della Chiesa universale non si può veramente parlare; per lo più si tratta per il singolo di fare un gesto isolato, compiuto in una prospettiva spirituale moralistica e individualistica, che non riesce ad incidere profondamente nella sua problematica ecclesiale e che perciò, oltre ad avere un’incidenza misera da un punto di vista dell’aiuto materiale dato[24], ne ha poca anche sul piano educativo.

Il secondo settore nel quale la diocesi è impegnata è quello del Sacrificio Quaresimale dei Cattolici Svizzeri (sarebbe ora e tempo di designarlo «dei Cattolici in Svizzera»), Qui assistiamo purtroppo, e malgrado il successo relativo riscosso anche nel Ticino, ad una duplice riduzione o impoverimento del significato pedagogico-ecclesiale dello stesso. Da una parte la carica teologica che gli organi centrali cercano di imprimere all’opera, con il ricco materiale preparato dalla Commissione Teologica, viene diffuso tra la popolazione parrocchiale ticinese, su scala minore; dall’altra l’interesse viene assorbito sempre di più, nell’opinione pubblica, dal problema della rifusione dei fondi alla Diocesi per istituzioni il cui carattere diocesano offre spesso il fianco alla critica. Sarebbe troppo affermare che esiste una partecipazione della comunità cristiana ticinese alle iniziative missionarie prese dagli organi centrali e che sia nato un dialogo qualunque con le Chiese in terra di missione. Esiste perciò il pericolo che la problematica religiosa missionaria propria del Sacrificio Quaresimale si riduca ad una problematica penitenziale, di natura moralistica: ad un modo organizzato con fantasia nuova per assolvere il proprio dovere caritativo. Educa cioè a compiere la «buona azione», dandole nel confronto di un tempo una dimensione comunitaria-eucaristica più spiccata, la quale rimane però un gesto in favore di un prossimo anonimo, senza che avvenga con esso uno scambio di esperienza al livello personale ed ecclesiale, con la condivisione di una situazione.
Tutte e due le iniziative peccano di astrazione, perdendo così molto del loro valore educativo sul piano teologico-religioso. Ciò è da attribuire probabilmente anche al fatto che la diocesi è inserita in opere dirette sostanzialmente da altri, che per la loro stessa struttura sfuggono forse alla possibilità di un impegno più diretto e concreto. Almeno per quanto riguarda il Sacrificio Quaresimale, ci sembra urgente evitare di lasciarlo cadere nella «routine». Il Comitato diocesano del Sacrificio Quaresimale non dovrebbe ridursi ad essere una commissione di carattere tecnico, che assolve il suo compito nell’approvare i vari progetti di sussidio. Il MP Ecclesiae Sanctae domanda che in ogni diocesi ci sia un sacerdote incaricato di portare avanti il discorso missionario[25]. Esistendo già una commissione, niente impedirebbe di allargare il suo raggio d’azione e la sua competenza a tutto il problema delle missioni, in modo da diventare attiva, in seno alla diocesi, come altre commissioni sul piano informativo, formativo e organizzativo dell’impegno missionario. In questa prospettiva si potrebbe pensare seriamente anche alla possibilità di creare un’opera missionaria propria della diocesi, la quale sarebbe pure raccomandata dal Concilio[26]. Non si tratta di mettere in secondo ordine gli impegni ufficiali inter- diocesani già esistenti[27] e neppure di sottovalutare le numerose iniziative missionarie private. Queste hanno del resto, spesso, solo carattere occasionale e peccano facilmente di unilateralità, sia per quello che concerne le persone aiutate, sia per lo stile e i mezzi con i quali sono condotte. Non sempre sanno superare la tecnica della strumentalizzazione reclamistica, propria della civiltà dei consumi, dimenticando perciò di far emergere in primo piano i valori ecclesiali di fondo. L’impegno missionario ha un significato religioso-ecclesiologico che l’impegno umanitario per l’aiuto ai Paesi in via di sviluppo non ha necessariamente; perciò non dovrebbe andare perso.

In sostanza si dovrebbe partire dal principio che un’opera, quanto più è concreta e percepita come propria, tanto più educa a sostenere anche le iniziative più astratte, su scala nazionale e internazionale. Si potrebbe perciò pensare, senza aver paura che la moltiplicazione delle iniziative provochi un annacquamento generale – l’organizzazione dell’Adveniat dopo la Mise-reor ha dimostrato in Germania esattamente il contrario -, di fare un «gemellaggio» della diocesi con una Chiesa missionaria. E un’iniziativa molto diffusa in altri Paesi ed offre il vantaggio di concretizzare l’impegno missionario con estrema precisione, di creare un rapporto tra comunità e comunità, tra persone, tra facce concrete, tra gruppi di lavoro, tra il clero, seminaristi e laici delle due Chiese particolari; essa genera scambi culturali, una condivisione profonda di situazioni concrete, suscita vocazioni ecclesiali, preghiere per situazioni, aspirazioni, bisogni ed esperienze concrete.

Il problema missionario in una diocesi deve essere percepito come risposta ai segni dei tempi e di conseguenza come strumento efficacissimo sul piano della pastorale comune. La gioventù moderna ha dimostrato abbondantemente di lasciarsi affascinare da una problematica universale, dal problema della pace, della fame nel mondo, della giustizia sociale. Il problema missionario sta, ecclesiologicamente, allo stesso livello universale; offre perciò, da un punto di vista religioso, una risposta risolutiva alle esigenze spirituali dell’uomo moderno, perché lo tocca nella struttura più sensibile della sua coscienza. L’impostazione dello stesso, di conseguenza, non deve essere vista solo nella prospettiva del possibile e magari debole aiuto che si può offrire inizialmente agli altri, ma come possibilità pastorale di far riscoprire nella comunità di origine i valori religiosi ecclesiali di fondo, permettendo un superamento di ogni tipo di pastorale individuale moralistica, che non ha più grande incidenza, non solo per il giovane, ma anche per il cristiano maturo che capisce come la sua esperienza religiosa sia stata impostata con un’angolatura troppo stretta.

Il contributo specifico che la Chiesa deve dare alla soluzione dei problemi della pace e della fame nel mondo, che sostanzialmente sfuggono alla sua competenza e alle sue possibilità dirette e che hanno fatto saltare, però, anche ogni tipo di etica borghese, è quello di educare i cristiani ai valori universali, attraverso un’esperienza religiosa impostata sul carattere tipicamente universale, cattolico, della comunione ecclesiale. Il cristiano che ha percepito, con l’autenticità dell’esperienza concreta, il valore universale della missione, non può restare indifferente ai problemi dell’umanità, a qualsiasi livello di rapporti umani, sociali, politici e culturali essi si pongano.

Esiste un Movimento Ticinese per la fame nel Mondo che ha raccolto un vasto consenso nell’opinione pubblica; esistono missionari usciti dalle fila del clero e del laicato diocesano. Sono punti di riferimento che dovrebbero essere presi in considerazione per inserire una eventuale opera missionaria diocesana su elementi già esistenti dato che hanno già sensibilizzato larghi strati della popolazione.

L’apertura della diocesi a responsabilità dirette in seno alla Chiesa universale va di pari passo con la riscoperta della propria coscienza ecclesiale, della propria fisionomia e vitalità religiosa. Diventa perciò un problema pastorale di capitale importanza. Il Consiglio Pastorale dovrebbe dargli perciò ogni priorità, per non arrischiare di cercare la soluzione dello stagnamento della vita religiosa con soluzioni a corto metraggio. L’impostazione del problema missionario è determinante per una rinascita religiosa postconciliare, che deve risolvere su scala mondiale il problema dell’ateismo. Ha valore anche paradigmatico nei confronti degli altri problemi che si pongono, pastoralmente, sullo stesso livello universale, come quello ecumenico, per il quale si potrebbe ripetere, di conseguenza, sostanzialmente lo stesso discorso.


II. Le implicazioni diocesane del principio della collegialità

1. Limiti ed estensione del principio collegiale

a) Il collegio episcopale

Il Vaticano II ha riscoperto in modo definitivo, e con ricchezza di prospettive teologiche, il principio tradizionale della costituzione della Chiesa[28], secondo il quale tutto l’episcopato porta una responsabilità collegiale nel governo della Chiesa[29]. Il principio della collegialità è emerso come formulazione eminentemente teologico-giuridica dalla dottrina della comunione ecclesiale, la quale, malgrado non sia riuscita – sorprendentemente, se si tien conto della facile vena antigiuridica assunta talvolta dai Padri conciliari ad esprimersi con tutta la ricchezza che le sarebbe propria, lega come tenue tessuto di fondo tutta l’ecclesiologia vaticana[30].

D’altra parte, il Concilio non è riuscito ad esaurire neppure il significato del principio collegiale. Dopo aver percepito il mistero della «communio» come essenza della vita ecclesiale, ha saputo tradurre esplicitamente questa realtà in termini operativi e strutturali solo al livello supremo della piramide gerarchica della Chiesa. Terminológicamente infatti ha riconosciuto il carattere collegiale solo al corpo universale dei vescovi, uniti in comunione gerarchica con il papa. E stato questo un espediente discutibile per esprimere che solo il collegio universale di tutti i vescovi, con a capo il papa, può rivendicare un potere ed un’autorità universale e suprema su tutta la Chiesa. In realtà è fuori dubbio che anche le altre forme sinodali episcopali, al livello della Chiesa particolare, hanno carattere collegiale sia in senso teologico che giuridico[31]. Esse infatti possono rivendicare sulla Chiesa particolare loro affidata un’autorità, che non è la somma del potere dei singoli vescovi, ma un potere del collegio particolare in quanto tale: un potere collegiale.

Se la comunione è l’essenza della vita ecclesiale, il sistema collegiale deve essere considerato sul piano strutturale, e tenendo conto dell’analogia che si impone ai diversi livelli, come espressione tipica del regime ecclesiale. D’altra parte, dato che la «communio» è «kierarchica»[32], anche il regime collegiale implica necessariamente una dimensione autoritativa-personale. La collegialità trova il suo equilibrio e punto di riferimento attorno al principio gerarchico dell’unità tra Capo e Corpo[33].

Il termine collegiale non è di origine canonica ma di importazione romana[34]. Etimologicamente perciò non può esprimere con adeguatezza la realtà che è chiamato a significare, perché essa non è fondata sulla eguaglianza di funzione dei diversi membri del Popolo di Dio. Il termine sinodale, che può vantare una tradizione più forte e ininterrotta specialmente grazie alla Chiesa orientale e che non è stato confiscato dal Vaticano II per nessuna struttura particolare (il collegio universale dei vescovi), potrebbe essere usato per esprimere la struttura operativa della «communio ecclesiastica» a tutti i livelli.

Sarebbe anche urgente del resto eliminare dalla terminologia teologica (o para-teologica) ogni concetto importato dai sistemi politici statali[35], essendo questi radicalmente inadeguati ad esprimere la realtà della Chiesa[36]. L’idea di democrazia può connotare l’uguaglianza di tutti i cristiani di fronte a Dio in ordine alla salvezza, ma poiché implica in modo essenziale il concetto che il potere viene dalla base, è incompatibile con la struttura della costituzione ecclesiale. Il termine monarchia a sua volta riesce ad esprimere l’idea di subordinazione delle funzioni, ma snatura il regime proprio della Chiesa, perché le istanze ecclesiali inferiori hanno spesso una giustificazione propria, un potere canonico proprio, una competenza e una responsabilità inalienabile che non è derivata dall’alto.

b) Il presbiterio

L’autonomia originale delle diverse istanze ecclesiali inferiori è solo analogica. Il rapporto che intercorre tra il papa e il collegio dei vescovi – di cui egli è membro e capo – non è uguale a quello che intercorre tra il vescovo e il presbiterio (di cui è membro e capo)[37] o tra il presbiterio (con il vescovo) e il laicato. Il legame tra papa e vescovi non è un legame di dipendenza di potere, ma un legame di comunione[38]. I vescovi rappresentano in seno al collegio la propria Chiesa particolare, la quale ha per diritto divino un’esistenza e un’autonomia propria anche se non assoluta. I sacerdoti per contro non rappresentano in seno al presbiterio una Chiesa particolare propria, anche quando dovessero essere parroci. La parrocchia infatti non sta sullo stesso piano della diocesi perché è una realtà che ha giustificazioni e autonomie proprie fondate solo sul diritto positivo canonico. Ne consegue che la diocesi non è data dalla somma delle parrocchie, perché sono Chiese particolari solo in senso analogico rispetto alla diocesi o alla comunità eucaristica, e in ultima analisi semplici circoscrizioni amministrative, alle quali il Diritto canonico ha riconosciuto per ragioni storico-pratiche una certa autonomia (giurisdizione ordinaria propria del parroco, almeno in foro interno)[39]. La diocesi non nasce, in altre parole, dalla «communio» delle parrocchie tra di loro, ma dalla «communio» di tutto il Popolo di Dio che fa capo ad essa. E perciò la realtà prima e originale.

Seguendo questa linea di pensiero, si capisce perché il Vaticano II ha invertito, nei confronti della teologia medioevale, che si era ispirata a San Gerolamo, il modo di affrontare il problema del rapporto sacramentale tra sacerdozio ed episcopato. Come punto di partenza non ha più preso il sacerdozio ma l’episcopato. Da esso deriva l’ordine sacerdotale, nel senso che questo consiste in una partecipazione alla pienezza del sacerdozio del vescovo[40]. Ciò non significa che il presbiterato non sia necessario, di necessità divina, nella Chiesa, come qualche volta si è pensato, quasi che si sia ramificato dall’episcopato solo per pratiche ragioni di supplenza[41]. La teologia moderna si orienta ancora nel senso di ritenere il presbiterato come necessario[42].

In questa prospettiva, anche la funzione del presbiterio in seno alla diocesi assume un valore più preciso. La diocesi non è concepibile senza il suo capo naturale; il vescovo a sua volta, non è immaginabile senza il presbiterio. Vescovo e presbiteri formano un’unità sinodale, il presbiterio. I presbiteri hanno una giustificazione propria sia perché rappresentano direttamente Cristo nell’atto di amministrare i sacramenti, sia perché sono i consiglieri necessari del vescovo nel governo della diocesi: essi portano una responsabilità collettiva che non è riducibile a quella personale del vescovo, anche se è ordinata ad essa[43]. Non fa perciò meraviglia riscoprire che il regime della Chiesa particolare (diocesi), sia nato e sopravvissuto fin a Medioevo inoltrato non come regime puramente episcopale, ma sinodale. Il regime delle Chiese antiche era sinodale; avevano a capo un collegio di presbiteri[44] in mezzo ai quali, già a partire dall’inizio del il secolo, la teologia ha saputo identificare la figura del vescovo come capo del presbiterio. Esso si era staccato chiaramente dagli altri presbiteri appellandosi alla dottrina della successione apostolica[45]. Non era perciò un regime democratico presbiterale, ma gerarchico.

Il regime sinodale si è indebolito man mano che l’evangelizzazione dalla città, dove il presbiterio era riunito attorno al vescovo, si estese alla campagna creando la figura del parroco, autonomo per molti aspetti nei confronti del vescovo, ma soprattutto slegato da un rapporto di responsabilità diretta nei confronti di tutta la Diocesi[46].

Questa responsabilità restò nelle mani del clero cittadino e si concentrò a partire dal IX secolo in quelle del clero della cattedrale, il quale nel Xl-Xll secolo prese il nome di capitolo cattedrale[47]. Ad esso toccò la sorte, con mezzi sempre più ridotti e inadeguati, di conservare nella tradizione ecclesiale la dimensione sinodale propria del presbiterio.

c) Il laicato

Il terzo livello al quale si estende il principio sinodale è quello dei laici. Come per il presbiterio, anche per la partecipazione dei laici alla responsabilità ecclesiale, il Concilio non usa il termine di collegialità. Non sarebbe tuttavia estraneo al pensiero teologico vaticano parlare di responsabilità sinodale anche per i laici, visto che anche i laici, come i vescovi e i presbiteri, partecipano «suo modo et prò parte» al sacerdozio, al magistero e alla regalità di Cristo.

Se la definizione teologica del laicato dovesse prendere le mosse dalla sua competenza specifica nei confronti delle realtà terrestri, sarebbe difficile giustificare le loro corresponsabilità nell’ordine spirituale dell’apostolato della Chiesa. D’altra parte l’apostolato della Chiesa è uno e comprende sia l’ordine spirituale che quello temporale, poiché la «salvezza degli uomini abbraccia pure la instaurazione di tutto l’ordine temporale»[48]. La definizione del laico, anche in ordine alla missione temporale, può essere fatta, di conseguenza, solo tenendo conto del fatto che il laico è tale non perché è semplicemente uomo e vive nel secolo, ma perché è membro della Chiesa.

All’art. 31,1 (362) della Lumen gentium, il Concilio ha dato la definizione teologica del laico, partendo dalla sua partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. E un’affermazione di fondo che il Concilio stesso non ha sempre rispettato in modo coerente. Da una parte infatti dimentica generalmente[49], negli altri testi, che i laici partecipano anche all’ufficio regale; dall’altra, nel cpv. 2 dell’art. 31 (363) sembra definire il laico in forza anche della sua indole secolare. Se si dovesse considerare questa seconda affermazione della Lumen gentium, ripetuta con molta frequenza specialmente nel Decreto sull’apostolato dei laici ( Vat. Laic.), sullo stesso piano teologico della prima, l’antinomia sarebbe inevitabile. Questa seconda affermazione non può avere il carattere di una definizione teologica, ma semplicemente quello di una constatazione di ordine sociologico, tanto più che l’indole secolare non è esclusiva dei laici[50].

Il laico, grazie alla sua esperienza secolare, è in grado di dare un apporto specifico all’impostazione dell’apostolato della Chiesa. Questa competenza tuttavia non dà la giustificazione teologica ultima della sua funzione costituzionale e della sua responsabilità all’interno del Popolo di Dio. Il luogo teologico del laicato è dato dalla sua partecipazione diversa qualitativamente (non tanto quantitativamente) ai tre uffici di Cristo[51]. Ne consegue che anche le altre distinzioni fatte dal Concilio in merito alla partecipazione dei laici all’apostolato della Chiesa – come per esempio quella circa l’apostotato gerarchico – possono essere spiegate solo come tentativo di salvare posizioni interlocutorie del magistero e della letteratura teologica. In realtà esse hanno semplicemente un carattere descrittivo e indicativo. Esse devono essere recuperate partendo dal principio fonda- mentale della partecipazione del laico all’apostolato globale della Chiesa in forza del suo carattere sacerdotale, profetico e regale[52]. L’unità della Chiesa e l’unitarietà del suo apostolato possono essere salvati solo partendo da questa premessa.

Una teologia del laicato, che prende come spunto l’indole secolare dello stesso e di conseguenza la sua non sempre rettamente valutata autonomia nei confronti della gerarchia, conduce inevitabilmente a creare nella Chiesa una duplice gerarchia, una clericale ed una laicale[53]. L’unità di fondo dell’apostolato della Chiesa e la funzione qualitativamente diversa dei membri del Popolo di Dio, e non la loro diversa situazione sociologica, devono essere prese come base teologica per definire la funzione specifica del sacerdozio ministeriale e del laicato nelle strutture della Chiesa. Infatti la loro diversa situazione sociologica potrebbe anche scomparire, quando i presbiteri dovessero riprendere ad esercitare una professione secolare come nella Chiesa antica[54].

Da queste premesse si deve dedurre la conseguenza che all’interno degli istituti ecclesiali, ai quali è affidato il compito di rappresentare e realizzare l’apostolato della Chiesa nella totalità della sua missione (come la Diocesi e la parrocchia), la struttura unitaria gerarchico-sinodale della Chiesa deve essere rispettata fino in fondo. Ciò esclude da un punto di vista teologico che possano essere introdotti elementi strutturali essenziali che facessero capo alla situazione sociologica diversa nella quale vivono le varie categorie di persone del Popolo di Dio.

2. Le moderne strutture sinodali diocesane

Dalla coscienza sinodale del Concilio sono emersi sul piano delle strutture tre istituti fondamentali per la vita della Chiesa particolare: il Consiglio del Clero, il Consiglio Pastorale e i Consigli proposti dal Decreto sull’apostolato dei Laici (art. 26).

a) Il Consiglio del Clero (CC) e il Consiglio Pastorale (CP)

Il Consiglio del Clero ha il compito di rappresentare il presbiterio e di assistere il vescovo nel governo della diocesi[55]. Il Concilio non è andato oltre nell’analisi di questo istituto. L’orientamento della letteratura teologica in merito è duplice[56]. Il primo tende a riconoscere al CC una competenza generale in tutte le questioni che interessano la vita diocesana. Il secondo riduce il campo dello stesso agli interessi specifici del clero diocesano, cioè del presbiterio[57], superando così il problema della ripartizione delle competenze tra il CC e il CP.

Al Consiglio Pastorale il Vaticano II ha dato il compito di consigliare il vescovo, mettendo l’accento sulla sua funzione di organismo di studio e di ricerca[58].

La differenza essenziale dei due consigli sta nel fatto che solo in quello pastorale sono rappresentati i laici. In realtà una ripartizione di competenze fatta in base alla distinzione tra problemi pastorali e problemi che toccano gli interessi specifici del presbiterio non sfugge ad una certa arbitrarietà[59]. La presenza dei laici induce ad estendere le competenze del CP a tutti i settori della vita pastorale che non possano eventualmente essere qualificati strettamente come interessi di categoria. Anche questi ultimi tuttavia appartengono all’ambito generale della vita pastorale e come tali perciò non sfuggirebbero del tutto all’interesse del laicato. E inevitabile perciò che il CP diventi, con il tempo, il vero organo consultivo del vescovo per tutti i problemi pastorali diocesani. A prima vista si potrebbe pensare che sarebbe stato più logico creare un unico consiglio comprendente chierici e laici riservando gli interessi di categoria alla competenza specifica di commissioni subordinate allo stesso. È un fatto invece che il CC non potrebbe essere ridotto a gremio subordinato al CP. Ciò creerebbe uno squilibrio nella compagine gerarchica della Chiesa. Il presbiterio è direttamente unito e subordinato al vescovo di cui è la corona e a cui il vescovo stesso appartiene. Di conseguenza deve rimanere un gremio nel quale l’incontro tra il vescovo e i presbiteri è immediato[60].

b) I Consigli diocesani, vicariali e parrocchiali

Il terzo tipo di istituto creato dal Concilio per impegnare tutte le categorie di persone del Popolo di Dio a tutti i livelli strutturali in una responsabilità comunitaria o sinodale sono i consigli parrocchiali, vicariali e diocesani ecc. di cui si è fatto promotore il Decreto sull’apostolato dei laici (art. 26).

Anche in questo caso il Concilio non si è occupato a fondo della questione. Le indicazioni date sono molto sommarie e lasciano molto spazio a realizzazioni che tengono conto dei fattori storici, sociologici e religiosi di ogni singola Chiesa particolare.

Alcune indicazioni di fondo tuttavia si possono leggere anche nei testi conciliari. Prima di tutto non si tratta di consigli laicali, ma di organismi nei quali clero e religiosi collaborano con i laici. Il testo definitivo del cpv. 3 (1013) ha sostituito la congiunzione «et» con «cum», mettendo così l’accento su una prevalenza laicale[61]. Il compito assegnato dal Concilio a queste consulte dovrebbe essere quello di coordinare l’attività di tutti i gruppi di apostolato riconosciuti o di libera formazione.

Questi si diversificano inoltre nettamente da tutte le altre associazioni o gruppi di apostolato, non tanto per il fatto di avere carattere officiale, ciò che può essere comune anche ad altre associazioni come per esempio all ‘Azione Cattolica, ma perché sono gremì destinati a diventare organi strutturali della costituzione della diocesi. Sono strutture erette parallelamente e in stretta connessione con gli uffici tradizionali del Diritto canonico, come la parrocchia e il vicariato foraneo. Sono perciò destinati a diventare gli organismi sinodali dell’ufficio parrocchiale, vicariale ed episcopale, i quali tuttavia non possono sostituire il parroco o il vicario foraneo nella loro responsabilità personale gerarchica ultima, allo stesso modo che il CC non può sostituire il vescovo.

Un terzo carattere che il Concilio ha dato a questi organismi è quello di essere organi consultivi. Su questo punto le interpretazioni e la prassi sono tuttavia discordi. Infatti la tendenza di fare di questi consigli dei gremì corporativi con voce non solo consultiva ma deliberativa, dove il parroco e i vicari foranei siedono non nella loro funzione gerarchica, ma semplicemente come membri «inter pares», si è subito manifestata. In Germania, appoggiandosi al modello della preesistente organizzazione dell’Azione Cattolica che fa capo al Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi, si è fatto di questi nuovi gremì degli organismi che culminano in una gerarchia laicale contrapposta a quella clericale, spaccando così l’unità del principio gerarchico della Chiesa. Dal momento che a questi consigli è stata riconosciuta una competenza che si estende sostanzialmente a tutti i settori della vita ecclesiale, una struttura che culmini in una gerarchia, che non sia quella fondata negli uffici ecclesiali, non è teologicamente giustificabile. La Chiesa nella totalità della sua funzione pastorale, sia universale che particolare, non può essere rappresentata da una gerarchia laica[62].

La possibilità di allargare la competenza di questi organismi a tutti i problemi della vita ecclesiale, nelle rispettive delimitazioni territoriali, oltre ad essere già insinuata dal testo conciliare (cpv. 1), è insita nella natura delle cose. Infatti rispetterebbe fino in fondo il principio che anche i laici portano una responsabilità globale di fronte ai problemi della vita ecclesiale, senza dire che, in pratica, il compito di coordinare le attività degli altri gruppi (Azione Cattolica, gruppi caritativi, di formazione culturale religiosa, ecc.) farebbe inevitabilmente straboccare il loro raggio di azione in tutti i settori della vita pastorale[63]. Questi consigli vengono ad avere di conseguenza sostanzialmente lo stesso raggio d’azione pastorale del parroco e del vicario foraneo. Se fossero organizzati su base corporativa-democratica nascerebbero conflitti di competenze con coloro che sono investiti degli uffici canonici verso i quali sono ordinati (parroco, vicario foraneo). In Germania si è cercato di rimediare a questo stato di cose, originato dalla falsa impostazione data ai consigli stessi, introducendo negli statuti clausole di emergenza, come il diritto di veto del parroco[64]. Ciò non fa che mettere in evidenza l’errore democratico di fondo. Se questi consigli vogliono essere organi rappresentativi sinodali della comunità cristiana, nella totalità dei suoi interessi pastorali, non possono prescindere dalla struttura gerarchica che è propria alla stessa. Di conseguenza non possono avere nei confronti sia del parroco che del vicario foraneo, come del vescovo, che una funzione consultiva, la quale naturalmente può manifestarsi tecnicamente nella forma della votazione. Ciò che non deve essere perso di vista è che la funzione dell’ufficio ecclesiale, proprio perché è servizio, è quella di garantire l’unità della comunità cristiana. Questa responsabilità, che all’occorrenza potrebbe consistere anche nel proteggere una minoranza, è propria delle persone investite dell’ufficio canonico. E un dovere e un diritto inalienabile che non può essere esercitato da una frazione maggioritaria della comunità. Un voto deliberativamente vincolante può eventualmente essere riconosciuto a gruppi laicali o anche misti quando la loro competenza fosse limitata a determinati settori della vita ecclesiale come, per esempio, quello dell’amministrazione dei beni ecclesiastici[65]. Anche su questo punto tuttavia l’esperienza fatta nel corso della storia della Chiesa non deve essere dimenticata. Negli Stati Uniti d’America i Trustees laici hanno costantemente minacciato – grazie alla loro struttura corporativa di diritto privato – di bloccare l’azione pastorale della Chiesa, che pure, fin dall’inizio della sua storia, ha avuto una profondissima impostazione sinodale[66].

L’efficacia del voto consultivo non deve essere d’altra parte sottovalutata, soprattutto se dovesse essere riconosciuto a questi gremi un diritto di consultazione con la conseguenza giuridica di rendere invalidi gli atti posti dal titolare dell’ufficio ecclesiale (parroco, vicario foraneo) compiuti senza previa consultazione (can. 105 )[67].

3. Struttura sinodale della diocesi di Lugano

La diocesi di Lugano è stata tra le prime ad erigere in Svizzera il Consiglio del Clero[68]. Laboriosa e polemica si è dimostrata per contro la costituzione del Consiglio Pastorale[69].

A) Al CC, data la precedenza cronologica avuta, sono state riconosciute competenze generali, mentre il CP ha assunto prevalentemente la figura di un organismo di studio il quale, salvo il giudizio diverso dell’Ordinario, sottopone i suoi lavori per una deliberazione definitiva al CC. Questa clausola (CP art. 12) cerca di salvare da una parte l’unitarietà del processo consultativo nei confronti del vescovo, dall’altra di superare il difficile problema della delimitazione delle competenze tra i due Consigli. L’esperienza raccolta sarà decisiva in vista della elaborazione degli statuti definitivi.

B) Il punto critico per la costituzione del CP fu quello della procedura per la designazione dei laici[70]. Manca infatti una struttura diocesana dove i laici siano organizzati globalmente, tenendo conto delle diverse forme di apostolato, in modo da essere rappresentativa in seno alla diocesi di tutto il laicato. La necessità di avere una base elettorale per il CP, ma soprattutto quella di riconoscere al laicato una responsabilità generale nella vita della comunità cristiana, rende urgente la costituzione dei Consigli proposti all’art. 26 del Decreto sull’apostolato dei laici.

a) Sarebbe illusorio credere che la vita sinodale possa essere vissuta al livello superiore delle strutture, quando non fosse sostenuta da un’impostazione comunitaria capillare della vita di tutto il Popolo di Dio[71], a meno di degradare la prima al livello di un’attività parlamentare. Si tratta perciò prima di tutto di dare una struttura alla parrocchia che rispecchi la natura specifica della comunità cristiana. L’attuale Parrocchia creata dalla Legge sulla libertà della Chiesa cattolica e sull’amministrazione dei beni ecclesiastici del 28 gennaio 1886 (LCE), come struttura corporativa statale, è inservibile a questo scopo. Parte da presupposti filosofico-giuridici inconciliabili con le esigenze canoniche. Non fa meraviglia perciò il fatto che non sia mai riuscita neppure di fatto a sviluppare un movimento comunitario parrocchiale. I fondamenti statutari della LCE, che da un punto di vista canonico non possono essere accettati soprattutto se dovessero essere confrontati con le nuove esigenze conciliari, sono noti. Possono essere riassunti nelle voci seguenti: struttura democratico-corporativa, esclusione della donna e del cittadino non svizzero, limitazione delle competenze all’amministrazione di una parte dei beni ecclesiastici, competenza dell’assemblea parrocchiale di decidere sulla fusione o sul dismembramento delle parrocchie, soggezione al potere di vigilanza anche dello Stato, da ultimo il fatto che gli organi parrocchiali agiscono primariamente in nome dello Stato[72].

Dalle competenze della costituenda Comunità parrocchiale, il cui organo esecutivo potrebbe essere una Consulta parrocchiale, devono essere sottratte, fino al momento di una eventuale revisione della LCE, quelle proprie dell’attuale Parrocchia e del Consiglio parrocchiale. Bisognerebbe però anche evitare di delegare a quest’ultimo tutte le altre competenze finanziarie che interessano la Comunità parrocchiale. Il coordinamento e l’unità, anche su questo punto, dovrebbero essere raggiunti piuttosto incorporando nella Consulta parrocchiale il Consiglio parrocchiale stesso, almeno con la maggioranza assoluta dei suoi membri. Questi potrebbero diventare di fatto i portavoce della Consulta in seno al Consiglio parrocchiale[73].

La Consulta parrocchiale, presieduta dal parrocco, dovrebbe essere composta da membri di diritto (eventuale clero parrocchiale, rappresentanti dei religiosi residenti in parrocchia, del Consiglio parrocchiale, dei gruppi di apostolato), da membri eletti dalla Comunità parrocchiale e da membri designati (pochi) dal clero parrocchiale. La Consulta dovrebbe essere interrogata su tutte le questioni che interessano la parrocchia e potrebbe godere del voto deliberativo nel settore finanziario, che non dipende dall’Assemblea o dal Consiglio parrocchiale.

Tuttavia, visto che il vescovo è il responsabile ultimo del- l’amministrazione dei beni ecclesiastici (can. 1519) e che il Vaticano II non ha abbandonato questa posizione tradizionale, sarebbe opportuno riconoscere al parroco un diritto di ricorso in materia al CP, il quale prepara una proposta di decisione per l’Ordinario. Là dove non si pone il problema di una eventuale riunione o dismembrazione delle parrocchie, la Comunità parrocchiale potrebbe anche essere eretta a persona morale canonica[74], come tale rappresentata dal parroco o da chi ne fa le veci; automaticamente acquisterebbe anche il carattere di ente di diritto pubblico statale[75].

b) Sulla scorta di queste premesse, dovrebbero essere organizzati anche i Vicariati foranei[76], prendendo come base il progetto in corso che prevede la divisione della diocesi in 5 (o più) vicariati, con possibili regioni pastorali[77]. Gli organi del vicariato dovrebbero essere: 1. il Vicario foraneo, nominato dal vescovo su proposta di 2 o 3 candidati presentati dall’Assemblea vicariale. Le competenze personali, oltre a quelle di convocare e dirigere il Consiglio e l’Assemblea vicariali, devono essere stabilite tenendo conto dei can. 445-450, della LCE (art. 32-36), del RLCE (art. 42) e delle indicazioni date dal MP Sane. (I, art. 19); 2. il Consiglio vicariale, composto dal vicario foraneo, dai membri ecclesiastici e laici del CC e CP, dai principali responsabili ecclesiastici e laici della pastorale d’assieme vicariale, dai rappresentanti dei principali gruppi d’apostolato del vicariato e da eventuali laici eletti dall’Assemblea vicariale. Il Consiglio elegge un proprio segretario ed è responsabile dell’organizzazione della pastorale d’assieme vicariale. Considerando il fatto che il Consiglio vicariale non rappresenta tanto la struttura operativa di una comunità eucaristica, ma ha piuttosto il carattere di organo di coordinazione, e che d’altra parte il Vicario foraneo ha delle competenze personali, il Consiglio decide con voce deliberativa[78]; 3. l’Assemblea vicariale, composta dal clero residente nel vicariato, dai rappresentanti dei religiosi, da tutti i laici responsabili della pastorale d’assieme, da tutti i rappresentanti laici dei gruppi di apostolato, e da un numero conveniente di laici eletti dalle Consulte parrocchiali[79]. E convocata regolarmente due volte all’anno, studia i problemi della pastorale d’assieme, ha voto consultivo, ma delibera in modo vincolante, anche nei confronti delle Consulte parrocchiali, sui problemi finanziari del vicariato[80]. Anche i vicariati dovrebbero essere eretti a persona morale.

c) Il Concilio prevede anche un Consiglio per la diocesi. Questo per il vero è stato il primo consiglio eretto in Diocesi, ed ha preso il nome di Consulta diocesana per l’apostolato dei laici[81]. Evidentemente è stato eretto al di fuori di ogni contesto che non fosse quello di una difesa, impostata per altro in modo discutibile, dell’Azione Cattolica[82]. È rimasto fino ad oggi atto puramente formale ed è significativo il fatto che non figura elencata accanto alle altre organizzazioni diocesane nel Direttorio diocesano (1969). Il suo scopo è quello di promuovere «l’intesa (sic!) di tutte le Organizzazioni cattoliche laicali della diocesi»; ne «fanno parte i presidenti di tutte le singole Organizzazioni», «è presieduta da un laico». Nessun membro viene eletto. Salvo errore sono stati chiamati a far parte della stessa i presidenti cantonali e regionali di AC e i tre assistenti. Rappresenta perciò solo YAC e il tipo di apostolato che le è proprio; di conseguenza può essere considerata un organo della stessa, dato che ne ripete anche la struttura, ma non un consiglio ai sensi del Decreto sull’apostolato dei laici (art. 26), a cui, del resto, si richiama il decreto di erezione.

Dato che la diocesi di Lugano è piccola, per cui la moltiplicazione degli enti consultivi non è necessaria e potrebbe anche non essere utile, si dovrebbe rinunciare ad un Consiglio diocesano e far confluire gli organismi parrocchiali e vicariali nel CP. I laici del CP potrebbero essere eletti dall’Assemblea vicariale. Il vantaggio sarebbe quello di allargare la base del CP e di evitare un’ulteriore ripartizione di competenze. Dato che il Consiglio diocesano non dovrebbe avere carattere puramente laicale, non rappresenterebbe in definitiva che un inutile doppione del CP.


III. La scelta del vescovo

1. Il problema ecclesiologico

Il principio che la Chiesa particolare incarna e rappresenta nel vero senso della parola la Chiesa universale (7) e quello che tutti i membri del Popolo di Dio portano una responsabilità comunitaria e sinodale nei confronti di tutti i problemi della Chiesa, sia universale che particolare (77), esigono la revisione di molte strutture attuali. Come esempio paradigmatico potrebbe essere preso quello della nomina dei vescovi, che sta diventando ormai acuto in tutta la Chiesa.

Il Vaticano II ha affrontato questo problema solo nella prospettiva dei rapporti tra Chiesa e Stato[83]. Il MP Eccl. Sane. (I, art. 10; 2222) ha percepito invece la problematica, sia pure in modo ancora embrionale, posta dal principio della collegialità episcopale in questo settore. Ha introdotto una modifica di diritto comune nel sistema attuale, non unitario, delle liste che i vescovi ed altre istanze diocesane devono periodicamente inoltrare alla S. Sede con lo scopo di dare orientamenti su eventuali candidati adatti all’episcopato. La modifica prevede che le Conferenze episcopali devono formare ogni anno collegialmente una lista segreta di candidati da mandare a Roma.

Il trend della «democraticizzazione» è ormai presente in tutti i settori della Chiesa e non mancherà di accentuarsi assumendo atteggiamenti contestatari sempre più radicali, se le istanze gerarchiche superiori non dovessero dimostrarsi propense a cedere a quelle inferiori, in nome del principio della sussidiarietà[84], prerogative accumulate per ragioni storiche legittime ma contingenti, che non fossero necessariamente congiunte con l’essenza della funzione ecclesiale loro propria.

La Commissione di revisione del Codice non ha ancora chiuso la discussione in merito al problema della nomina dei vescovi e non è escluso che riesca a fare una svolta nei confronti del diritto codificatorio, verso la tradizione, restaurando nella Chiesa latina il diritto della Chiesa particolare di partecipare in modo giuridicamente vincolante alla scelta del proprio vescovo.

Nella Chiesa antica il vescovo era eletto in sinodi elettorali ai quali partecipavano il popolo, il presbiterio della Chiesa locale, e con funzione determinante anche i vescovi delle diocesi vicine[85]. Il Concilio di Nicea (325, can. 4) ha fissato il numero minimo dei vescovi necessari per l’elezione e consacrazione a tre. Mentre in Oriente il diritto di elezione passò e rimase nelle mani dei vescovi (Nicea 787, can. 3), in Occidente, dopo essere stato usurpato nel periodo carolingio dal potere secolare, fu riconquistato dalla Chiesa con la lotta per le investiture. Alla fine dell’xi secolo è ancora diritto comune che il vescovo sia eletto dal «populus et clerus». Quasi un secolo più tardi i laici sono totalmente estromessi dalle elezioni (Alessandro III) e il diritto del clero passa nelle mani del Capitolo cattedrale che ormai aveva sostituito il presbiterio in tutte le funzioni diocesane più importanti[86]. La susseguente politica di centralizzazione papale, giustificata in parte dalla preoccupazione di estromettere il potere secolare dagli affari ecclesiastici, il quale tramite i Capitoli cattedrale poteva esercitare un forte influsso anche sulla elezione dei vescovi, riuscì, grazie al sistema delle progressive riservazioni, a rivendicare per la Santa Sede il diritto di nomina dei vescovi (Urbano V, 1363). Solo in seguito alla minacciante pressione del conciliarismo la Santa Sede si vide costretta, sulla base di concordati, a restituire il diritto di elezione ai Capitoli cattedrale (Vienna 1448), o a concedere ai principi secolari, sotto forma di privilegio, il diritto di nomina dei vescovi (Concordato con la Francia, 1516). Da parte loro, quelli che non erano riusciti ad ottenerlo, cercarono di controllare l’elezione del vescovo introducendo il diritto di dichiarare «tninus grata» una persona. Con la scomparsa delle case regnanti cattoliche la Santa Sede approfittò, già prima del Codice (can. 329, § 2), per avocare ancora a sé il diritto di libera nomina dei vescovi, che del resto esercitava ormai su larga scala nei Paesi sottoposti a Propaganda Fide[87].

Nessuno potrebbe contestare che la politica centralizzatrice della Santa Sede sia stata, in questo contesto, molto opportuna, non fosse altro che per aver sottratto progressivamente la Chiesa dalle usurpazioni del potere secolare, diventato nell’epoca moderna sempre più integrista. Tuttavia si deve oggi anche riconoscere che le giustificazioni storiche con le quali fu smantellato, dove fu possibile, il diritto di elezione dei Capitoli cattedrale, sono venute a mancare. Da una parte la Secolarizzazione (1803) ha mutato radicalmente la struttura sociologica dei Capitoli cattedrale, un tempo occupati saldamente dalla nobiltà; dall’altra lo Stato democratico moderno ha perso progressivamente e in larga misura l’interesse, ricevuto in consegna dallo Stato assolutista, di mantenere uno stretto controllo nazionale sulla Chiesa. Questo interesse è stato conservato invece dagli Stati totalitari d’impronta marxista o da quelli autoritari che pretendono di richiamarsi ad una tradizione cattolica.

La libertà, e perciò l’unità della Chiesa, non è più minacciata oggi, al di fuori degli Stati totalitari, da forze esterne, ma da fattori interni che trovano il loro punto di coagulazione nella insofferenza contestataria ecclesiale di fronte ad ogni tentativo dell’autorità di conservare ad oltranza prerogative e diritti di monopolio, che non hanno più una base ecclesiologica sufficientemente fondata. L’autorità della Chiesa non è più messa in discussione dallo Stato ma piuttosto dal Popolo di Dio stesso. Il risveglio della teologia della Chiesa particolare e del laicato hanno suscitato in larghi strati del Popolo di Dio l’impressione di essere stati depauperati di diritti goduti non solo nel primo millennio, ma esercitati, sia pure in modo ridotto ma costante, anche dopo la fine del Medioevo. L’atteggiamento di critica disinvolta di molti gruppi spontanei che confondono spesso Chiesa e democrazia, le occupazioni delle Cattedrali, i casi «Isolotto», sono segnali d’allarme. Devono essere accusati con estrema serietà, come segni dei tempi, perché mettono a nudo un profondo disagio di fronte allo stile con il quale l’autorità gerarchica spesso è ancora esercitata nella Chiesa[88]. Per evitare che la contestazione diventi globale e degeneri nello scisma, dovrebbe essere instaurato senza troppe esitazioni un rapporto di trasparenza sempre più profondo tra le esigenze teologiche e la prassi della Chiesa[89]. Di conseguenza anche il problema della nomina dei vescovi deve essere affrontato oggi in una prospettiva più profondamente ecclesiologica.

La scelta del vescovo è un fatto ecclesiale che tocca tutti i cristiani, per cui dovrebbe valere, sia pure tenendo conto del suo valore analogico, il principio di origine giustiniana, ma recepito con profonde sfumature a tutti i livelli dalla Chiesa medioevale, secondo il quale, «quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet». Questa massima giuridica che è entrata nelle Regolae iuris (n. 29) è stata invocata nella tradizione più autentica della Chiesa anche a proposito dell’elezione dei vescovi. Papa Celestino I (422-432) in una lettera ai vescovi deña provincia di Vienne scrive: «Nullus invitis detur episco- pus»; Leone I (440-461) formula nel senso che: «Quipraefectu- rus est ab omnibus eligatur»; nella stessa direzione si muove papa Lucio III (1181-1185). Evidentemente il principio giusti – niano, che originariamente aveva carattere procedurale, è stato applicato nella Chiesa all’ambito del diritto pubblico costituzionale[90].

È un fatto che la nomina di un vescovo ha per sua natura carattere eminentemente pubblicistico. E necessario perciò che su questo punto siano tratte tutte le dovute conseguenze giuridiche. In particolare deve essere garantita forza giuridicamente vincolante a tutti gli atti posti dañe parti che concorrono alla nomina di un vescovo. La procedura attuale deñe liste, che ha la sua origine nel diritto missionario, non ha carattere vincolante per la Santa Sede ma solo informativo[91]. Il risultato di questa situazione giuridica è che troppo spesso la nomina di un vescovo, malgrado il suo interesse vitale per tutta una comunità locale, può avvenire anche solo in base a un gioco di rapporti, conoscenze, influenze personali e interessi di carattere privato. Può avvenire cioè al di fuori deñe liste ufficiali, su indicazioni di persone che non portano nessuna responsabilità istituzionale e, in ultima analisi, nessuna responsabilità giuridicamente determinabile di fronte alla comunità cristiana.

La prassi invalsa di nominare il vescovo prescindendo da ogni istanza locale competente e responsabile di fronte all’opinione pubblica diocesana e di affidarsi sia al giudizio di persone troppo estranee alla stessa, come spesso sono le istanze delle nunziature, oppure legittimate solo ad esprimere un’opinione personale, non è giusta. In definitiva si ripercuote sul clero e sul laicato in un atteggiamento di disinteresse ecclesiale che trova regolarmente la misura di se stesso nella superficialità e nel pettegolezzo con i quali l’opinione pubblica – come si è verificato anche in occasione della recente vacanza della sede episcopale di Lugano – si occupa del problema della successione di un vescovo. Senza dire che in queste condizioni è troppo facile per il clero trovare un alibi per scindere prontamente le proprie responsabilità di fronte al proprio Pastore e di fronte ai problemi che interessano l’intera diocesi costringendo il vescovo, la cui nomina assume l’aspetto di un «actum inter alios ac- tum», in una gravosa e ingiusta posizione di isolamento. («Nul- lus invitis detur episcopus»!).

Il riconoscimento di una responsabilità giuridicamente vincolante e precisa per tutte le parti che dovrebbero concorrere a porre un fatto ecclesiale dell’importanza della nomina di un vescovo implica, sul piano teologico, il riconoscimento della premessa che anche la Chiesa particolare, nella misura in cui vive in comunione con la Santa Sede, gode dell’assistenza ordinaria dello Spirito Santo. È un principio che deve essere applicato rigorosamente anche quando si tratta di scegliere le persone destinate a guidare e perciò a servire in modo eminente la Chiesa particolare. L’assistenza dello Spirito Santo, a cui anche il Vaticano II fa esplicito riferimento[92], significa in questo caso non solo che la persona è stata legittimamente scelta ed ha perciò il diritto di essere accettata come strumento dei disegni di Dio, ma anche che lo Spirito Santo assiste la Chiesa particolare nella scelta del Pastore adatto. Con ciò però non è data nessuna garanzia contro la possibilità di errori umani. Questa deve essere cercata di conseguenza, e nei limiti del possibile, allargando la cerchia delle persone istituzionalmente responsabili della scelta. La breve storia di una diocesi come quella ticinese potrebbe comprovare, del resto, che nessuna garanzia è data neppure quando la scelta avviene solo al livello dei dicasteri romani[93].

Sarebbe anacronistico oggi pretendere di rispolverare semplicemente il diritto di elezione o eventualmente anche di presentazione dei Capitoli cattedrale. La funzione storica avuta da questo istituto, che non ha mai avuto carattere rappresentativo in quanto i canonici non sono mai stati eletti dal presbiterio[94], è probabilmente, nella sua struttura attuale, esaurita. La funzione avuta dai Capitoli cattedrale nella scelta dei vescovi deve essere integrata con quella che dovrebbe essere riconosciuta alle forme sinodali diocesane create dal Vaticano II, le quali sono diventate il vero senato del vescovo[95] e rappresentano tutti i settori (clero e laici) della Chiesa particolare.

Il problema della partecipazione della Chiesa particolare alla scelta del proprio vescovo non sarebbe ancora risolto introducendo semplicemente la procedura delle liste relative[96] anche se a comporle dovessero essere chiamati, oltre al vescovo, anche il Capitolo e i nuovi consigli diocesani. La carenza fondamentale del sistema delle liste sta nel fatto che esse hanno un valore semplicemente informativo per la Santa Sede con la conseguenza di rendere irrilevante anche la responsabilità delle persone che erigono il catalogo dei candidati. Una norma giuridica per poter raggiungere lo scopo intrinseco alla sua natura, quello di creare una coscienza comunitaria ecclesiale, deve anche avere la forza di vincolare giuridicamente le responsabilità di tutte le parti concorrenti a porre l’atto giuridico.

L’unica soluzione che potrebbe risolvere in modo soddisfacente il problema sarebbe quella di istituire un Sinodo elettorale[97] composto dai rappresentanti del Capitolo cattedrale, dei consigli diocesani (del Clero, Pastorale e quello previsto dal Decreto sull’apostolato dei Laici, art. 26, 2), dai vescovi della provincia ecclesiastica a cui la diocesi vedovata appartiene. Il Sinodo elettorale è convocato e presieduto dal metropolita, al quale dovrebbe essere riservato anche il diritto di consacrare il vescovo nominato o eletto. Il compito di questo sinodo può assumere due figure giuridiche diverse: quella di un diritto di presentazione o quello di un diritto di elezione. Trattandosi di un diritto di presentazione, il Sinodo si riunisce e vota una lista di tre candidati tra i quali la Santa Sede nomina il vescovo. Questo sistema avrebbe il vantaggio di lasciare alla Santa Sede la decisione ultima e di intervenire così come elemento equilibratore delle tensioni che una nomina di un vescovo crea sempre in una diocesi. Per un diritto di elezione la procedura dovrebbe essere doppia. In un primo tempo il Sinodo elettorale si riunisce per formare una lista di sei candidati che il Metropolita inoltra alla Santa Sede. Quest’ultima sceglie tre candidati da sottoporre al Sinodo elettorale per l’atto di elezione, dopo il quale si procede subito alla proclamazione dell’eletto. Una simile procedura avrebbe il vantaggio di accentuare le responsabilità degli elettori e la loro solidarietà con il candidato eletto e rispetterebbe meglio anche l’importanza ecclesiale della presenza dell’episcopato della provincia ecclesiastica. Sia nel primo che nel secondo caso sarebbe possibile e molto opportuno far precedere uno scrutinio per lettera da parte del clero. Ogni sacerdote incardinato potrebbe proporre tre candidati. Lo spoglio è fatto dal Sinodo elettorale il quale procede subito alla formazione della propria lista da mandare alla Santa Sede. I primi dodici candidati proposti dal clero fanno stato per la formazione della stessa.

La creazione di un sinodo elettorale avrebbe un profondo significato ecclesiologico e non rappresenterebbe che una traduzione in strutture moderne dell’istituto dei Sinodi elettorali della Chiesa antica[98]. Sarebbe inoltre una soluzione sinodalmente più adeguata di quella in vigore nella Chiesa orientale, dove solo i vescovi hanno diritto di voto[99], perché implicherebbe la responsabilità di tutto il Popolo di Dio senza assumere forme democratiche estranee alla natura della Chiesa.

2. Il problema della nomina del vescovo nel Ticino

Il 24 luglio 1968 è stata parafasata la convenzione tra i rappresentanti della Santa Sede e del Consiglio federale per staccare la diocesi di Lugano da quella di Basilea, con la quale era stata congiunta «aeque principaliter» in seguito al concordato tra la Santa Sede e la Confederazione il 16 marzo 1888[100].

Il Consiglio federale agisce in nome proprio per il problema concernente la disgiunzione delle diocesi, in nome dei Cantoni per i problemi che interessano i loro rapporti interni con la Chiesa (per esempio clausole economiche, la nomina del vescovo)[101].

Il nuovo concordato corona definitivamente un’aspirazione ticinese che nella sua sostanza risale già alla fine del xvi secolo. Vicende storiche e politiche di varia natura non hanno mai permesso di realizzare questa rivendicazione nella sua pienezza[102].

La nuova convenzione, la cui ratifica da parte del Gran Consiglio Ticinese e delle Camere federali dovrebbe essere imminente [103], rappresenta un atto di politica ecclesiastica da parte della Confederazione, che, se per un verso lascia sperare in una futura revisione della Costituzione federale fatta nel segno della giustizia e di uno spirito ecumenico, dall’altro pone da un punto di vista formale-giuridico-statale la diocesi della Terza Svizzera alla pari delle altre diocesi confederate. Da un punto di vista canonico formale, la convenzione significa che la Chiesa luganese viene considerata ormai una comunità ecclesiale completa, uscita dalla minore età, capace di vivere una vita ecclesiale propria, senza nessuna diminuzione neppure formale.

La diocesi di Lugano rimarrà, come le altre diocesi svizzere, direttamente sottoposta alla Santa Sede. L’unica istanza intermedia tra la Santa Sede e le diocesi svizzere è la Conferenza dei Vescovi Svizzeri la quale, pur godendo a norma del diritto comune post-conciliare di competenze che vanno molto oltre a quelle di un’istanza metropolitana, non gode tuttavia di quelle specifiche della stessa. Evidentemente il problema di una cumulazione di tutte le competenze nelle mani della Conferenza dei Vescovi Svizzeri si impone, dato che non avrebbe senso erigere una provincia ecclesiastica. L’importanza assunta dalle Conferenze episcopali e la necessità di rafforzare l’influenza della Conferenza dei Vescovi Svizzeri, che per motivi legati al particolarismo sociale, politico e religioso della Confederazione, difetta di omogeneità e per riflesso anche di incisività sulla vita religiosa nazionale, dovrebbero indurre ad eliminare lo statuto di dipendenza diretta delle singole diocesi dalla Santa Sede.

La nuova convenzione abroga i concordati tra la Santa Sede e il Consiglio federale del 1 settembre 1884 e del 16 marzo 1888[104] e riassorbe le clausole essenziali concernenti i rapporti tra la Chiesa e Stato nel Cantone Ticino del concordato intercorso tra quest’ultimo e la Santa Sede il 23 settembre 1884 [105]. Di conseguenza la nuova convenzione sulla separazione della diocesi di Lugano da quella di Basilea arrischia di rimanere un atto formale, necessario e irrinunciabile, che in pratica però non implica nessun contenuto ecclesiale nuovo.

La ratifica della nuova convenzione, la cui preparazione è stata avvolta da grande riserbo quasi che l’opinione pubblica non avesse diritto di interessarsi del problema, non può essere considerata da nessun cattolico svizzero come un fatto che lo tocca ad un livello puramente politico o formale e non a quello più profondo della sua coscienza ecclesiale.

Il problema della nomina del vescovo di Lugano, che in forza della convenzione non subisce nessuna variazione nei confronti della situazione precedente, deve essere posto chiaramente anche per il Ticino ed interessa tutta la politica ecclesiastica svizzera.

Le ragioni teologico-canoniche che rendono necessario un riconoscimento di un diritto di elezione per la diocesi ticinese con l’istituzione di un Sinodo elettorale comprendente i rappresentanti dei consigli diocesani e i vescovi della Conferenza svizzera, non sono diverse da quelle di carattere ecclesiologico generale esposte sopra.

Per il Ticino esistono in particolare due altre ragioni. La prima è legata al fatto che la diocesi non ha una lunga tradizione. Non si è ancora sviluppata in essa una chiara coscienza ecclesiale d’assieme. Il fattore principale che l’ha amalgamata è stato quello della lotta politica sostenuta fino agli inizi di questo secolo per difendere diritti della Chiesa, fino a quel momento ritenuti inalienabili. Ciò ha portato alla formazione di un cattolicesimo politico più che a un cattolicesimo centrato soprattutto sui valori ecclesiali completamente trasparenti. L’esigenza religiosa moderna si sta orientando, come in tutta la Chiesa del resto, sempre più verso una ricerca di valori ecclesiali, purgati da compromissioni e interessi politici, nei confronti dei quali ha messo in guardia anche il Vaticano II[106]. Si tratta perciò di responsabilizzare i cattolici soprattutto nei confronti di interessi e fatti di natura religiosa-ecclesiale. Le strutture da sole non sono un mezzo sufficiente, ma agiscono però a lunga scadenza con molta incidenza. Il diritto di eleggere il proprio vescovo metterebbe il clero e il laicato di fronte a responsabilità così gravi, che finirebbe per riflettersi su molti altri atteggiamenti. Anche le elezioni dei consigli diocesani e le nomine a posti di responsabilità assumerebbero per tutti una dimensione molto più profonda e porterebbe ad un maggior rispetto delle funzioni come tali. In secondo luogo bisogna tener conto che l’uomo moderno è estremamente sensibile alla parità dei diritti e i cattolici ticinesi non riuscirebbero a capire perché in altre diocesi svizzere il vescovo debba essere designato in altro modo. Se si vuol fare della «nuova» diocesi una Chiesa particolare nel senso del Concilio con una fisionomia religiosa propria, una comunità ecclesiale cosciente della responsabilità ecclesiale inerente alla propria autonomia, non si può continuare a considerarla come un distretto amministrativo della Chiesa universale. In ultima analisi a farne le spese sarebbe la Chiesa universale stessa, la quale vive nelle Chiese particolari: «in quibus et ex qui- bus una et unica Ecclesia catholica exsistit» (Vat. Eccl., 23,1).

Per risolvere il problema della nomina del vescovo nel Ticino in forza di un diritto di elezione esistono ragioni che interessano anche le altre diocesi e gli altri Cantoni svizzeri. Sarebbe infatti errato credere che il problema debba essere posto nel senso di ottenere per lo Stato del Cantone Ticino, che negli ultimi 80 anni ha superato ogni tentazione giuseppi- nista, un diritto di interferenza qualunque nell’elezione del vescovo. Si tratta invece di ottenere in sede politico-parlamentare-concordataria una prerogativa di natura canonica, la quale, oltre a rispettare le esigenze dei cattolici ticinesi, potrebbe servire come modello anche per la soluzione dello stesso problema nelle altre diocesi e cantoni svizzeri, dove l’orientamento dei rapporti tra Chiesa e Stato risente ancora fortemente, specialmente nei cantoni di lingua tedesca, di concezioni derivate dallo Stato illuminista.

3. Il problema in Svizzera

Sarebbe un’illusione credere che il problema della nomina dei vescovi in Svizzera ha trovato una sistemazione definitiva nei concordati del secolo scorso. Le polemiche avviate, sia pure per ragioni diverse, in occasione delle recenti nomine nella diocesi di Losanna-Ginevra-Friburgo, di Basilea e di Lugano[107], sono indice di una situazione di disagio, sia per il ruolo assunto dalle istanze ecclesiastiche superiori, sia per quello di alcune istanze cantonali. Le tendenze emerse in queste occasioni tradiscono da una parte l’esistenza di una rivendicazione da parte del clero e del laicato del diritto di essere interpellati sulla nomina di un nuovo vescovo, dall’altra l’anacronismo di ogni intervento diretto statale nella procedura di elezione dei vescovi.

Sarebbe d’altra parte irrealistico credere che le legittime rivendicazioni del clero e dei laici possano ancora essere eluse per molto tempo. Non faranno che riproporsi con crescente decisione anche in Svizzera, ad ogni nuova nomina episcopale.

Altrettanto illusorio ed anti-storico sarebbe credere che una eventuale e necessaria unificazione della procedura per la designazione dei vescovi possa ancora avvenire in Svizzera sulla base di un diritto di libera collazione da parte della Santa Sede, anche se il Vaticano II ha ribadito questo diritto in linea di principio[108]. Vi si opporrebbero diritti canonici acquisiti quasi da un millennio per cui un ritorno alla libera collazione provocherebbe una grave soluzione di continuità nello sviluppo del diritto canonico particolare svizzero. Vi si opporrebbero anche interessi statali riconosciuti e garantiti su base concordataria.

Il vescovo esercita una giurisdizione puramente ecclesiale, non ha nessun compito statale. La sua nomina non può perciò, in nessun caso, essere considerata come una «res mixta» nel senso stretto della parola[109]. E un atto di esclusiva competenza della Chiesa. Lo Stato ha tuttavia sempre denunciato interessi di natura politica ed è innegabile che la nomina di un vescovo abbia almeno indirettamente una profonda incidenza politica, che altro non è se non il riflesso dell’incidenza sociale e politica che ogni gruppo religioso sviluppa aU’interno di una società[110]. Pur rivendicando in linea di principio la libertà di esercitare il diritto esclusivo di nomina, che da un punto di vista costituzionale svizzero è garantito anche nel principio della libertà di coscienza e di religione, la Chiesa ha però sempre riconosciuto anche l’esistenza di interessi statali.

Le forme giuridiche con le quali la Chiesa ha riconosciuto, o è stata costretta a riconoscere, questi interessi, non sono più storicamente adeguate, perché sia la Chiesa che lo Stato sono diventati nel frattempo sempre più attenti a fare una netta distinzione tra l’ambito religioso e quello temporale. Il Vaticano stesso si è fatto portavoce di queste nuove esigenze senza aver sconfessato o negato l’esistenza di un interesse statale (Eccl. Sane., I, art. 10). Il problema è quello di sapere in che modo debba oggi essere rispettato e garantito quest’ultimo. Negli ultimi 100 anni la Santa Sede ha dato più volte garanzie ai Cantoni svizzeri di voler essere attenta nella scelta delle persone alle esigenze dello Stato, che a giusta ragione è anche garante della pace religiosa. Altre volte ha accettato, almeno di fatto, anche un controllo diretto sulla procedura di nomina. E fuori dubbio, che se esistono interessi legittimi dello Stato, questi devono essere garantiti; lo esige il riconoscimento stesso, ribadito a più riprese nei documenti moderni della Chiesa, dell’esistenza di una società pluralistica. Questa però a sua volta impone, ancora più che per il passato e anche da un punto di vista solo sociologico, un effettivo esercizio del principio della libertà di coscienza. In sostanza si tratta perciò di trovare un’alternativa alla prassi e alle clausole concordatarie attuali, le quali non sono più adeguate, non solo nei confronti delle esigenze di libertà della Chiesa, ma neppure nei confronti di una sana concezione dello Stato moderno.

Il fatto fondamentale nei rapporti tra la Chiesa e Stato in Svizzera, in ordine alla salvaguardia degli interessi statali circa la nomina dei vescovi, è stato senz’altro quello, da parte della Chiesa, di riconoscere su base concordataria il diritto canonicamente preesistente dei Capitoli cattedrale di eleggere il vescovo. La continuità giuridica esige di prendere come base questo fatto per ogni altra futura soluzione, tanto più che il diritto di elezione ha potuto conservarsi in tutta la Germania (in Baviera quello di presentazione)[111] e in qualche altra diocesi[112], ma soprattutto perché attualmente ben tre delle sei Diocesi svizzere, Basilea, Coira e San Gallo, godono il diritto di eleggere il proprio vescovo tramite i rispettivi Capitoli cattedrale[113].

Il Capitolo di Sion l’ha preso nel corso dei secoli xvi-xix in seguito al sovrapporsi abusivo del potere politico nell’esercizio dello stesso diritto. Dopo la codificazione del 1917, il titolo giuridico della diocesi di Sion fu sottoposto a esame e non più riconosciuto come valido[114]. Il Capitolo cattedrale della diocesi di Losanna fu sciolto (1536) in seguito alla riforma calvinista, cosicché il nuovo Capitolo cattedrale di Friburgo (1924), che ha sostituito quello di Losanna nella nuova diocesi, non fu reintegrato nel diritto di elezione del vescovo[115]. La libertà goduta dal Capitolo cattedrale di Soletta nella elezione del vescovo ha rappresentato un ‘unicum nel sistema canonico. Fino al 1936 il Capitolo procedeva alla elezione e alla immediata proclamazione dell’eletto. Solo dopo la proclamazione la Santa Sede introduceva il processo informativo in vista di procedere alla conferma della elezione. Nel 1958, in seguito ad accordo intervenuto con il Nunzio, la proclamazione è stata spostata dopo il processo informativo. L’unico impegno imposto al Capitolo dalla Santa Sede, anche se giuridicamente non molto precisato, fu quello di non eleggere un candidato che potesse essere persona «mi- nus grata» ai governi dei cantoni concordatari[116]. Si tratta di una clausola imposta unilateralmente dalla Santa Sede che ha perciò valore puramente canonico e che non crea né un obbligo per il Capitolo cattedrale di sottoporre previamente la lista dei candidati alla Conferenza dei cantoni concordatari e tanto meno un titolo giuridico per questi ultimi di esercitare un diritto di stralcio sui candidati. La prassi del Capitolo è stata quella di sottoporre prima dell’elezione alla Conferenza dei cantoni concordatari, che si riunisce contemporaneamente al Capitolo, la lista di sei candidati. Da questa prassi alcuni cantoni concordatari hanno preteso di aver acquisito un diritto[117].

Anche il Capitolo cattedrale di San Gallo gode del diritto di elezione. La libertà dello stesso è stata limitata nel 1957 con l’accordo del Capitolo, il quale deve ormai presentare una lista di sei candidati alla Santa Sede prima dell’atto di elezione, perché questa possa fare anticipatamente il processo informativo[118]. Per quanto riguarda i rapporti con lo Stato, il concordato del 7 novembre 1845 (art. 7) prevede solo che la persona eletta non deve essere ingrata al «katholisches Grossratskollegium» di San Gallo. Quest’ultimo ha regolato tuttavia unilateralmente la procedura con la quale deve essere verificata la qualificazione politica del candidato, imponendo al Capitolo di sottoporgli una lista di sei candidati prima dell’elezione e riservandosi il diritto di stralcio[119].

L’esistenza del Diritto canonico consuetudinario del Capitolo di Coira di eleggere il proprio vescovo fu esaminato dopo la codificazione e riconosciuto valido il 28 giugno 1948. Fu però nello stesso tempo ridotto alla possibilità di eleggere in base ad una lista di tre candidati presentata dalla Santa Sede stessa [120]. A elezione fatta, il Capitolo deve solo comunicare il nome dell’eletto al governo cantonale[121].

In quasi tutti gli accordi o concordati avvenuti tra la Santa Sede e i governi cantonali furono introdotte clausole limitative riguardanti anche l’eleggibilità delle persone. Nella diocesi di Basilea il vescovo deve essere eletto tra i sacerdoti della diocesi[122]. Per la diocesi di Sion la Santa Sede si è impegnata nei confronti del Governo cantonale a nominare persona che non fosse «minus grata» e la cui lingua materna sia una delle due lingue del cantone. Il Gran Consiglio invece ha domandato che il candidato godesse della cittadinanza vallesana e domandato che fosse stabilita una procedura attraverso la quale il potere civile potesse esprimere i propri «desiderata» in merito al nuovo vescovo, la cui nomina spetta alla Santa Sede[123]. La questione attende ancora di essere risolta[124]. Per Friburgo la Santa Sede ha assicurato che la persona nominata sarà integra da un punto di vista politico[125]. A San Gallo il vescovo deve essere, in forza del concordato, un prete del clero diocesano che ha lavorato con distinzione per parecchi anni in diocesi[126]. Nel Ticino il concordato del 16 marzo 1888 e il nuovo concordato prevedono che il vescovo debba essere nominato tra «les prêtres ressortissants tessinois»[127].

Il doppio tipo di clausole sopra esposte (le cosiddette clausole politiche[128] e quelle che limitano l’eleggibilità con criteri di carattere nazionale) avevano un tempo trovato la loro giustificazione storica nel fatto che i vescovi esercitavano anche un potere politico. A partire dalla Secolarizzazione (1803), hanno trovato una giustificazione nel concetto illuminista secondo il quale la Chiesa è un’istituzione pedagogico-culturale nazionale su cui lo Stato deve mantenere un controllo perché è responsabile di tutto quanto avviene sul proprio territorio. Esse tendono infatti da una parte a garantire un controllo politico sulle persone, dall’altra ad escludere influenze politiche e culturali estranee all’ambiente nazionale-cantonale. Lasciano comunque trasparire con molta evidenza, anche se con una certa discrezione, l’interesse conservato fino ad oggi, dai governi cantonali, per la nomina dei vescovi. In secondo luogo testimoniano in modo inequivocabile che la Santa Sede ha sempre tenuto conto dei legittimi interessi dei Cantoni, non sempre immuni da una certa visione campanilistica delle cose, anche se ha evitato, nel limite del possibile, di legarsi giuridicamente sulla base del diritto pubblico internazionale.

4. Conclusione

La nomina dei vescovi è sempre stata nella storia un momento cruciale dei rapporti non solo tra Chiesa particolare e universale, ma anche tra Chiesa e Stato, diventando regolarmente il punto di convergenza e di disgiunzione tra il potere spirituale e quello temporale. I punti di vista che devono essere presi in considerazione nel trattare il problema sono perciò due, quello ecclesiale e quello dei rapporti tra Chiesa e Stato.

a) Da un punto di vista ecclesiologico non avrebbe più senso regolare il problema della nomina dei vescovi in una singola diocesi, staccandola dal contesto più grande al quale appartiene e la cui istanza riassuntiva collegiale è la Conferenza regionale dei vescovi. La politica del «divide et impera», che se mai fu condotta dalla Santa Sede nei secoli passati per salvare la sua autorità primaziale di fronte alle forze centrifughe del gallicanismo, giuseppinismo e del nazionalismo statale, ha perso oggi irrimediabilmente ogni giustificazione. L’imperativo di una politica ecclesiale, che si ispiri ai postulati del Vaticano II, dovrebbe essere quello di unire le singole diocesi in un vincolo di comunione attorno alla Conferenza episcopale dalla quale dipendono per darle, all’interno del territorio nazionale, un’incidenza sempre più unitaria e precisa sulla vita religiosa, culturale e sociale dello stesso.

Il diritto particolare canonico non deve perciò diventare un fattore di isolamento delle singole diocesi, ma deve essere considerato come un mezzo per unirle tra di loro. La diversità di trattamento giuridico delle singole diocesi svizzere nuoce profondamente alla formazione di una comunione ecclesiale su vasta scala regionale e mina alla base la possibilità e la speranza che la Conferenza dei Vescovi Svizzeri possa assumere, come in altre Chiese particolari, la funzione di un’autorità collegiale veramente efficiente nei confronti di tutte le diocesi. Se il particolarismo religioso, sociale e politico cantonale è la radice ultima di questa situazione, ci si dovrebbe preoccupare con una politica ecclesiale lungimirante di superarla almeno in quei settori dove esiste una possibilità. Uno di questi settori è quello della procedura per la nomina dei vescovi. Nessun cattolico svizzero riesce oggi a comprendere perché nell’ambito dello stesso territorio nazionale, che rappresenta pur sempre per lui l’ambito primario della sua vita religiosa, culturale e politica, proprio l’istituto della nomina dei vescovi, che è uno degli atti fondamentali della vita ecclesiale, assuma figure giuridiche non solo diverse ma contrastanti. E un fatto che lo contraddice nella sua esigenza d’uguaglianza di fronte alla legge; esigenza che è uno degli elementi storici, culturali e politici fondamentali dell’ambiente dal quale trae la sua origine.

L’unificazione del Diritto particolare canonico svizzero in merito all’istituto della elezione dei vescovi non rappresenterebbe per di più una rottura nello sviluppo giuridico, ma piuttosto la sua naturale conclusione, perché la parte preponderante delle diocesi svizzere già lo possiede e una quarta diocesi, quella di Sion, l’ha potuto esercitare fino al XVII secolo, almeno come diritto di presentazione.

b) Il secondo aspetto della questione è quello che interessa i rapporti tra Chiesa e Stato.

Sarebbe una grave mancanza di realismo politico se si dovesse credere che i Cantoni svizzeri abbiano abbandonato o vogliano lasciar cadere in un prossimo avvenire ogni interesse nei confronti del problema della nomina dei vescovi. D’altra parte i governi cantonali devono rendersi conto che le forme di controllo attualmente ancora esercitate risalgono ad una concezione giuseppinista dello Stato poliziesco, che deve essere oggi radicalmente demitizzata[129]. Ciò non vale solo nei confronti della questione della nomina dei vescovi, ma per tutta l’impostazione dei rapporti tra Chiesa e Stato. Le leggi civili-ecclesiastiche cantonali svizzere partono dal presupposto che la Chiesa cattolica, nell’organizzazione esterna impostale dallo Stato, debba piegarsi alle forme democratiche nazionali. E un principio che potrebbe perdere l’attualità nel giro di poco tempo anche per le Chiese protestanti. La libertà di religione garantita dalla Costituzione svizzera, se letta con occhio moderno, esige il rispetto assoluto della struttura propria e originale di ogni Chiesa.

Per quanto riguarda la nomina dei vescovi, l’interesse dello Stato, per essere ancora legittimo, non dovrebbe andare oltre a quello di pretendere che le persone scelte non siano estranee all’ambiente culturale cantonale o intercantonale, in modo che non provochino degli scompensi di natura politica generale. Che siano perciò in grado d’inserire la propria azione pastorale partendo da presupposti non eterogenei all’ambiente, anche se non sarebbe ragionevole pretendere che siano integrate nello stesso, quasi che esso non sia suscettibile di profonde evoluzioni.

Sul piano strutturale questa garanzia può essere data allo Stato in modo adeguato, inserendo nella procedura della elezione del vescovo le istanze ecclesiastiche locali in misura più larga di quella esistente nelle tre diocesi dove i Capitoli cattedrale sono l’organo elettivo. L’inserimento della Conferenza dei Vescovi Svizzeri dovrebbe del resto dare l’ultima garanzia che la scelta assuma tutti i requisiti di serietà e consapevolezza ecclesiastica e politica. Da una forma di garanzia di tipo formale (clausole politiche, ecc…), si deve passare ad una garanzia di tipo materiale. Questo fatto dovrebbe indurre anche i Governi cantonali ad abbandonare ogni pretesa di ingerirsi direttamente nella questione. A questo proposito dovrebbero essere tratte finalmente tutte le conseguenze dal fatto che anche i cattolici svizzeri sono svizzeri. L’interesse dei cattolici svizzeri non può più essere contrapposto, come per il passato, all’interesse nazionale o cantonale. Il bene di una Chiesa post-conciliare svizzera non può rappresentare che il bene di uno Stato democratico che si dica moderno. Del resto anche la storia svizzera non ha ancora dimostrato che gli interessi della Chiesa cattolica siano risultati opposti a quelli nazionali, mentre è sicuro che ogni atto discriminatorio nei suoi confronti ha finito per rivelarsi controproducente.

c) La concessione del diritto di elezione del vescovo, che solo da un punto di vista formale-giuridico, ma non ecclesiologico, può essere considerato ancora come un privilegio, anche alla parte minoritaria delle Diocesi svizzere, non equivarrebbe perciò solamente ad un atto politico intelligente, ma anche ad un atto di giustizia. Siamo lontani dal credere, come qualche volta si afferma, che i concordati entrino nell’ambito della competenza esclusiva dei laici. Tuttavia siamo convinti che il laicato politico deve assumere in questo settore una propria responsabilità, perché rappresenta il punto di incontro e di trasmissione tra gli interessi ecclesiali e statali. Se dovesse ottenere sul piano politico per la diocesi ticinese il diritto di eleggere il proprio vescovo sulla base di un Sinodo elettorale dove anche la Conferenza dei Vescovi Svizzeri vi fosse inserita, porrebbe un atto ecclesiale e politico di enorme importanza. Una soluzione in questo senso potrebbe oltretutto diventare paradigmatica, nel futuro, per tutte le altre diocesi e cantoni svizzeri.

 

 

[1] Cfr. ibidem, art. 23 cpv. 1 (338). I testi conciliari e quelli dei decreti di applicazione sono stati citati – mettendo il numero progressivo tra parentesi – secondo la traduzione delle raccolte Dehoniane: Documenti. Il Concilio Vaticano, Bologna 1966 e Norme di Applicazione, Bologna 1966. Le abbreviazioni dei documenti sono prese da K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, II, München-Paderborn-Wien 1967, xv-xvi.

[2] Sulla diversa impostazione dell’ecclesiologia in Oriente ed in Occidente, cfr. E. Corecco, Il vescovo, capo della Chiesa locale, protettore e promotore della disciplina locale, «Concilium»4 (1968), 1482-1497; cfr. anche C. Andresen, Geschichte der abendländischen Konzile des Mittelalters, in: Die ökumenischen Konzile der Christenheit, hrsg. von H.J. Margull, Stuttgart 1961, 75-106.

[3] Cfr. W. BEINERT, Die Una Catholica und die Partikularkirche, «Theologie und Philosophie» 42 (1967), 10-11.

[4] Cfr. K. Rahner, Kommentare I, LThK, 242-245.

[5] Cfr. Vat. Ep., 11-24; K. Mörsdorf, Kommentare II, LThK, 172-195.

[6] Cfr. per esempio Vat. Ep., 11,1 (593): «La diocesi è una porzione del Popolo di Dio… nella quale è veramente presente e operante la Chiesa di Cristo, Una, Santa, Cattolica e Apostolica».

[7] II Concilio di Vienne (1311-1312) è stato il primo Concilio nel Medioevo che ha impostato il problema delle missioni distinguendolo da quello delle crociate. L’ha percepito tuttavia da un punto di vista pragmatistico, insistendo sulla necessità di coltivare le lingue orientali per poter entrare in contatto con gli infedeli. Cfr. Conaliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 1962,355-356, decr. 24; H. Jedin, Kleine Konztlien- geschichte, Freiburg i.Br. 1966, 60.

[8] Cfr. Vat. Miss., 2, 1 (1090); 6, 6 (1103).

[9] Cfr. Vat. Miss., 20,1 (1155).

[10] Cfr. spec. Vat. Miss., 6; cfr. anche S. Brechter, fCommentare III, LThK, 33-39.

[11] Cfr. can. 1327 § 1 e 1350 § 2.

[12] Cfr. Vat. Eccl., 23, 2-3 (339-340).

[13] Cfr. Vat. Miss., 29,6 (1196) e Eccl. Sane., Ili, 15,1 (2388).

[14] Cfr. Vat. Eccl. Or., 3 (459) e Vat. Eccl., 23, 3 (340).

[15] Cfr. Vat. Miss., 38, 4 (1223); K. Rahner, Commentare I, LThK, 231-232.

[16] Cfr. Vat. Miss., 37.

[17] Cfr. Vat. Miss., 20,8 (1162).

[18] Cfr. Vat. Miss., 20, 1 (1155). Sulla funzione della Chiesa particolare nelle missioni, cfr. J. Guerra, Las Iglesias locales corno signo de la lglesia Universal en su proyección misionera, «Misiones extranjeras» 14 (1967), 181-194; A. Pirovano, Le Chiese particolari secondo il decreto conciliare «Ad Gentes», in: Le Missioni alla luce del Concilio, Atti della settimana di studi missionari, Milano 5-9 settembre, Milano 1967, 68-78.

[19] Cfr. Vat. Miss., 11-12; per esempio, i cristiani devono «dimostrarsi membra vive di quel gruppo umano, in mezzo a cui vivono…»: 11,2 (1112).

[20] Cfr. PM 2, 5-8.

[21] Cfr. Appunti di Metodo Cristiano, a cura di Gioventù Studentesca, Milano 1964, 85-90, spec. 86-87.

[22] Cfr. Val. Miss., 37, 2 (1217): «La grazia del rinnovamento non può aver sviluppo alcuno nella comunità, se ciascuna di esse non allarga la vasta trama della sua carità sino ai confini della terra, dimostrando per quelli che sono lontani la stessa sollecitudine che ha per coloro che sono i suoi propri membri».

[23] Cfr. Appunti di Metodo Cristiano, cit., 86-87.

[24] Nel 1968 la colletta ha fruttato circa 61.500 fr. Ciò equivale ad un’offerta di circa 30 cts. prò capite (!); cfr. «Il Monitore Ecclesiastico dell’Amministrazione Apostolica Ticinese» 73 (1969), 30-43.

[25] Cfr. Ili, 4 (2373). Questa funzione esiste da tempo anche in diocesi, ma è puramente amministrativa.

[26] Cfr. Vat. Miss., 37,4 (1219).
[27] Una delle idee centrali del Concilio è proprio quella del dovere dei cristiani di partecipare alle iniziative nazionali e internazionali; cfr., per esempio, Vat. Miss., V-VI, 36,5 (1215).

[28] Cfr. can. 228 § 1.

[29] Cfr. Vai. Eccl., spec. 22-23.

[30] Cfr. O. Saier, «Hierarchica Communio» als Strukturprinzip nach den Dokumenten des Zweiten Vatikanischen Konzils (Tesi, in pubblicazione), München 1967.

[31] Sul problema, cfr. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung (Tesi, in pubblicazione), München 1967. L’A. distingue nel cap. 4 tra l’aspetto formale e l’aspetto materiale della collegialità. Un atto è collegiale, formalmente, quando la volontà dei singoli è integrata fino al punto da diventare la volontà del collegio come tale, trascendente quella dei membri. In questo senso è collegiale, secondo il Concilio, anche la decisione di un concilio particolare o di una conferenza dei vescovi. Da un punto di vista materiale, cioè del contenuto, il Vaticano II ha qualificato come collegiale solo l’attività di tutto il collegio episcopale, per distinguerla da quella dei concili minori, i quali non hanno un’autorità su tutta la Chiesa universale.

[32] Cfr. Nola Explicativa Praevia, 2,3 (451*).

[33] Sul rapporto tra il principio gerarchico e quello collegiale, che non vanno separati perché sono due dimensioni di una stessa realtà, e sulla priorità del primo principio, basata sul fatto che un collegio non può rappresentare Cristo in tutta la sua realtà (per esempio, nell’amministrazione dei sacramenti), cfr. K. Mörsdorf, Primat und Kollegialität nach dem Konzil: über das bischöfliche Amt, Veröffentl. der Kath. Akademie der Erzd. Freiburg, n. 4, Karlsruhe 1966, 39-48; Id., Die hierarchische Struktur der Kirchenverfassung, «Seminarium» 2 (1966), 403-416; Id., Das synodale Element der Kirchenverfassung im Lichte des Zweiten Vatikanischen Konzils, in: Volk Gottes, Festgabe für J. Höfer, hrsg. von R. Bäumer und H. Dolch, Freiburg-Basel-Wien 1967, 568-584; Id., Über die Zuordnung des Kollegialitätsprinzips zu dem Prinzip der Einheit von Haupt und Leib in der hierarchischen Struktur der Kirchenverfassung, in: Wahrheit und Verkündigung. M. Schmaus zum 70. Geburtstag, hrsg. von L. Scheffczyk-W. Det- doff-R. Heinzmann, München-Paderborn-Wien 1967, 1435-1445; W. Aymans, Das synodale Element, cit., Kap. 6.

[34] Cfr. W. Aymans, Kollegium und kollegialer Akt im kanonischen Recht, München 1969, 3-5; sulle vicende del termine nella tradizione latina, cfr. J. Ratzinger, La collegialità episcopale: spiegazione teologica del testo conciliare, in: La Chiesa del Vaticano II. Opera collettiva diretta da G. Baraúna, Firenze 1965, 733-736; J.M. Ramírez, De Epi- scopatu ut Sacramento deque Episcoporum Collegio, Salmanticae 1966, 71-74.

[35] Cfr. W. ScHÖPPING, Laien und Pastoralräte, «Der Seelsorger» 39 (1969), 39.

[36] Cfr. Y. Congar, Conclusión, in: Le Concile et les Conciles, Chevetogne 1960,301.

[37] Cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, AfkKR 136/2 (1967), 352-360.

[38] Nel senso che il potere del vescovo non deriva da quello del papa. Sul problema, cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storico-giuridici e metodologico-sistematici della questione, «La Scuola Cattolica» 96 (1968), 15-18, 39-42, 118-139.

[39] Sulle precisazioni che devono essere fatte, cfr. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, cit., I, 1964[11] , 306-308, 320-322, 472.

[40] Cfr. Wat. Eccl., 21, 2 (335); 26, 1 (348); 41,2 (391); Val. Ep., 15, 1 (605); cfr. anche O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ces vicissitudes dans l’Église d’Oc- cident, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, Ouvrage publié sous la direction de Y. M.-J. Congar/B.-D. Dupuy, Paris 1962, 279-285; K. Rahner, Kommentare I, LThK, 218-219; N. López Martínez, La distinción entre obispos y presbíteros, in: XXII Semana Española de Teología, Madrid 1963, 85-156; F.B. Norris, Das Priesterbild des Konzils, in: Die Autorität der Freiheit, hrsg. von J.C. Hampe, II, München 1967, 153-160.

[41] Cfr. can. 108 § 3.

[42] Cfr. T.G. Barberena, Kollegialität auf diözesaner Ebene. Das Priestertum in der Westkirche, «Concilium» 1 (1965), 636.

[43] Cfr. Wat. Presb., 7; Wat. Eccl., 28,2 (355): I presbiteri «nelle singole comunità locali di fedeli rendono, per così dire, presente il Vescovo… Essi, sotto l’autorità del Vescovo, santificano e governano la porzione di gregge del Signore loro affidata…». I presbiteri non rappresentano solo direttamente Cristo nell’amministrazione dei sacramenti, ma anche il vescovo; cfr. S. Pascher, Bischof und Presbyterium, «Concilium» 1 (1965), 85. Quest’ultimo aspetto del problema è già reso evidente dal fatto che essi non posseggono una giurisdizione propria ordinaria, nella misura in cui non sono investiti dell’ufficio parrocchiale, cfr. sopra n. 39.

[44] Cfr. G. d’Èrcole, Die Priesterkollegien in der Urkirche, «Concilium» 2 (1966), 487-492, 491: «Jede Kirche Gottes ist eine einheitliche sakramentale Gemeinschaft, an deren Spitze der Bischof, der normgemässe Spender der Sakramente mit der Unter-

Stützung des Presbyteriums und der Diakone steht; sie ist eine einheitliche Regierungsgemeinschaft, die der Bischof mit Hilfe der Presbyter und der Diakone leitet…»; cfr. anche P. Meinhold, Konzile der Kirche in evangelischer Sicht, Stuttgart 1962, 27-47.

[45] Cfr. G. d’Ercole, Die Priesterkollegien, cit., 487-490.

[46] Cfr. B. Bazatole, L’évêque et la vie chrétienne au sein de l’Église locale, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, cit., 342-348.

[47] Sulla storia dei capitoli cattedrale, cfr. P. Torquiebiau, Chapitres de Chanoines, DDC, III, 530-545.

[48] Cfr. Vat. Laie., 5.

[49] « Cfr. però ibid., 10, 1 (949).

[50] Su tutta questa problematica e sulle diverse posizioni di Rahner e Congar, cfr. K. Mörsdorf, Die Zusammenarbeit von Priestern und Laien in ekklesiologisch-kanoni- scher Sicht, in: Grundfragen der Zusammenarbeit von Priestern und Laien. Veröffentlichungen der Kath. Akademie der Erzd. Freiburg, n. 11, Karlsruhe 1968, 13-26, spec. 16-19; Id., Das eine Volk Gottes und die Teilhabe der Laien an der Sendung der Kirche, in: Ecclesia et Ius. Festgabe für A. Scheuermann zum 60. Geburtstag, hrsg. von K. Siepen-J. Weitzel-P. Wirth, München-Paderbom-Wien 1968, 105-111. Un quadro delle difficoltà sollevate da una definizione del laico, che prenda come base l’indole secolare, è data dalla discussione intercorsa dopo la sessione VI della International Theolo- gical Conference, University of Notre Dame, March 20-26, 1966: La Teologia dopo il Vaticano II, a cura di J. H. Miller, Brescia 1967, 336-352.

[51] Cfr. K. Mòrsdokf, Die Stellung der Laien in der Kirche, KDC 10-11 (1960-61), 221. La differenza fondamentale tra i presbiteri e i laici consiste nel fatto che solo i primi sono chiamati a rappresentare Cristo presiedendo in mezzo alla comunità cristiana.

[52] Cfr. Id., Das eine Volk Gottes…, cit., 108-109.

[53] Cfr. ibidem, 116-117.

[54] La funzione sacerdotale è diventata una professione a sé stante a partire dal V secolo; ciò ha provocato l’abbandono da parte dei chierici delle professioni secolari; cfr. ibidem, 106.

[55] Cfr. Vat. Ep., 28,2 (643); Eccl. Sane., 1,15. Dato che il vescovo appartiene al presbiterio, il Consiglio del Clero, quando non fosse presieduto dal vescovo stesso, più che il presbiterio rappresenta i presbiteri che collaborano con il vescovo; cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, cit., 353-357.

[56] per un orientamento in merito, cfr. F. Klostermann, Neue diözesane Strukturen, «Diakonia» 2 (1967), 257-270; L. Weber, Der Priesterrat, «Der Seelsorger» 38 (1968), 105-118; W. Schöpping, Vorschläge zum Priesterrat, ibidem 37 (1967), 191-196.

[57] Cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, LThK, 203.

[58] Cfr. ibidem, 203-204; Vat. Ep., 27, 5 (646); Eccl. Sane., I, 16.

[59] Cfr. W. Schöpping, Vorschläge zum Priesterrat, cit., 192; L. Weber, Der Priesterrat, cit., 112-115.

[60] Nella Diocesi di Coira il Consiglio Pastorale è costituito dall’assemblea riunita del Consiglio del Clero con il Consiglio dei Laici (cfr. L. Weber, Der Priesterrat, cit., 118). Questa soluzione ha il vantaggio di fare del CP l’organismo consultivo riassuntivo di tutti i gremi e di conservare nello stesso tempo il contatto diretto tra vescovo e CC. Ha lo svantaggio però di separare presbiteri e laici in due fronti che potrebbero diventare contrapposti anche all’interno del CP, spaccando l’unità che anche teologicamente deve esistere tra clero e laici; cfr. per esempio, Vat. Laic., 10, 2 (950).

 

[61] Cfr. W. SchÖPPING, Laien- und Pastoralräte, eit-, 36.

[62] Cfr. K. Mörsdorf, Das eine Volk Gottes…, cit., 111-119. In ogni caso si deve tener conto anche dell’analogia con il Consiglio Pastorale e quello del Clero. Gli Statuti tipo, pubblicati per ordine della Conferenza del Vescovi Tedeschi, sono riprodotti in: AfkKR 136/1 (1967), 525-538.

[63] Cfr. H. Schröder, Der Pfarrgemeinderat als gesamtkirchliche Aufgabe, Trier 1967.

[64] Cfr. per esempio, gli statuti per i gremì parrocchiali della Arcidiocesi di Colonia: Kirchliche Anzeige für die Erzdiözese Köln, ABI 108 (1968), 37-38, IV 6b: «Beschlüsse die Angelegenheiten betreffen, deren Wahrnehmung zum amtlichen Pflichtenkreis des Pfarrers gehört, können nur mit dessen Zustimmung gefasst werden». Questa clausula è ancora più forte di un diritto di veto, perché impedisce addirittura che la decisione abbia luogo in modo valido.

[65] Cfr. K. Mörsdorf, Das eine Volk Gottes…, cit., 111.

[66] Cfr. E. Corecco, Die synodale Aktivität im Aufbau der katholischen Kirche der Vereinigten Staaten von Amerika mit besonderer Berücksichtigung der kirchlichen Vermögensverwaltung, AfkKR 137/1 (1968), 68-81.

[67] Cfr. H. Socha, Grundlegung von Beispruchrechten der Laien durch das II. Vatikanische Konzil, in: Ecclesia et lus, cit., 366-376; J. Beyer, De Statuto mridtco Christi- fidelium iuxta vota Synodi Episcoporum in novo Codice condendo, PEMCL 57 (1968), 559-561.

[68] II 7 novembre 1966, cfr. «Il Monitore Ecclesiastico» 72 (1966), 422-427. La data di costituzione del CC della diocesi di Sion non ci è nota; cfr. L. Weber, Der Priesterrat, cit., 118.

[69] Costituito il 30 dicembre 1967, cfr. «Il Monitore Ecclesiastico» 73 (1967), 338- 341. A differenza del CC non fu riconfermato dal nuovo vescovo, Mons. G. Mattinoli. Fu rieletto nel 1969.

[70] II Consiglio Pastorale è stato ricostituito all’inizio di marzo 1969. Conta 48 membri (24 laici, 17 sacerdoti diocesani e 7 religiosi; 4 membri sono istituzionali, 12 designati da varie commissioni e dai religiosi, 22 designati dal vescovo, solo 10 sono eletti). Da una parte bisogna prendere atto della buona percentuale dei laici, dall’altra però va anche sottolineata l’enorme sproporzione esistente tra i membri designati dal vescovo (22 di cui 14 laici) e quelli eletti (10 di cui 5 laici eletti dal clero!). La mancanza di una struttura di base parrocchiale e vicariale che serva da base elettorale del laicato si è fatta profondamente sentire. Nella seduta costitutiva dell’8 marzo il CP ha scelto come suo presidente un laico. Tenuto conto che il presidente del CP iure proprio è il vescovo e che il presidente eletto ha di conseguenza una funzione solo amministrativa (sarebbe meglio a scanso di equivoci chiamarlo vice-presidente: ciò vale anche per il CC dove si ripete lo stesso sistema), la soluzione è senz’altro molto appropriata. Cfr. Popolo e Libertà, 8 e 11 marzo 1969.

[71] Cfr. J. Ratzinger, Die pastoralen Implikationen der Lehre von der Kollegialität der Bischöfe, «Concilium» 1 (1965), 22.

[72] L’elezione del parroco non è contraria al diritto canonico. È stata concessa dalla S. Sede come diritto di presentazione per tutte le parrocchie ticinesi, anche future. La maggior parte di esse lo possedevano già come diritto di patronato, perciò come privilegio oneroso (cfr. E. Maspoli, II diritto ecclesiastico dello Stato del Cantori Ticino, Lugano 1924, 34-35). In quanto privilegio oneroso e in quanto diritto di elezione popolare non è stata abolita dal Vaticano II (cfr. Vat. Ep., 31, 2 [661] e Eccl. Sane., I, 18 § 1, 1-2 [2251-2252]).

[73] Non ci sarebbe incompatibilità in forza della LCE la quale prevede semplice- mente che i membri del Consiglio Parrocchiale vengano eletti dall’Assemblea e non esclude che possano far parte di altri organismi parrocchiali. La soluzione proposta avrebbe il vantaggio di preparare una struttura giuridica parrocchiale in attesa della revisione della LCE.

[74] Dove esiste il problema della fusione delle parrocchie si potrebbe fare un primo passo creando provvisoriamente una Comunità e una Consulta parrocchiale per tutte le parrocchie affidate ad un solo sacerdote.

[75] Cfr. LCE, art. 9.

[76] Cfr. J. Schmauch, Neue Struktur des Dekanates, «Der SeelsorgeD> 37 (1967), 206-210.

[77] Per creare una maggiore unità del clero sarebbe opportuno rinunciare a tutti i titoli onorifici parrocchiali (arciprete, prevosto, priore, ecc.) e mantenere solo quello di Vicario foraneo perché sottolinea una funzione effettivamente diversa e gerarchica.

[78] Si possono prevedere possibilità di ricorso contro le decisioni del Consiglio: in prima istanza al Consiglio vicariale stesso, in seconda istanza all’Ordina rio.

[79] II numero dei laici dovrebbe essere perlomeno pari a quello dei presbiteri e dei religiosi. Lo stesso principio dovrebbe valere per il Consiglio vicariale.

[80] Anche al Vicario foraneo, come al parroco, potrebbe essere concesso un diritto di ricorso in materia al CP.

[81] II 23 agosto 1966, cfr. «Il Monitore Ecclesiastico» 72 (1966), 298.

[82] Cfr. la Precisazione sull’Azione Cattolica nella nostra diocesi dei 18 maggio 1966, ibidem 72 (1966), 207-210.

[83] Cfr. Vat. Ep., 20. La legislazione conciliare ha voluto toccare solo quei diritti del potere civile che limitano strettamente la libertà della Chiesa (per esempio, il diritto di presentazione come è in uso ancora in Spagna, Portogallo, in qualche Stato sudamericano e per le Diocesi di Strasburgo e Metz). Non sono toccati invece i diritti derivanti dalla cosiddetta clausola politica, la quale prevede che i governi possono dichiarare una persona minus grata. Cfr. K. Mörsdorf, Kommentare II, LThK, 185-186; J. Kaiser, Die politische Klausel der Konkordate, Berlin-München 1949.

[84] II principio della sussidiarietà proviene dalla dottrina sociale. Non necessariamente deve essere formulato come tale nel diritto costituzionale canonico, perché giuridicamente ha poca rilevanza il fatto che sia esplicitamente espresso, trattandosi non di un principio teologico-costituzionale, ma di un principio di applicazione di altre norme. Diventa rilevante perciò solo se applicato nella prassi. Cfr. A. M. Rouco Varela, Der Internationale Kanonistenkongress in Rom, 20. bis 23. Mai 1968, AfkKR 137/1 (1968), 318.

[85] Sulla funzione del popolo nella elezione del vescovo nella Chiesa antica, come su quella esercitata nei Concili, non è ancora stata fatta piena luce. Non mancano autori che affermanto tout court che il popolo eleggeva il vescovo: cfr. per esempio, B. Botte, Der kollegiale Charakter des Priestertums und des Episkopates, «Concilium» 1 (1965), 346; altri invece affermano che erano i vescovi ad eleggere alla presenza del popolo (cfr. per esempio, P. Batiffol, La paix constantinienne, Paris 1914, 79; cit. da O. Rousseau, La doctrine du ministère épiscopal et ses vicissitudes dans l’église d’occi- dent, cit., 294). Bisogna comunque forse evitare di dare alla partecipazione del popolo in quel tempo lo stesso significato che ha acquistato nella concezione democratica moderna. Nella concezione medioevale dei rapporti tra popolo e coloro che esercitano il potere, l’elezione aveva il valore di approvazione di un atto appartenente a tutta la comunità, ma non posto necessariamente da tutti; cfr. Y. M.-J. Congar, Quod omnes tangit, ah omnibus tractari el approbari debet, Rev. Hist. Droit Fran. Etr. 36 (1958), 222-224; W. M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts, Wien-München 1960,1, 71-72.

[86] Cfr. P. Torquebiau, Chapitres de Chanoines, cit., 537-538.

[87] Su tutta la questione cfr. W.M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts, cit., I, 186- 188, 365-369; II (1962), 206-220; III (1959), 445-460.

[88] Cfr. L. Weber, Amt und kirchlicher Fuhrungsstil, «Der Seelsorger» 39 (1969), 3-6.

[89] Cfr. a questo proposito il libro di H. KONG, Wahrhafligkeit, Freiburg-Basel- Wien 1968, nel quale il problema della trasparenza tra dottrina e prassi è trattato con una certa drammaticità; di conseguenza non può essere accettato senza qualche riserva critica.

[90] Cfr. Y. M.-J. Congar, Quod omnes tangit…, cit., 224-226.

[91] Sul problema cfr. K. Mörsdorf, Das neue Besetzungsrecht der bischöflichen Stühle mit besonderer Berücksichtigung des Listenverfahrens, Bonn 1933; W.M. PlÖCHL, Geschichte des Kirchenrechts, cit., III, 449-453.

[92] «Esse (le Chiese particolari) infatti sono, nella loro sede, il Popolo nuovo chiamato da Dio con la virtù dello Spirito Santo, e con grande abbondanza di doni», Vat. Eccl., 26,1 (348); ibidem, 23,4 (341); Vat. hit., 2.

[93] Un riferimento al caso Peri-Morosini è legittimo in questa sede, anche se la storia e le conseguenze di questo episcopato non sono ancora state studiate.

[94] Cfr. P. Torquebiau, Chapitres de Chanoines, cit., 553.

[95] Cfr. Va/. Ep., 28,2 (643).

[96] La lista relativa è quella eretta al momento della vacanza di una sede determinata. E sopravvissuta come istituto derivato dall’antico diritto di elezione ma è stata a sua volta gradualmente eliminata; è restata in vigore ancora in Baviera. La lista assoluta è quella che viene inoltrata a Roma periodicamente, senza riferimento a nessuna sede particolare. Cfr. K. Morsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, cit., I, 409-412.

[97] Suggerimenti per quanto è detto in questo contesto mi sono venuti da colloqui avuti con il prof. K. Morsdorf.

[98] Sulla distinzione tra i sinodi elettorali e gli altri sinodi della Chiesa antica, cfr. W. de Vries, Der Episkopat auf den Synoden vor Nicàa, ThPQ 111 (1963), 266.

[99] Cfr. IOpers, can. 252. Nella Chiesa orientale il Patriarca e rispettivamente il Metropolita hanno il diritto di consacrare l’eletto, ibidem, can. 256 § 1 n. 1; can. 319, n. 1.

[100] Cfr. J.B. Villiger, Der dornenvolle Weg der Tessiner Bistumsfrage, SKZ 136 (1968), 465-467,

[101] Cfr, U. Lampert, Kirche und Staat in der Schweiz, I, Basel-Freiburg 1929, 67-68.

[102] Per un rapido sguardo storico sul problema, cfr., oltre all’articolo di Villiger citato sopra (n. 100), E. Isele, Die Tessiner Bistumsfrage, SKZ 136 (1968), 342-344.

[103] Non ci è stato possibile ottenere una copia del testo del nuovo concordato. Le informazioni avute in merito hanno perciò carattere solo privato. Fino a questo momento il Consiglio di Stato non ha ancora pubblicato il suo Messaggio al Gran Consiglio ticinese.

[104] II testo originale francese è pubblicato in: L. Schöppe, Konkordate seit 1800. Originaltext und deutsche Übersetzung der geltenden Konkordate, Frankfurt a. M.-Berlin 1964, 403-405; 405-407. Cfr. anche U. Lampert, op. cit., III, Freiburg (Schweiz)- Leipzig 1939, 169-171, 174-176.

[105] Testo italiano originale in: ibidem, III, 171-173; E. Maspoli, Il diritto ecclesiastico, cit., 175-177.

[106] Cfr. Vat. Eccl. Mun., 76; R. La Valle, La vita della comunità politica, in: La Chiesa nel mondo di oggi. Opera collettiva diretta da G. Barauna, Firenze 1966, 499-500.

[107] Cfr. le lettere scambiate tra un gruppo di laici ticinesi e il Nunzio a Berna, Mons. A. Marchioni, durante la vacanza della sede episcopale, che non sono prive di punte polemiche: «Dialoghi», serie III, n. 2 (ottobre 1968), 8.

[108] Cfr. Vai. Ep., 20; Eccl. Sane., I, 10.

[109] Cfr. U. Lampert, op. cit., II, Freiburg (Schweiz)-Leipzig 1938, 213.

[110] Cfr., ibidem, II, 194, classifica la nomina dei vescovi come res mixta in senso largo solo nel caso che ci sia stato un accordo o un riconoscimento esplicito della Santa Sede di un diritto dello Stato acquisito in merito.

[111] Cfr. K. Mörsdorf, Lehrbuch des Kirchenrechts, cit., I, 412-413, 410.

[112] Diocesi di Olmütz e Salzburg.

[113] II diritto del Capitolo cattedrale di Soletta e di quello di S. Gallo è stato fissato anche su base concordataria. Cfr. Concordato tra la Santa Sede e i Governi di Lucerna, Berna, Soletta e Zugo, concluso a Lucerna il 26 marzo 1828, art. 12, e quello tra la Santa Sede e il Kath. Grossrathskollegium di S. Gallo del 7 novembre 1845, art. 7. Cfr. L. Schöppe, Konkordate, cit., 410-415, 424-429; U. Lampert, III, 62-70, 108-116. Il diritto del Capitolo di Coira, che risale alla fine del XII secolo, fu riconosciuto dalla Santa Sede come canonicamente ancora valido il 4 gennaio 1926, ibidem, II, 388-389.

[114] Cfr. ibidem, II, 375-379.

[115] Con la Bolla Sollecitudo omnium ecclesiarum del 17 ottobre 1924, cfr. ibidem, II, 379-380.

[116] L’impegno non è stato imposto concordatariamente, ma in modo unilaterale dalla Santa Sede ai canonici di Soletta con il Breve Quod ad rem sacram del 15 settembre 1828. Un’interpretazione autentica dello stesso fu rilasciata dall’incaricato d’affari della Santa Sede a Lucerna, G. M. Bovieri, il 19 gennaio 1863. Cfr. U. Lampert, III, 96-98, 98-99.

[117] Su tutta la questione, cfr. J. Stirnimann, Die Basler Bischofswahl. Ihre rechtlichen Grundlagen. Erweiterter Sonderdruck aus n. 7/8 (1967), 9-22 der Schweizer Rundschau; E. Isele, Postskriptum zur Kontroverse um das Basler Bischofswahlrecht. Sonderdruck aus der Schweizer Rundschau, n. 12 (1967), 3-18.

[118] Cfr. E. Isele, Postskriptum, cit., 8-9.

[119] Cfr. il Decreto di regolamento del Katholisches Grossratskollegium di S. Gallo circa la partecipazione dello stesso all’elezione del vescovo, datato 18 febbraio 1846, riprodotto nelle sue parti essenziali da U. Lampert, II, 397-398.

[120] Cfr. E. Isele, Postskriptum, cit., 8. Con questa restrizione, il diritto di libera elezione del Capitolo di S. Gallo è stato adeguato allo sviluppo raggiunto da questo istituto in Germania.

[121] Cfr. U. Lampert, II, 388-395.

[122] Concordato del 26 marzo 1828, art. 12.

[125] Cfr. lo scambio di lettere tra la Segreteria di Stato e il Governo di Sion, e il protocollo della seduta del Gran Consiglio vallesano del 22 maggio 1919 in U. Lam- pert, II, 377-379.

[124] Cfr. E. Isele, Postskriptum, cit., 8 n. 12.

[125] Cfr. il Monito del Card. Soglia del 30 settembre 1848 al Vorort di Berna, in U. Lampert, II, 379-380.

[126] Art. 9; cfr. anche l’interpretazione data allo stesso nella Decisione del Katholi- scbes Grossratskollegium di S. Gallo dell’11 marzo 1847 sul modo di interpretare il concordato del 7 novembre 1845, art. 1; U. Lampert, III, 117-120.

[127] Art. 2.

[128] A queste clausole dovrebbero essere aggiunte anche quelle inserite nei concordati riguardanti la nomina dei canonici dei Capitoli cattedrale. Esse, sia pure indirettamente, tendono a mantenere un certo controllo dei Governi cantonali sulla elezione del vescovo.

[129] Cfr. R. La Valle, La vita della comunità politica, cit., 497.

I. LO «STATUS QUAESTIONIS»

La valutazione dal profilo canonistico del fenomeno delle dimissioni dalla Chiesa per ragioni economico-fiscali o politico-sociali, non necessariamente qualificate dallo smarrimento della fede personale, è un problema che la legislazione canonica particolare e la dottrina non hanno ancora saputo risolvere in modo soddisfacente

L’importanza sociologica di questo fenomeno, tipico delle Chiese particolari di lingua tedesca[2] e direttamente connesso con la normativa ecclesiastica che regge il loro sistema di prelievo delle imposte di culto (o ecclesiastiche), non può essere sottovalutata, anche se le crisi degli anni Sessanta in Germania e Settanta in Svizzera sembrano affievolirsi[3].

La recrudescenza ciclica delle crisi collettive in quest’ultimo mezzo secolo[4] testimonia che le dimissioni dalla Chiesa, anche quando non implichino una negazione soggettiva della fede, investono le Chiese particolari dell’Europa centrale, non solo alla superficie, ma al cuore stesso della istituzione sia canonica che ecclesiastica su cui poggia il sistema del rapporto tra Chiesa e Stato. Dal momento che il fenomeno investe il rapporto costituzionale della Chiesa con i suoi fedeli non può essere affrontato dal profilo pastorale senza essere prima valutato nella sua rilevanza ecclesiologica.

Se si deve far credito a un canonista che nel 1977 ha fatto una analisi delle motivazioni che spingerebbero la maggioranza dei cattolici della Germania Federale a pagare puntualmente le imposte ecclesiastiche pur disponendo del diritto di dichiarare le proprie dimissioni dalla Chiesa – in virtù della libertà di coscienza garantita in Germania, come negli altri Paesi implicati nel fenomeno, dalla Costituzione[5] – la situazione potrebbe apparire preoccupante.

Secondo l’ipotesi di questo autore, il 70% dei cattolici tedeschi non avrebbe più alcun rapporto essenziale con la Chiesa, pur accettando, perché deboli e non sufficientemente emancipati, di figurare ufficialmente come membri della stessa e di versarle il loro contributo fiscale. Questo atteggiamento, non

più plausibile razionalmente, sarebbe provocato dalla paura inconscia di perdere la loro identità sociale, dalla preoccupazione – caratteristica di una società dei consumi – di assicurarsi l’avvenire (funerali), dal rispetto sentimentale del modo di pensare delle generazioni precedenti, dalla preoccupazione di garantire ai figli un’integrazione sociale anche nel «milieu» cattolico, dal timore del controllo sociale o da quello di subire eventuali svantaggi professionali ed economici.

Questo modo di presentare la situazione potrebbe apparire sconveniente agli occhi di molti[6]. In ogni caso esso è discutibile dal profilo scientifico, poiché l’autore non sembra inquietato dal fatto che la sua analisi non risulta – almeno apparentemente – fondata su un’inchiesta condotta con criteri professionali. Si tratta allora di una proiezione di opinioni soggettive o di un semplice processo alle intenzioni? Non è importante stabilirlo in questa sede[7]. E importante, per contro, constatare che le dimissioni e le non-dimissioni dalla Chiesa rappresentano il duplice risvolto di un unico e medesimo problema: quello del valore indicativo, per l’appartenenza o la non appartenenza alla Chiesa, attribuibile al fatto che un cristiano paghi o rifiuti di pagare le proprie quote fiscali[8].

Nel valutare la situazione canonica dei fedeli che pagano o non pagano le loro imposte bisogna comunque tener conto che la situazione è a doppio taglio. Effettivamente, esistono dappertutto cattolici che non avendo più una vera fede né un vero rapporto con la loro Chiesa, continuano ad accettare un rapporto fiscale con essa, anche sulla base di motivazioni che possono non più apparire plausibili razionalmente, come ve ne sono altri che, pur avendo ancora un rapporto di fede con la Chiesa (e talvolta proprio in virtù della loro fede), dichiarano le loro dimissioni e cessano ogni rapporto fiscale.

La domanda è allora se il fatto di adempiere un dovere d’ordine finanziario o il fatto di rifiutarlo con un atto di dimissioni dalla Chiesa, può essere considerato, dal punto di vista canonico, come un atto che permetta di giudicare dell’appartenenza di un cristiano alla Chiesa. In quest’ultimo caso, bisogna pure porsi la domanda se si tratta di una fattispecie che possa giustificare anche la comminazione di una pena canonica.

La situazione è chiara soltanto per il caso tipico, che si può ritenere corrisponda pure al caso statisticamente più frequente: quello del fedele che crede ancora e accetta il sistema delle imposte obbligatorie, e quello del fedele che non crede più e che dichiara pure la sua uscita dalla Chiesa. In questi due casi, l’appartenenza o la non-appartenenza possono essere giudicate sulla base del concorso di due elementi: la fede o la non-fede e l’accettazione o il rifiuto delle imposte ecclesiastiche.

Nel caso atipico, invece, il giudizio è difficile, perché bisognerebbe statuire sull’adesione o la non-adesione alla Chiesa sulla base di un solo dato formale: il pagamento o il non-paga- mento delle imposte di culto. L’eventuale cedimento nella fede di coloro che nondimeno pagano e l’eventuale esistenza della fede in coloro che rifiutano di pagare, non possono invece essere verificati. Sembra dunque impossibile stabilire un’equazione secondo cui quelli che pagano le imposte ecclesiastiche aderiscono alla Chiesa e coloro che non le pagano non vi appartengono. Quest’ultimo elemento dell’equazione si complica ulteriormente nelle Chiese dell’Europa centrale, per il fatto che i cristiani che non intendono pagare le proprie imposte sono costretti, di fronte a una istanza dello Stato, a dichiarare le proprie dimissioni dalla Chiesa.

L’esame del primo elemento dell’equazione supera il nostro intento. I campioni delle motivazioni che non derivano dalla fede forniti dall’autore citato sopra (70% dei cattolici tedeschi) mostrano certamente che il problema esigerebbe un’analisi e una riflessione teologica molto sfumate.

Il secondo elemento dell’equazione costituisce l’unico problema da studiare in questo lavoro. Se l’ipotesi è che il rifiuto di pagare contributi finanziari in favore della Chiesa può essere interpretato legittimamente come un segno di non-adesione o di non-appartenenza alla Chiesa, allora un problema si pone: perché le Chiese dell’Europa centrale insistono sul carattere giuridicamente obbligatorio delle imposte, malgrado il fenomeno delle dimissioni, e perché le sanzionano con pene canoniche? Si pensa che le Chiese temono che l’abolizione del carattere obbligatorio sia fatale alle loro finanze, oppure si pensa che esse mantengano le imposte obbligatorie perché le considerano elemento atto ad offrire un’indicazione sufficientemente chiara per dare un giudizio sull’appartenenza dei fedeli?

La prima ipotesi non può essere presa seriamente in considerazione, anche se si deve riconoscere che essa gioca un ruolo importante dal punto di vista emozionale e psicologico. Essa sarebbe troppo grave per l’autenticità del rapporto tra le Chiese e i fedeli. La seconda ipotesi è la sola possibile, ma se ne deve verificare la consistenza oggettiva. Infatti sembra andare contro la tradizione della Chiesa universale, che si è sempre mostrata non solo molto prudente nell’impostazione dei contributi generalizzati a tutti, ma anche molto restia nella penalizzazione dei fedeli non-contribuenti. Non si tratta, evidentemente, di negare il diritto della Chiesa di esigere contributi finanziari dai propri fedeli, ma di saperlo cogliere nella sua dimensione teologica specifica. Questo sforzo deve essere compiuto ugualmente per il principio dell’obbedienza, dal momento che l’obbedienza all’autorità ecclesiale non ha il medesimo fondamento né le medesime implicazioni dell’obbedienza all’autorità dello Stato.

La dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa si rivela come estremamente complessa in quanto profondamente dipendente dal sistema di rapporti esistenti tra le Chiese e lo Stato, nei paesi dell’Europa centrale. Ne risulta che la difficoltà nella valutazione canonica dell’atto di dimissioni dalla Chiesa deriva da parecchi elementi. Da una parte, dal fatto che il diritto canonico comune e di conseguenza la riflessione teologica a livello di Chiesa universale non prevedono la possibilità di dimissioni dalla Chiesa così come è conosciuta nelle Chiese particolari dell’Europa centrale. D’altra parte, dal fatto che le dimissioni dalla Chiesa sono parte integrante del sistema che regge il rapporto tra la Chiesa e lo Stato in questa stessa regione culturale. Ci si trova dunque davanti a due differenti origini del problema che, all’occorrenza, sono molto difficili da separare: l’origine canonica e l’origine ecclesiastica. Anche se ciò può sembrare artificiale, bisogna distinguere le due dimensioni del problema prima di riunirle per farne la sintesi.


II. L’aspetto canonico del problema

  1. Analisi della normativa canonica vigente

  2. A) Le dimissioni dalla Chiesa

Il CIC del 1917 non prevede per il cristiano la possibilità di dimettersi dalla Chiesa di Cristo. La teologia sacramentale lo vieta affermando che il battezzato è incorporato per sempre a Cri-

392 SEZIONE II: QUESTIONI DI DIRITTO COSTITUZIONALE sto. La dottrina del «character indelebilis» ha tentato bene o male di dare una spiegazione a questa verità dogmatica, profondamente radicata nella tradizione della Chiesa.

Il cristiano non può sottrarsi all’appartenenza a Cristo, così come l’uomo non può sottrarsi al fatto di appartenere al Padre che lo ha creato.

L’appartenenza a Cristo originata dal Battesimo implica l’appartenenza alla Chiesa. Il Battesimo è il sacramento costitutivo di questa appartenenza e la «janua» di tutti gli altri sacramenti[9]. E vero che tutti gli uomini appartengono al Cristo redentore, poiché questi ha versato il suo sangue per la salvezza della moltitudine. Ma dal momento in cui questa appartenenza è stata consacrata dal sacramento del Battesimo, che presuppone la fede, non è più possibile regredire al livello antecedente. Così come non c’è regressione possibile dal livello soprannaturale a quello naturale[10], non c’è più ritorno possibile dal livello sacramentale a quello non-sacramentale, dal livello dell’appartenenza all’unica Chiesa di Cristo a quello della non-appartenenza. È ciò che esprime il principio «semel christianus, semper christia- nus». Persino gli apostati che, per definizione, hanno perso ogni fede cristiana e non appartengono più a nessuna Chiesa e comunità ecclesiale specifica, restano tuttavia membri della sola e unica Chiesa di Cristo.

D’altra parte, il principio «semel catholicus, semper catholi- cus» non ha valore assoluto. Esso è applicato dalla Chiesa cattolica in certi settori del suo ordinamento giuridico, ma a titolo puramente disciplinare[11]. Ciò significa che è possibile passare da una confessione cristiana all’altra, senza tuttavia smettere d’appartenere alla sola e unica Chiesa di Cristo. Questa dottrina che è stata affermata dal Vaticano II, laddove ha riconosciuto l’esistenza di altre Chiese e di altre comunità ecclesiali separate, non è d’altronde nuova nella tradizione teologica cattolica. È già presente nel canone 87 del CIC, al quale corrisponde il canone 2225 sulla scomunica. Si tratta di due norme che trasmettono la tradizione ecclesiologica più antica, anteriore alla Riforma. Con il Battesimo, l’uomo è costituito persona nella Chiesa di Cristo e in essa gode di ogni diritto e dovere, nella misura in cui non è limitato nel loro esercizio da un impedimento (indipendente da errore personale) o da una censura (dipendente da errore personale) che lo priva della piena comunione.

Vi sono dunque due livelli d’appartenenza alla Chiesa: un livello costituzionale (irreversibile) e uno operazionale (mutevole), dove questa appartenenza subisce limitazioni per ciò che concerne l’esercizio dei diritti e dei doveri[12].

La novità profonda portata dal Vaticano II in questa dottrina tradizionale concerne esclusivamente il modo di valutare teologicamente e giuridicamente la situazione ecclesiale dei cristiani che non godono (o non godono più) della piena comunione nella Chiesa di Cristo.

Seguendo un’altra tradizione ecclesiologica di origine «controversista» e apologetica, posteriore alla Riforma, il CIC tende a considerare i cristiani separati (per esempio gli eretici e gli scismatici) in una prospettiva puramente individuale, senza saper localizzarli in un contesto ecclesiologico che non sia quello del soggettivismo riduttivo della setta. Il Vaticano II, invece, ha riconosciuto formalmente, come si è appena detto, l’esistenza di cristiani sacramentalmente incorporati nell’unica Chiesa di Cristo, ma appartenenti a gruppi ecclesiali separati dalla Chiesa cattolica, che hanno conservato la struttura oggettiva propria di una Chiesa o di una comunità ecclesiale.

Esiste perciò, secondo il Vaticano II, una realizzazione a gradi diversi della comunione con Cristo, resa esplicita dall’apparte-

 

nenza alla comunione ecclesiale che si realizza pienamente nella Chiesa cattolica, nella quale la Chiesa di Cristo sussiste, senza peraltro che si possa affermare l’esistenza, tra la Chiesa cattolica e la Chiesa di Cristo, di una identità tale che possa escludere le Chiese separate dall’appartenenza alla Chiesa di Cristo[13].

È nel progetto del nuovo codice del 1980 che le conseguenze giuridiche di questa dottrina sono state tratte. Contrariamente al CIC del 1917, le nuove norme generali prevedono, nel canone 11 § 2, che i cristiani appartenenti a una Chiesa o a una comunità ecclesiale separata non sono più sottomessi alle leggi puramente ecclesiastiche della Chiesa cattolica.

Questa norma, che rappresenta una svolta radicale nella storia del diritto canonico, non è tuttavia applicabile (secondo il § 3 dello stesso canone) ai cristiani che abbandonano la Chiesa cattolica senza tuttavia aderire ad un’altra confessione cristiana, cioè per gli apostati. Questi cristiani restano addirittura sottomessi, per principio, alle leggi puramente ecclesiastiche della Chiesa cattolica, salvo per alcuni casi previsti dalla legge stessa.

Il diritto matrimoniale del progetto per il nuovo codice del 1980 applica questa riserva a tre casi molto importanti. I cristiani battezzati nella Chiesa cattolica o accolti in essa sono esonerati dall’impedimento della disparità di culto (progetto, can. 1039 § 1), della forma canonica (progetto, can. 1072), e dalla interdizione dei matrimoni misti (progetto, can. 1078), nel caso in cui dichiarano, con atto formale, la propria defezione dalla Chiesa cattolica. Ciò significa che il Diritto canonico prevede, per il futuro, dei casi in cui una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa ha effetti liberatori globali (can. 11 § 2) o parziali (can. 1039 § 1, 1072, 1078) in rapporto alle leggi puramente ecclesiastiche (cioè umane) della Chiesa cattolica.

Contrariamente alle dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali, si tratta in questi casi di dichiarazioni che attingono al fondamento stesso della fede. Materialmente, l’effetto liberatorio non è prodotto dalla dichiarazione formale ma dalla defezione in quanto tale dalla fede cattolica. L’atto formale di dichiarazione di dimissioni (o l’iscrizione formale a un’altra comunità ecclesiale) non è costitutivo in sé. È richiesto innanzitutto per ragioni di certezza giuridica da un lato, dall’altro per limitare gli effetti giuridici stessi della defezione dalla fede (per gli apostati).

Bisogna da ciò concludere che nella nuova normativa canonica, un atto formale di dimissioni dalla Chiesa non è previsto né operante giuridicamente se non coinvolge nello stesso tempo il livello della fede. E dunque evidente che un atto di dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali non può essere messo «tout-court» in relazione con il fatto dell’appartenenza alla Chiesa. Dev’essere innanzitutto valutato come manifestazione della volontà di non voler assolvere certi doveri finanziari e, di conseguenza, sembra che non sia possibile punirlo con le stesse misure applicabili all’apostasia, all’eresia e allo scisma.

Per principio, ogni colpa grave implica una diminuzione della piena comunione. Tuttavia la Chiesa non le attribuisce rilievo a livello giuridico che nel caso in cui essa superi il livello puramente soggettivo per riversarsi nella sfera esteriore e sociale. Seguendo criteri oggettivi ma spesso anche convenzionali, dettati dalla coscienza ecclesiologica propria di un’epoca, la Chiesa fissa la scriminante fra livello soggettivo e livello oggettivo, rilevanti ai fini della non-comunione. La tecnica giuridica di questo intervento è nella maggior parte dei casi quella propria del diritto penale. Una colpa che implica una violazione esteriore della legge è qualificata come delitto e, per definizione, può essere colpita con pena[14].

Se ogni delitto implica, dal punto di vista sostanziale, una diminuzione della piena comunione, ciò nondimeno solo certi delitti sono considerati, in virtù della loro natura specifica, come delitti direttamente contrari allo statuto d’appartenenza alla Chiesa. Si tratta di delitti che, nella prospettiva teologica bellar- miniana, ledono uno dei tre legami costitutivi della Chiesa, il «vinculum symbolicum, liturgicum et hierarchicum». Il CIC tratta questi delitti nei canoni 2314 ss. dando loro il titolo di delitti scontra fidem et unitatem ecclesiae». Si tratta dell’apostasia, dell’eresia e dello scisma. I delitti contro il «vinculum liturgicum» sono previsti invece nei canoni 2320 ss.

  1. B) Dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa e scisma

Per l’esame della natura canonica della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa che non implichino una negazione della fede personale, è inutile prendere in considerazione l’apostasia, che presuppone la negazione totale della fede, né l’eresia che implica la negazione di certe verità di fede. Il solo delitto che può essere preso in considerazione è quello dello scisma, che consiste nella rottura dell’unità con la gerarchia cattolica della Chiesa universale e particolare.

Tuttavia, il problema è complesso perché non è evidente l’esistenza di una distinzione adeguata tra eresia e scisma, e quindi che possa essere senz’altro affermata l’esistenza dello «schisma purum». La distinzione nella fattispecie è di natura formale: l’eresia concerne il contenuto della fede, lo scisma concerne la sottomissione alla gerarchia cattolica.

Dal punto di vista storico, gli scismi hanno quasi sempre avuto delle implicazioni dottrinali[15]. Tuttavia il problema non si pone a livello storico ma a livello sistematico. Infatti, l’unità non ha, nella Chiesa, una portata puramente morale e disciplinare: essa è costitutiva dell’essenza stessa della Chiesa. Essa appartiene di conseguenza come ogni altra verità al contenuto della fede: è una verità di fede. Nella professione di fede, si afferma infatti di credere nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Ne consegue che colui che credesse nell’esistenza di parecchie Chiese di Cristo dovrebbe essere considerato apostata. Dividere Cristo e la sua Chiesa sarebbe equivalente a una distruzione totale del fondamento stesso della fede. Ma già l’affermazione della legittimità dell’esistenza di parecchie confessioni ecclesiali, cioè di parecchie Chiese e comunità ecclesiali come manifestazioni ugualmente legittime dell’unica Chiesa di Cristo, implica una riduzione sostanziale della nozione di unità.

L’unicità della Chiesa di Cristo postula l’unità nella comunione. Ne consegue che la distinzione tra eresia e scisma non è adeguata. Infatti anche quando lo scisma non si accompagni con la negazione di altre verità, implica comunque la negazione di quella verità di fede che concerne l’unità della Chiesa. Pur riconoscendo la possibilità di una distinzione formale e sostanziale tra l’eresia e lo scisma, bisogna dunque concludere che quest’ultimo presuppone un cedimento oggettivo a livello di fede.

Il problema è sapere se le dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali (o analoghe) che non implicano un cedimento nella fede possono essere definite come scisma. Non mancano autori che lo sostengono, senza peraltro dare l’impressione di avere affrontato il problema in profondità[16]. La loro ipotesi è quella della possibilità dello «schisma purum», non nel senso storico ma nel senso teorico, per cui gli estremi dello scisma possono verificarsi anche quando l’atto di disobbedienza non implica la negazione di problemi di fede.

  1. C) Scisma e disobbedienza

Cionondimeno, le dimissioni fiscali dalla Chiesa rappresentano una disobbedienza nei confronti di essa e per ciò stesso coinvolgono la fede nell’unità. Ma questa disobbedienza può essere considerata come abbastanza grave da assumere l’intensità dello scisma? Esistono parecchie ragioni che permettono di negarlo.

Il C1C stesso distingue tra la disobbedienza che può essere definita come semplice e lo scisma, per il fatto che prevede, senza peraltro darne le ragioni dottrinali, due fattispecie penali differenti. Il can. 2331 prevede che una disobbedienza – nella misura in cui non raggiunge la qualifica propria allo scisma (can. 2314) – può essere punita dal Papa e dai Vescovi. Certamente non è sempre facile stabilire con precisione la differenza tra lo scisma e una semplice disobbedienza, dato che ogni scisma implica una disobbedienza e una disobbedienza semplice può portare allo scisma. Tuttavia, si può considerare come elemento costitutivo di differenziazione il fatto che la disobbedienza semplice non coinvolge in linea di principio l’autorità della gerarchia. Essa si oppone piuttosto a una decisione concreta della Chiesa senza contestare globalmente la sua autorità. Invece lo scisma mira per sua natura alla costituzione di una Chiesa alternativa. Anche se, a rigore, bisogna ammettere la possibilità teorica che lo scisma possa essere consumato da un atto individuale, non è tuttavia meno vero, come la storia dimostra, che esso tende alla costituzione di un’altra realtà ecclesiale autonoma e indipendente in rapporto a quella preesistente. Sembra essere un atto che si realizza nella sua pienezza solo al momento in cui si trasforma in atto collettivo di rottura di comunione con il Papa e con i Vescovi uniti con lui (can. 1325 § 2).

L’analisi del Diritto canonico particolare tedesco e svizzero porta alla conclusione che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa non può essere assimilata al delitto di scisma, punito in diritto comune con la scomunica «latae sententiae speciali modo Sedi Apostolicae reservata» (can. 2314 § 1, 2).

Due sinodi diocesani tedeschi del dopoguerra, quello di Colonia del 1954 e quello di Treviri del 1959[17], riprendendo nella loro sostanza alcuni decreti diocesani del 1937, hanno colpito con la pena della scomunica riservata all’Ordinario i cattolici che – davanti a una istanza dello Stato – dichiaravano le loro dimissioni dalla Chiesa per motivi fiscali o per altre considerazioni similari (politiche), pur restando interiormente nella fede. Il sinodo di Basilea, nel 1956, ha introdotto in Svizzera la stessa norma, quasi negli stessi termini[18]. Questa norma particolare è stata poi ripresa nell’essenziale da tutte le diocesi in forza di una dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi nel 1969[19]. Senza pronunciare esplicitamente la pena della scomunica, diventata forse obsoleta nel clima del dopo-Concilio, i Vescovi tedeschi colpiscono coloro che escono dalla Chiesa per ragioni fiscali con l’esclusione dalla vita sacramentale, che costituisce l’essenza della scomunica (can. 2260 § 1). Questi cristiani possono essere riammessi ai sacramenti solo dopo aver ritirato la loro dichiarazione e dopo essersi impegnati a far fronte ai loro obblighi finanziari.

Questa legislazione particolare lascia intendere che i Vescovi tedeschi e svizzeri, contrariamente a quanto sostengono alcuni canonisti[20], sono del parere che la fattispecie delle dimissioni dalla Chiesa non è prevista dal CIC e che pertanto non può essere assimilata allo scisma. Nel caso contrario, ne deriverebbe che le norme sinodali e la dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi sarebbero contrarie al canone 2247 § 1, che proibisce ai Vescovi di colpire con una pena un delitto già previsto dal diritto comune del CIC. Alcuni autori giustificano questa legislazione delle Chiese particolari invocando il dubbio di diritto cui dà spunto una certa dottrina che ritiene le dimissioni dalla Chiesa non assimilabili allo scisma[21]. Questo dubbio di diritto renderebbe legali le pene promulgate dalle Chiese particolari, che troverebbero la propria legittimità nella competenza data ai Vescovi dal canone 2331 § 1, 2 di punire gli atti di disobbedienza. Ma allora si pone il problema della proporzione tra la scomunica prevista per lo scisma e l’esclusione dai sacramenti applicata per le dimissioni dalla Chiesa.

  1. D) La giustificazione teorica delle misure previste dal diritto particolare

Le ragioni principali invocate dalle Chiese e dalla dottrina per giustificare il sistema delle imposte ecclesiastiche obbligatorie e, conseguentemente, l’esclusione dai sacramenti dei cristiani che abbandonano la Chiesa allo scopo di sottrarsi al loro dovere fiscale, sono di natura generale e particolare.

Di ordine generale sono:

  1. a) il dovere di solidarietà nei confronti degli altri cristiani e degli impegni finanziari della Chiesa per realizzare i propri scopi pastorali, missionari, caritativi, ecc…;

  2. b) l’obbedienza alla Chiesa che, secondo il canone 1496, gode del diritto di esigere contributi finanziari dai propri fedeli.

Di ordine particolare sono:

  1. c) l’obbedienza alle scelte della Chiesa, che stima di poter assimilare il diritto che le è assicurato dal canone 1496 al diritto che le è concesso dallo Stato di percepire imposte ecclesiastiche obbligatorie;

  2. d) il fatto che questo sistema garantisce alla Chiesa la libertà e l’indipendenza nei riguardi dello Stato o di altri gruppi di pressione;

  3. e) il fatto che il sistema delle imposte, più di ogni altro, garantisce una ripartizione degli oneri che realizza il principio della giustizia, al quale la Chiesa sa di essere vincolata;

  4. f) il fatto che le imposte obbligatorie permettono, in una struttura economica moderna, una pianificazione sicura dell’attività ecclesiale;

  5. g) il fatto che la forza finanziaria della Chiesa, garantita dal sistema delle imposte, le permette di assicurarsi in proprio certi impegni sociali e culturali e di limitare così il «trend» monopolizzante dello Stato.

Per quanto concerne più in particolare la legittimità delle misure penali, si fa valere il principio giuridico secondo cui i «diritti fondamentali» del cristiano possono essere esercitati solo nella misura in cui gli stessi doveri fondamentali sono rispettati[22].

E evidente che queste motivazioni non hanno tutte lo stesso valore, né teologico né razionale, e che si passa indebitamente dal livello teologico a quello storico e politico nella misura in cui le argomentazioni teologiche vengono applicate impropriamente a tutta la problematica inerente al sistema delle imposte obbligatorie delle Chiese particolari: sistema sconosciuto a livello della Chiesa universale.

  1. E) Il fondamento teologico

del diritto patrimoniale della Chiesa

Per capir meglio la portata esatta dei principi più strettamente teologici, conviene esaminare gli elementi ecclesiologici e storici che sono alla base della loro formulazione, pur mettendoli in rapporto col contesto del diritto patrimoniale canonico vigente. La prima constatazione che si impone è che né il CIC né l’ultimo progetto di revisione del Diritto canonico (1980) fondano esplicitamente il dovere del cristiano di contribuire ai bisogni finanziari della Chiesa sul principio della solidarietà. La dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi introduce di conseguenza un elemento nuovo di cui si può rintracciare l’origine nello spirito del Concilio Vaticano II, ma che tuttavia non corrisponde esattamente al principio fondamentale su cui la Chiesa primitiva aveva edificato il proprio regime patrimoniale, che ci sembra essere, più giustamente, il principio della comunione[23]. Ad ogni modo, il principio di comunione dei beni è stato ridotto a ben poco dai cambiamenti sopraggiunti nella storia dei sistemi patrimoniali della Chiesa.

  1. a) L’evoluzione dei regimi patrimoniali fino all’introduzione delle imposte ecclesiastiche obbligatorie

L’analisi dei diversi regimi patrimoniali della storia della Chiesa mostra che i cambiamenti intervenuti non hanno soltanto provocato una modifica del rapporto economico e giuridico tra la Chiesa e i propri fedeli, ma anche un mutamento nella concezione stessa dei beni ecclesiastici[24].

La Chiesa primitiva non si considerava titolare dei beni che amministrava. Questo diritto spettava ai poveri. Evidentemente, la questione della titolarità non si poneva in un senso strettamente giuridico, ma piuttosto morale, per il fatto che la Chiesa non godeva sempre né dappertutto della personalità giuridica, nemmeno di diritto privato, per possedere in proprio dei beni[25]. Le

 

donazioni ricevute dalla Chiesa erano considerate come beni appartenenti ai poveri[26], anche se, dagli inizi, erano pure destinate al mantenimento del clero.

Il regime patrimoniale era un regime di donazione fiduciaria il cui carattere libero e volontario è stato esplicitamente sotto- lineato dai Padri della Chiesa[27]. Gli Atti degli Apostoli, del resto, testimoniano che i cristiani consideravano i loro beni privati come elemento integrante della loro vita di comunione[28].

Una regolamentazione più precisa delle collette e dei redditi sarà intrapresa dai Papi Simpliciano, Gelasio I e Gregorio I, nella seconda metà del quinto secolo, secondo il criterio della divisione in quattro parti: per la fabbrica della Chiesa, per i poveri e i pellegrini, per il Vescovo, per il clero[29].

Questa riforma, estesasi dalla provincia romana alle altre parti della Chiesa occidentale solo nell’ottavo secolo, testimonia una trasformazione in profondità del regime patrimoniale. Già riconosciuta come persona morale di diritto pubblico da Costantino e Teodosio, la Chiesa è diventata su vasta scala titolare di beni immobili (edifici e terre) e mobili[30]. Questo le permette di garantirsi redditi con la gestione privata dei propri beni patrimoniali.

Questa evoluzione che ha seguito la tendenza, comune a tutto il Medioevo, di far slittare i rapporti giuridici dalla sfera del diritto pubblico a quella del diritto privato, non ha pertanto messo fine all’attività caritativa nella Chiesa, che ha continuato a essere molto sviluppata durante questo periodo. Si ha così la nascita di un dualismo nella gestione dei beni ecclesiastici: da un lato l’attività caritativa, dall’altro il sostentamento della Chiesa sulla base dei diritti privati.

È difficile stabilire in quale proporzione i redditi di sostentamento dell’attività della Chiesa sono coperti dalla gestione di beni patrimoniali privati e dal libero contributo dei fedeli; è tuttavia certo che persino questi ultimi contributi non sono più garantiti dalla totalità dei fedeli, ma piuttosto da persone private o pubbliche, laici o appartenenti al clero, che spesso impongono sulle loro donazioni degli oneri che consistono in contro-prestazioni di natura religiosa o temporale.

A lato di questo nuovo cespite di diritto privato si sviluppa pure un cespite di diritto pubblico che ha il suo fondamento giuridico nel potere di sovranità ormai riconosciuto alla Chiesa: la «jurisdictio episcopalis». A dire il vero, già la Didaché[51], rifacendosi alla tradizione veterotestamentaria, fa allusione all’istituto delle decime e i Padri non hanno esitato a raccomandarle ai fedeli. Tuttavia, questo obbligo assume un carattere giuridicamente vincolante solo a partire dal quinto secolo. Le testimonianze di questa evoluzione non mancano: come per esempio quella dell’XI Sinodo di Cartagine (407), che chiede all’imperatore di nominare cinque funzionari per incassare le decime dei fedeli inadempienti[52]. Tuttavia, le decime saranno introdotte in Occidente su una base più estesa solo a partire dall’ottavo secolo. Non si tratta di imposte esatte dalla totalità dei fedeli, ma dal clero, dalle persone morali (benefici, fondazioni, ecc…) o dai laici usufruttuari dei beni appartenenti alla Chiesa.

Questa doppia evoluzione trasforma pure lo statuto dei beni della Chiesa. Il loro fine non è più soltanto ecclesiale, ma anche secolare, poiché essi garantiscono pure le rendite necessarie alla Chiesa nell’esercizio delle proprie funzioni politiche assunte nel sistema feudale, la cui espressione più naturale è quella dei principi-Vescovi.

I redditi di diritto privato o pubblico rappresentano a loro volta dei contributi dovuti come corrispettivo di prestazioni non solo spirituali ma anche temporali e politiche della Chiesa. Non bisogna meravigliarsi se, soprattutto nel secondo millennio, l’idea tradizionale che i beni della Chiesa sono quelli dei poveri si oblitera[33].

Questa complessa evoluzione va di pari passo con la rottura, nell’ottavo e nel nono secolo, della gestione unitaria, nelle mani del Vescovo, dei beni della Chiesa. E sostituita da una pluralità considerevole di soggetti giuridici, ecclesiastici e secolari, come per esempio la «mensa episcopalis», la «mensa capitularis», le fabbriche di Chiese, i benefici e le fondazioni d’ogni genere. Questo fenomeno, che riproduce nella Chiesa la struttura orizzontale propria del Medioevo, è stato provocato da diverse cause, come l’estensione territoriale delle diocesi nelle campagne, la comparsa del sistema dei benefici e di quello della Chiesa propria, il passaggio da un regime monetario a un regime essenzialmente naturale e terriero, la preoccupazione di salvare, disperdendolo, il patrimonio ecclesiastico dalle secolarizzazioni periodiche effettuate da parte dei laici.

Le due secolarizzazioni generali dei beni ecclesiastici, in Francia con la Costituzione Civile del Clero (1790) e in Germania con la «Reichsdeputationhauptschluss» (1803), hanno provocato in Europa centrale una nuova evoluzione nel regime economico della Chiesa. La scomparsa dei redditi della gestione privata o pubblica dei beni patrimoniali propri è stata in un primo tempo sostituita dalle «dotazioni» riconosciute alla Chiesa dallo Stato, come compensazione dei beni che questi si era appropriato[34]. Nel sistema della Chiesa di Stato, dove la Chiesa è considerata dallo Stato assolutista come una pertinenza della gestione statale e il clero come funzionario di Stato, quest’ultimo si incarica pure della gestione finanziaria della Chiesa[35]. Al regime fondiario e naturale succede anche nella Chiesa un regime monetario che, nei paesi di lingua tedesca, pone i presupposti per l’introduzione del sistema delle imposte ecclesiastiche[36].

L’introduzione generalizzata delle imposte ecclesiastiche obbligatorie in Germania (poi a poco a poco nei cantoni svizzeri) fu pure la conseguenza dell’inflazione enorme della moneta tedesca dopo la prima guerra mondiale che, per le finanze della Chiesa, è stata ancora più catastrofica della secolarizzazione del 1803. Altre circostanze generali hanno giocato un ruolo importante, come la straordinaria crescita della popolazione, che ha provocato un’estensione fino ad allora sconosciuta dei compiti pastorali della Chiesa in una società industrializzata e monetaria, diventata molto complessa nella struttura.

Dal punto di vista istituzionale, le imposte ecclesiastiche vere e proprie, riscosse dallo Stato a nome della Chiesa o da essa direttamente, trovano la loro origine nella progressiva separazione delle competenze tra Chiesa e Stato, iniziata con la rivoluzione liberale del 1848” e consacrata dalla Costituzione di Weimar (1919). La Chiesa è riconosciuta dallo Stato come corporazione di diritto pubblico, che gode di un potere di sovranità propria e del diritto di riscuotere imposte[38].

  1. b) La giustificazione teorica delle imposte ecclesiastiche

  2. aa) Influsso indiretto della teoria generale del diritto secolare – Un esame della teoria generale elaborata per spiegare e legittimare l’istituzione giuridica delle imposte come elemento fondamentale della gestione economica dello Stato, mostra che tale dottrina non è restata senza influenza sul rapporto patrimoniale tra le Chiese dell’Europa centrale e i loro fedeli.

La filosofia politica del contratto sociale o statale del secolo dei lumi ha introdotto la teoria dell’equivalenza, secondo la quale le imposte non sarebbero se non la contro-prestazione dei servizi e della protezione offerti dallo Stato. Il rapporto tra lo Stato e il cittadino è commercializzato secondo il criterio della prestazione e contro-prestazione: più il patrimonio privato protetto dallo Stato è grande, più il cittadino deve pagare delle imposte.

Nel xix secolo si impone una nuova teoria detta «realista», le cui fonti sono la filosofia greca e scolastica, secondo cui lo Stato non è una società fondata su un contratto, ma piuttosto una società per se stessa necessaria. Il cittadino non è più concepito come collaboratore, ma come un membro obbligatorio.

Lo Stato può, di conseguenza, costringere il cittadino a pagare delle imposte per il fatto stesso che è obbligato, per definizione stessa, a realizzare certi compiti comuni. La misura dei contributi dovuti da ciascuno diventa indipendente dai vantaggi di cui ogni cittadino può godere. L’idea che il contributo è un sacrificio in favore della collettività non è più applicabile perché le imposte sono dei contributi forzati che derivano dal carattere necessario dell’organizzazione statale39.

L’idea che la Chiesa è anch’essa un’organizzazione che garantisce delle prestazioni, non è estranea all’argomentazione secondo cui i diritti fondamentali possono essere esercitati solo a condizione che i doveri fondamentali siano adempiuti. Negli stessi documenti dell’episcopato tedesco emerge pure l’idea secondo cui i contributi dei fedeli devono essere in linea di principio uguali e dovuti da tutti, dal momento che i vantaggi sono uguali; idea che emerge pure nei documenti e nella dottrina già citati sopra.

Tale applicazione sia pure inconsapevole di una teoria filosofica e giuridica nei rapporti Chiesa-fedeli trova una fonte ancor più diretta nell’ecclesiologia di questo stesso periodo, che è l’ecclesiologia della «societas perfecta».

  1. bb) Influenza diretta delle fonti canoniche: lo «Ius Publicum Ecclesiasticum» (IPE) – Di fatto, il diritto patrimoniale canonico del CIC, ma anche quello dell’ultimo progetto di revisione del Codice, ha il suo sostegno teorico nell’idea della Chiesa come società perfetta.

Il cardine di tutto il sistema è il canone 1495 § 1, che proclama il diritto tradizionale della Chiesa di possedere liberamente e indipendentemente dal potere civile i beni temporali necessari ai propri fini. Da questo diritto primario deriva naturalmente il principio del canone seguente (1496) che riconosce alla Chiesa il diritto di esigere dai suoi fedeli, indipendentemente dal potere civile, i contributi necessari all’esercizio del culto, al mantenimento del clero, e alla realizzazione degli altri fini propri della Chiesa.

E vero che l’ultimo progetto di revisione del Codice (1980), pur riprendendo la stessa costruzione giuridica di base nei canoni 1205 e 1211, introduce due elementi nuovi: la menzione esplicita dell’obbligo di aver cura dei poveri (can. 1205 § 2) e il dovere dei fedeli di contribuire finanziariamente alla realizzazione dei fini comuni della Chiesa. Evidentemente, anche nel CIC del 1917, il dovere dei fedeli era implicitamente affermato. Ma, seguendo il modello statale, esso era sottinteso più come diritto della Chiesa di esigere delle quote che dovere originario dei fedeli, prioritario persino rispetto al diritto dell’autorità.

Ci si può chiedere se le correzioni di traiettoria introdotte nel progetto del nuovo Codice sono sufficienti per modificare in profondità il fondamento teorico mutuato dai parametri giuridici dello Stato. Infatti, la Chiesa è ancora concepita come società perfetta e necessaria, dove esiste un’organizzazione del potere incaricato di compiere in proprio dei compiti che superano sì le possibilità, ma ultimamente anche l’obbligo dei fedeli. In tale costruzione, la gerarchia è concepita come un’istanza incaricata di attuare compiti propri alla Chiesa, che i fedeli devono sostenere senza essere chiaramente considerati come soggetti portatori di una responsabilità loro spettante.

Basta gettare un colpo d’occhio sulla dottrina canonica che ha preceduto la promulgazione del CIC del 1917 per vedere come si è fatto giocare il parallelismo tra Chiesa e Stato. Georg Phillips, per esempio, non esita a scrivere che se lo Stato ha bisogno di beni materiali per i propri fini profani, per l’esercito, i propri funzionari, gli edifici pubblici, parimenti la Chiesa – così come ogni religione, come la ragione e l’esperienza insegnano – non può evitare di possedere dei beni temporali per celebrare il culto, per pagare il clero, e per costruire e conservare i propri edifici. Nonostante essa non sia un segno di questo mondo, essa è un segno in questo mondo. Tutti i cristiani hanno, di conseguenza, il dovere di dare una parte dei loro beni alla Chiesa, come lo fanno per lo Stato[40].

Il ricorso al diritto naturale appare pure con evidenza nei rappresentanti tipici dell’IPE. Il cardinale Felice Cavagnis, per esempio, stabilisce, senza preoccuparsi troppo, un parallelismo perfetto tra la Chiesa come società e lo Stato, fino a ridurre la questione patrimoniale a un rapporto di giustizia bilaterale. Per il fatto che la Chiesa dà ai fedeli dei beni che le appartengono in proprio, ha il diritto di ricevere delle controprestazioni. Scrive infatti: «Cum Ecclesia eiusque internas subdivisiones… sint societates hanimum quatenus tales, sequitur eas indigere bonis temporalibus. Ergo sequitur indigeat rebus temporalibus, cum- que societas ius habeat exigendi a suis media sibi necessaria, cum eadem aliunde non habet, cumque Ecclesia etsi a Deo habeat supernaturalia eaque de suo conferat fidelibus… sequitur eadem a fidelibus esse ei subministranda… Si sufficientes non sunt spontaneae oblationes, tune Ecclesia eas ex supra allegata principio, iure lege imponit… ut facit ipsa societas civilis, id est decimis et primitiis… »[41].

L’immagine della Chiesa come società perfetta di diritto naturale[42] porta a concepire il rapporto Chiesa-fedeli con gli stessi parametri del rapporto Stato-cittadini, cioè come fondato sulla giustizia naturale che, nello Stato di diritto, trova la sua espressione primaria nel principio dell’uguaglianza davanti alla legge. Dal momento che tutti i cittadini hanno diritto alle stesse prestazioni, sono tenuti, in virtù della giustizia legale, a pagare le imposte, e in virtù della giustizia distributiva, a pagare in misura proporzionale. I principi dell’uguaglianza e della giustizia implicano quello della coercizione. La ripartizione dell’ingiustizia provocata da un comportamento illegale causa in modo inevitabile la necessità della coercizione.

  1. Ricerca di un nuovo fondamento del diritto patrimoniale

  2. A) La «communio»

come principio strutturale della Chiesa

In quanto realtà sociale, la Chiesa non è retta dal principio della giustizia naturale ma da quello della giustizia di Dio che trova la sua traduzione istituzionale nella struttura sociale della «communio Ecclesiae et Ecclesiarum». Al livello del rapporto patrimoniale Chiesa-fedeli, la «communio» infrange la logica fiscale della contribuzione (fiscalizzazione). Essa tende infatti a rovesciare il rapporto. Il principio prioritario non è il diritto della Chiesa di esigere contributi, ma il dovere dei fedeli di dividere una parte dei loro beni con gli altri fedeli. Il presunto diritto naturale della Chiesa d’esigere contributi e il presunto dovere naturale dei fedeli di contribuire, è senz’altro meno forte del dovere e diritto derivanti dalla comunione che esige una compartecipazione, non solo ai beni spirituali, ma anche ai beni materiali.

Questa dimensione teologica sottrae il problema alla logica della giustizia legale e distributiva che, sul piano fiscale, innesca una reazione a catena. I fedeli che rifiutano di pagare il loro contributo fiscale (giustizia legale) o di pagarlo nella sua entità (giustizia distributiva), obbligano gli altri a pagare di più. Per evitare tale spirale di ingiustizia, diventa necessario intervenire con la coercizione, il cui scopo è pure quello di garantire una base contributiva la più estesa possibile.

La logica della comunione è differente, dal momento che considera la divisione libera dei beni non come un sacrificio o un obbligo imposti in nome della giustizia naturale, ma come uno stimolo ad arricchirsi nella fede col donare agli altri. L’eventualità di dover contribuire in misura maggiore, per omissione del pagamento da parte degli altri, non può essere considerata come un’ingiustizia, ma come una sollecitazione a lasciarsi coinvolgere ancor più nella logica della comunione. La giustizia ecclesiale si realizza nella dinamica della comunione, anche se dal punto di vista della ragione umana naturale ciò può sembrare illogico ed iniquo.

I  presupposti di questa dinamica non possono essere, evidentemente, che quelli della libertà nell’adesione al principio di comunione. La comunione è fondata sulla libertà. Infatti, la Chiesa non è una società naturale necessaria come lo Stato. Essa è necessaria, ma per la salvezza. Nell’economia normale del mistero di Cristo, bisogna aderirvi, ma senza coercizione alcuna.

II  problema qui sollevato è ancora una volta quello di sapere se, in una logica di comunione, è possibile far dipendere l’appartenenza o l’adesione alla Chiesa dal compimento di un dovere come quello del conferimento in comune dei beni. Si tratta di un dovere importante, la cui violazione comporta senza dubbio delle implicazioni anche sul piano giuridico. Tuttavia, una reazione coercitiva e penale si impone come necessaria o inevitabile solo quando si affronta il problema con i parametri propri della dottrina generale del diritto tributario statuale, fondato sul principio dell’equivalenza o su quello del carattere necessario e quindi sovraordinato dello Stato. Se, invece, si considera l’obbligo di contribuire ai bisogni della Chiesa come un dovere di comunione, bisogna ammettere la possibilità e persino l’opportunità per la Chiesa di esercitare la tolleranza in questo campo, dove l’uomo è coinvolto più direttamente che in altri campi della sua vita privata. La comunione, in quanto principio organizzativo ed etico dell’esperienza cristiana, pur essendo in se stessa più cogente della giustizia naturale, ne supera però i limiti. Essa non ha, come quest’ultima, la pretesa di doversi realizzare pienamente per esistere. Ne è prova il fatto che la «communio Ecclesiae et Ecclesiarum», come si è visto, si realizza per gradi differenti.

Esistono certo dei casi limite dove la comunione subisce una degradazione al punto di diventare una non-comunione. Col suo diritto penale, la Chiesa ha cercato, con più o meno successo nel corso della storia, di fissare i limiti prevedendo la pena della scomunica. Ma bisogna tener conto del fatto che la scomunica non realizza necessariamente la nozione di pena così com’è propria della teoria generale del diritto. È piuttosto – al di là dei contenuti giuridici che la Chiesa ha potuto darle – la constatazione di un fatto o di una situazione ecclesiale, che un mezzo di coercizione[45]. Il carattere «medicinale» della scomunica, proprio di tutte le censure, non può essere confuso col carattere coercitivo della pena. Con il constatare o il dichiarare un fatto (la scomunica) e con il collegarvi delle conseguenze (l’esclusione dai sacramenti), la Chiesa non intende costringere, nemmeno a livello spirituale – per quanto la coercizione sia possibile «in spirìtualibus» -, ma piuttosto attirare l’attenzione del fedele e degli altri su una situazione soggettiva e oggettiva di disordine ecclesiale, cioè di non-comunione. Lo scopo è di stimolare il fedele a convertirsi nella libertà.

  1. B) II principio della «proporzionalità» della pena

Anche se si volesse considerare la scomunica come una pena, nel senso stretto della teoria generale del diritto secolare, la questione fondamentale della proporzionalità tra il delitto e la pena continuerebbe a porsi. E sotto due aspetti diversi: diretta- mente, per il rapporto tra il delitto e la pena corrispondente; indirettamente, per il rapporto che deve esistere tra l’insieme dei delitti e le diverse pene. Si tratta di un problema sia di giustizia che di coerenza legislativa a un tempo.

L’esame della storia del diritto patrimoniale della Chiesa e dei rapporti instaurati tra la Chiesa e i fedeli in questo settore, ha mostrato che la Chiesa ha sempre evitato di considerare questo rapporto come un momento vitale per l’appartenenza alla Chiesa.

Essa ha sempre stimato che quello che non è dato dagli uni è dato dagli altri, in uno spirito innato di povertà. Questo rapporto è evidentemente cambiato quando si è trasformato in un rapporto di diritto privato o di diritto pubblico informato da una concezione naturale della giustizia, senza mai coinvolgere però la maggioranza dei fedeli. La tradizione della Chiesa non ha quasi mai considerato la violazione del dovere generale del cristiano di condividere (parzialmente) i propri beni con la comunità dei cristiani come un delitto punibile in sé. Di questa tradizione è testimone ancora una volta il CIC che, pur affermando il diritto della Chiesa di esigere contributi finanziari dai propri fedeli, non ha voluto sancirlo al punto di comminare pene contro i trasgressori.

Il problema penale, invece, si è posto acutamente nelle Chiese particolari, dove il rapporto patrimoniale – a causa di un certo sviluppo storico specifico, ma pure a causa deH’influenza dello Stato e del protestantesimo, che ha lasciato che lo Stato gestisse l’aspetto patrimoniale della Chiesa – si è trasformato in rapporto di natura fiscale.

In questo sistema, non si può nascondere che criteri propri del diritto naturale e del diritto secolare si sovrappongono a criteri tipici del Diritto canonico[44].

Ciò è sufficiente per capire come l’esclusione dai sacramenti – equivalente in pratica a una scomunica – superi i limiti della proporzionalità. E una sproporzione che appare ancor più evidente se si fa il confronto con altri delitti colpiti dalla scomunica. Una delle critiche sollevate molto spesso contro il diritto penale del CIC non ha forse, ed a ragione, preso di mira le sproporzioni esistenti a livello delle pene?[45] E uno dei meriti più evidenti del nuovo progetto di diritto penale non è forse quello di aver ridotto radicalmente il numero delle pene, soprattutto delle pene «latae sententiae», e di aver colpito con le pene più severe, come la scomunica, soltanto i delitti più gravi dal punto di vista ecclesiologico?

Il tentativo di alcuni autori di assimilare ad ogni costo la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali, al delitto di eresia o di scisma[46], svela abbastanza chiaramente come essi non osino considerare il solo rifiuto di pagare le imposte un delitto sufficientemente grave in sé da giustificare l’esclusione dai sacramenti.

Non si può nascondere che il rifiuto di pagare le imposte si concretizza con un atto formale di dimissioni dalla Chiesa, non in virtù di una propria dinamica fisiologica, ma in virtù di un elemento estrinseco, imposto dalla logica propria del sistema di rapporti Chiesa-Stato. A causa di questo elemento esterno, il rifiuto di pagare contributi finanziari – in sé fenomeno molto dif-

 

fuso nella Chiesa universale – si trasforma in atto ultroneo, per sua natura molto più grave, al punto da integrarlo nelle fattispecie dell’eresia o dello scisma. Ed è proprio questo nuovo elemento che bisogna esaminare ora.


III. L’aspetto ecclesiastico del problema

  1. Il rifiuto di pagare le imposte e la dichiarazione formale di dimissioni

Il secondo elemento di cui bisogna tener conto nella valutazione canonica della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali dipende dal diritto ecclesiastico. Il fenomeno – comune in tutta la Chiesa[47] – dei cristiani che, coscientemente o meno, non adempiono i loro doveri finanziari nei riguardi della Chiesa, assume il carattere di rifiuto esplicito e si manifesta, dal punto di vista giuridico, in una dichiarazione formale di dimissioni dalla Chiesa. Ciò unicamente in virtù della dinamica propria al sistema di rapporti tra le Chiese particolari dell’Europa centrale e lo Stato.

Una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, se fosse presentata direttamente alla comunità ecclesiale come istituzione di Diritto canonico, non potrebbe, in sé, essere interpretata altrimenti che come un atto d’apostasia, d’eresia, di scisma[48]. E evidentemente tenendo conto di ciò, che la Chiesa ha sempre evitato di porre i suoi fedeli davanti all’alternativa: pagare i contributi o dichiarare le dimissioni. Perfino nell’ipotesi che essa decida, in vista di adottare misure penali e disciplinari specifiche, di esigere una dichiarazione formale da parte dei cristiani, essa non dovrebbe limitarsi ad esigere una dichiarazione di non-compimento del dovere fiscale. Esigere una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa sarebbe sproporzionato perché non è possibile, come si è visto, trattare un delitto di ordine fiscale come un delitto contro l’appartenenza alla Chiesa (apostasia, eresia, scisma).

Siccome la volontà di non pagare le imposte dev’essere dichiarata, per diritto ecclesiastico, davanti a un’autorità statale, ne consegue che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa supera largamente le intenzioni ecclesiali del dichiarante. Di più, il rifiuto di pagamento assume apparentemente anche il carattere di un atto pubblico di rinnegamento della fede. E precisa- mente in base a questa circostanza che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa viene apparentemente a coincidere con le due situazioni giuridiche del canone 1325 § 1 e 2.

Il paragrafo 2 definisce gli elementi costitutivi dell’apostasia, dell’eresia e dello scisma. Il paragrafo 1 esige dal fedele che professi apertamente la propria fede quando il silenzio, la tergiversazione o il comportamento possano essere interpretati come una negazione implicita della fede o provocare scandalo[49]. Alcuni autori vedono nella dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa una violazione del paragrafo 1. Per sostenere la loro tesi, fanno appello al caso dei «lapsi» nella Chiesa antica, o a documenti del magistero, antecedenti o posteriori al CIC. Si tratta di documenti dove si qualifica come apostasia la negazione della fede «coram magistratii civili»™ e dove si dichiarano apostati – almeno per il «.forum externum» – i cristiani che, pur restando interiormente nella fede, cedono esteriormente a pratiche religiose islamiche[51] o pagane[52].

Questi autori non tengono conto del fatto che lo Stato, nei paesi dell’Europa centrale, quando riceve una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, non intende esigere una professione di fede. Si tratta infatti di uno Stato non confessionale che, in base alla propria costituzione, deve rigorosamente rispettare la neutralità religiosa. Il suo fine è di compiere una funzione amministrativa per conto della Chiesa, senza erigersi a giudice delle intenzioni confessionali del cittadino e senza volerle influenzare. In queste condizioni non si dovrebbe attribuire alla dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa una valenza religiosa – anche se fatta in virtù del principio della libertà di coscienza -, ma solo statistica o amministrativa. Se si tien conto seriamente della neutralità religiosa dello Stato, e anche se nel concreto l’appartenenza a una Chiesa – in quanto corporazione di diritto pubblico statale – è prevista per legge, non si può evitare (dal punto di vista canonico) di pensare che lo Stato è semplicemente incaricato di fare il censimento dei cristiani che, in base alla legge, sono tenuti a pagare le imposte ecclesiastiche, e di costringerli a farlo nel caso in cui non dichiarino le loro dimissioni.

Una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa non ha maggior valore confessionale per lo Stato moderno della dichiarazione di appartenenza a una religione in un censimento, anche se ha conseguenze giuridiche più vaste. Nessuno si azzarderebbe a perseguire canonicamente un cristiano che, stimando lo Stato incompetente nel porre domande concernenti la religione, si dichiarasse «senza confessione» o «ateo» nella scheda di censimento. Ogni riferimento al caso dei «lapsi», ai quali l’imperatore, in quanto «summus pontifex» dell’impero romano, richiedeva una confessione religiosa, è fuori luogo. Certamente, resta il problema dell’eventuale scandalo. Da un lato, è evidente che lo scandalo potrebbe a sua volta essere fondato su una falsa concezione dell’essenza della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, e della funzione che lo Stato moderno confessionalmente neutro svolge nel prelevare le imposte ecclesiastiche. D’altro canto, bisogna tener conto del fatto che la violazione del dovere di confessare la fede imposto dal canone 1325 § 1 non è neppure sanzionata da alcuna pena canonica. Ne consegue «a fortiori» che la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa è difficilmente assimilabile alla violazione di questo dovere, pur restando eventualmente, per altre ragioni, un atto riprovevole sul piano ecclesiale.

  1. Chiesa e corporazione di diritto pubblico

Rimane un ultimo aspetto della questione di cui bisogna tener conto nella valutazione del problema: il significato che lo statuto di corporazione di diritto pubblico delle Chiese centroeuropee assume dal punto di vista religioso. Le dimissioni dalla Chiesa dichiarate davanti alla corporazione di diritto pubblico o direttamente davanti allo Stato possono essere considerate dal punto di vista teologico alla stregua di una dichiarazione fatta davanti alla Chiesa in quanto istituzione di Diritto canonico?

Se la risposta fosse positiva, bisognerebbe allora ammettere la possibilità – almeno in base al Diritto canonico particolare – che il rifiuto esplicito di pagare le imposte si trasformi nel «forum externum» in una vera e propria dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa, con tutte le conseguenze sul piano canonico. La scomunica o l’esclusione dai sacramenti, pronunciata dal Diritto canonico particolare delle Chiese dell’Europa centrale, sembra evidentemente avere come presupposto questa possibilità. Un delitto (il rifiuto di pagare i contributi) si trasforma, in virtù delle circostanze politiche e giuridiche (lo statuto di diritto pubblico della Chiesa), in un delitto di specie diversa e molto più grave (negazione aperta della fede e dell’appartenenza alla Chiesa). Dato che il principio della proporzionalità impedisce di punire delitti di natura e gravità differenti con la stessa pena, bisognerebbe concludere che una situazione di fatto (cioè lo statuto di diritto pubblico della Chiesa), del tutto indipendente dalla volontà del «reo», gioca un ruolo più grande di quello delle circostanze aggravanti, tanto da cambiare la natura stessa del delitto. Il che non può non apparire paradossale. Ma vediamo ora di analizzare questo problema distinguendo la situazione istituzionale propria della Svizzera da quella della Germania.

  1. A) La situazione nei Cantoni svizzeri

In Svizzera, dove il regime di base nel rapporto Chiesa-Stato è ancora quello del «giurisdizionalismo» moderato[53], non c’è identità tra la Chiesa di diritto pubblico riconosciuta dallo Stato, sia a livello parrocchiale («Kirchengemeinde»), che a livello cantonale («Landeskirche»), La dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa – anche se fosse dettata da un venir meno della fede – non può mai essere valutata giuridicamente come una dichiarazione pronunciata davanti alla Chiesa stessa. Il solo interlocutore possibile del cristiano nel dominio della fede è la Chiesa. Nessun’altra istanza può sostituirla. Una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa rivolta alla corporazione di diritto pubblico dev’essere considerata canonicamente come una «res inter alios acta». Analogamente, il rifiuto di pagare le imposte come motivo primario della dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa non è perpetrato in questo sistema, «in facie Ecclesiae», ma nei confronti della corporazione di diritto pubblico, cioè del «comune ecclesiastico» o della «Chiesa cantonale».

Dato che la corporazione di diritto pubblico è un ente di diritto statale e non di Diritto canonico, è possibile, come sostengono alcuni autori, operare con l’istituto giuridico della «canonizatio»?[54] Secondo la dottrina, esistono una forma lata e una forma propria di «canonizatio»[55]’’. La prima si realizza quando delle norme concordatarie sono promulgate dalla Chiesa e ricevono con questo atto la loro sanzione canonica interna; la seconda si realizza quando la Chiesa rinuncia a fare una legge propria e dichiara una legge emanata da una fonte esterna (per esempio, lo Stato) come norma applicabile a livello canonico. Il caso più tipico di «legis canonizatio» è quello del canone 1529 concernente i contratti[56].

Anche se si prescinde dal fatto se le diverse corporazioni di diritto pubblico nei cantoni svizzeri abbiano o meno una base

 

concordataria, sembra difficile applicare la «canonizatio» in senso stretto. Infatti, non si tratta soltanto di recepire con la «canonizatio» una legge, ma di riconoscere un ente di diritto statale che ha una propria sfera di sovranità. Pertanto si giungerebbe a canonizzare non solo la legge, ma la fonte stessa della legge. Tale fonte diventerebbe un elemento integrante della costituzione stessa della Chiesa.

Secondo la concezione cattolica, il comune parrocchiale (.Kirchengemeinde) e la Chiesa cantonale (Landeskirche) non possono essere considerate come enti costituzionali della Chiesa in quanto istituzioni di Diritto canonico. E facile prevedere che lo Stato stesso sarebbe contrario a questa interpretazione. Le corporazioni di diritto pubblico statale sono infatti istituzioni di mediazione nel rapporto Chiesa-Stato ma nel contempo enti di controllo dello Stato su alcuni settori della vita ecclesiale, come per esempio quello patrimoniale. Canonizzare una fonte giuridica e politica esterna significherebbe riconoscerle una funzione giurisdizionale diretta sui fedeli.

La Chiesa può storicamente accettare dei compromessi ma non può o non dovrebbe abdicare alla propria autorità, né sacrificare il «diritto fondamentale» del cristiano di essere governato e giudicato, nelle questioni che concernono la fede e il rapporto con la comunità dei cristiani, dalla sola Chiesa.

  1. B) La situazione in Germania federale

La situazione è diversa in Germania, per il fatto che la Chiesa stessa, in quanto istituzione di Diritto canonico, è riconosciuta dallo Stato come avente uno statuto di diritto pubblico. Ciononostante, la dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali non ha come destinatario reale la Chiesa in quanto istituzione di Diritto canonico, ma la Chiesa in quanto corporazione di diritto pubblico. Anche se tale distinzione formale può sembrare sottile, la Chiesa non può ignorarla nella valutazione della dichiarazione di dimissioni.

Infatti, i fedeli dispongono di una stessa formula di dichiarazione per raggiungere due scopi profondamente differenti nel loro significato: il rifiuto di pagare le quote alla Chiesa cattolica della quale vogliano restare membri, e le dimissioni dalla Chiesa in quanto istituzione di diritto pubblico statale. In realtà, il solo scopo sostanziale è il primo. Se i fedeli sono lesi nella loro libertà e possibilità di manifestare la loro volontà, lo sono per la dinamica propria del sistema di relazioni Chiesa-Stato, che non può o non vuole ammettere altre forme di dichiarazione che le pure e semplici dimissioni dalla Chiesa[57].

Gli argomenti (avanzati per giustificare questo sistema e le misure penali che lo proteggono, che si appoggiano sull’identità tra la Chiesa e la corporazione di diritto pubblico) fondano sul fatto che tale identità è il modello giuridico concreto che, nella società tedesca attuale, la Chiesa ha scelto per se stessa. Ciò è vero, ma se ne traggono conseguenze improprie.

I fedeli devono prendere atto di questa identità giuridica e storica prima di agire in modo contrario alle indicazioni della Chiesa, ma, sul piano penale, la Chiesa non può ignorare che tale statuto giuridico provoca la confusione di due sistemi profondamente diversi: il sistema canonico e il sistema statale. Questa mescolanza non solo toglie ai fedeli la possibilità di esprimere con tutta la precisione necessaria la loro posizione nella fede e la loro volontà giuridica nella Chiesa. Rischia pure di togliere alla Chiesa la lucidità necessaria nella valutazione del comportamento dei suoi fedeli.

Detto ciò, è chiaro che bisogna essere molto prudenti con l’argomento della «canonizatio». Una «canonizatio» in senso lato si è certamente verificata per il tramite dei concordati tedeschi che confermano le norme costituzionali concernenti il diritto delle Chiese di riscuotere imposte ecclesiastiche[58]. Ma si può dubitare che nella fattispecie si possa parlare di una «canonizatio» nel senso stretto del termine. In realtà, è la Chiesa che, da una parte, legifera in proprio in materia fiscale, ma, facendo ciò, adotta pure dei criteri propri al sistema e alla mentalità del diritto tributario statale, come per esempio il principio del ca-

rattere obbligatorio delle imposte e della esigibilità; d’altra parte, essa si limita a tirare le conseguenze sul piano canonico di un atto che avviene tra i suoi fedeli e lo Stato.

Anche in Germania, il destinatario della dichiarazione di dimissioni non è la Chiesa come tale, nemmeno in quanto corporazione di diritto pubblico, ma direttamente lo Stato, rappresentato dai suoi tribunali o dalle sue istanze amministrative. Ciò vuol dire che anche in Germania la dichiarazione di dimissioni per ragioni fiscali è a rigore una «res inter alios acta», pur avendo effetti giuridici sul piano patrimoniale all’interno della Chiesa. Il solo elemento di cui la Chiesa potrebbe tener conto sul piano del suo diritto penale è il rifiuto di adempiere all’obbligo delle imposte, ma non la dichiarazione come tale di dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali che «ex se» non implica né un grave cedimento di fede, né, a rigore, una ritrattazione formale dell’appartenenza alla Chiesa in quanto istituzione canonica.


IV. Conclusione

  1. A proposito del rapporto patrimoniale

Per poter offrire una valutazione canonica della questione delle dimissioni dalla Chiesa per ragioni fiscali, bisogna sistemarla nel quadro più generale del fondamento ecclesiologico del sistema patrimoniale della Chiesa.

La Chiesa è libera nel suo rapporto «ad extra» di scendere sul terreno, comune a tutti gli uomini, del diritto naturale, se essa constata che questo è il solo mezzo di entrare in dialogo con lo Stato e di essere riconosciuta nel concerto della società internazionale come soggetto giuridico autonomo. In questo senso, il canone 1495 del CIC mantiene una propria giustificazione.

«Ad intra», invece, essa non può fondare il rapporto patrimoniale con i propri fedeli senza tener conto del fatto che la dottrina della società perfetta elaborata daH’IP£ è diventata obsoleta dopo il rinnovamento ecclesiologico moderno. Il cristiano, oggi, è cosciente del fatto che la Chiesa è una società, ma anche del fatto che la Chiesa è una società dalla struttura ben diversa da quella dello Stato, la quale non è confrontabile, nemmeno per analogia, a quella della «communio Ecclesiae et Ecclesiarum» ”. Tale struttura, che appartiene al «mysterium fi- dei», non deriva da nessuna forma d’associazione umana di diritto privato o pubblico conosciuta nella storia: essa ha come modello e principio informatore la struttura sacramentale dell’Eucaristia.

Non essendo una società necessaria, cioè una «Zwangsgesell- schaft» come lo Stato, non ci sono nella Chiesa fini che dovrebbero essere perseguiti dalla gerarchia e che non siano al contempo comuni a ciascun fedele. Il soggetto portatore di questi fini comuni non è la gerarchia in quanto tale, ma tutto il popolo di Dio a cui anche la gerarchia appartiene. Altrimenti rischierebbe di essere sottomessa agli stessi meccanismi di rappresentazione propri dell’organizzazione statale. Ciò significa che i fedeli non sono, come i cittadini dello Stato, chiamati a versare delle quote per permettere a un soggetto che li rappresenterebbe secondo una ipostatizzazione astratta, e che è altro da loro stessi, di svolgere dei compiti che sorpassano non solo gli scopi individuali ma anche quelli della comunità come tale. Ciò non compromette per nulla il fatto che, nella Chiesa, le funzioni ministeriali e i mezzi per realizzarle sono nettamente differenziati[60].

Persino in certi settori della filosofia dello Stato, si assiste a una evoluzione progressiva in questa direzione, là dove la struttura del potere è sempre meno concepita come una personificazione dell’organismo sociale, ma piuttosto come un organo attraverso cui si esprime la volontà e la sovranità popolare[61].

Il rapporto patrimoniale tra la Chiesa e i suoi fedeli è fondato innanzitutto sul dovere di ogni cristiano di dividere in parte i propri beni con gli altri, e in secondo luogo soltanto sul diritto della Chiesa di esigere da questi delle contro-prestazioni in cambio di prestazioni.

Il problema è allora di saper elaborare anche in questo campo, come per tutto il sistema giuridico canonico, una concezione globale a partire dalla struttura comunitaria della Chiesa. Il rapporto patrimoniale si manifesterà in questo caso come retto dallo stesso dinamismo della comunione proprio dei beni spirituali, come attestano gli Atti degli Apostoli.

Ciò non mette in discussione l’esistenza di quelle istituzioni giuridiche di base, di cui la Chiesa ha fatto sempre uso come di strumenti per strutturare in modo stabile il rapporto patrimoniale, come ad esempio quello della persona morale o giuridica. Ma è essenziale evitare di perdere il senso profondo di questo rapporto e di determinarlo sempre in funzione della fonte che è la struttura comunionale della Chiesa.

Se è vero che il problema è innanzitutto strutturale ed ecclesiologico, è tanto più urgente trarre delle conclusioni sul piano pastorale. Infatti, è ben diverso, per la formazione del cristiano e per la verità stessa dell’esperienza religiosa di tutta la comunità cristiana, sollecitare i fedeli a praticare la condivisione dei beni in nome della comunione che li unisce nel Cristo, ovvero domandare loro di pagare imposte in nome di una concezione dominante presa a prestito dal sistema tributario statale. Quest’ultimo si ispira, nella migliore delle ipotesi, alla nozione di giustizia – legale o distributiva – propria al diritto naturale.

Vi sono altre considerazioni razionali o derivate dal senso comune, spesso invocate per giustificare il sistema delle imposte ecclesiastiche, ma bisognerebbe badare a non attribuire loro una portata eccessiva. Una di queste consiste nel dire che le imposte garantiscono la possibilità di una pianificazione, ma nemmeno in questo caso può venir attribuito un peso decisivo. Infatti, è possibile pianificare sulla base di un sistema fiscale che non applica la costrizione e l’esecuzione forzata, come è possibile fare anche in un sistema basato sulle collette.

L’esperienza di altre Chiese particolari, come quella degli Stati Uniti che, grazie al proprio sistema finanziario, è stata forse, fra le Chiese particolari, quella che, in questi ultimi secoli, ha vissuto l’esperienza di comunità più profonda, è di testimonianza. Si può dire la stessa cosa dell’esperienza delle istituzioni tipiche delle Chiese d’Europa centrale, come V«Azione quaresimale», «Misereor», o, a livello della Chiesa universale, «Ca- ntas». Si tratta naturalmente di una pianificazione limitata dall’applicazione della previsione statistica.

Per l’applicazione del principio della pianificazione, bisogna evitare di condurre una politica parallela a quella dello Stato, nel quale la pianificazione è diventata lo strumento principale di ogni politica di potere[62]. Quel che interessa in primo luogo la Chiesa, non è l’espansione delle sue strutture nella società, ma la crescita reale dell’adesione dei fedeli ai valori della fede e della comunione.

Quest’ultima concezione ridimensiona anche l’idea che una Chiesa finanziariamente forte è capace di opporsi alla tendenza dello Stato a monopolizzare tutti i settori della vita sociale. Lo sforzo per la salvaguardia di un pluralismo sociale non può essere concepito dalla Chiesa come una lotta di potere concorrenziale, fondata sulla capacità di esprimersi con il potere finanziario. E vero che in una società industrializzata e a regime monetario come la società attuale, la disponibilità finanziaria è indispensabile per ogni progetto, ma è altrettanto vero che il mantenimento di una alternativa sociale in un mondo dominato dall’ideologia non ha nessuna possibilità di riuscita – soprattutto a lunga scadenza – se essa non diventa un’alternativa spirituale e culturale. Ora, la sola alternativa possibile da parte della Chiesa è di creare una presenza sociale fondata su una concezione della vita che trae la sua origine dall’esperienza della comunione.

Si pone allora la domanda se il sistema delle imposte ecclesiastiche rappresenti uno strumento pastoralmente efficace per tale compito. Potrebbe esserlo, se potesse sfuggire alla logica che lo domina, la logica fiscale, che si impone coattivamente. Ne consegue che il compimento del dovere fa perdere ogni potere creativo nei riguardi dello scopo e dei valori che lo giustificano.

Il valore non è in primo luogo di garantire la sopravvivenza di una «Chiesa popolare» («Volkskirche»)[63] finanziariamente e politicamente forte, la cui genesi permanente si situa nella matrice del diritto pubblico ecclesiastico piuttosto che nella matrice sacramentale. Ciò si rivela ancor più vero dal fatto che, a questo livello, la Chiesa subisce un condizionamento che può rivelarsi più profondo di quello che è esercitato da gruppi di pressione o, localmente, da persone isolate, nei regimi finanziari fondati sulle collette libere.

Oltre la considerazione secondo cui il sistema delle imposte obbligatorie permette alle Chiese particolari di impegnarsi sul piano universale col sostenere finanziariamente le Chiese più povere, è necessario porsi la domanda sul significato reale di tale sostegno a lunga scadenza. Bisogna ancora una volta evitare di cadere nelle insidie della logica «umanitarista», propria dei settori civile, pubblico e privato, dell’aiuto economico al terzo mondo.

Evidentemente, l’insidia reale da cui la Chiesa deve guardarsi non è quella dello sfruttamento nascosto della periferia da parte del centro, o del sud da parte del nord. E piu sottile. Il cristiano, come ogni uomo che divide i propri beni con gli altri senza arricchirsi realmente a livello morale o di fede, per il fatto che vi è obbligato dalla legge, rischia di non arricchire nessuno. La carità dev’essere, innanzitutto, un arricchimento nella fede personale di colui che la esercita, sotto pena di rimanere sterile e di non produrre nessun frutto nella comunione. Una Chiesa materialmente ricca ma spiritualmente povera non è, in ultima analisi – al di là di ogni apparenza -, capace di far crescere la Chiesa universale come alternativa spirituale e culturale al mondo. Ci si può allora chiedere se è più giusto applicare, come fanno certi autori, il «cui borio» a una Chiesa povera più che a una Chiesa ricca.

Nessuno, ad ogni buon conto, contesterà il fatto che le esperienze attuali di grande ampiezza delle collette libere, come quelle dell ‘«Azione quaresimale», di «Misereor» e di «Caritas», sono strumenti pastorali ben più efficaci del sistema fiscale. Si tratta di strumenti che garantiscono di per sé ai cristiani la possibilità di arricchirsi nella propria fede. Quest’arricchimento nella fede e nella carità non è sempre garantito per coloro che adempiono il proprio dovere fiscale.

Il secondo tranello è quello della coesistenza nella Chiesa di due dimensioni diverse: la dimensione fiscale e la dimensione della carità. La prima rappresenta la giustizia legale e distributiva d’ordine naturale, la seconda la comunione. La prima rappresenta un dovuto, la seconda l’eccedenza, come se la carità non fosse il solo elemento costitutivo e necessario dell’essenza della Chiesa[64].

Invocare la giustizia legale e distributiva a titolo di controprestazione necessaria per i servizi resi dalla Chiesa implica, da un canto, il rischio di far somigliare la Chiesa, agli occhi del cristiano, ad un apparato amministrativo e burocratico parallelo a quello dello Stato[65], e d’altro canto quello di far sviluppare dalla Chiesa stessa i bisogni della propria auto-gestione al punto di trasformarla in datore di lavoro «interessante», incaricato di realizzare il diritto fondamentale dell’uomo all’impiego e al lavoro.

Il cristiano, dilaniato da questo dualismo, sperimenta le difficoltà di vivere la Chiesa dal suo interno, sia perché essa presenta un duplice volto, uno dei quali è simile a quello dello Stato, sia perché il vero volto, quello della carità, si manifesta come un sovrappiù utile ma non già come una insostituibile necessità.

  1. A proposito del rapporto disciplinare

Esistono tre elementi che mettono in dubbio la fondatezza della scomunica o dell’esclusione dai sacramenti:

–  la pratica pastorale generalizzata nei Cantoni svizzeri di non dare esecuzione alla pena della scomunica emanata contro coloro che dichiarano le dimissioni per ragioni fiscali;

–  il fatto che i dimissionari stessi non esitano a chiedere alla Chiesa il sacramento del matrimonio, il Battesimo dei figli e l’accesso sia all’Eucarestia che ad altri sacramenti;

–  il fatto che la dottrina si preoccupa di spostare il più possibile il problema dell’applicazione della scomunica dal livello oggettivo al livello soggettivo – fino a correre il rischio, tipico del resto di tutto il sistema penale del CIC del 1917, di vanificare il valore del livello oggettivo[66] – sembra dare un giudizio sufficientemente negativo sulla fondatezza della scomunica e dell’esclusione dai sacramenti.

In mancanza dell’applicazione del principio della proporzionalità, la scomunica rischia di avere come unica giustificazione il fatto di essere una misura necessariamente postulata dal sistema fiscale in quanto tale, che a sua volta è indotto (per la verità non necessariamente) dalla logica del riconoscimento della Chiesa come corporazione di diritto pubblico statale. Sarebbe sufficiente dichiarare le «imposte ecclesiastiche» come non obbligatorie[67] per eliminare alla radice la necessità giuridica di una dichiarazione di dimissioni dalla Chiesa davanti allo Stato, e di conseguenza anche la necessità d’intervenire con misure penali sul piano canonico, cioè con la scomunica o l’esclusione dai sacramenti. La scomunica infatti è la pena che, da sempre, si impone contro chi «dimissiona» dalla Chiesa.

Il sistema fiscale attuale è fondato sulla forza di una logica giuridica apparentemente a tutta prova. Se però lo si osserva più attentamente, si scopre che è fondato sul falso presupposto che il riconoscimento della Chiesa come corporazione di diritto pubblico statale e il conferimento ad essa del diritto statale di riscuotere imposte ecclesiastiche, siano collegati da un legame necessario dal punto di vista giuridico, anziché da una libera scelta di ordine puramente politico.

Devono, le Chiese – pur tenendo conto del fatto che ciò non dipende solo né principalmente da loro -, ritornare su tale scelta? Quel che ci sembra acquisito, è che bisogna distinguere tra il riconoscimento di diritto pubblico statale e il diritto di riscuotere le imposte.

Se si accetta a livello culturale il principio della legittimità e della necessità dell’esistenza di un pluralismo giuridico, biso- gna prendere atto di ciò, che il riconoscimento di diritto pubblico, in sé, deriva dalla natura della Chiesa che non è, nella sua ontologia profonda, un’associazione privata. Non dovrebbe più essere considerato dallo Stato moderno, confessionalmente neutro ma anche pluralista, come una concessione fatta alle Chiese, ma come un riconoscimento di quel che esse sono. Il fatto di essere pubblico, come molti altri aspetti della vita, non è una proprietà esclusiva dello Stato. Il pluralismo giuridico è fondato su tale presupposto.

Il diritto di esigere imposte ecclesiastiche, con effetto per il diritto statale pubblico, non può, invece, essere concesso che dallo Stato, sovrano in questo dominio.

Le Chiese possono in teoria rinunciarvi, ma dal punto di vista storico concreto, possono pure trovarsi in un vicolo cieco che impedisce loro di farlo, a rischio di mettere globalmente in gioco sia il rapporto delicatissimo di equilibrio e di pace acquisito con lo Stato dopo un travaglio secolare, sia la loro attuale situazione finanziaria.

Possono invece più facilmente liberarsi dalla logica propria del sistema fiscale che esige le dimissioni dalla Chiesa a livello canonico. Infatti, vi sono strumenti diversi dalla scomunica per far capire al cristiano che la comunione implica anche la divisione dei propri beni, e che deve avere una concezione del denaro diversa da quella che domina la nostra cultura individualista.

La scomunica provoca una sproporzione di valori nella coscienza ecclesiale del cristiano (fino al punto che non vi crede più veramente), e lo distoghe dal problema di fondo. E una riduzione incresciosa e non educativa per la vita ecclesiale il fatto di cristallizzare il problema sul punto dell’obbligo di pagare imposte. Il vero problema è molto più globale. E quello della concezione che ciascuno ha della proprietà e dell’uso che fa delle proprie disponibilità economiche.

Il primo strumento è dunque d’ordine pastorale. E il modo di presentare ai fedeli il problema del loro rapporto finanziario con la Chiesa, tenendo conto della sua valenza ecclesiologica.

I documenti ufficiali delle Chiese e la predicazione devono cambiare profondamente per educare, non una buona coscienza fiscale, ma un’esperienza globale di comunità. Ciò costituirebbe già un buon risultato. Si potrebbe così già correggere le inevitabili insidie del regime fiscale.

Il secondo strumento potrebbe essere d’ordine disciplinare, ma in nessun caso d’ordine penale. Il CIC conosce la nozione di «actus leghimi»®, la privazione dell’esercizio dei quali, pertanto, presenta un carattere penale. Consiste nella possibilità di esercitare nella Chiesa certe funzioni liturgiche (per esempio, quella di padrino) o giuridiche (per esempio, il diritto di voto attivo e passivo)[69].

In una struttura ecclesiale articolata come l’attuale, dove la possibilità di esercitare dei servizi e degli uffici nella Chiesa è abbastanza aumentata anche per i laici, basterebbe far dipendere disciplinarmente l’esercizio di tali funzioni, o di tali diritti, dal compimento del dovere fiscale, o semplicemente dal compimento, sia pur minimale, del dovere di realizzare la comunione a livello anche della divisione dei beni[70].

Il Diritto canonico particolare dovrebbe elaborare dei criteri validi, ma potrà farlo solo a condizione di saper identificare – nella struttura attuale e futura dei servizi e uffici ecclesiali – i punti particolarmente significativi per la formazione della coscienza ecclesiale dei fedeli.

 

 

 

[1] Tra le opere più importanti sul problema delle imposte ecclesiastiche e delle dimissioni dalla Chiesa in generale, cfr. A. Frhr. von Campenhausen, Der Austritt aus den Kirchen und Religionsgemeinschaften, in: Handbuch St. Kirchenrecht, Berlin 1974,1,656- 666; H. Marré, Das kirchliche Besteuerungsrecht, in: ibidem, II, 5-50; J. Listl, Das Grundrecht der Religionsfreiheit in der Rechtsprechung der Gerichte der Bundesrepublik Deutschland, Berlin 1971; Id., Kirchenbeitrag, in: Katholisches Soziallexikon, Innsbruck und Graz-Wien-Köln 1980, 1383-1386; J. Neumann, Zur Kirchenfinanzierung in der Bundesrepublik Deutschland, ThQ 156 (1976), 198-205; J.G. Fuchs, Die Finanzquellen der Schweizer Kirchen, ibidem, 216-219; K. Walf, Kirchensteuer als Existenzmittel, «Conci- lium» 14 (1978), 429-433; W. Steinmüller, Kirchenrecht und Kirchensteuer, in: Essener Gespräche zum Thema Staat und Kirche 4 (1970), spec. 215-224, e la discussione 239- 262; A. Hollerbach, Kirchensteuer, Kirchenbeitrag, in: Grundriss des Nachkonziliaren Kirchenrechts, hrsg. von J. Listl-H. Müller-H. Schmitz, Regensburg 1980, 720-721.

[2] Si tratta della Germania federale, della maggior parte dei Cantoni Svizzeri (un regime di separazione esiste a Ginevra e Neuchâtel) e dell’Austria. In questo articolo si terrà conto soprattutto della Svizzera e della Germania federale.

[3] In Germania, lo sviluppo negli ultimi vent’anni è stato il seguente: nel 1960: 23.889 dimissioni (0,09%); 1975: 69.340 (0,25%); 1978: 52.273 (0,19%). In Austria, nel 1960: 9.113 (0,14%); 1975: 20.703 (0,29%); 1976: 23.228 (0,33%). Perla Svizzera, manca una statistica globale di tutti i Cantoni interessati. In taluni Cantoni rappresentativi, la situazione è la seguente: Basilea-Città, nel 1974, 9.900 (non si conosce la percentuale in rapporto alla popolazione cattolica; l’anno 1974 è quello del riconoscimento di diritto pubblico della Chiesa cattolica e dell’introduzione delle imposte ecclesiastiche); 1978: 3.931; 1979: 3.263; 1980: 2.173; Zurigo nel 1965: 760; 1975: 1.018; 1979: 974; San Gallo nel 1965: 56; 1975: 75; 1979: 56; Lucerna nel 1970: 48; 1979: 92; a Sciaffusa-Città, nel 1968/69: 376 (anno dell’introduzione dell’imposta); 1970: 749; 1979: 169. Queste statistiche sono state fornite dalla Römisch-Katholische Kirche des Kantons Basel-Stadt e dalla Römisch-Katholische Körperschaft des Kantons Zürich. Cfr. anche le note 7 e 48.

[4] In Germania, durante il periodo hitleriano e verso la fine degli anni ’60. In Svizzera e in Austria, verso la metà degli anni ’70 (cfr. nota 3).

[5] Cfr. K. Walf, ari. cit., 429-433.

[6] Cfr. A. Hollerbach, op. rit., 720-721, n. 3.

[7] Analisi più approfondite sono state fatte per la Chiesa Cattolica Romana di Basilea Città. Esse permettono di constatare che nel 1980, su 2.173 dimissioni dalla Chiesa, 468 (circa 15%) erano motivate da ragioni finanziarie e che 5 solamente, rispettivamente 25 e 107 (circa 0,5%) erano motivate da ragioni di scontento pastorale, personale o concernente la fede (passaggio ad altre confessioni). Tuttavia, 1568 dimissionari (circa 72%) non hanno dichiarato i loro motivi. È impossibile interpretare questo silenzio. Non sarebbe comunque legittimo attribuire tutte queste dimissioni a motivazioni di fede. La stessa ripartizione in percentuale delle motivazioni può essere constatata anche negli anni precedenti.

[8] La complessità di questo problema può essere chiarita facendo un’ipotesi: quella di sottomettere la questione del carattere obbligatorio delle imposte ecclesiastiche a un referendum politico. La recente votazione (1980) a livello federale svizzero sull’iniziativa per una separazione totale tra la Chiesa e lo Stato potrebbe lasciar sperare in un risultato positivo di un referendum per il mantenimento delle imposte ecclesiastiche obbligatorie. Infatti, la separazione è stata bocciata, a maggioranza schiacciante, dal popolo svizzero e da tutti i cantoni. Persino i cantoni di Ginevra e di Neuchâtel – che attuano un regime di separazione – hanno votato contro la separazione. E dunque evidente che gli elettori non si sono lasciati guidare ovunque dagli stessi criteri e che accanto alle considerazioni riguardanti direttamente il problema del rapporto Chiesa- Stato o quello connesso delle imposte ecclesiastiche, quello del federalismo ha assunto un’importanza determinante. Altri elementi, invece, come l’analisi dell’autore tedesco citato sopra (n. 5) o le statistiche di dimissioni dalla Chiesa in certi Cantoni svizzeri (cfr. n. 3 e 7), potrebbero lasciar temere il contrario ai più pessimisti. La domanda che bisogna porsi è dunque la seguente: in quale misura una consultazione sulle imposte

obbligatorie sarebbe significativa? Una cosa è certa: una decisione popolare sarebbe in ogni caso ambigua. L’esempio dei due recenti referendum – in Italia – sul divorzio (1977) e sull’aborto (1981) è molto istruttivo. La Chiesa italiana, che peraltro sembrava essere una delle Chiese più profondamente radicate nella tradizione e nella cultura di un popolo, è uscita intaccata nella sua base popolare. Non è possibile, certamente, stabilire un parallelismo esatto tra un divorzio o l’aborto in Italia. Il contesto politico e sociale, così come le modalità giuridiche specifiche dei diversi referendum lo impediscono. D’altra parte, al di là di ogni considerazione di contesto sociale e giuridico, non è possibile accordare al problema delle imposte ecclesiastiche in quanto tale Io stesso peso indicativo di quello del divorzio e dell’aborto, per verificare il grado di adesione o di appartenenza dei fedeli alla Chiesa. Una certa analogia è comunque possibile per il fatto che in questi referendum viene coinvolta l’etica cristiana e il rapporto Chiesa- Stato. Si tratta inoltre di due settori in cui il cristiano d’oggigiomo manifesta una tendenza verso il dualismo. La sua scelta è spesso dettata dalla cultura secolarizzata del mondo moderno o, in ogni caso, da motivi spesso d’ordine piuttosto politico che strettamente ecclesiale. Ne deriva che anche un referendum sulle imposte ecclesiastiche non sarebbe in grado di dare delle indicazioni certe sull’appartenenza dei cristiani alla Chiesa. Dai due referendum italiani, non si può concludere con certezza che tutti i cristiani che hanno votato per le leggi che introducono il divorzio e l’aborto approvassero in sé il divorzio e l’aborto. Così, un referendum sulle imposte non permetterebbe di affermare che coloro che votassero per l’abolizione del carattere obbligatorio di queste, sarebbero contrari a dare qualsiasi contributo finanziario alla Chiesa.

[9] Cfr. per esempio, LG 14,1.

[10] Cfr. E. Corecco, Die Lehre der XJntrennbarkeit des Ehevertrages vom Sakrament im Lichte des scholastischen Prinzips “Gratia perficit, non destruit naturam”, AfkKR 143 (1974), 428-433; J. Ratzinger, Zur Theologie der Ehe, in: Theologie der Ehe, Regens- burg-Göttingen 1969, 91-93.

[11] Per esempio i canoni 1070 § 1 e 1090 § 1-2 concernenti l’impedimento della disparità di culto e la forma canonica del matrimonio.

[12] Non si tratta qui di fare un’analisi teologica approfondita del problema dell’appartenenza alla Chiesa, né di giustificare l’opzione che preferiamo. I principali articoli scritti su questa questione sono stati pubblicati da P. Meinhold, nella raccolta Das Problem der Kirchengliedschaft heute, Darmstadt 1979. Tra gli autori cattolici del postconcilio che hanno preso posizione sul testo molto discusso di LG 14, 2 «illi piene Ecclesiae societati incorporante, qui Spiritum Christi hahentes…», bisognerebbe citare ancora W. Aymans, Die Kanonistische Lehre von der Kirchengliedschaft im Lichte des II. Vatikanischen Konzils, AfkKR 142 (1973), 387-417; H. Müller, Zugehörigkeit zur Kirche als Problem der Neukodifikation des Kanonischen Rechts, OAfKR 28 (1977), 81-98; P. Krämer, Die Zugehörigkeit zur Kirche, in: Grundriss des Nachkonziliaren Kirchenrechts, cit., 102-110; F. Coccopalmerio, La dottrina dell’appartenenza alla Chiesa nell’insegnamento del Vaticano II, «La Scuola Cattolica» 98 (1970), 215-238.

[13] Cfr. LG 8,2. Per un commento di questo testo fondamentale dove si afferma che la Chiesa di Cristo «subsistit in Ecclesia catholica», cfr. A. Grillmeier, LThK Vai. I, Freiburg-Basel-Wien 1966, 174-175.

[14] Cfr. can. 2195 § 1.

[15] Cfr. J. Brosch, Schisme, in: LThK, IX, Freiburg i.Br. 1964, 404-406.

[16] Per tutti, cfr. H. Heinemann, Die rechtliche Stellung der Nichtkatholischen Christen und ihre Wiederversöhnung mit der Kirche, München 1964, 41-43.

[17] I testi di questi due sinodi diocesani sono citati da H. Heinemann, op. cit.y 36-40.

[18] Cfr. le «Constitutiones synodales» del 26 novembre 1956, Solothurn 1960, 76-77.

[19] II testo datato del mese di dicembre è pubblicato in AfkKR 138 (1979), 557-559.

[20] Cfr. per esempio, A. Hagen, Die kirchliche Mitgliedschaft, Rottenburg am Neckar 1938,56-61.

[21] Cfr. per esempio, H. Heinemann, op. cit., 42-43.

[22] Si possono trovare tutte queste motivazioni nella dichiarazione della Conferenza dei Vescovi tedeschi del 1969 (cfr. n. 20) e nel testo del Sinodo tedesco (Gemeinsame Synode, Gesamtausgabe, II, Freiburg-Basel-Wien 1978, 211), che è stato seguito in alcuni dei suoi elementi dai Sinodi svizzeri ‘72 (cfr. per esempio, quello di Basilea: Sachkommission 9: Beziehung zwischen Kirche und politischen Gemeinschaften 4.3.2); cfr. J. Listl, Kirchenbeitrag, cit., 383-386; A. Höllerbach, op. dt., 726.

[23] Sulla riflessione attuale concernente la struttura di comunione della costituzione della Chiesa, cfr. O. Saier, «Communio» in der Lehre des Zweiten Vatikanischen Konzils, München 1973; W. Aymans, Die Communio Ecclesiarum als Gestaltgesetz der einen Kirche, AfkKR 139 (1970), 60-90. Sull’interpretazione strutturale della categoria «communio», cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società. Aspetti metodologici della questione, in: Les droits fondamentaux du chrétien dans l’Église et dans la société. Actes du IVème Congrès International de Droit Canonique, Fribourg (Suisse) 6-11 octo- bre 1981, pubblicati da E. Corecco-N. Herzog-A. Scola, Friboug (Suisse)-Freiburg i.Br.-Milano 1981, 1222-1225.

[24] Per tutto lo sviluppo storico in questo campo, cfr. W. Schwickerath, Die Finanzwirtschaft der deutschen Bistümer, Breslau 1942, spec. 44-133.

[25] Sulla questione, cfr. G. Krüger, Die Rechtsstellung der vorkonstantinischen Kirche, Stuttgart 1935; G. Bovini, La proprietà ecclesiastica e la condizione giuridica della Chiesa in età precostantiniana, Milano 1949.

[26] Sant’Ambrogio, nella sua Ep. 18 ad Valentinianum, 16, scrive: «Possessio Eccle- siae sumptus est egenorum» e nella sua De vita contemplativa, 1. 2, c. 2, scrive ancora: «nihil aliud esse res Ecclesiae, nisi vota fidelium, patrimonia pauperum»; cfr. W. Schwickerath, op. cit., 52; A. Plöchl, Bischofsgut und mensa episcopalis. Ein Beitrag zur Geschichte des Kirchlichen Vermögensrechtes, I, Bonn, 12; cfr. anche W.M. Plöchl, Geschichte des Kirchenrechts, I, Wien-München 1960, 101-104.

[27] Cfr. per esempio il testo di Tertulliano (Apologeticum, 39): «Modicam unus- quisque stipem menstrua die vel cum velit, et si modo velit, si modo passit, apponit: nam nemo compellitur, sed sponte confert», cfr. W. Schwickerath, op. cit., 593.

[28] Cfr. 2, 42-47; 4, 32-37; 5, 1-11.

[29] Cfr. V. Fuchs, Der Ordinationstitel von seiner Entstehung bis auf Innozenz III-, Bonn 1930, 77.

[30] Cfr. A. Frhr. von Campenhausen, Staatskirchenrecht, München 1973, 17-21.

[31] 13,3.

[32] Cfr. I. Seiperi, Die wirtschafsethischen Lehren der Kirchenväter, Wien 1907,78-79.

[33] Cfr. W. Schwickerath, op. cit., 79. Nella dottrina, quest’idea è tuttavia rimasta presente. Degli autori del XVII secolo, come per esempio Reifenstuel nel suo Jus cano-

nicum universum, l.V, tit. XI, 12, possono ancora scrivere: «Quia, cum redditu ecclesiastici sint patrimonium Christi et pauperum»; cfr. J. Evelt, Die Kirche und ihre Institute auf dem Gebiete des Vermögensrechts, Soest 1845, 4-6.

[34] A. Fhrh. von Campenhausen, Staatskirchenrecht, cit., 41-45.

[35] Cfr. H. Heinemann, op. cit., 198-199.

[36] Cfr. W. Schwickerath, op. cit., 11-114.

[37] Cfr. la Reichsverfassung del 28 marzo 1849 (Paulskirchenverfassung), 144-151.

[38] Art. 135-141.

[39] Cfr. H. Haller, Steuer, in: Staatslexikon, Lex., VII, Freiburg i.Br. 1962, 688-690.

[40] Kirchenrecht, II, Graz 1959 (Regensburg 1857), 586-587.

[41] Institutionen Iuris Publici Ecclesiastici, III, Romae 19064, 211, 227, 228.

[42] Institutionen Iuris Publici Ecclesiastici, I, Typis poliglottis Vaticanis 1958, 326-328.

[43] Sulla scuola dell’/PE, cfr. A. De La Hera, Introducción a la ciencia del derecho canónico, Madrid 1967, 38-46; J. Listl, Kirche und Staat in der neueren katholischen Kirchenrechtswissenschaft, Berlin 1978, 104-207; E. Corecco, Theologie des Kirchenrechts. Methodologische Ansätze, Trier 1980, 85-86.

[44] Sul problema del diritto penale canonico, cfr. A. Scheuermann, Erwägungen zur kirchlichen Strafrechtsreform, AfkKR 131 (1962), 393-413; K. Mörsdorf, Zum Problem der Excommunication. Bemerkungen zum Schema Documenti quo disciplina sanc- tionum seu poenarum in Ecclesia Latina denuo ordinatur, ibidem (1974), 64-68; J. Baldanza, De reconoscendo iure canonico poenali quaestiones quaedam, Eph. Iur. Can. 19 (1963), 93-104; P. Huizing, Delikte und Strafen, «Concilium» 3 (1967), 657-664; V. De Paolis, Totum ius poenale ad externum tantum forum limitandum est, PRMCL 65 (1976), 297-315; F. Coccopalmerio, De natura iuris poenalis Ecclesiae, ibidem, 317- 330; L. Gerosa, La scomunica e la protezione dei diritti fondamentali del cristiano, in: Les droits fondamentaux du chrétien dans l’Eglise et dans la société, cit., 1065-1070.

[45] Anche il criterio della solidarietà, introdotta nei documenti del magistero particolare, pur rivelando una sensibilità nuova, resta ambiguo. Se lo si interpreta come virtù etica, derivante dalla giustizia naturale, non sembra essere sufficiente. Se invece lo si interpreta come sinonimo di «comunione», difficilmente lo si può adottare come motivazione di una politica fiscale derivabile dal diritto statale.

[46] Cfr. A. Scheuermann, Das Schema 1973 für das kommende kirchliche Strafrecht, AfkKR 143 (1974), 3-63.

[47] Cfr. H. Heinemann, op. al., 31-42.

[48] E sintomatico, a questo proposito, che nei cantoni svizzeri una fortissima proporzione di dimissionari dalla Chiesa sia di stranieri. Nel canton Zurigo, rappresentavano nel 1970 una proporzione del 24% (di cui circa la metà erano italiani). Nel cantone Basilea-Città raggiungevano nel 1978 il 68% (di cui 75% italiani), nel 1979, il 63% (di cui 65% italiani) e nel 1980, il 58,5% (di cui 65% italiani).

[49] È importante sottolineare qui che l’elemento portato dal diritto ecclesiastico non sarà valutato sulla base degli effetti giuridici che produce nei confronti dello Stato, che sono differenti in Germania e in Svizzera, come in Austria. La valutazione è data solo a partire dal punto di vista canonico.

[50] È interessante notare che la norma del canone 1325 § 1 è sparita dal progetto di revisione del codice del 1980.

[51] Decreto del Tribunale della S. Penitenzieria pubblicato nel 1921 e rinnovato in seguito: AfkKR 114 (1934), 141.

[52] Enciclica di Benedetto XIV, Inter omnigenas, del 2 febbraio 1744, CIC Fontes, I, 803-810.

[53] Istruzione della S. Congregazione di Propaganda Fide del 6 giugno 1817, CIC Fontes, VII, 233-238; cfr. H. Heinemann, op. cit., 34.

[54] Questo regime è caratterizzato con maggior precisione dalla dottrina di lingua tedesca come regime della «Staatskirchenhoheit», cfr. E. Isele, Zur Revision des kantonalen Staatskirchenrechts, in: lus et Lex. Festgabe zum 70. Geburtstag von Max Gutzwiller, hrsg. von der Juristischen Facultät der Universität Freiburg (Schweiz), Basel 1959, 563-602; Id., Die neuere Entwicklung und der gegenwärtigen Stand derKir- chengesetzgehung in der Schweiz, SJZ 58 (1962), 177-182; 193-201; Id., Faut-il séparer l’Église et l’État?, in: L’Église et l’État: évolution de leurs rapports, Zürich 1974, 11-32; J.G. Fuchs, Die neuere Entwicklung des Verhältnisses von Kirche und Staat in der Schweiz, in: Recueil de travaux suisses présentés au VlIIème Congrès international de droit comparé, Basel 1970, 293-312; Id., Zum Verhältnis von Kirche und Staat in der Schweiz, «Essener Gespräche» 2 (1971), 156-168; Id., L’Église et l’État, partenaires dans un esprit démocratique, in: L’Église et l’État: évolution de leurs rapports, cit., 33-56; E. Corecco, Katholische “Landeskirche” im Kanton Luzern. Das Problem der Autonomie und der synodalen Struktur der Kirche, AfkKR 139 (1970), 3-42; F. Clerc, L’Église et l’État en droit constitutionnel suisse, Mélanges offerts à Pierre Andrieu-Guitrancourt, AC 17 (1973), 205-223; L. Carlen, Religiöse Grundrechte in der Schweiz, in: Die Grundrechte des Christen in Kirche und Gesellschaft, cit., 995-1010.

[55] Cfr. H. Heinemann, op. cit., 202.

[56] Cfr. V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, Milano 197012, 174 e 424; P. CiPRom, Contributo alla teoria della canonizzazione delle leggi civili, Roma 1941; P. A. D’Avack, La natura giuridica dei concordati nello lus Publicum Ecclesiasticum, in: Studi in onore di E Scaduto, I, Firenze 1936, 129.

[57] Canti. 1529, 1059, 1080.

[58] E significativo che i tribunali tedeschi, seguiti dal legislatore, sulla suggestione della dottrina, non abbiano ammesso l’accettabilità del «modifizierte Kirchenaustritt», cioè della dichiarazione di dimissione dalla Chiesa in quanto corporazione di diritto pubblico ma in quanto istituzione canonica. Su tale questione, cfr. J. LlSTL, Verfassungsrechtliche unzulässige Formen des Kirchenaustritts, JZ (1971), 345-352; D. Pirson, Zur Rechtswirkung des Kirchenaustritts, ibidem, 608-612; A. Hollerbach, op. cit., 124-125.

[59] Per esempio, il protocollo finale dell’art. 13 del Reichskonkordat del 1933.

[60] Cfr. W. Aymans, Die Kirche-das Recht im Mysterium der Kirche, in: Grundriss des nachkonziliaren Kirchenrechts, cit., 3-11; A. Rouco Varela-E. Corecco, Sacramento e Diritto: antinomìa nella Chiesa? Riflessioni per una teologia del diritto canonico, Milano 1971, 59-64.

[61] E. Corecco, Die sacra potestas und die Laien, FZPhTh 21 (1980), 120-154.

[62] Cfr. M. Drath, Staat, in: ESLex, Stuttgart-Berlin 1975, 2432-2467, spec. 2462- 2466.

[63] Sui differenti aspetti della pianificazione, cfr. W. Blumel, Planung, in: ESLex, cit„ 1811-1835.

[64] Su questo problema vedere, ad esempio, la breve sintesi di H. Thimme, Volkskir- che, in: EKLex, Göttingen 1961, 1689-1691.

[65] Sul rapporto giustizia-carità nella Chiesa, cfr. R. Sobanski, Die methodologische Lage des katholischen Kirchenrechts, AfkKR 147 (1978), 369-372.

[66] Al proposito, vale la pena ricordare i rimproveri di K. Barth, Die Ordnung der Gemeinde. Zur dogmatischen Grundlegung des Kirchenrechts, München 1955.

[67] Cfr. per esempio, J. Neumann, op. cit., 202. Le norme dei Vescovi al proposito sembrano essere più rigorose, come, per esempio, l’Ordinanza dell’Arcidiocesi di Monaco e Freising – del 22 giugno 1971 – sulla maniera di trattare i dimissionari dalla Chiesa che hanno aggiunto clausole restrittive alla loro dichiarazione, AfkKR 140 (1971), 557.

[68] La nozione di «imposte non obbligatorie» è una contraddizione «in terminisi. Sarebbe meglio parlare di quote finanziarie.

[69] Cfr. can. 2556, n. 2.

[70] Cfr. K. Mórsdorf, Kirchenrecht, Paderborn-Miinchen-Wien-Zùrich 197911, 390-391.

I. Premessa

Non è priva di fondamento la tesi di coloro che, all’indomani del Vaticano II, hanno creduto poter constatare, non senza una punta di delusione, che il Concilio, a differenza di quanto aveva fatto per i vescovi e per i laici, non è riuscito ad affrontare con la stessa organicità il problema dei presbiteri.

Questo scompenso dottrinale, i cui profili diventano ancora più evidenti nel contesto della ristrutturazione ecclesiologica globale operata dal Vaticano II, ha senza dubbio contribuito al dilagare della crisi attraversata dal clero diocesano dopo il Concilio.

Non sono bastati infatti i due Decreti conciliari sulla Formazione del sacerdote «Optatam totius» (OT) e quello sul Ministero e la vita dei presbiteri «Presbyterorum ordinisi (PO) ad evitare al clero questo disorientamento. Il primo perché rimasto troppo legato dal profilo educativo all’immagine tridentina del sacerdozio [1]; il secondo perché non ha osato avventurarsi oltre l’orizzonte dottrinale fissato molto sinteticamente dalla LG 28 [2]. D’altra parte, gli elementi riguardanti i presbiteri contenuti nei nn. 28-32 del Decreto sull’Ufficio pastorale dei vescovi «Christus Dominus» (CD) hanno una notevole portata disciplinare, ma lasciano implicite le coordinate dottrinali. In particolare il Decreto OT non ha ripensato a fondo le trasformazioni avvenute non solo nel contesto ecclesiale attuale, ma soprattutto in quello socio-culturale, profondamente mutato in questi ultimi decenni, per essere in grado di offrire un modello educativo capace di conferire ai presbiteri un’identità nuova, atta ad affrontare senza tergiversazioni le esigenze pastorali e culturali moderne.

E sintomatico ad ogni buon conto il fatto che questo documento si ispira prevalentemente a fonti preconciliari, in modo particolare al magistero di Papa Pio XII, mentre il Decreto PO ha tenuto come punto di riferimento costante, oltre che la Lumen gentium (LG 28), anche la tradizione più antica della Chiesa, cioè quella patristica.

 

II. L’educazione del clero

1. Nel settore della formazione dei presbiteri il CIC (can. 232-264) ha sostanzialmente tradotto in norme giuridiche le direttive del Decreto OT. A dire il vero, si sarebbe potuto pensare che il CIC elaborasse una normativa più sobria, aprendo spazi maggiori per l’inserimento di elementi più concretamente aderenti alle diverse situazioni sociali e culturali nazionali nelle «Sacerdotali rationes», che le Conferenze dei Vescovi dovranno promulgare (can. 242). Comunque, «post factum», cioè, dopo la promulgazione del CIC, l’unico interrogativo concreto ancora possibile è quello di sapere in che misura le Conferenze dei Vescovi riusciranno a sfruttare i pochi spazi reali rimasti, senza dover ricorrere all’introduzione di elementi eterogenei rispetto al sistema.

La dipendenza dei cann. 232-264 dal Decreto OT è comunque così stretta da affiorare con evidenza anche a livello terminologico. Come nel documento conciliare, anche in questi canoni la categoria unilateralmente dominante è quella di «sacer- dos» [3]. Ciò è un indice preciso del taglio educativo di fondo con il quale è stato affrontato il problema della formazione del clero. L’unilateralità dell’uso del sostantivo «sacerdos» contrasta con il fatto che in tutti gli altri documenti del Concilio, come del resto negli altri canoni del CIC in cui il discorso verte sul ministero sacerdotale, l’alternarsi del termine «sacerdos» con «presbyter» è costante.

2. Questo indice terminologico trova conferma nella tendenza immanente alla normativa contenuta nei can. 232-264 a privilegiare lo «status vitae», quello sacerdotale, rispetto alla funzione apostolica in quanto tale, messa invece meglio in evidenza dal sostantivo «presbyter». E vero che l’ufficio sacerdotale, da solo, rappresenta all’interno della dottrina dei tre uffici di Cristo, l’elemento teologico che ricomprende tutti gli altri, quello profetico e quello regale, ma è altrettanto vero che la categoria «presbyter», per sua natura, trascende la problematica dei tre (o più uffici) di cui i ministri diventano partecipi con il sacramento dell’ordine, senza così dar adito all’equivoco, radicato forse più nella prassi che nella dottrina, che sia possibile ridurre la funzione ecclesiale del presbitero a quella cultuale [4].

A comprovare questa impressione basta l’analisi di alcuni canoni e in particolare quella del can. 245, in connessione con il 255, del can. 258 e del can. 276 § 2 n. 1-2.

Il tenore della dichiarazione programmatica del Decreto OT 4,1 circa lo scopo dell’educazione nei Seminari maggiori è di una chiarezza inequivocabile. «In essi (nei Seminari) tutta l’educazione degli alunni deve tendere allo scopo di formare dei veri pastori d’anime, sull’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo, maestro, sacerdote e pastore». La corrispondente norma del can. 245 § 1 risulta invece molto più blanda, poiché sposta l’accento dalla formazione oggettiva al ministero pastorale a quella soggettiva dell’attitudine spirituale per esercitarlo in modo fruttuoso.

Attraverso la formazione spirituale e attraverso l’acquisizione della capacità di conciliare «i beni umani con quelli soprannaturali», gli alunni devono essere resi idonei ad esercitare in modo fruttuoso il proprio ministero pastorale e missionario dato che queste attività apostoliche, esercitate nella fede e nella carità, contribuiscono alla santificazione dei presbiteri. La fruttuosità dell’apostolato è vista prima di tutto in funzione della santificazione soggettiva. Evidentemente l’aspetto soggettivo e quello oggettivo sono interdipendenti, ma l’accento messo sul primo piuttosto che sul secondo è un’indicazione chiara del fatto che il CIC affronta il problema prima di tutto con la preoccupazione di formare gli alunni a vivere bene il proprio «status vitae», quello clericale, piuttosto che la loro funzione apostolica, rimanendo legato ad una prospettiva più vicina a quella tridentina che a quella della ecclesiologia scaturita dal Vaticano II.

Anche in sede di orientamento degli studi è possibile constatare uno slittamento di prospettiva, dalla funzione verso lo «status». Mentre OT 21 prevede che gli alunni debbano imparare ad agire «nell’arte dell’apostolato» con responsabilità propria e in collaborazione con gli altri già durante il tempo dell’anno dedicato allo studio, senza trascurare il periodo di vacanza («feriarum quoque tempore»), il can. 258 inverte i valori, mettendo l’accento sul periodo delle vacanze («studiorum curriculum decurrente, praesertim vero feriarum tempore, praxi pastorali initientur»), come se l’iniziazione all’apostolato in quanto tale fosse un elemento meno costitutivo degli altri per la formazione, così da poter essere preferibilmente spostato nel tempo libero.

Un ultimo indizio dell’orientamento sopra indicato può essere reperito anche nel can. 276 § 2. Il Decreto PO 13,1 afferma in modo inequivocabile che l’esercizio dei tre uffici «do- cendi, sanctificandi et regendi», vale a dire l’esercizio globale della funzione presbiterale, costituisce la fonte primaria e specifica della santificazione dei presbiteri [5]. Di conseguenza mette l’accento sulla verità intrinseca {«sincere») con la quale i presbiteri devono svolgere le loro funzioni pastorali {«muñera»). Secondo lo stesso documento questa verità si realizza grazie al fatto che il presbitero, nell’atto di predicare agli altri, rivolge la parola anche a se stesso (13, 2), che nella celebrazione dell’Eucaristia, offerta per la Chiesa, il presbitero offre anche il sacrificio della propria vita (13, 3), e che nello svolgimento della funzione di «reggitore della comunità» egli pratica l’ascesi rinunciando a perseguire i propri interessi personali (13, 4).

Il can. 276 § 2 procede invece ad una duplice sostituzione di parola, che solo ad uno sguardo superficiale potrebbe apparire come priva di significato. All’avverbio «sincere» sostituisce «fi- deliter» e al sostantivo «muñera» sostituisce «officia», termine che in questo contesto non può essere sinonimo di ufficio ecclesiastico – perché sarebbe riduttivo – ma di dovere. Questa duplice correzione conferisce un significato diverso al testo del canone, rispetto a quello del documento conciliare. Fa dipendere infatti la santificazione del presbitero dalla fedeltà morale nella pratica dei suoi doveri di stato {«officia») più che dall’autenticità {«sincere») nell’esercizio delle funzioni presbiterali in quanto tali.

La conseguenza di quest’inversione di tendenza si fa sentire nel § 2 n. 2 dello stesso canone, dove la Scrittura e l’Eucaristia {«duplici mensa Scripturae et Eucharistiae») assumono unilateralmente la caratteristica di essere più pratiche di pietà soggettive che azioni oggettive della Chiesa per la santificazione di tutto il popolo di Dio. L’aspetto soggettivo evidentemente non può essere escluso e il documento conciliare stesso ne tiene conto (PO 18), ma solo dopo aver insistito in modo inconfondibile (n. 13) sul fatto che il presbitero si santifica prima di tutto compiendo con sincerità la sua missione pastorale.

Questo aspetto oggettivo, anche se falsificato nel suo vero significato dal can. 276 § 2, emerge comunque, sia pure timidamente nel can. 245 § 1 già citato, il cui testo recita: «… (alumni) discentes ministerium expletum semper in fide viva et in cantate ad propriam sanctificationem conferve». Tuttavia, affermato così, «in obliquo», questo principio fondamentale per la comprensione della spiritualità e dell’identità del clero diocesano, viene privato della sua forza programmatica.

 

III. L’istituto del Presbiterio

1. Nell’ambito della riflessione sulla natura sinodale della Chiesa [6], il Vaticano II, operando una piccola rivoluzione copernicana, ha riscoperto l’istituto del Presbiterio. Si tratta senza dubbio di una realtà ecclesiologica e giuridica fondamentale per la comprensione della struttura costituzionale della Chiesa particolare e della Chiesa universale stessa.

E sintomatico che un’opera, così rappresentativa dal profilo teologico, come il «Lexikon für Theologie und Kirche» non abbia saputo definire il Presbiterio alla vigilia del Vaticano II, se non come lo spazio architettonico di una chiesa destinato al clero nella celebrazione della liturgia [7].

In effetti l’idea di Presbiterio, così viva nel primo millennio, si è progressivamente affievolita fino a scomparire [8]. Essa è stata in un certo senso confiscata dall’istituto del Capitolo cattedrale che, sia pure con inadeguatezza di strumenti giuridici, ha garantito la sopravvivenza della coscienza sinodale nell’ambito della Chiesa particolare [9].

2. Il recupero del Presbiterio da parte del Concilio, comunque, non è avvenuto senza incertezze e scompensi. Il Concilio non è riuscito a decantare con sufficiente precisione i diversi elementi ecclesiologici del rapporto vescovi-presbiteri da cui è determinato anche il Presbiterio, lasciando di conseguenza fluttuare la terminologia. Ciò ha permesso il formarsi di tre modelli differenti di Presbiterio [10].

L’idea che i presbiteri nella loro totalità sono i cooperatori dell’Ordine dei vescovi, presente in LG 28, 2 e in altri testi conciliari [11], ha permesso ad un autorevole commentatore del Concilio, come Grillmeier, di sostenere che, parallelamente al collegio dei vescovi, esiste un collegio presbiterale della Chiesa universale e che questa doppia realtà forma un unico Presbiterio [12]. Il «Textus emendatus» del «De Ecclesia» del 3 luglio 1964, che l’autore prende ancora di fatto come punto di riferimento interpretativo per il suo commento alla LG 28, non parla di un unico Presbiterio comprendente i vescovi e i sacerdoti, bensì di un unico Presbiterio formato da tutti i presbiteri della Chiesa [13]. Le modifiche apportate al «Textus emendatus» apparentemente non sono però bastate ad eliminare ogni possibilità di confusione.

Quando il Concilio parla al plurale, di vescovi e dei presbiteri, per affermare che questi ultimi sono i collaboratori dell’Ordine dei vescovi, non intende affrontare il problema del Presbiterio, ma piuttosto quello più a monte della responsabilità e della sollecitudine che tutti i presbiteri, analogamente ai vescovi, devono sentire per la Chiesa universale, oltre che per la loro Chiesa particolare.

Nel Decreto PO 7, 1 il Concilio esige la costituzione di un Consiglio di presbiteri che rappresentino il Presbiterio [14]. In questo testo il Presbiterio appare come una comunità di preti esistente ed operante nella Chiesa particolare con una funzione di alterità rispetto al vescovo diocesano. Questa medesima concezione corporativistica del Presbiterio, simile a quella che sorregge l’istituto del Capitolo cattedrale, affiora chiaramente anche nel Decreto CD 11, 1 che definisce la diocesi come una porzione del Popolo di Dio affidata alla cura pastorale del vescovo «cum cooperatione presbyterii». Altre formule simili, tecnicamente improprie, ricorrono nella Costituzione sulla Liturgia al n. 41,2 (SC): «Episcopus suo presbyterio et ministris circumdatus» e nel Decreto sull’Attività missionaria della Chiesa al n. 19, 3 {AG): «Episcopi…una cum suo quisque presbyterio».

LG 28 usa il termine «Presbiterio» una sola volta, ma in modo da non lasciar dubbi sulla natura dell’istituto. Afferma infatti che «Presbyteri… unum presbyterium cum suo Episcopo constituunt». Si tratta del testo conciliare più centrale sul problema, sia in ragione del suo «cursus» definitorio, che coglie la struttura ontologica dell’istituto senza sovrapporre altri elementi, come per esempio quello dello scopo del Presbiterio, sia perché esso è contenuto nel documento in cui il Concilio ha sviluppato gli elementi fondamentali della sua ecclesiologia.

Di conseguenza, non i preti globalmente e posti come comunità sacerdotale della Chiesa universale al servizio del Collegio dei vescovi e neppure presbiteri in quanto corporazione diocesana, collocata in posizione estrinseca rispetto al vescovo, formano il Presbiterio, bensì i presbiteri assieme al vescovo loro capo.
Questo stesso concetto di Presbiterio ricorre anche nei Decreti PO 8, 1 [15], CD 28, 1, dove il vescovo è qualificato, perfino, seguendo il modello della famiglia, come padre dei suoi presbiteri [16], e AG 19, 3 [17].

Si deve concludere perciò, con la stragrande maggioranza della dottrina [18], che il «locus theologicus» del Presbiterio non è la Chiesa universale, ma quella particolare.

3. Malgrado abbia riscoperto l’istituto del Presbiterio come elemento costituzionale fondamentale della Chiesa particolare, il Vaticano II non si è preoccupato però di cercare la ragione teologica della sua esistenza. Dal semplice fatto che tra i presbiteri e il vescovo esiste un rapporto di comunione gerarchica [19], non è infatti possibile dedurre l’esistenza del Presbiterio. Tanto più che un rapporto di comunione gerarchica intercorre anche tra i presbiteri di tutta la Chiesa universale e il Collegio dei vescovi [20].

Evidentemente esiste una ragione funzionale e pratica dell’esistenza del Presbiterio. Il Vaticano II non esita infatti ad asserire che i presbiteri sono collaboratori necessari del vescovo [21]. Questa necessarietà tuttavia non appare sufficientemente fondata a partire dalla constatazione che il vescovo, da solo, non è in grado di svolgere tutte le attività pastorali che incombono alla sua missione, anche se questa inadeguatezza pratica diventa sempre più evidente. Comunque se si trattasse di una necessità di ordine puramente razionale e funzionale bisognerebbe concludere che il ministero del vescovo sarebbe in se stesso incompleto, non possedendo tutti i mezzi necessari per auto-realizzarsi.

Oltre a questa motivazione funzionale deve esistere perciò una ragione più profonda di ordine teologico. Se è vero infatti che un istituto è determinato nella sua esistenza anche dallo scopo che gli è proprio, il problema allora è, nella fattispecie, quello di individuare con precisione la natura di questo scopo. Si può ritenere «a priori» che la ragione dell’esistenza di questa realtà sinodale collocata al cuore della Chiesa particolare, al cui centro sta il vescovo diocesano, così da determinare la struttura costituzionale stessa della diocesi, non possa essere di ordine puramente razionale-pratico, ma appartenga all’ordine dei contenuti della rivelazione, cioè della fede.

La Chiesa particolare è il luogo concreto in cui si realizza la Chiesa universale, la cui struttura sinodale (o collegiale) nasce proprio dal fatto che quest’ultima non solo si realizza nella Chiesa particolare, ma è anche costituita dalle Chiese particolari [22]. Sarebbe impensabile che la Chiesa universale possa realizzarsi nella Chiesa particolare secondo la dimensione sinodale che le è propria, se la Chiesa particolare non avesse a sua volta carattere sinodale, ma fosse strutturata monisticamente. In questo caso bisognerebbe ammettere che nel momento stesso in cui la Chiesa universale si «incarna» nella Chiesa particolare, diventandole immanente, cesserebbe di esistere come realtà sinodale, perché verrebbe espropriata della sua stessa struttura.

Per essere in grado di accogliere la Chiesa universale e permetterne la sua realizzazione, la Chiesa particolare deve essere in grado di offrire una struttura non eterogenea rispetto a quella sinodale della Chiesa universale [23].

Evidentemente la struttura sinodale della Chiesa particolare può essere solo analogica rispetto a quella della Chiesa universale. Se fosse identica significherebbe che la Chiesa particolare avrebbe la stessa forma costituzionale di quella universale; sarebbe a sua volta Chiesa universale e il processo andrebbe aH’infinito. In realtà la Chiesa particolare non si realizza in altre e da altre realtà ecclesiali come la Chiesa universale. Né la comunità eucaristica locale, né quella giuridicamente più strutturata e stabile della parrocchia, sono realtà da cui si costituisce la Chiesa particolare. Né Tuna né l’altra sono entità ecclesiologiche necessarie. Si diversificano rispetto alla concelebrazione dell’Eucaristia presieduta dal vescovo solo per ragioni pratiche, non potendo il vescovo raggiungere, come forse poteva avvenire nella Chiesa antica, prima che si costituissero le parrocchie rurali, tutti i fedeli della sua diocesi [24].

L’analogia tra le due realtà sinodali si impone per il fatto che il rapporto esistente all’interno del Presbiterio tra il vescovo e i sacerdoti, non è uguale, dal profilo sacramentale e giurisdizionale, a quello esistente nel Collegio tra il papa e i vescovi. Non è identico dal profilo sacramentale perché tutti i membri del Collegio dei vescovi, a differenza dei membri non vescovi [25] del Presbiterio, sono investiti dalla pienezza del sacramento dell’ordine. Non è uguale dal profilo giurisdizionale perché i vescovi, a differenza dei presbiteri, sono in possesso, in forza del loro stesso ministero, di tutti i poteri necessari per guidare il loro popolo verso la salvezza [26]. Il primato del papa consiste nel fatto di potersi riservare alcune competenze, sottraendole ai vescovi, in vista dell’unità della Chiesa. Il vescovo nel Presbiterio, invece, gode poteri giurisdizionali che i presbiteri non hanno in forza del loro ministero e del sacramento dell’ordine.

Risulta perciò evidente che la ragione ontologica primaria dell’esistenza del Presbiterio è di natura ecclesiologica. Si può affermare che come la responsabilità della Chiesa universale è affidata al Collegio dei vescovi con il papa in quanto capo, così la responsabilità della Chiesa particolare non è affidata personalmente solo al vescovo ma sinodalmente a tutto il Presbiterio come tale. Ciò avviene però in modo solo analogico poiché il vescovo emerge come capo dei presbiteri in una posizione più forte del papa rispetto agli altri membri del Collegio, dato che i presupposti sacramentali e giurisdizionali nei due tipi di rapporto sono diversi.

4. Come in altri settori della normativa, il CIC non ha compiuto lo sforzo di rifondere in una sintesi organica le indicazioni dottrinali date dal Vaticano II sul Presbiterio, ma si è limitato a riprendere pragmatisticamente i contenuti, veicolandone le incongruenze.

In effetti, non solo non si preoccupa di dare una giustificazione ecclesiologica esplicita dell’esistenza del Presbiterio, operazione che non è stata compiuta neppure dal Concilio, ma lascia emergere, nei sette canoni in cui ricorre l’istituto del Presbiterio, molto delle incertezze terminologiche e concettuali del Concilio stesso.

Il testo principale del Concilio, quello di LG 28,2, che definisce il Presbiterio come realtà diocesana formata dal vescovo e dai presbiteri, non è stato utilizzato in nessuno dei due canoni centrali del CIC: nel can. 369 dove il Presbiterio è enumerato tra gli elementi fondamentali della costituzione della diocesi e nel can. 495 § 1 dove si statuisce la costituzione obbligatoria del Consiglio presbiteriale.

Tuttavia l’idea che il Presbiterio sia una realtà unica, cui appartengono il vescovo diocesano e i presbiteri, affiora, anche se in modo non del tutto concludente, in due canoni marginali. Nel can. 713 § 3, infatti, si esortano i chierici membri di un Istituto secolare a dare la loro testimonianza di carità apostolica «praesertim in presbyterio». Pur lasciando apparire il carattere diocesano del Presbiterio, questa formula non dà un’indicazione precisa, a sapere se il vescovo sia membro dello stesso o se il Presbiterio comprenda solo i preti, come il capitolo cattedrale comprende solo i canonici. Anche nel can. 400 § 2 sorge un problema terminologico, malgrado si debba riconoscere che la sua formulazione potrebbe fare allusione ad un Presbiterio concepito come realtà unitaria, cui fanno parte vescovo e presbiteri. In essa si prescrive che il vescovo può farsi rappresentare, nella visita «ad limina», da un sacerdote «sui presbyterii». La stessa formula potrebbe tuttavia essere usata anche per designare un Presbiterio concepito come realtà autonoma, di cui il vescovo non sarebbe membro.

Se si prescinde da questi due canoni (713 § 3 e 400 § 2) tutte le formulazioni degli altri cinque canoni risultano imprecise, poiché trasmettono un’immagine dualistica dell’Istituto, quasi si trattasse di una corporazione di sacerdoti che opera in posizione estrinseca rispetto al vescovo. Ciò è particolarmente evidente nei due canoni centrali già citati sopra (369 e 495 § 1). Nel can. 369 infatti la diocesi è descritta come una «populiDei portio, quae Episcopo cum cooperatione presbyterii pascertela con- creditur». Una formulazione più esatta, avrebbe potuto essere «cum cooperatione sacerdotum sui presbyterii». Nel can. 495 § 1 invece, si afferma che il Consiglio presbiterale è un corpo «pre- sbyterium repraesentans».

Il verbo rappresentare ha due significati: uno teologico ed uno sociologico. In senso teologico solo il vescovo rappresenta il Presbiterio, dal momento che questo tipo di rappresentazione è fondata sul possesso del sacramento dell’ordine. Ciò spiega perché solo il vescovo, in forza del sacramento dell’ordine (e non il Presbiterio in quanto tale) può rappresentare la Chiesa particolare in seno al Collegio dei vescovi. Il consiglio presbiterale per contro, in quanto ente corporativo, ha forza rappresentativa solo in senso sociologico. Ne consegue che il verbo «repraesentare» del can. 495 § 1 ha valore solo sociologico, con la stessa accezione del can. 499, che fissa i criteri per la scelta dei membri del Presbiterio. In realtà esso non rappresenta il Presbiterio preso nella sua globalità (con il vescovo e i presbiteri), ma solo i presbiteri appartenenti al Presbiterio diocesano. La formula più corretta avrebbe perciò potuto essere «sacerdotes presbyterii repraesentans».

Negli altri tre canoni il problema è analogo. Secondo il can. 245 § 2 gli alunni del seminario devono essere preparati «ad fraternam unionem cum dioecesano presbyterio». Avendo lo stesso paragrafo affermato nella frase precedente che gli alunni devono essere preparati ad aderire al loro vescovo «tamquam fidi cooperatores», sarebbe stato più esatto usare nella frase seguente la formula «ad fraternam unionem cum sacerdotibus dioecesa- ni presbyterii». Nel can. 529 § 2 si raccomanda al parroco di cooperare «cum proprio Episcopo et cum dioecesis presbyterio», invece di dire «cum Episcopo et sacerdotibus eiusdem presbyterii». Anche nel can. 754, in cui si statuisce che il compito dei diaconi è di servire la Chiesa nell’esercizio del ministero della Parola, la formula «in comunione cum Episcopo eiusque presbyterio» risulta dualistica come quelle usate nei due canoni precedenti.

5. L’equivoco secondo cui esisterebbe un Presbiterio a livello della Chiesa universale non trova per contro nessun fondamento nel CIC, poiché i testi del Concilio in cui si afferma genericamente che i presbiteri sono cooperatori dell’ordine episcopale non vi sono utilizzati. Il can. 257 § 1 raccoglie invece l’idea teologica della responsabilità di tutti verso la Chiesa universale, soggiacente a questi testi, precisandone il contenuto. Prescrive infatti che gli alunni del seminario devono essere educati ad una sollecitudine non solo nei confronti della Chiesa particolare in cui sono incardinati, ma anche nei confronti della Chiesa universale, così da essere disposti a trasmigrare in altre Chiese che avessero bisogno del loro ministero.

6. Al di là dei problemi posti dalle formulazioni prese fin qui in esame, che comunque non hanno carattere solo tecnico-giuridico, Fimmagine sull’identità del presbitero che si delinea nel CIC è inequivocabile. Esso risulta definito non solo a partire dal sacramento dell’ordine e dalla missione apostolica di cui è investito personalmente, ma anche dal rapporto di dipendenza e di collaborazione strutturali cui, in forza dello stesso sacramento e della stessa missione, è legato al proprio vescovo. Il can. 245 definisce, infatti, i presbiteri come «fidi cooperatores» del vescovo e il can. 384 come «adiutores et consiliarios» che il vescovo è tenuto ad ascoltare («audiat»).

Tra i vari testi, in cui il Concilio sottolinea questa dipendenza dei presbiteri nella collaborazione con il vescovo [27], ne emerge tuttavia uno, in cui i presbiteri sono definiti quali «ne-cessarli adiutores et consiliarii» del vescovo (PO 7,1) che il CIC avrebbe potuto utilizzare (per esempio nel can. 384). Si tratta evidentemente di un testo denso di significato teologico, poiché «in nuce» contiene anche la giustificazione ecclesiologica dell’esistenza del Presbiterio. In questo testo il Decreto PO fa dipendere l’ascolto, che i vescovi devono prestare ai loro presbiteri, non tanto da un’obbligo morale e giuridico, quasi fosse loro imposto in forza della legge o magari anche in nome del principio della comunione, ma da un fatto ontologico, che oltretutto è il fondamento della «communio» stessa.

Secondo PO 7, 1, l’identità stessa dei vescovi è determinata dal fatto di avere necessariamente alcuni presbiteri come collaboratori. L’ascolto che il vescovo deve prestare ai presbiteri deriva sia dalla natura del ministero di quest’ultimi, sia dalla natura del ministero stesso del vescovo.

Questa dinamica di reciprocità necessaria, che sarebbe stato importante fosse emersa con tutta la sua forza programmatica anche nel CIC, affiora però indirettamente nel can. 495 § 1, in forza del fatto che esso rende obbligatoria la costituzione del Consiglio presbiterale diocesano. La ragione del carattere obbligatorio dell’istituto del Consiglio presbiterale, sta nel carattere di necessarietà del ministero dei presbiteri rispetto a quello del vescovo diocesano.

Il fondamento dottrinale di quest’interdipendenza attiva e passiva, dei presbiteri nei confronti del vescovo e del vescovo nei confronti dei suoi presbiteri, sta nella teologia espressa dal Vaticano II, da una parte, circa la comune, anche se diversa, partecipazione sacramentale dei presbiteri e del vescovo allo stesso sacerdozio di Cristo, dall’altra, in quella della partecipazione dei presbiteri al ministero stesso del vescovo.

Il Concilio ha definito la natura della diversa partecipazione sacramentale al sacerdozio di Cristo, solo dal profilo formale, affermando, da una parte, che il vescovo è investito della pienezza del sacramento dell’ordine (LG 21,2), dall’altra, che il presbitero vi partecipa in grado «subordinato» (PO 2,2), non avendo l’«apice» dello stesso sacramento (LG 28, 1). Poiché il potere consacratorio del presbitero e del vescovo, rispetto all’eucarestia, è identico, la differenza nel grado dell’ordine sacro sembra essere solo quantitativa e non qualitativa. Il Concilio ha, comunque, evitato di entrare dal profilo materiale in merito alla questione, rinunciando a spingere l’analisi sul problema dei contenuti. Anzi ha espressamente voluto lasciare aperta la discussione su quelle questioni teologiche di cui la dottrina si è sempre occupata, come quella di sapere se i presbiteri possono consacrare altri presbiteri, o se non possono conferire anche il grado episcopale dell’ordine. Rimane comunque acquisito, ad opera del Concilio, il fatto che la partecipazione del presbitero al sacramento dell’ordine non può essere intesa come trasmissione da parte del vescovo di una porzione del proprio sacramento. La fonte del sacramento presbiterale non è il vescovo, ma Cristo, che opera nel sacramento, servendosi strumentalmente del segno [28].

La partecipazione dei presbiteri al ministero del vescovo sembra, d’altra parte, implicare un ulteriore elemento rispetto a quello sacramentale. La dottrina tradizionale di cui anche il Concilio si serve in questo contesto identifica nell’elemento giurisdizionale questo ulteriore elemento. La partecipazione al ministero del vescovo da parte del Presbiterio non sarebbe di ordine puramente sacramentale, ma anche giurisdizionale e si realizza attraverso la «missio canonica» [29]. Quale significato ecclesiologico debba essere attribuito alla «missio canonica» rimane però, a sua volta, una questione aperta alla discussione teologica [30].

7. L’unità esistente a livello sacramentale e ministeriale tra il vescovo e i presbiteri, che si struttura come «communio hierar-chica», ha un risvolto preciso anche sul rapporto esistente tra i presbiteri dello stesso Presbiterio. Il Concilio, come abbiamo visto, parla a più riprese dell’unità che intercorre tra i presbiteri di tutta la Chiesa universale e ne identifica il fondamento nella comune partecipazione al sacramento dell’ordine sacro (PO 3-4; 8, 1-2; 12,3; 15,2).

Il fatto però di essere membri dello stesso Presbiterio conferisce a questa unità uno spessore ancora più grande e più concreto, poiché l’appartenenza al Presbiterio deriva ai presbiteri dalla loro partecipazione al ministero stesso del vescovo. Ciò permette di affermare che tutti i sacerdoti del Presbiterio partecipano «in solidum» – sia pure secondo un’accezione non tecnica del termine – non solo al ministero pastorale del vescovo, ma di conseguenza anche al compito globale del Presbiterio stesso, di cui il vescovo è il capo.

Tutti i testi del CIC concernenti il Presbiterio, già citati sopra, veicolano questa idea, espressa comunque nei termini più espliciti dal can. 275 § 1, che enumera appunto come uno dei primi obblighi dei chierici, quello di stare uniti tra di loro nel vincolo della fraternità, della preghiera e della collaborazione reciproca, poiché tutti operano per un unico fine: l’edificazione del Corpo di Cristo.

 

IV. Vari istituti che convergono a rafforzare il Presbiterio

Oltre a questa dottrina generale sul Presbiterio il CIC riprende dal Concilio – positivizzandoli in norme giuridiche vincolanti – molti altri istituti ed elementi (anche se non tutti) che in modo più o meno diretto convergono a rendere più organico l’istituto stesso del Presbiterio come elemento centrale della costituzione della Chiesa particolare.

1. Il primo di questi elementi, che tendono a favorire l’unità dei sacerdoti all’interno del Presbiterio e di conseguenza a rafforzare l’istituto stesso, è quello della vita comune. Il Vaticano II non la considera elemento imprescindibile dello stato clericale [31], ma il CIC risulta sulla questione forse ancora meno rigoroso del Concilio stesso, benché ritorni sull’argomento a più riprese.

Anzitutto nel quadro della normativa concernente la formatone del clero nei Seminari maggiori. Svolgendo un’indicazione del Decreto OT 11, 2 in cui la vita comune è considerata come lo scopo verso cui deve tendere tutta la disciplina dell’Istituto [32], il can. 245 § 2, a sua volta – e contrariamente agli equivoci nati in molti seminari soprattutto prima del Concilio – concepisce la disciplina del seminario solo come funzionale alla vita comune, attraverso la quale i presbiteri devono essere preparati a vivere l’unione fraterna in seno al Presbiterio

Un’altra norma parallela è quella del can. 280 in cui si raccomanda vivamente («valde») ai chierici di praticare una «certa» vita comune [34]. Evidentemente, mancando nel CIC indicazioni più dettagliate in merito, la vita comune deve essere interpretata e intesa nella sua concretizzazione pratica secondo le indicazioni date da PO 8, 3, che non la fa coincidere necessariamente con il fatto di vivere sotto lo stesso tetto, e ammette diverse modalità e diversi gradi di realizzazione [35].

In modo ancora più specifico il can. 550 § 2 impone all’Ordinario di provvedere perché sia instaurata, nella misura del possibile, la vita comune tra i parroci e i vicari parrocchiali. Neppure in questo contesto però, il principio della vita comune è imposto in modo perentorio. Il CIC considera infatti gli impegni pastorali parrocchiali dei presbiteri, prevalenti sull’idea della vita comune. Questa priorità emerge chiaramente in due dispositivi: quello del can. 533 § 1 in cui l’obbligo del parroco di risiedere nella casa parrocchiale appare come prevalente sulla possibilità di vivere in comune con altri presbiteri, e quello del can. 550 § 1 in cui l’obbligo dei vicari parrocchiali di risiedere in parrocchia è fatto prevalere sulla possibilità di vivere in comune con altri presbiteri fuori dal territorio della parrocchia. In ambo i casi il CIC ammette che il principio della residenza possa essere infranto solo con il consenso del vescovo.

2. Un secondo elemento, tradizionalmente connesso con la vita comune, sul quale PO ritorna due volte facendo esplicito riferimento agli Atti degli Apostoli ed alla prassi della Chiesa primitiva, è quello della comunione dei beni. Mentre la formulazione del n. 8, 3 del Decreto PO è categorica: «Presbyte- ri… colant… communionem honorum», nel n. 17, 4 essa è raccomandata solo come pratica per abbracciare volontariamente la povertà.

Il CIC, per contro, tace sorprendentemente su questo argomento. Rivolgendosi a tutti i presbiteri, nel can. 282 § 2, si limita a riprendere sommariamente le indicazioni di CD 28, 3 e di PO 17, 3 circa l’uso dei beni acquisiti in occasione dell’esercizio del ministero pastorale, mentre nel can. 286 ribadisce semplicemente il principio, affermato nello stesso contesto da PO, della proibizione dell’attività commerciale dei presbiteri, attenuando per di più il rigore del testo conciliare stesso, con la clausola secondo cui l’attività commerciale {«mercatura») potrebbe essere praticata qualora intervenisse il permesso dell’autorità competente.

3. Quasi a controbilanciare questo atteggiamento meno rigoroso del codice nel settore dell’uso dei beni rispetto al Concilio, il can. 1274 § 1 – contrariamente al Decreto PO 21, 1 – ha reso obbligatoria la costituzione del fondo comune diocesano per il sostentamento del clero, nel caso non fosse possibile provvedere in altro modo. Per quanto riguarda l’assistenza sociale del clero e la cassa comune in favore delle altre persone che operano al servizio della diocesi i §§ 2 e 3 dello stesso canone traducono sinteticamente in norme giuridiche le indicazioni date da PO 21,1.

4. Un altro istituto di cui bisogna tener conto nell’analisi del rapporto presbiteri-Presbiterio è quello delle associazioni.

Nel quadro generale del diritto associativo, valevole per tutti i fedeli, laici, chierici e membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica – la cui base legislativa è posta dal can. 215, e la cui articolazione normativa è svolta nei can. 298-329 – , il CIC circoscrive il diritto specifico dei chierici nel can. 278. Mentre dal § 1 risulta che i chierici possono associarsi anche a livello di Chiesa universale, il § 2, in cui la finalità specifica delle associazioni dei chierici è ulteriormente precisata, statuisce che essi devono dare importanza soprattutto a quelle associazioni che tendono a favorire una più grande unione dei chierici tra di loro e con il loro vescovo. Da ciò si può concludere che il CIC privilegia, sia pure discretamente, il costituirsi di associazioni all’interno del Presbiterio.

5. Per completare questa panoramica non si possono trascurare alcuni altri istituti di capitale importanza per la struttura costituzionale della Chiesa e l’amministrazione della diocesi, la cui incidenza sull’immagine globale del rapporto presbiteri- Presbiterio è inconfondibile.

Prima di tutto il principio della territorialità che il CIC esclude dalla definizione o descrizione teologica, sia della Chiesa particolare che della diocesi (can. 368-369 e 374 § 1), sia della parrocchia (can. 515 § 1 e 518). Sull’importanza di questa svolta coraggiosa data dal CIC alla dottrina tradizionale non è possibile soffermarsi in questa sede. Tuttavia, tenendo conto anche del fatto che il CIC ha definitivamente fissato l’esistenza delle Prelature personali (can. 294-297), il cui scopo è di raggruppare i presbiteri su base personale, permettendo così anche il formarsi di un Presbiterio personale, qualora il prelato avesse la dignità episcopale, si deve prendere atto che l’aver privato il principio della territorialità da qualsiasi valenza teologica contribuisce in modo radicale a smantellare nel clero ogni pretesa di godere un’autonomia di fatto e di principio nei confronti del vescovo. Ciò vale prima di tutto per i parroci, che nella sopravvalutazione teologica del principio territoriale hanno sempre trovato il fondamento teorico più efficace della loro autonomia pastorale, articolatosi soprattutto nell’istituto dei cosiddetti diritti parrocchiali.

6. Nella stessa direzione opera l’abolizione del sistema beneficiale almeno a livello di diritto comune (can. 1272), e la conseguente soppressione dell’istituto deH’inamovibilità (can. 252), già postulate da PO 20, 2 e, rispettivamente, da CD 31,3.

Il sistema beneficiale, profondamente radicato nella concezione – non astratta come quella romana ma reificante e concreta propria – alla cultura dei popoli germanici, ha largamente contribuito a disgregare la diocesi in tante piccole entità parrocchiali e beneficiali garantendo al clero le condizioni materiali indispensabili della loro autosufficienza economica, presupposto della loro autonomia giuridica e pastorale. Anche nel caso in cui l’istituto beneficiale in quanto tale non dovesse essere soppresso dalle Conferenze dei vescovi, ma semplicemente trasformato, il fatto di sottrarre il clero al regime beneficiale privatistico di sostentamento economico per sottoporlo al regime di diritto pubblico del nuovo fondo diocesano, previsto dal can. 1274, avrà come conseguenza quella di far prendere maggiormente coscienza ai presbiteri della solidarietà totale che li lega tra di loro e con il vescovo.

All’abolizione del regime beneficiale risulta collegata, almeno di fatto, sia la soppressione dei diritti di presentazione, di nomina, di elezione popolare, oltre che dell’istituto del concorso, statuita dai Decreti CD 28, 1 ed Eccl. Sanct. I, 18, in base ai quali va interpretato il can. 523 che stabilisce una chiara presunzione giuridica in favore della libera collazione degli uffici parrocchiali da parte del vescovo diocesano.

7. Le conseguenze positive per il formarsi di un senso più globale dell’unità del Presbiterio dell’abolizione dell’istituto della inamovibilità postulata da CD 31,3, ribadita da Eccl.

Sanct. I, 20 § 1-2, e recepita dal can. 522, sono facilmente prevedibili. In rapporto con essa sta evidentemente, oltre che la normativa circa le dimissioni dei parroci per limiti d’età, regolata dal can. 538 § 3 nella scia di CD 31,4 ed Eccl. Sanct., 20 § 3, anche la nuova normativa del CIC sull’amozione e il trasferimento dei parroci dei can. 1740-1752, già preconizzata da CD 31 ed Eccl. Sanct., 20 § 1.

8. Tutti questi nuovi elementi hanno evidentemente un nesso con la nuova regolamentazione dell’Istituto dell’incardina- zione dei can. 265-272 prevista da PO 10, 2 e da Eccl. Sanct. I, art. 3. La maggiore mobilità impressa al clero, alla quale deve già essere preparato attraverso l’educazione nei Seminari (can. 257), contribuisce a creare un’immagine diversa del presbitero, rispetto a quella del regime codificatorio piano-benedettino. Da una parte sottolinea la responsabilità di tutti i presbiteri verso la Chiesa universale, fino al punto da lasciarsi determinare anche il proprio campo di lavoro, senza rimanere attaccato definitivamente alla propria attività pastorale in una Chiesa particolare, dall’altra insegna che il presbitero rimane strutturalmente determinato nella sua missione apostolica dal suo costante riferimento al vescovo.

9. Nel quadro di questa metamorfosi dell’identità del clero diocesano vanno iscritti due ultimi istituti: quello del conferimento «in solidum» di una o più parrocchie a più presbiteri (can. 517 § 1) e quello dei consultori diocesani (can. 502). Il primo istituto introdotto dal CIC tende a realizzare a livello parrocchiale una struttura che rispecchia in miniatura il modello stesso del Presbiterio. Infatti pur restando vero che l’istituto della responsabilità solidale è applicabile dal profilo tecnico con tutto il suo rigore giuridico solo nel caso previsto dal can. 517 § 1, è anche vero che, in senso lato e per analogia, esso offre una categoria per comprendere la natura della responsabilità, diversificata, ma nondimeno collettiva, di tutti i membri del Presbiterio di una Chiesa particolare.

Il Presbiterio è senza dubbio l’istituto del CIC che ha determinato inoltre, in modo più o meno esplicito, anche la relativizzazione del potere di governo nella diocesi dell’antico istituto del Capitolo cattedrale, nella misura in cui le singole Conferenze episcopali dovessero trasferire, sulla base del can. 502 § 3, le competenze non liturgiche del Capitolo al Collegio dei consultori, i cui membri provengono dal Consiglio presbiterale.

 

V. Conclusioni

Passando in rassegna tutti questi istituti del CIC, in parte nuovi, come quello della vita comune, del fondo diocesano comune, delle associazioni sacerdotali, delle dimissioni per limite di età, delle parrocchie affidate «in solidum», oltre che il fatto dell’abolizione del sistema beneficiale; oppure quelli largamente rimaneggiati, come l’istituto della territorialità, dell’inamovibilità, dell’amozione e trasferimento dei parroci, della incardinazione, del Collegio dei consultori e del Capitolo cattedrale, si deve constatare che essi sono stati introdotti nel CIC, e sottoposti a una profonda trasformazione, per garantire una convergenza più grande di tutti i presbiteri verso l’istituto fondamentale del Presbiterio. In rapporto a quest’ultimo, dal momento che determina centralmente tutta la struttura costituzionale della Chiesa particolare, tutti gli altri istituti acquistano una valenza di subordinazione funzionale.

La Chiesa particolare non è immaginabile senza il suo capo naturale, il vescovo; il vescovo diocesano, a sua volta, non è concepibile senza i presbiteri che con lui formano la realtà sinodale del Presbiterio. Tutti i rapporti esistenti tra il vescovo e i suoi presbiteri e tutti gli istituti in cui questi rapporti si articolano giuridicamente hanno un senso nella misura in cui lasciano emergere con trasparenza la priorità del Presbiterio e favoriscono la coesione interna di quest’ultimo.

Non è possibile dissolvere la responsabilità personale del vescovo in una responsabilità collettiva di tutti i presbiteri, quantunque il Presbiterio sia investito di una responsabilità sinodale. La diversità fondamentale tra la responsabilità collettiva e quella sinodale è determinata dal fatto che il potere decisionale non è, in quest’ultimo caso, affidato ad una maggioranza, ma ad una persona che ne è investita in forza del sacramento. Nel Collegio dei vescovi per contro in forza del fatto che la maggioranza deve comprendere anche il papa.

Il legame ontologico di natura sacramentale e giurisdizionale esistente tra tutti i membri del Presbiterio, permette di affermare che la missione pastorale è affidata, in una Chiesa particolare, al Presbiterio in quanto tale, su una base di responsabilità personale differenziata, ma sinodalmente reciproca e, per questo, dal profilo ecclesiologico non meno stringente di qualsiasi forma di responsabilità collettiva. Ciò significa, tra molte altre cose, che la coordinazione pastorale non trova la sua giustificazione nel principio razionale della efficienza, ma nella struttura ecclesiologica del Presbiterio stesso e che di conseguenza si impone come una necessità di ordine teologico.

 

 

[1] Non sono mancati riconoscimenti positivi a OT anche dal versante ecumenico. Tuttavia a distanza di tempo il Decreto ha palesato con più evidenza i suoi limiti. Per una prima valutazione e per l’analisi dello sviluppo storico del documento cfr. J. Neu- ner, Vatikan Ronzìi III, in: LThK, Freiburg-Basel-Wien 1967, 310-313.

[2] Per una analisi storica del processo di formazione del Decreto e dei tentativi di far convergere la discussione conciliare sui punti più essenziali della problematica, cfr. J. Lécuyer, Vatikan Konzillll, in: LThK, Freiburg-Basel-Wien 1968, 128-140.

[3] Vale la pena di sottolineare che nel Decreto PO il rapporto di frequenza del sostantivo «presbyter», rispetto a «sacerdos», è di circa 100 a 20.

[4] La ragione principale fatta valere nelle discussioni conciliari per l’uso del termine «presbyter» invece di «sacerdos», nel Decreto PO, non fu di ordine dottrinale, bensì pratico, cioè quella di chiarire senza equivoci che il Concilio intendeva occuparsi in questo documento non del sacerdozio in genere, dal momento che anche il vescovo è sacerdote, ma del grado inferiore del sacerdozio, vale a dire dell’ordine presbiterale; cfr. Lécuyer, art. cit134.

[5] «Sanctitatem propria ratione consequentur Presbiteri munera sua sincere et indefesse in Spiritu Christi exercentes».

[6] II termine «sinodale» è meno compromesso dal profilo giuridico del termine «collegiale», perché può comprendere, senza creare equivoci, tutti i comportamenti dell’attività apostolica dei vescovi e non solo quelli che sfociano in un atto collegiale vero e proprio; cfr. W. Aymans, Das Synodale Element in der Kirchenverfassung, MThS 30 (1972).

[7] Freiburg-Basel-Wien 1963, Band VIII, 725.

[8] Cfr. per esempio, J. Pascher, Bischof und Presbyterium, «Concilium» 1 (1965), 83-85; G. d’Ercole, Die Priesterkollegien in der Urkirche, «Concilium» 2 (1966), 487- 492.

[9] Sulla storia dei Capitoli cattedrale, cfr. P. Torquiebiau, Chapitres de Chanoines, in: DDC, III, 530-545.

[10] Sulla questione, cfr. O. Saier, Die hierarchische Struktur des Presbyteriums, AfkKR 136 (1967), spec. 351-360.

[11] Per esempio, CD 28, 1: «Ordinis episcopalis providi cooperatores…»\ PO 2, 2: «Ordinis episcopalis… cooperatores».

[12] Vatikan Konzil, I, in: LThK, Freiburg-Wien 1963, 725.

[13] Textus emendatus 28, al. 3: «Presbyteri, Ordinis Episcopalis providi cooperatores eiusque complementum et organum… unum preshyterium constituunt…».

[14] «… habeatur… coetus seu senatus sacerdotum, Preshyterium repraesentantium, qui Episcoporum in regimine dioeceseos suis consiliis efficaciter adiuvare possit». Questo testo, che trova il suo riscontro in CD 27, 2, è stato applicato dal profilo legislativo da Eccl. San et., I, 15.

[15] «Presbyteri per Ordinationem in Ordine presbyteratus constituti omnes inter se intima fraternitate sacramentali nectuntur; specialiter autem in dioecesi cuius servitio sub Episcopo proprio addicuntur unum Presbyterium efformant».

[16] «… quare (presbyteri) unum constituunt presbyterium, atque unam familiam, cuius pater est Episcopus».

[17] «Episcopi vero, una cum suo quisque presbyter io… cum universali Ecclesia sen- tiant atque vivant».

[18] Cfr. per esempio, K. Rahner, Handbuch der Vastoraltheologie, I, Freiburg i.Br. 1964, 179-185; K. Mörsdorf, Die hierarchische Struktur der Kirchenverfassung, «Semi- narium» 18 (1966), 403-416; L. Weber, Der Priesterrat, «Der Seelsorger» 38 (1968), 105-118.

[19] Cfr. per esempio, PO 5,1: «In omnibus autem Sacramentis conficiendis… Pre- shyteri diversis rationihus cum Episcopo hierarchice coligantur».

[20] «Presbiteri omnes, una cum Episcopis, unum idemque sacerdotium et ministrium Christi ita participant, ut ipsa unitas consecrationis missionisque requirat hierarchicam eorum communionem cum Ordine Episcoporum…».

[21] PO 1,1: «Episcopi igitur, propter donum Spiritus Sancti quod preshyteris in sacra Ordinatione datum est, illos habent ut necessarios adiutores et consiliarios in ministerio et muñere docendi, sanctificandi et pascendi plebem Dei».

[22] II testo fondamentale del Concilio su questo punto è quello di LG 23, 1: «Episcopi autem singuli, visibile principium et fundamentum sunt unitatis in suis Ecclestis particularibus, ad imaginem Ecclesiae universalis formatis, in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit».

[23] Resta comunque aperta la discussione a sapere se l’universale e il particolare connotano l’esistenza di due realtà ecclesiali materialmente diverse che si compenetrano – la Chiesa universale che si realizza nelle e dalle Chiese particolari – oppure se devono essere considerate piuttosto come due dimensioni solo formali, anche se necessarie, dell’unica Chiesa di Cristo.

[24] Cfr. a questo riguardo il testo di SC 41,2: «Quare omnes vitam liturgicam dioece- seos circa Episcopum praesertim in ecclesia cathedrali, maximi faciant oportet: sibi per- suasum habentes praecipuam manifestationem Ecclesiae baberi in plenaria partecipatio- ne totius plebis sanctae Dei in eiisdem concelebrationibus liturgicis… cuipraeest Episco- pus a suo presbiterio et ministris circumdatus».

[25] Anche i vescovi coadiutori e ausiliari appartengono al presbiterio.

[26] CD 8 a-b. Questo testo conciliare ha determinato il passaggio dal sistema tridentino della concessione, in base al quale si riteneva che il papa trasmettesse per delega poteri propri ai vescovi (per esempio con le Facoltà quinquennali), al sistema della riserva, in cui il papa ritiene per sé competenze, in vista di una più grande unità disciplinare, che di per sé spetterebbero ai vescovi diocesani.

[27] Per esempio, LG 28, 2; CD 28, 1; OT 9, 1; PO 2, 2; 4, 1; 8, 1-2; 12, 1 e 3.

[28] Sulla questione cfr. H. Müller, De differentia inter Episcopatum et Presbytera- tum iuxta doctrinam Concila Vaticani Secundi, PRMCL 59 (1970), 614-618.

[29] Cfr. LG 24, 2; NExP 2, 3; PO 7, 2.

[30] II problema della «sacra potestas» è un problema centrale della costituzione della Chiesa. Nella dottrina è stato affrontato con due soluzioni diverse. Nella prima si ritiene che l’ordine e la giurisdizione, pur essendo uniti tra di loro, sono due poteri distinti aventi un contenuto proprio e diverso; quello di ordine è conferito con il sacramento, mentre quello di giurisdizione con la «missio canonica». Nella seconda soluzione il potere di giurisdizione è considerato solo come formale, quasi non avesse un contenuto proprio. Tutto il potere è conferito con il sacramento, ma resta sotto il controllo delia giurisdizione che può legare o sciogliere «ad validitatem» il potere di ordine conferito sacramentalmente. Una terza possibilità sarebbe quella di considerare ordine e giurisdizione semplicemente come due dimensioni formali diverse dell’unica «potestas», che agirebbe nella sua totalità sia secondo la modalità specifica della logica simbolica del segno sacramentale, sia secondo la modalità della logica di comunicazione propria alla parola. La validità o invalidità degli atti sacramentali e giurisdizionali sarebbe determinata dal grado di comunione ecclesiale entro il quale essi vengono posti. Sulla questione, cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici, «Studi parmensi» 28 (1980), 3-36.

[31] CD 30, 3: «ad eandem vero animarum cura efficaciorem reddendam, vita communis sacerdotum, praesertim eidem paroecae addictorum enixe commendatur»; PO 8, 3: «Insuper, ut presbiteri in vita spirituali et intellectuali colenda mutuum iuvamen inve- niant, ut aptius in ministerio cooperari valeant utque a periculis solitudinis forte orienti- bus eripiantur, aliqua vita communis vel aliquod vitae consortium inter eos foveatur, quod tamen plures formas, iuxta diversas necessitates personales vel pastorales, induere potest, nempe coabitationem, ubi possibiles est, vel communem mensam, vel saltern frequentes ac periodicos conventus».

[32] «Vitae Seminarii disciplina aestimanda est non solum validum vitae communis caritatisque praesidium sed totius institutionis necessaria pars ad sui dominium acquirendum, ad solidam maturitatem personae promovendam ceterasque animi dispositions effermandas quae ordinatam et fructuosam Ecclesiae operositatem maxime invanì».

[33] «… per vitam in seminario communem atqueper amicitiae coniunctionisque neces- situdinem cum aliis excultam praeparentur ad fraternam unionem cum dioecesano pre- sbyterio, cuius in Ecclesiae servitio erunt consortes».

[34] II testo del can. 280 è una sintesi di CD 30, 3, in cui la vita comune è raccomandata senza alcuna relativizzazione (dove però V«enixe» del testo conciliare è sostituito con «valde») e PO 28, 3, in cui si raccomanda solo una «aliqua» vita comune (il can. sostituisce «aliqua» con «quaedam»).

[35] Cfr. nota 31.


I. Il problema teorico

1. La distinzione tra ordine e giurisdizione

a) Rivalorizzando la tradizione teologica antica, orientale ed occidentale, ma senza voler prendere posizione sul valore ecclesiologico della distinzione tra il potere di ordine e quello di giurisdizione – introdotta dalla canonistica prima del xil secolo [1] – il Vaticano II ha messo l’accento sull’unità della «sacra potestas» [2]. Gli elementi teologici che orientano verso una concezione unitaria della «potestas sacra» sono: il principio della sacramentalità dell’episcopato [3]; il principio tratto dal can. 129 § 1, secondo cui il potere di giurisdizione può essere conferito solo ad una persona ordinata; la possibilità di dare una nuova interpretazione alla distinzione tra ordine e giurisdizione.

La distinzione tra ordine e giurisdizione è il risultato di una riflessione, durata quasi un millennio, tesa a risolvere due problemi costituzionali di fondo: quello della validità degli atti sacramentali posti dai ministri, che in un modo o nell’altro avessero rotto con la comunione ecclesiale, e quello della validità delle ordinazioni assolute, prevalse nella prassi della Chiesa latina malgrado la proibizione del Concilio di Calcedonia [4]. Che un vescovo scomunicato, o deposto, non potesse più essere considerato come legittimo pastore del Popolo di Dio non era mai stato messo in dubbio neppure nei primi secoli; più difficile fu per contro capire se potesse ancora battezzare e consacrare validamente [5], fino a quando Graziano e i decretisti non riuscirono progressivamente a distinguere nell’attività dei ministri due poteri [6]: un potere di ordine e un potere di giurisdizione, diversi, secondo il Mörsdorf [7], sia per la modalità di trasmissione che per la loro stabilità e funzione.

A partire dalla scolastica cominciò a prevalere l’idea che il potere di ordine avesse come ambito di intervento quello concernente il Corpo reale di Cristo, mentre il potere di giurisdizione avesse come ambito il Corpo mistico di Cristo, inteso ri- duttivamente come ambito extrasacramentale o giuridico della vita della Chiesa. In questa prospettiva la distinzione tra ordine e giurisdizione da formale divenne materiale, provocando una spaccatura in due elementi, non solo della «sacra potestas», ma anche della struttura della Chiesa. Si arrivò così nell’alto medioevo a distinguere nella Chiesa, e ad opporre tra di loro, un ambito sacramentale, all’interno del quale agisce solo il potere di ordine, ed un ambito extrasacramentale dove agisce solo il potere di giurisdizione.

Questa latente antinomia tra spirito e lettera e tra carità e diritto, presente non solo nella riflessione teologica, ma soprattutto nei movimenti spiritualistici fioriti tra l’antichità e il medioevo, è esplosa nella radicale spaccatura ecclesiologica provocata dai Riformatori con la netta separazione tra una Chiesa «abscondita» ed una Chiesa «universalis seu visibilis».

b) Consumata la spaccatura tra i due ambiti e i due poteri, la teologia medioevale passò alla ricerca della loro origine, arrivando alla conclusione che, nei vescovi, solo il potere di ordine aveva immediatamente origine da Dio, all’atto della loro consacrazione, mentre quello di giurisdizione era conferito loro dal Sommo Pontefice «fons et origo omnis potestatis». Seguendo il solco tracciato da san Tommaso d’Aquino, per il quale il papa, dal punto di vista della celebrazione dell’eucarestia, non possiede un potere superiore non solo a quello del vescovo, ma anche a quello di un semplice presbitero, la teologia cercò la differenza tra l’episcopato e il presbiterato al di fuori del sacramento. Ne seguì un’articolazione del potere episcopale da due direzioni diverse: mentre per quello di ordine si partiva dal basso, considerando l’episcopato solo come un sacerdozio di grado superiore, per il potere di giurisdizione si partiva dall’alto, ritenendolo trasmesso immediatamente dal papa [8].

A livello istituzionale la separazione tra queste due funzioni della «potestas sacra» ha trovato la sua espressione più aberrante, nel tardo medioevo e dopo il Concilio di Trento, nella prassi, adottata dai vescovi-principi, di reggere la diocesi solo in forza del potere di giurisdizione, senza ricevere la consacrazione episcopale, facendosi supplire, nell’ambito del potere sacramentale, dai vescovi ausiliari [9].

Un ulteriore sviluppo dottrinale è avvenuto verso la metà del secolo scorso ed ha ulteriormente offuscato il significato originale della distinzione tra ordine e giurisdizione. In seguito all’innesto, avvenuto anzitutto nella canonistica ad opera di F. Walter e di G. Phillips e poi nell’ecclesiologia, della dottrina di estrazione calvinista dei tre uffici di Cristo (quello sacerdotale, profetico e regale), la teologia non ha resistito alla tentazione di assegnare ad ognuno di questi tre «munera» un ambito materiale specifico di attività, trasformandoli in tre veri e propri poteri. L’antico binomio ordine-giurisdizione fu così sostituito da un trinomio: potere di ordine, di magistero e di giurisdizione [10]. La stessa dottrina dei tre «munera» è stata, del resto, presa come base sistematica di tutta l’ecclesiologia della Lumen gentium, che però non l’ha avallata come trilogia a cui corrispondessero tre poteri distinti [11]. Vi si oppone infatti, non solo l’impossibilità di procedere ad una distinzione adeguata tra il potere di giurisdizione e quello di magistero, ma anche la coscienza che a Cristo possono essere attribuite oltre ai «tria munera» anche altre «funzioni», come del resto aveva fatto con abbondanza la teologia medioevale. All’utilità sistematica della trilogia adottata dal Concilio non corrisponde quindi un altrettanto solido valore dogmatico [12]. È sintomatico in proposito che papa Giovanni Paolo II non ha esitato ad affermare che «bisogna parlare di una triplice dimensione del servizio e della missione di Cristo, piuttosto che di tre funzioni diverse» [13].

Per la canonistica attuale il problema non è più quello di sapere se esistono due o tre poteri, ma piuttosto di stabilire il rapporto che esiste tra i «tria munera» di Cristo e la «potestas sacra». Di conseguenza si pone l’interrogativo, da una parte, se sia possibile conservare ancora in sede teorica, la distinzione tra il potere di ordine e di giurisdizione e quale significato le si debba attribuire, vista la sua millenaria tradizione teologica e l’ampio uso che ne fa ancora il nuovo CIO, dall’altra, il fatto che il Concilio ha intenzionalmente evitato di affrontare «expressis verbis» la questione [14].

2. Soluzione dualistica nelle spiegazioni teoriche tradizionali

a) Le soluzioni proposte dalla teologia sono rimaste fino ad oggi sostanzialmente due. Una prima dottrina interpretava contenutisticamente il principio tratto dal 109 del CIC del 1917 secondo cui il potere di ordine era conferito dal sacramento e quello di giurisdizione dalla «missio canonica». Secondo questa dottrina la distinzione in quanto tale rimane formale, nel senso che all’ordine e alla giurisdizione non è attribuito un ambito specifico e diverso di intervento (rispettivamente il «Corpus Christi verum» e il «Corpus Christi mysticum»), ma seguendo il significato immanente al linguaggio giuridico, si ritiene che l’ordine sacro e la «missio» conferiscano, ciascuno secondo modalità diverse, due parti distinte della «potestas sacra». Esse rimangono, tuttavia, reciprocamente dipendenti l’una dall’altra, sia perché vale il principio del can. 118 secondo cui il potere di giurisdizione può essere conferito solo a chi è ordinato, sia perché è evidente che, almeno nel caso di alcuni sacramenti, come per esempio quello dell’ordine e della penitenza, ordine e giurisdizione concorrono assieme nel produrre l’effetto sacramentale. È per questo che, secondo l’opinione comune dei teologi e secondo il diritto canonico, l’assoluzione sacramentale impartita senza la giurisdizione è considerata invalida. Secondo questa dottrina l’unità della «potestas sacra» è salva, ma l’unità non coincide con l’unicità [15].

Partendo da questo presupposto contenutistico è relativamente facile dare una spiegazione plausibile a tutti i casi topici ricorrenti nella teologia latina come quello dell’invalidità della assoluzione sacramentale impartita senza la giurisdizione, quello dell’ordinazione assoluta (dove ordine e giurisdizione sono conferiti separatamente), quello delle ordinazioni «extra com- munionem ecclesiasticam» (o «extra muros») e quello delle ordinazioni sacerdotali operate da un semplice presbitero, grazie ad un indulto papale [16].

Se si prescinde dal problema dell’ordinazione assoluta, è sufficiente ammettere, per risolvere questi casi, che la Chiesa è in grado di rendere validi o invalidi certi atti sacramentali grazie al potere che ha di conferire o di togliere la giurisdizione. Anche l’esistenza di diversi gradi nel sacramento dell’ordine (in particolare dell’episcopato, e del presbiterato) è spiegabile a partire dalla «quantità» diversa di giurisdizione, conferita con la «missio canonica».

Il pericolo volontaristico immanente a questa concezione emerge in modo particolare nella soluzione del problema delle ordinazioni «extra communionem». La validità delle ordinazioni «extra muros», come per esempio quelle delle Chiese ortodosse, è spiegata con la teoria secondo cui la Chiesa cattolica invece di ritirare – come sarebbe in grado di fare – il potere di giurisdizione e di invalidare così le ordinazioni degli ortodossi, preferisce, in nome dell’«economia», tollerare che esso venga usato illegittimamente.

Da quando però la teologia ha abbandonato la tesi che il potere di giurisdizione è dato ai vescovi direttamente dal papa, per abbracciare quella più plausibile secondo cui la giurisdizione è conferita loro da Dio, sia passando attraverso la mediazione della «missio canonica» conferita dal papa, sia direttamente in forza della consacrazione episcopale [17], questa dottrina ha dovuto ricorrere ad una spiegazione atipica rispetto al proprio sistema, per salvare il principio, affermatosi definitivamente nella Chiesa latina dal xil secolo in poi, secondo cui un vescovo è sempre in grado di consacrare validamente, anche quando ha perso il proprio ufficio e di conseguenza il potere di giurisdizione [18].

Il passo decisivo in materia è stato compiuto dal Mörsdorf con la tesi secondo cui il vescovo, nella consacrazione episcopale, non riceve solo il potere di ordine, ma anche un fondamento indelebile di giurisdizione che egli chiama «Grundbestand an oberhirtlicher Gewalt» [19]. Per diventare pastore di una Chiesa particolare il neo consacrato ha però ancora bisogno di ricevere, con l’ufficio canonico conferitogli dalla «missio», la parte di giurisdizione che gli manca. In forza della consacrazione che in ogni caso gli conferisce un substrato di giurisdizione, ma che se è legittima gli conferisce anche la «communio hierar- chica» (che non si identifica con la «missio canonica»), il vescovo entra a far parte del collegio episcopale, anche nel caso in cui, per una ragione qualsiasi, non dovesse essere investito di nessun ufficio ecclesiastico particolare, e di conseguenza non dovesse ricevere con una «missio» la totalità del potere di giurisdizione.

Il valore della innovazione apportata dal Mörsdorf sta nel- l’aver introdotto un elemento oggettivo: il substrato [Grundbestand) di giurisdizione conferito al vescovo nella consacrazione. Oltre a spiegare la superiorità costituzionale del vescovo rispetto al presbitero, l’esistenza di questo substrato permette di spiegare la validità delle ordinazioni «extra muros» senza ricorrere a soluzioni volontaristiche. Ogni vescovo riceve, indipendentemente dalla volontà del papa, una misura sufficiente di giurisdizione per poter consacrare sempre validamente, anche quando lo facesse «extra communionem ecclesiasticam».

E evidente che il punto disarmonico di questa soluzione sta nell’introduzione, con il Grundbestand, di un’eccezione al sistema, proprio a proposito della consacrazione episcopale, riconosciuta ormai dalla teologia e dal magistero come pienezza del sacramento dell’ordine e perciò come fonte dei gradi inferiori dell’ordine stesso. Tenendo conto del fatto che anche la celebrazione dell’eucarestia implica probabilmente una dimensione giurisdizionale, poiché è il sacramento in cui si realizza tutta la Chiesa [20], ci si può domandare perché, secondo questa dottrina, il semplice presbitero può celebrare l’Eucarestia sempre validamente, senza ricevere nell’ordinazione un Grundbestand di giurisdizione, magari inferiore, ma comunque simile a quello del vescovo.

b) Una seconda dottrina parte invece dal presupposto che tutta la «potestas sacra» è conferita dal sacramento dell’ordine. Per spiegare l’invalidità dell’assoluzione sacramentale impartita senza la «giurisdizione»; il sistema della ordinazione relativa (in cui l’ufficio è conferito simultaneamente alla consacrazione); il sistema dell’ordinazione assoluta; le ordinazioni sacerdotali ad opera di presbiteri; il fatto dell’esistenza di diversi gradi del sacramento dell’ordine (data l’unicità sostanziale dell’ordine stesso), questa dottrina afferma che la Chiesa ha il potere di sciogliere e legare la «potestas sacra» conferita dal sacramento e, all’occorrenza, anche di impedirne totalmente l’efficacia [21].

Siccome però nell’ipotesi formulata da questa dottrina non esiste un potere di giurisdizione, inteso come parte distante, avente un contenuto materiale della «potestas sacra», ne consegue che il potere della Chiesa di sciogliere e legare ha carattere solo formale. Prescindendo dal carattere ancora più marcatamente volontaristico di questa seconda soluzione rispetto alla prima, poiché tutta la dinamica propria al funzionamento del sacramento dell’ordine è fatta dipendere dalla volontà della Chiesa, ci si deve comunque chiedere come sia possibile, senza cadere in una antinomia, concepire concettualmente l’esistenza di un «potere» (quello di ordine), che possa essere all’occorrenza neutralizzato totalmente da un altro (quello di giurisdizione), senza che cessi formalmente di essere una «potestas». Anche se questa seconda dottrina non riconosce, per definizione, al potere di giurisdizione nessun contenuto materiale distinto e proprio, rispetto a quello di ordine, questo diventa in pratica l’unico vero potere della Chiesa.

Prendendo come punto di riferimento la distinzione tra ordine e giurisdizione (accettata terminológicamente anche dalla seconda teoria) la differenza sostanziale tra la prima e la seconda dottrina sta nel fatto che mentre la prima attribuisce un contenuto materiale sia all’ordine che alla giurisdizione, la seconda assegna un contenuto materiale solo al potere di ordine, mentre attribuisce valore solo formale al potere di giurisdizione.

Se si dovesse affrontare, nella logica rispettiva delle due dottrine, il problema della trasmissione del potere di giurisdizione ai laici, bisognerebbe concludere che solo la prima dottrina è in grado di dare una spiegazione plausibile, prescindendo beninteso dal problema di fondo: quello della capacità dei laici di ricevere una parte di «potestas sacra». Potrebbe, infatti, ricorrere al conferimento del potere per delega. Visto invece che il battesimo (e la cresima) non conferiscono al laico il potere di ordine non si vede come, per la seconda teoria, la Chiesa possa scioglierlo e legarlo.

3. Proposta per una soluzione nuova: unità e unicità della «sacra potestas»

a) Sembra possibile ipotizzare una terza soluzione al problema, sotto precise condizioni. Si devono accettare da una parte le indicazioni date dal Vaticano II sull’unità della «potestas sacra:» che ha orientato la maggioranza dei canonisti e dei teologi moderni verso una soluzione rigorosamente sacramentale dell’origine della «sacra potestas»’, e dall’altra l’opportunità o necessità di salvare, almeno a livello concettuale, la tradizionale distinzione tra ordine e giurisdizione, che oltre ad essere prò- fondamente radicata nella teologia latina [22], sembra essere fino ad oggi tecnicamente insostituibile, tanto che il nuovo CIC vi ricorre senza porre molti problemi.

Il Mòrsdorf ha intuito che la distinzione tra ordine e giurisdizione ha la sua radice ultima in due elementi costitutivi della Chiesa stessa: il Sacramento e la Parola [23]. Questa intuizione svela un nesso teologico capace di superare i limiti connaturali al carattere funzionale (e perciò facilmente riduttivo) del linguaggio giuridico [24]. Il segno simbolico e la parola sono in effetti le due modalità umane di comunicazione usate da Dio già nel Vecchio Testamento per rivelarsi all’uomo. Nell’economia della salvezza sia il segno simbolico che la Parola di Dio hanno assunto una definitività escatologica che ha conferito loro quell’efficacia sacramentale oggettiva colta dalla teologia con l’idea dell’«(?x opere operatum». Ciò è vero, non solo perché la Parola ha già in se stessa un’efficacia effettiva [25], nel senso che ha un valore salvifico ed è vincolante prima e non solo dopo essere stata accolta «interius in corde» (come sostiene la dottrina protestante), ma anche perché essa è strutturalmente ordinata verso il segno simbolico ed è indispensabile affinché esso acquisti valore sacramentale [26]. La Parola di Dio infatti non è mai pronunciata, nell’economia della salvezza, in modo slegato dal segno simbolico. Anzi, essa ha un valore salvifico integrale (contrariamente a quanto è presupposto nella dottrina della «sola scriptura»), solo se tende a realizzarsi (o «incarnarsi») nel segno sacramentale. Ciò avviene per analogia con il mistero dell’incarnazione del Verbo stesso nell’umanità di Cristo [27].

Parola e Sacramento non sono perciò solo strutturalmente reciproci ma sono anche inseparabili tra loro. Sono le due modalità formali diverse attraverso le quali Dio manifesta e comunica la Grazia, cioè la salvezza, che è una realtà non solo unitaria, ma unica e indivisibile per parti. Questa è la ragione ultima per cui anche la «potestas sacra» in quanto elemento fondamentale della struttura della Chiesa, connesso con la trasmissione della Grazia sacramentale, non solo è una realtà unitaria, ma unica, indivisibile per parti.

Come Dio si manifesta nella sua totalità e unicità sia nel Sacramento che nella Parola, così l’unicità della «potestas sacra» si manifesta attraverso le due modalità istituzionali che la canonistica ha chiamato potere di ordine e potere di giurisdizione. A livello istituzionale l’ordine e la giurisdizione sono gli strumenti attraverso cui opera tutta la «potestas» e non solo una parte di essa. Sono la duplice modalità di espressione dell’unica «potestas sacra».

Mentre nell’ordine prevale la struttura di comunicazione propria del segno simbolico, cioè del Sacramento, nella giurisdizione prevale la logica di comunicazione propria del linguaggio parlato, cioè della Parola. La «potestas sacra» opera perciò secondo due modalità formali diverse: quella del segno, che la canonistica ha definito come potere di ordine, e quella della parola, che la canonistica ha definito come potere di giurisdizione («iuris dictio»). Ne consegue che la distinzione in quanto tale tra ordine e giurisdizione è formale e non materiale, come giustamente aveva già intuito la canonistica del xii secolo. Essa li aveva distinti non a partire dall’oggetto a cui si riferiscono, ma secondo la loro diversità di trasmissione, di durata e di funzione. Il loro contenuto materiale è dunque identico. Infatti in essi non operano due parti diverse della «sacra potestas» ma tutto il potere della Chiesa nell’integralità del suo contenuto. Sia che consacri, sia che ponga un atto di giurisdizione, come potrebbe essere un atto di magistero, il vescovo opera sempre in forza di tutta la sua «potestas», anche se essa diventa operativa e si manifesta secondo modalità formali diverse.

b) L’ordine e la giurisdizione operano però anche in modo relativamente autonomo, come il Sacramento e la Parola. Come la Parola può essere predicata senza una concomitante celebrazione del Sacramento, così è possibile che la Chiesa ponga atti di giurisdizione senza stabilire un nesso immediato con il Sacramento dell’ordine. Il rapporto con il Sacramento esiste tuttavia, sia in forza del fatto fondamentale che la Parola tende strutturalmente a «incarnarsi» nella celebrazione del Sacramento – come il Sacramento tende a provocare l’esplicitazione della Parola (Sòhngen) -, sia in forza del fatto che (per principio) il ministro della giurisdizione è anche ministro del Sacramento.

Tutto l’ordinamento giuridico della Chiesa, la cui espressione più palese è la «giurisdizione», è del resto concepito in funzione della celebrazione dei sacramenti [28]. Poiché la struttura dell’economia della salvezza ha come fondamento e modello il mistero dell’incarnazione del Verbo di Cristo, non è ipotizzabile che la «sacra potestas» possa esprimersi solo secondo la modalità della giurisdizione, senza l’esistenza di un nesso imprescindibile con il potere di ordine. Ciò sarebbe contrario a tutta la tradizione ortodossa – che ha sempre conservato come unico sistema quello dell’ordinazione relativa – e cattolico-latina, che pur avendo adottato il sistema dell’ordinazione assoluta, ha oltretutto sempre riconosciuto, con la dottrina del carattere «indelebilis», una priorità strutturale del Sacramento sulla Parola e dell’ordine sulla giurisdizione. Una verifica di questo fatto è la dottrina del Vaticano II che attribuisce la qualifica «ecclesiale» solo a quelle comunità cristiane in cui la Parola è rimasta strutturalmente legata con almeno uno dei sacramenti, quello del battesimo. La Parola predicata in modo slegato da ogni riferimento sacramentale, perde la sua dimensione ed efficacia ecclesiale. Secondo il Concilio infatti le aggregazioni comunitarie che dovessero sorgere solo attorno alla predicazione della Parola non possono essere definite né come semplici comunità ecclesiali, né tanto meno come Chiesa in senso stretto. Non si dà Chiesa o ecclesialità senza il battesimo, cioè senza il Sacramento.

A differenza della Parola, che non contiene in se stessa gli elementi materiali specifici del segno sacramentale (anche se esiste una simbolicità propria del linguaggio parlato), il Sacramento invece implica sempre la Parola come parte integrale di se stesso. Il segno simbolico, infatti, diventa Sacramento solo a condizione che la Parola ne espliciti (almeno attraverso la formula sacramentale) il suo significato soprannaturale. La riforma liturgica ha messo meglio in evidenza questo nesso facendo precedere ad ogni celebrazione sacramentale un’ampia celebrazione della Parola, il cui scopo è quello di esplicitare, in modo più organico e globale di quanto non lo facesse la liturgia precedente, il significato del segno simbolico materiale del sacramento. Mentre la Parola può rendere operante la «potestas sacra» in modo relativamente autonomo rispetto al Sacramento, il Sacramento non è concettualmente pensabile senza la Parola. La concomitanza nel Sacramento del segno simbolico soprannaturale e della Parola spiega perché sia possibile accettare la tesi secondo cui tutta la «potestas sacra» è trasmessa dal Sacramento dell’ordine.

4. Implicazioni dell’unicità della «sacra potestas»

a) Se si concede che l’unità della «potestas sacra» significa anche indivisibilità del contenuto, cioè unicità, e che, di conseguenza, si deve attribuire valore puramente formale non solo alla distinzione in quanto tale tra ordine e giurisdizione, ma anche al loro rispettivo contenuto, allora sembra possibile risolvere anche le incongruenze dei tentativi precedenti di soluzione. Sia della prima dottrina, che, attribuendo al potere di ordine e a quello di giurisdizione solo una porzione del contenuto globale della «potestas», ne ha rotto l’unicità; sia della seconda, che, assegnando all’ordine un contenuto materiale e alla giurisdizione un contenuto solo formale, ha fatto ricorso senza necessità ad una soluzione asimmetrica e perciò stesso pure dualista. Riconoscendo valore solo formale sia al contenuto del potere di ordine che a quello del potere di giurisdizione (in quanto semplici modalità di espressione dell’unica «potestas») è possibile invece dare una soluzione organica ed omogenea a tutti i problemi tipici che le due dottrine precedenti hanno dovuto affrontare, senza riuscirvi e facendo per lo più ricorso a soluzioni volontaristiche di comodo.

b) Prima di tutto sembra indispensabile distinguere tra il conferimento della «potestas sacra» e l’uso della stessa. Mentre la «potestas» può operare sia secondo la modalità del segno simbolico propria di tutti i sacramenti, sia secondo la modalità propria della Parola, in forza della quale la Chiesa pone atti giurisdizionali a livello deH’insegnamento e di governo, la trasmissione del potere, per contro, può avvenire solo attraverso il Sacramento (poiché in esso è contenuta anche la Parola). Nella dottrina cattolica infatti non è ipotizzabile il fatto che la «potestas sacra» possa essere trasmessa solo con la Parola. La successione apostolica è indissolubilmente legata, anche se non esaurientemente, al fatto sacramentale, cioè al potere di ordine.

Di conseguenza, mentre la «sacra potestas» può operare in modo relativamente autonomo sia secondo la dinamica tipica della Parola, o potere di giurisdizione, sia secondo quella del Sacramento, o potere di ordine, essa può essere trasferita da una persona all’altra solo attraverso il potere di ordine, cioè il Sacramento.

c) A questo punto si pone evidentemente il problema di sapere se la Chiesa può (e in che misura) esercitare un controllo sulla trasmissione e sull’esercizio della «potestas sacra». La prima dottrina ha risolto il problema dividendo quantitativamente la «potestas» in ordine e giurisdizione. Conferendo o ritirando la giurisdizione la Chiesa può provocare la validità o la invalidità oltre che degli altri sacramenti anche del potere di ordine. La seconda dottrina procede nella stessa linea ma secondo la soluzione tecnica dello sciogliere e del legare il potere di ordine.

Se si ritiene invece che tutta la «potestas» è conferita con il sacramento dell’ordine e che è esercitata nella sua totalità, sia nel sacramento che nella giurisdizione, allora bisogna ammettere che la «potestas» è in grado di autocontrollarsi: la «potestas», nella sua unicità, può esercitare un controllo su se stessa. Essa però non può controllare i propri effetti oltre i limiti previsti dal «ius divinum» stesso, che sono i limiti posti dalla «substantia sacramenti» e dalla «substantia Verbi». Quando il Sacramento è celebrato entro i limiti dei suoi elementi essenziali e quando la Parola è predicata nel rispetto del suo contenuto cristiano essenziale, essi sono sempre efficaci, nel senso che la loro celebrazione è oggettivamente valida tanto da generare la Chiesa di Cristo. La dottrina del Vaticano II, secondo cui la Chiesa di Cristo è unica e sussiste nella Chiesa cattolica, ma si realizza anche al di fuori dei suoi confini secondo gradi di comunione diversi, va in questa direzione.

d) In forza della «potestas sacra» di cui è investita, la Chiesa può constatare quali sono gli elementi essenziali richiesti dal «¿us divinum» perché un sacramento sia un sacramento e perché la Parola sia ancora sufficientemente completa per essere cristiana, cioè la Parola di Dio (problema dell’ortodossia). Nell’ipotesi che questi elementi essenziali vengano realizzati, la Chiesa però non può impedire che il Sacramento e la Parola operino efficacemente anche al di fuori della «communio piena». La loro efficacia salvifica sarà tuttavia proporzionale al grado di integralità del loro contenuto e perciò al grado di comunione con la Chiesa cattolica.

Il riconoscimento dell’esistenza di altre Chiese (separate) o di semplici comunità ecclesiali presuppone che il Sacramento e la Parola celebrati fuori dalla «communio piena» con la Chiesa cattolica siano validi, anche quando il loro spessore sacramentale e dottrinale fosse ridotto a pochi elementi essenziali (Battesimo, Cena, divinità di Cristo).

Come la Chiesa di Cristo si realizza secondo gradi di contenuto e di comunione diversi, così anche la «sacra potestas» (attraverso cui la forza salvifica vincolante della Chiesa si esprime), si realizza secondo gradi diversi di efficacia nelle singole Chiese separate e nelle singole comunità ecclesiali. La sua efficacia risulta ridotta sia nel caso di impoverimento a livello sacramentale, sia nel caso di impoverimento a livello dottrinale, cioè della Parola.

Se la Parola e il Sacramento non sono integrali sotto il profilo del loro contenuto, creano una realtà di Chiesa la cui comunione non è piena. Per diritto divino il collegio episcopale e il papa hanno ricevuto la funzione di essere il punto di riferimento della comunione visto che, per definizione, sono investiti della pienezza stessa della «potestas sacra». Ciò non significa che la «potestas» del collegio e del papa sia «quantitativamente» diversa da quella degli altri vescovi, poiché il Sacramento e la Parola celebrati dai singoli vescovi hanno gli stessi contenuti del Sacramento e della Parola celebrati dal papa (o dal collegio in quanto tale). La differenza è «qualitativa», cioè formale, nel senso che solo il collegio episcopale o il papa rappresentano l’autorità ultima, chiamata in forza della sua funzione costituzionale a giudicare in ultima istanza se il Sacramento o la Parola celebrati dai singoli vescovi sono integrali al punto da poter realizzare la «communio piena». Ciò dipende dal fatto che solo il collegio come tale e il papa sono organi che rappresentano la Chiesa universale [29].

e) La comunione, in quanto realtà fondamentale della costituzione ecclesiale, non appartiene all’ordine ontologico della «potestas sacra», ma è un dato di fatto: è una realtà ecclesiale che esiste o non esiste, ma che può essere constatata e giudicata nella sua esistenza e nella sua autenticità solo da chi è investito della pienezza della «potestas sacra». In quanto fatto oggettivo la «communio hierarchica» non dipende dall’arbitrio dell’autorità. Essa è la struttura della Chiesa in funzione della quale esiste la «potestas sacra».

Nel constatare l’esistenza della comunione in forza della sua «potestas sacra», il papa si esprime soprattutto secondo la modalità propria alla Parola, cioè secondo la modalità propria al «potere» di giurisdizione. Questo significa che la «potestas sacra» e la «communio» non sono realtà identiche. La «communio» è, da una parte, la realtà ontologica ecclesiale entro cui la «potestas sacra» deve agire per essere integralmente efficace, dall’altra è la realtà che la «potestas sacra» stessa contribuisce a generare. Essa è quindi precedente e conseguente al «potere» in quanto tale.

 

5. Soluzione dei problemi topici della dottrina

Fatte queste premesse è possibile dare una soluzione omogenea ai problemi che già le teorie precedenti hanno dovuto affrontare.

a) L’esistenza di due sistemi diversi di ordinazione non pone problema, perché tutti e due sono teologicamente intercambiabili. A rigore il ritorno al sistema dell’ordinazione relativa potrebbe essere auspicabile dal momento che tutta la «potestas sacra» è conferita (per ipotesi) con il Sacramento dell’ordine. La prassi della Chiesa latina di conferire la giurisdizione con la «missio», separatamente dall’ordinazione, può essere interpretata come atto con il quale l’autorità legittima assegna, in forza della «potestas sacra» (che nella fattispecie si esprime secondo la modalità della Parola o della giurisdizione), l’ambito entro cui un vescovo o un altro ministro deve esercitare la propria «potestas» per rimanere organicamente inserito nella «communio hierarchica».

b) Quando un ministro dovesse eccedere nell’uso della propria «potestas» rispetto ai limiti impostigli dal Diritto canonico, gli atti sacramentali e giurisdizionali da lui posti cessano di essere atti capaci di realizzare la «communio piena» e di conseguenza cessano di essere vincolanti per la Chiesa cattolica. Questo non significa tuttavia che questi atti siano necessariamente nulli o invalidi, nello stesso senso che la nullità e la invalidità assumono per un atto puramente giuridico. Dato che sia nel Sacramento come nella Parola (giurisdizione) opera la stessa ed unica «sacra potestas», non esiste una ragione stringente per valutare in modo diverso la nullità e la illegittimità del potere di ordine e del potere di giurisdizione. In tutti e due i casi la nullità o l’invalidità, nel senso che le parole assumono nel linguaggio giuridico, dovrebbe essere dichiarata in linea di massima solo quando la «substantia Sacramenti» o la «substantia Verbi» non è stata rispettata.

c) Il problema degli atti giurisdizionali sembra a prima vista più difficile da risolvere di quello degli atti sacramentali. Ciò dipende in primo luogo dalla mentalità dominante, secondo cui solo gli atti giurisdizionali, e non invece quelli sacramentali, hanno carattere giuridico. In questo modo di pensare riaffiora in realtà l’antica dicotomia tra ordine e giurisdizione in nome della quale era stato assegnato un ambito materiale della Chiesa diverso all’uno e all’altra: al potere di ordine l’ambito sacramentale o della santificazione, a quello di giurisdizione l’ambito giuridico o del governo ecclesiale. In effetti non è possibile attribuire carattere giuridicamente vincolante solo al potere di giurisdizione (o della Parola), poiché anche il sacramento è formalmente, cioè giuridicamente, vincolante.

In analogia con quanto la teologia fondamentale insegna della Parola, anche il Sacramento è una «locutio Dei (per si- gnum) attestans», che non vincola né in forza del suo contenuto in quanto tale né tanto meno in virtù del fatto che l’uomo lo capisca soggettivamente – come ha sostenuto la tradizione protestante («interim in corde») – bensì solo in forza del fatto che Dio parla. Il problema è quindi quello di sapere in che misura la Chiesa possa far dipendere la validità di un atto giurisdizionale da clausole irritanti o inabilitanti, che dovessero superare i limiti posti dal «ius divinum».

L’esame di questo problema implica una serie di considerazioni che porterebbero il discorso molto lontano, fino a toccare il tema dell’applicabilità, in Diritto canonico, del principio della certezza giuridica. Tuttavia è evidente quanto sia importante rendersi conto che la giuridicità del Diritto canonico è diversa da quello statuale e che il problema della certezza giuridica non può essere risolto prescindendo dalla valenza teologico-giuridi- ca che deve essere attribuita dalla «communio», in quanto realtà ontologica, costitutiva della struttura costituzionale della Chiesa [30].

Nella stessa linea devono essere affrontati anche gli altri problemi: quello della validità delle ordinazioni «extra communio- nem»\ delle ordinazioni sacramentali ad opera di un presbitero munito dell’indulto papale (o anche episcopale?) e dell’assoluzione sacramentale impartita senza giurisdizione.

d) Riconoscendo l’esistenza di Chiese non cattoliche, il Vaticano II non ha fatto altro che confermare la dottrina e la prassi della Chiesa latina che, dal xn secolo in poi, ha riconosciuto la validità dei sacramenti celebrati «extra muros». Questo fatto implica anche il riconoscimento a queste Chiese di essere in grado di produrre un ordinamento giuridico proprio che, se rispetta le norme fondamentali del «ius divinum», crea una realtà ecclesiale valida, anche se diminuita nella sua autenticità e nella sua capacità di garantire oggettivamente e con certezza assoluta la salvezza.

e) Per quanto riguarda le ordinazioni ad opera di un presbitero munito dell’indulto papale (o eventualmente solo episcopale) e le assoluzioni sacramentali impartite senza giurisdizione, il problema deve essere risolto a partire dall’elemento già comune alle due dottrine precedenti. Secondo esse il presbitero possiede, in forza dell’ordinazione, tutto il potere necessario per consacrare ed assolvere. Diversamente però da quanto hanno fatto sia la prima che la seconda dottrina, non è più necessario – nell’ipotesi che tutta la «potestas sacra» provenga dal sacramento dell’ordine – ricorrere all’affermazione della necessità di conferire al presbitero, con la «missio canonica», il potere di giurisdizione ancora mancante. Non è neppure necessario ricorrere alla soluzione che attribuisce alla Chiesa la facoltà di sciogliere e legare il potere di ordine. Si tratta semplicemente di ammettere e riconoscere che questi atti sacramentali, se sono compiuti nell’ambito della «communio piena», sono capaci anche di originarla. Sono atti cioè della Chiesa, intesa non solo come unica Chiesa di Cristo, ma come Chiesa cattolica, in cui sussiste l’unica Chiesa di Cristo. Si tratta di sacramenti validi e legittimi per il fatto stesso che sono compiuti all’interno della «communio piena».

Ammesso che non esistano ragioni teologiche stringenti per negare la fondatezza dell ‘«opimo Hieronimi», secondo cui un presbitero può ordinare sempre validamente un altro presbitero, una simile ordinazione, sempre che la «substantia sacramenti» sia salva, dovrebbe essere valutata, dal profilo della validità o della liceità, solo in rapporto al fatto che essa si realizzi nell’ambito della «communio ecclesialis». La mancanza dell’indulto papale impedisce solo l’inserimento del neo-consacrato nella «communio hierarchica», ma non invalida il sacramento in quanto tale. Una simile ordinazione può provocare una «excommu- nicatio» formale, che non priva però, né il consacrante né il consacrato dello statuto di appartenenza all’unica Chiesa di Cristo. Lo priva solo dell’esercizio di alcuni diritti fondamentali in seno alla Chiesa cattolica o, eventualmente, in seno ad una Chiesa non cattolica se ad essa dovesse appartenere.

f) Per quanto riguarda l’assoluzione sacramentale bisogna tener conto anche del fatto che la Chiesa cattolica la ritiene sempre valida, se impartita in «articulo mortis». Il fatto che la scienza giuridica abbia interpretato questa norma, valendosi degli strumenti tecnici a sua disposizione, come l’istituto «a iure», non significa necessariamente che sia l’ordinamento giuridico in quanto tale a conferire il potere di giurisdizione mancante, o a slegare il potere di ordine. Ma, piuttosto, che la Chiesa riconosce, come dato di fatto, che l’assoluzione sacramentale, impartita in tale circostanza estrema della vita, possiede in se stessa la legittimazione necessaria per realizzare la «communio piena», anche quando dovesse essere impartita da un ministro che non vive in comunione con la Chiesa cattolica. Le assoluzioni sacramentali impartite invece senza la «giurisdizione» necessaria, vale a dire in condizioni di non comunione gerarchica del ministro con il suo vescovo – le cui condizioni sono fissate disciplinarmente dal Diritto canonico, non sono invalide in forza del fatto che mancherebbe al presbitero una parte della «potestas sacra» o perché il suo potere di ordine non sarebbe stato sciolto per l’esercizio, ma perché il sacerdote, trovandosi fuori dalla comunione piena, non è in grado di effettuare la riconciliazione del penitente con la Chiesa cattolica in quanto tale.

La Chiesa è competente per constatare, di volta in volta o in linea generale, il grado di comunione necessario per la valida amministrazione del sacramento della penitenza. Diventa però necessario distinguere tra il caso del sacerdote singolo che rompe con la «communio», lasciando il proprio ministero o abusando dello stesso, e il caso di un ministro che appartiene ad una Chiesa separata dove la successione apostolica e i sacramenti sono oggettivamente garantiti. Mentre è possibile che nel primo caso l’unità ecclesiale venga rotta in modo così grave da togliere al ministro ogni legittimazione o competenza per poter rappresentare ancora la Chiesa cattolica e di conseguenza per poter ancora riconciliare il penitente con la Chiesa stessa, nel secondo caso la «communio», pur essendo imperfetta, mantiene ancora uno spessore ecclesiale tale da giustificare un riconoscimento, reciproco tra le Chiese, della validità dei rispettivi sacramenti. In effetti la defezione di una singola persona non può creare da sola un’alternativa ecclesiale valida, come quella esistente nelle Chiese separate. Questo spiega perché la Chiesa cattolica non solo riconosce come valide le assoluzioni sacramentali impartite da un ministro ortodosso ai fedeli ortodossi, ma anche ai cattolici [31].

6. La «communio» come orizzonte della validità e invalidità degli atti della «sacra potestas»

a) La validità (e invalidità) degli atti sacramentali e giurisdizionali, essendo fondata sull’esistenza della «sacra potestas», non può essere determinata ad arbitrio dalla Chiesa. Dipende dalla verità ontologica con la quale la Chiesa stessa si realizza (o non si realizza). Esiste infatti un rapporto di identità – anche se non adeguata – tra la Chiesa e la «potestas sacra». In che misura la Chiesa, oltre a poter constatare e fissare i limiti imposti dal «ius divinum» per la validità dei sacramenti e della Parola, possa anche prevedere clausole invalidanti o inabilitanti di diritto solo umano, resta un problema aperto alla discussione.

La dottrina del Vaticano II sulla gradualità della «communio ecclesiarum» impone comunque di rivedere il modo, prevalentemente determinato dalla mentalità propria alla scienza giuridica, con il quale il problema della validità dei sacramenti deve essere affrontato. La Chiesa non può procedere allo stesso modo dell’istituto statale che affronta il problema dell’efficacia del proprio potere in termini rigorosamente positivistici, slegati da una oggettività ontologica propria alla natura delle cose. La validità dell’esercizio della «potestas sacra» nella sua espressione sia sacramentale che giurisdizionale, non può essere risolta con clausole di diritto umano se non perché in esse si riflette una soluzione ontologica.

b) Ridiventa perciò attuale la distinzione, oggi sempre più avversata, tra atti invalidi e illeciti. Sia la invalidità che la illiceità sono commisurate al grado di comunione. Infatti – almeno per quanto concerne questa problematica – non è la comunione ad essere determinata dalla «sacra potestas», ma quest’ulti- ma dalla prima. Quantunque non sia storicamente provato che la distinzione tra atto invalido e illecito sia stata introdotta nella canonistica – come ha sostenuto Sohm – nel xil secolo in seguito alla mondanizzazione subita dal diritto ecclesiale a contatto con il diritto corporativistico medioevale, è vero però che la distinzione è stata gestita dalla Chiesa con criteri spesso troppo marcati dalla mentalità giuridica secolare. Se da una parte non è possibile abolire dalla canonistica il concetto di invalidità, che come ha fatto giustamente notare Sohm è strutturalmente legato al diritto sacramentale, dall’altra è urgente ricommisurarla rigorosamente, mediante l’esercizio della «potestas sacra», con la realtà sostanziale della Chiesa.

L’esercizio della «sacra potestas» sia nella espressione sacramentale che in quella giurisdizionale, può essere ritenuto invalido solo nella misura in cui si realizza al di fuori del grado minimo di comunione che garantisce l’esistenza di una realtà ancora definibile come realtà ecclesiale. Solo l’assenza degli elementi oggettivi della «communio» rende inefficace, cioè invalida la «potestas». Verificandosi questo caso anche le ordinazioni «extra communionem» possono essere considerate invalide perché verrebbero poste dentro una realtà che non ha più minimamente la struttura specifica della Chiesa. Se la mancanza di comunione dovesse invece significare una «extra communionem plenam», il problema della validità si trasforma in problema di liceità.

La rivalutazione della nozione di «illiceità» è esigita dal fatto che il Vaticano II, riconoscendo l’esistenza di Chiese e comunità ecclesiali separate, ha riconosciuto anche che l’unica Chiesa di Cristo può realizzarsi secondo una diversa gradualità di comunione. Ne consegue che la validità dei sacramenti e della Parola non può essere manipolata con norme di natura positivistica dirette a regolare l’esercizio della «sacra potestas». L’invalidità può solo essere constatata poiché è connessa rigorosamente con la sostanza stessa della realtà ecclesiale. La illiceità per contro può essere determinata anche con criteri di natura solo disciplinare.

c) Se la «potestas sacra» è una ed è unica e se nell’ordine e nella giurisdizione essa opera «in totum», ne consegue che gli stessi criteri usati per giudicare la validità o l’invalidità dei sacramenti devono essere applicati anche al «potere» di giurisdizione. La giurisdizione, in quanto espressione dell’unica «potestas sacra», non può essere gestita dal profilo teologico e giuridico con criteri diversi da quelli usati per il potere di ordine.

Ne deriva come conseguenza, che se non è possibile teologicamente delegare il potere di ordine, non può essere possibile neppure delegare il potere di giurisdizione, questo anche se la canonistica dovesse continuare per ragioni di tecnica terminologica a far uso dell’istituto della delega. Se è vero che la «potestas sacra» è trasmissibile solo attraverso il sacramento dell’ordine, ne consegue che essa non può essere trasmessa in modo diverso neppure quando si manifesta secondo la logica del potere di giurisdizione.

 


II. Reperti nel nuovo CIC

1. La «sacra potestas» nell’ambito sacramentale

L’esame di alcuni aspetti della «sacra potestas» nel CIC del 1983, condotto sul filo delle considerazioni teoriche precedenti, permette di fare alcune considerazioni.

Nell’ambito sacramentale dell’esercizio della «potestas» il nuovo CIC, a differenza di quello del 1917, evita il termine «potestas» {«iurisdictionis»), sostituendolo con quello di «ja- cultas».

a) Il contesto più significativo a questo proposito è senza dubbio quello del sacramento della penitenza, tradizionalmente ritenuto come esempio più eloquente del concorso del potere di ordine e di giurisdizione a produrre lo stesso effetto sacramentale, la riconciliazione con Dio (cui si riferisce primariamente il potere di ordine) e la riconciliazione con la Chiesa (cui si riferisce primariamente il potere di giurisdizione).

Contrariamente al CIC del 1917 nei can. 872 ss. (penitenza in generale), 401 § 1 (canonico penitenziere) e 518 § 1 e 2 (confessore e superiore dei religiosi), il nuovo CIC non usa più il termine «potestas iurisdictionis» (rispettivamente «absolvendi» o «audien- di confessiones»), sostituendolo regolarmente con il termine «facultas» (can. 966 ss., 508 § 1 e 566), il cui significato è, evidentemente, più vicino a quello di autorizzazione che a quello di potere [32].

Anzi, nel can. 966 il legislatore sembra suggerire esplicitamente che l’assoluzione dei peccati viene impartita in forza della sola «potestas ordinis»: «Ad validam peccatorum absolutio- nem requiritur ut minister, praeterquam potestate ordinis, facul- tatem gaudeat eandem in fideles, quibus absolutionem imperti- tur, exercendi».

Non sembra assolutamente rilevante il fatto che, riferendosi al confessore ordinario delle monache (can. 630 § 3) e all’eventuale confessore presente in «periculo mortis» (can. 976), il nuovo CIC usi gli stessi termini «probatus/approbatus» del CIC del 1917 (can. 519 e 882), dove significavano «sive ordinaria, sive delegata iurisdictione instructus» (can. 881 § 1). Sembra evidente che nel contesto del nuovo CIC questi termini siano semplicemente equivalenti a «designato» o «autorizzato».

Risulta, conseguentemente, difficile interpretare l’espressione «facultas in fideles» come se avesse lo stesso significato di «potestas» [33].

Ne consegue che, nel contesto del sacramento della penitenza, al termine «facultas» deve essere attribuito un significato non contenutistico, ma solo formale. Concedendo o ritirando la «facultas», l’autorità competente controlla la validità dell’esercizio della «potestas ordinis» e dell’assoluzione sacramentale.

Si deve perciò riconoscere che, nell’ipotesi in cui il nuovo legislatore abbia avuto l’intenzione di scegliere tra una delle due dottrine elaborate dalla canonistica, allora ha optato per la seconda teoria, secondo la quale il contenuto della «sacra potestas» è conferito dal sacramento dell’ordine, mentre il suo esercizio «ad validitatem» è regolato dalla «iurisdictio», intesa come potere formale, privo di contenuto materiale proprio.

In armonia con questa opzione il nuovo CIC evita accuratamente, in tutto il capitolo riservato al ministro del sacramento della penitenza (can. 965-986), di ricorrere all’istituto della «delegatio», tradizionalmente usato per designare la trasmissione – intesa in modo contenutistico – di un potere. Esso era, infatti, usato nello stesso contesto del vecchio CIC (can. 872, 875 § 1, 881 § 1), coerentemente alla sua propensione per la seconda delle due teorie esposte in precedenza.

In ossequio alla concezione dottrinale, secondo cui l’assoluzione dei peccati viene impartita unicamente in forza del potere di ordine, senza concorso intrinseco del potere di giurisdizione, il nuovo CIC stabilisce che il vescovo, grazie all’ordine, possiede «ipso iure» e in tutta la Chiesa la «facultas absolven- di», anche se non fosse titolare di nessun ufficio (can. 967 § 1).

Parallela a questa norma è quella del can. 1355 § 2, in cui si riconosce il potere di ogni vescovo di rimettere le pene «latae sententiae» non ancora dichiarate e non riservate alla Santa Sede, «in actu sacramentalis confessionis» [34].

Queste disposizioni non devono essere interpretate volontaristicamente, come se fossero concessioni benevole del nuovo legislatore, ma piuttosto come conseguenze costituzionali inevitabili della rivalutazione generale dell’autonomia della Chiesa particolare e dell’ufficio episcopale, operata dal Vaticano II (cfr. per esempio, CD 8 a-b). Questa rivalutazione si è realizzata specularmente nei can. 381 § 1 e 87 § 1, in cui è avvenuto, normativamente, il passaggio quasi copernicano dal sistema della concessione a quello della riserva, non solo in tema di dispense, ma addirittura a livello di presunzione giuridica generale in favore del diritto originario e proprio del vescovo, rispetto a quello papale.

E pertanto legittimo concludere, che la «facultas» riconosciuta «ipso iure» dal can. 967 § 1, essendo equivalente alla «potestas ordinis», non può mai essere tolta al vescovo e che un’eventuale scomunica o sospensione non possono avere, nei suoi confronti, carattere invalidante [35]. In questa prospettiva anche la nozione di «ordinarius loci» del can. 968 § 1, deve essere interpretata – in relazione al disposto del can. 975 in cui si stabilisce che la «facultas confessiones excipiendi… cessai amis- sione officii» – solo limitativamente ad un «ordinarius loci» non vescovo (cfr. can. 134 § 1 e 2).

Il ritiro «ad validitatem» della «facultas», così da rendere invalida l’assoluzione dei peccati, rimane invece possibile, anche secondo il nuovo CIC, per i presbiteri (can. 966 § 1). Il diverso trattamento dei vescovi e dei presbiteri può essere spiegato, come nel regime del 1917, a partire dal fatto che il presbitero non possiede la pienezza del potere di ordine [36].

b) Il secondo contesto in cui si verifica lo stesso fenomeno del sacramento della penitenza è quello della cresima.

In continuità con il CIC del 1917 (can. 782 § 2 e 5), il nuovo CIC risolve il problema dell’amministrazione della cresima da parte di un presbitero con il ricorso all’istituto della «concessio facultatis», invece che a quello della «delegatio potestatis» (can. 882-885). È comunque opportuno notare che il vecchio Codice, in questo caso, contrariamente al nuovo, adottava dal profilo terminologico una soluzione diversa rispetto a quella adottata per il sacramento della penitenza come abbiamo già notato in precedenza.

c) Il terzo contesto è quello del sacramento del matrimonio. Anche in questo caso il nuovo CIC rimane fedele al termine «facultas» {«assisterteli») (can. 1111 § 2). Tuttavia cade nella stessa contraddizione terminologica del vecchio CIC (can. 1094 e 1096 § 1 e 2) [37], di abbinare il termine «facultas» con quello di «delegatio» (can. 1111-1114). Come abbiamo già avuto occasione di osservare, quest’ultimo termine è più appropriato per la trasmissione del contenuto di un potere, che per significare la concessione di un’autorizzazione o di una «licentia».

L’uso del verbo «delegare» non deve essere comunque sopravvalutato, anche se le norme statuite dal can. 144 § 1 in merito alla «potestas regiminis executiva» nel caso dell’istituto del «supplet Ecclesia», sono applicate dal § 2 dello stesso canone anche alle «facultates». Infatti, è proprio questo canone che introduce la netta distinzione tra la «potestas» e le «facultates», facendo esplicito riferimento ai sacramenti della penitenza, della cresima e del matrimonio, nella cui normativa specifica ricorre per l’appunto il termine «facultas» invece di «potestas». Ciò significa che il termine «delegare» è applicato nel § 2 solo analogicamente. Infatti le «facultates» cui si fa riferimento non coincidono con le «facultates habituales» del can. 132 § 1, che sono una tipica espressione della «potestas regiminis delegata» (can. 131 § 1).

Se il termine «facultas» non significa «potestas» ne consegue che il laico autorizzato ad assistere i matrimoni (can. 1112 § 1), può essere valutato giuridicamente solo come «testis qualifica- tus» e non come soggetto investito da una qualsiasi «potestas iurisdictionis», in quanto espressione della «potestas sacra» che si manifesta secondo la logica di comunicazione propria alla Parola.

d) Un ultimo aspetto del rapporto tra il potere di ordine e quello di giurisdizione, nell’ambito della celebrazione dei sacramenti, è quello dei sacramentali.

Parallelamente al CIC del 1917 (can. 1146 e 1147 § 1), il nuovo CIC usa nel contesto dei sacramentali – alcuni dei quali peraltro sono ora conferibili anche da laici [38], il termine «po-testas» (can. 1168). Fa ricorso invece al termine «concessici» (che di per sé presuppone l’istituto della «facultas»), nel contesto delle consacrazioni. Queste ultime si distinguono dagli altri sacramentali perché presuppongono necessariamente il possesso dell’ordine sacro (can. 1169 § 1).

Ciò induce a ritenere che nel caso dei semplici sacramentali il CIC considera l’atto di conferimento, come emanante dal potere di giurisdizione, mentre in quello delle consacrazioni lo considera come emanante dal potere di ordine, regolato in modo estrinseco e formale attraverso l’istituto della «concessio» {«facultas»),

e) Dall’analisi di questi quattro esempi, e lasciando impregiudicata la questione riguardante il CIC del 1917, bisogna concludere che nel regime del nuovo CIC l’amministrazione dei sacramenti non è considerata come atto congiunto del potere di ordine e di giurisdizione, bensì come effetto esclusivo del potere di ordine. Come il ricorso sistematico al termine «facultas», invece che a quello di «potestas» (molto più frequente invece nel vecchio CIC, anche se non in modo esclusivo), il nuovo CIC lascia intendere che la «potestas iurisdictionis» non opera intrinsecamente alla realizzazione dei sacramenti, ma solo estrinsecamente; non è un potere che si inserisce con un contenuto materiale proprio come causa efficiente del sacramento, accanto a quello di ordine, ma solo un potere formale estrinseco, preposto alla corretta amministrazione dei sacramenti.

Sembra evidente, perciò, che il CIC abbia adottato, dal profilo dottrinale, la stessa soluzione soggiacente alla Nota Explicativa praevia (n. 2), ispiratasi a sua volta non alla prima, ma alla seconda teoria, vale a dire, a quella in cui un potere è considerato come avente un contenuto materiale (l’ordine), mentre l’altro una funzione solo formale (la giurisdizione). Né la Nexp, né il nuovo CIC, danno tuttavia una spiegazione plausibile di come la «potestas iurisdictionis», intesa in termini formali, possa all’occorrenza, annullare l’efficacia stessa del potere di ordine, senza che questi cessi di essere concettualmente una «potestas» vera e propria. Si tratta perciò di un sistema che ultimamente attribuisce una priorità ecclesiologica alla giurisdizione, sul potere di ordine.

2. La «sacra potestas» nell’ambito extra-sacramentale

Al di fuori dell’ambito sacramentale, il nuovo CIC sembra considerare, almeno dal profilo terminologico, la «potestas iuris- dictionis» come un potere che possiede un contenuto materiale proprio, distinto da quello della «potestas ordinis».

a) Come nel CIC piano-benedettino, anche il nuovo CIC usa rigorosamente il termine «potestas» («iurisdictionis») in relazione a quegli atti dell’autorità della Chiesa, ritenuti tradizionalmente come evidente emanazione del potere di giurisdizione: così, per la concessione delle indulgenze, nel can. 995 (CIC del 1917, can. 912), dove non esistono dubbi che la «potestas» debba essere intesa come potere di giurisdizione. Infatti, le indulgenze possono essere concesse anche dal Collegio dei vescovi, in quanto tale, il quale non può esprimersi collegialmente secondo la logica di comunicazione del segno sacramentale, ma solo secondo quella della Parola, cioè della giurisdizione. La «suprema Ecclesiae potestas» di cui parla il can. 995 § 1 si riferisce non solo al Papa, ma anche al Collegio dei vescovi. La stessa soluzione si verifica per la «potestas dispensandi» dai voti, nel can. 1196, e dal giuramento, nel can. 1203 (CIC del 1917 rispettivamente can. 1314 e 1320), così pure, per la «potestas dispensandi» dagli impedimenti matrimoniali, nel can. 1079 § 2, 3 e 4 (CIC del 1917, can. 1051; cfr. però l’uso del termine «_facultas» nei can. 1044 e 1045 § 2).

b) Nel caso invece della dispensa dalle irregolarità il nuovo CIC (can. 1047), come del resto quello del 1917 (can. 990), non fa ricorso al termine «potestas». E comunque evidente che la dispensa anche in questo caso debba essere considerata, a norma del 85, come un atto tipico della «potestas regiminis executiva».

Giova però notare che nel caso particolare della dispensa in «foro sacramentale» il vecchio CIC (can. 990 § 2) usava sorprendentemente, ma anche significativamente, il termine «facultas». Il nuovo CIC riesce, invece, a regolare la materia senza dover far ricorso né al termine «facultas», né a quello di «potestas» (can. 1047).

c) Il discorso è analogo nell’ambito della remissione delle pene canoniche, anche se un giudizio definitivo in questo settore deve essere rinviato ad un esame dei testi, più dettagliato di quanto non sia possibile fare in questa sede.

Ferma restando questa riserva, si può constatare che il nuovo CIC usa in linea generale il termine «potestas» nel contesto della remissione delle pene in «foro externo» (can. 1354 § 2) [39]. Un’eccezione affiora, comunque, nel can. 1357 § 2, in relazione al sacerdote cui il confessore può rinviare il penitente, perché lo assolva eventualmente anche in foro non sacramentale. Qui il CIC, invece di ricorrere al termine «potestas» come ci si potrebbe aspettare, usa «facultatem praeditum». Si tratta però di un’eccezione che sembra debba essere attribuita solo ad una incongruenza terminologica.

Quantunque il CIC riesce a regolare il problema della remissione delle pene in «foro sacramentale», senza far ricorso né al termine «facultas», né a quello di «potestas», sembra tuttavia chiaro che ritenga l’atto sacramentale come atto emanante solo dalla «potestas ordinis».

3. Riforma nel segno del positivismo giuridico

a) L’analisi dei casi precedentemente esposti permette di giungere alla conclusione che il nuovo CIC non solo distingue con evidente rigidità le due «potestates», quella di ordine e quella di giurisdizione, ma arrischia di separarle l’una dall’altra. Inclina infatti verso la soluzione teorica, secondo cui una sola «potestas» (quella di ordine), opera causalmente nella celebrazione del sacramento, mentre l’altra (quella di giurisdizione), regolerebbe la prima estrinsecamente, assumendo nell’amministrazione dei sacramenti una funzione disciplinare solo formale.

Anzi, usando il termine «facultas» nell’ambito sacramentale, e quello di «potestas» nell’ambito extra-sacramentale, sembra dare due significati diversi allo stesso potere di giurisdizione, uno formale ed uno contenutistico, secondo che esso operi nel primo o nel secondo ambito.

La «potestas regimìnis» risulta perciò praticamente irrilevante nel contesto del foro interno sacramentale. Questa posizione affiora già nel can. 130, dove è stabilito il principio, secondo cui la «potestas regiminis» viene normalmente esercitata nel foro esterno e solo in via eccezionale nel foro interno, analogamente, del resto, a quanto aveva già stabilito il Codice piano-benedettino nel can. 202.

La rigidità della distinzione tra ordine e giurisdizione affiora in modo evidente per esempio nel can. 274 e 1333 § 1, n. 2 e 3, come nel can. 129 – in cui l’imbarazzo di fronte alla necessità di formulare una soluzione teologica chiara è manifesto. Essa emerge però soprattutto nel fatto che la «potestas regiminis» è regolata dal CIC, normativamente nel Libro II, sulle «Norme Generali», come se si trattasse di un problema prevalentemente tecnico-giuridico e non di un problema primariamente teologico e perciò costituzionale.

Questa concezione positivistica si evidenzia, inoltre, in modo clamoroso nel fatto che il CIC ha coscientemente stralciato l’espressione conciliare «sacra potestas», attraverso cui il Vaticano II aveva dato una precisa indicazione sull’unità e l’unicità del potere della Chiesa. Nel progetto del 1982 l’espressione «sacra potestas» ricorreva perlomeno ancora una volta, sia pure nel contesto irrilevante dei luoghi sacri (can. 1213). Essa è stata sostituita con l’espressione più ambigua che si potesse scegliere, quella al plurale di «potestates suas et muñera».

b) Un’ulteriore prova dell’approccio positivistico del problema della «potestas sacra», che rivela nel CIC l’assenza di una qualsiasi preoccupazione di dare ad una materia, così centrale

per l’ecclesiologia e l’ordinamento canonico, un minimo di orientamento teologico, è l’introduzione massiccia di una terminologia giuridica di sapore civilistico. La «sacra potestas» si articola, infatti, non solo in «potestas ordinis et iurisdictionis» ma in «potestas legislativa, executiva, iudiciaria» e perfino in «potestas interpretandi» (can. 129 ss. e 16 § 1).

Se lo scopo era quello di sottolineare, con più chiarezza rispetto al CIC del 1917, i diversi settori e i diversi criteri dell’esercizio del potere nella Chiesa, il risultato è stato in definitiva quello di far credere al lettore, e magari non solo a quello più sprovveduto dal profilo canonistico come potrebbe essere un fedele qualsiasi – che però è il soggetto che ultimamente più conta nella Chiesa, che invece di funzioni diverse della stessa «potestas sacra», si tratti, come nello Stato, di veri e propri poteri separati.

In nome di una efficienza tecnica e giuridica, ispirata ad un criterio di modernità, il CIC ha purtroppo marcato nel settore ecclesiologicamente così vitale della «potestas» una deplorevole regressione teologica.

 

 

[1] Per tutta questa prima parte teorica rinviamo al nostro articolo: La “sacra pote- stas” e i laici, «Studi parmensi» 28 (1980), 3-36, spec. 5-26; oppure: Die “sacra pote- stas” und die Laien, FZPhTh 27 (1980), 120-154.

[2] Sul problema cfr. A.M. Stickler, La bipartición de la potestad eclesiástica en su perspectiva histórica, «Ius Canonicum» 15 (1975), 45ss; Id., Die Zweigliedrigkeit der Kirchengewalt bei Laurentius Hispanus, in: Ius Sacrum, Klaus Mörsdorf zum 60. Geburtstag, hrsg. von A. Scheuermann e G. May, München-Paderborn-Wien 1969, 181ss.

[3] Cfr. LG 21.

[4] Cfr. can. 6.

[5] Cfr. K. Mörsdorf, Die Entwicklung der Zweigliedrigkeit der kirchlichen Hierarchie, MThZ 3 (1951), Iss.

[6] Sulla disputa circa la posizione di Graziano, cfr. A.M. Stickler, Die Zweigliedrigkeit…, cit., 205.

[7] Cfr. Weihegewalt und Hirtengewalt in Abgrenzung und Bezug, «Miscellanea Comillas» 16 (1951), 95ss; Id., Heilige Gewalt, in: Sacramentum Mundi, II, Freiburg- München-Wien 1968, 582ss.

[8] Cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione episcopale. Aspetti storicogiuridici e metodologico-sistematici della questione, «La Scuola Cattolica» 96 (1968), 6- 18, 35-52, 118-119.

[9] Cfr. R. Weigand, Änderung der Kirchenverfassung durch das II. Vatikanische Konzil’?, AfkKR 135 (1966), 398-399.

[10] Cfr. J. Fuchs, Vom Wesen der kirchlichen Lehrgewalt. Eine Kontroverse des 19. Jahrhunderts: historischer Beitrag und systematischer Versuch, Theol. Diss., Münster i.W. 1946, passim. I risultati di questa ricerca sono stati utilizzati dall’autore in altre pubblicazioni, come: Magisterium, Ministerium, Regimen. Von Ursprung einer ekklesiolo- gischen Trilogie, Bonn 1941, oppure: Weihesakramentale Grundlegung kirchlicher Rechtsgewalt, «Scholastik» 16 (1941), 496ss. Cfr. anche K. Nasilowski, Distinzione tra potestà d’ordine e potestà di giurisdizione dai primi secoli della Chiesa sino alla fine del periodo dei decretisti, in: Potere di ordine e di giurisdizione. Nuove prospettive, Roma 1971, 89ss.

[11] Cfr. K. Mörsdorf, Munus regendi et potes tas iurisdictionis, in: Acta-Conventus International Canonistarum Romae diebus 20-25 maii 1968 celebrati, Typis Poliglottis Vaticanis 1970, 199ss.

[12] Cfr. Id., De sacra Po tes tate. Quinquagesimo volvente anniversario a Codice Iuris Canonici promulgato. Miscellanea in honorem Dini Staffa et Periclis Felici S.R.E. Cardinalium, I, Romae 1967, 41ss. Per una analisi critica di questa tripartizione, cfr. Ch. Journet, L’Église du Verbe lncarné, I, (s.l.) 1955, 203-215.

[13] Lettera Ad universos Ecclesiae Sacerdotes, adveniente Feria V in Coena Domini, AAS (1979), 393ss., n. 3 (traduzione italiana dell’autore). Cfr. anche W. Kasper, Die Heilsendung der Kirche in der Gegenwart, Mainz 1970, 61.

[14] Cfr. P. Krämer, Dienst und Vollmacht in der Kirche. Eine rechtstheologische Untersuchung zur Sacra Potestas-Lehre des II. Vatikanischen Konzils, Trier 1973, in particolare 22-48.

[15] Cfr. per esempio, E. Doronzo, Tractatus Dogmaticus De Ordine, III, Milwaukee (Wisconsin) 1962, 324-370. Nonostante le formulazioni non sempre chiare riteniamo che Corrado Baisi nel suo volume II ministro straordinario degli ordini sacramentali (Roma 1935, 136, 153-158) segua questa prima teoria e non sia invece, nella scia di Johannes Morinus (Commentarius de sacris Ecclesiae ordinationihus, Parisiis 1655,104- 107), fautore, come sostiene il Doronzo (ibidem, 362-363), della seconda teoria.

[16] Circa questi casi, che datano dalla fine del xv secolo, cfr. C. Baisi, II ministro straordinario, cit., 7-28. Esiste tutta una serie di problemi di natura storica e dottrinale legati all’esercizio del potere di giurisdizione da parte dei laici, dei quali però non possiamo occuparci in questa sede. Sugli stessi cfr., per esempio, A. Szentirmai, Jurisdiktion für Laien?, ThQS 140 (1960), 410ss; U. Mosiek, Verfassungrecht der lateinischen Kirche, Band I: Grundfragen, Freiburg i.Br. 1975, 217-229; A. Doglio, De capacitate laicorum ad potestatem ecclesiasticam, praesertim iudicialem, Romae 1962, 33ss.

[17] Cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione…, cit., 10-42, 107-119.

[18] Cfr. E. Doronzo, De Ordine, cit., 359; cfr. anche C. Vagaggini, Possibilità e limiti del riconoscimento dei ministeri non cattolici. Riflessioni a partire dalla prassi della «economia» e dalla dottrina del «carattere», in: Ministères et célébration de lEucharistie. Sacramentum I, «Studia Anselmiana» 61 (1973), 254, 271.

[19] Cfr. K. Mörsdorf, Weihegewalt und Hirtengewalt, cit., 105.

[20] Cfr. K. Mörsdorf, Der Träger der eucharistischen Feier, in: Pro Vita Mundi, Festschrift zum Eucharistischen Weltkongress 1960, hrsg. von der Theologische Fakultät der Ludwig-Maximilian-Universität München, München 1960, 223ss.

[21] Cfr. E. Doronzo, De Ordine, cit., 362ss; cfr. anche W. Bertrams, Il potere pastorale del papa e del collegio dei vescovi. Premesse e conclusioni teologico-giuridiche, Roma 1967, 1-61; Id., De potestatis episcopalis exercitio personali et collegiali, PRMCL 53 (1964), 455ss.

[22] Giova notare che questa distinzione è estranea alla teologia ortodossa; cfr. P. Anciaux, L’Épiscopat Cordo episcoporum) comtne réalitésacramentelle, NRT 85 (1963), 156.

[23] Cfr. K. Mörsdorf, Zur Grundlegung des Rechtes der Kirche, MThZ 3 (1952), 329ss.

[24] Questo vale in primo luogo per la nozione «iurisdictio», sviluppatasi in stretta dipendenza dalla dottrina giuridica secolare; cfr. E. Corecco, L’origine del potere di giurisdizione…, cit., 9-10, n. 29.

[25] Cfr. L. Scheffczyk, Von der Heilsmaeth des Wortes, München 1966, 168-169, 264-272.

[26] G. Söhngen nel suo libro Symbol und Wirklichkeit im Kultmysterium (Bonn 1973,18) ha colto il problema con questa formulazione significativa: «Vom Worte wird das Sakrament mit der Fülle mächtiger Geisdichkeit und vom Sakrament wird das Wort mit der Fülle geistlicher Wirklichkeit erfüllt».

[27] Cfr. H. Müller., op.cit.

[28] Cfr. M. Useros Carretero, «Statuta Ecclesiae» y «Sacramenta Ecclesiae» en la Eclesiologia de St. Tomas, Roma 1962, 186-324.

[29] Se dal profilo dottrinale-sistematico è relativamente facile rendere plausibile il fatto che il Collegio dei Vescovi, con il Papa, è investito della «piena et suprema pote- stas» – così da essere il punto di riferimento della «communio» – non è altrettanto facile trovare la ragione ecclesiologica dello stesso fatto per il Papa, senza il Collegio. Infatti, mentre è possibile derivare la struttura gerarchica della Chiesa particolare dalla struttura gerarchica dell’Eucaristia, al cui vertice sta il Vescovo, non è possibile operare nello stesso modo per il Papa – in quanto detentore del primato di giurisdizione – dal momento che il sacramento dell’Eucaristia si realizza sempre in modo uguale per tutti i Vescovi. Il ricorso ai testi primaziali del NT dirime, evidentemente, la sostanza della questione. Ciò non può però sopprimere il fatto che, fino a quando la teologia non sarà in grado di elaborare una dottrina del primato, derivandola organicamente dal «nexus mysteriorum» degli altri dati ecclesiologici rimarrà l’insoddisfazione di dover far ricorso ad una soluzione volontaristica, cioè quella di appellarsi alla volontà di Cristo.

[30] Cfr. E. Corecco, Valore deliatto «contra legem», in: La norma en el derecho canònico, Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canònico I, Pamplona 1979, 839ss.

[31] Sul problema cfr. C. Vagaggini, Possibilità e limiti del riconoscimento…, cit., 259, 277-282; cfr. can. 844 § 2 e 3.

[32] Sui diversi significati di «facultas», cfr. K. Mörsdorf, Die Rechtssprache des C1C, Paderborn 1937. Nachdruck 1967.

[33] Ciò è confermato dal fatto che secondo il nuovo CIC, questa «facultas» può essere concessa anche dal Superiore di un Istituto o Società clericale e di diritto pontificio, che, non essendo vescovo, gode semplicemente della «potestas regiminis execu- tiva» (can. 968 § 2).

[34] A rigore il can. 967 § 1 non avrebbe dovuto usare per il vescovo (come per il papa) il termine «facultas», bensì quello di «potestas». Infatti un vescovo, dal momento che vive nella comunione gerarchica, non necessita di nessuna «autorizzazione» papale per confessare, poiché possiede il potere e la legittimazione per esercitarlo in forza della sua stessa ordinazione. Il papa può intervenire solo negativamente, togliendogli la «facultas», con una censura ecclesiastica.

[35] Nel caso dell’adesione di un vescovo ad una Chiesa separata o ad una Comunità ecclesiale, valgono le considerazioni fatte in precedenza al n. I, 5, f.

[36] Per il senso che deve essere dato alla invalidità della assoluzione, cfr. le osservazioni fatte in precedenza al n. I, 5, f.

[37] Oltre ad equivocare sul termine «licentia» (cfr. can. 1095 § 2 e 1097 n. 3) il CIC del 1917 usava alternativamente «delegatio» o «concessio».

[38] Secondo il can. 1147 § 4 del CIC del 1917 le benedizioni potevano essere impartite anche dai «lectores», che però, pur essendo sacramentalmente laici, erano considerati chierici dal profilo giuridico.

[39] Se si prescinde dall’uso chiaramente divergente del termine «facultas» nel can. 2254 § 1, allora anche per il codice piano-benedettino è possibile fare la stessa constatazione, vale a dire, che la «potestas» è esercitata sia per il foro esterno, sia per quello interno non-sacramentale (cfr. can. 2252 e 2254 § 2).

I. Il problema dei doveri-diritti nel CIC del 1917

II problema della formalizzazione di un catalogo dei diritti- doveri del fedele nell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, in termini analoghi a quello dei cataloghi delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e dei diritti fondamentali nelle costituzioni statuali moderne, risale solo all’epoca del Vaticano II.

Le ragioni di questo ritardo storico sono molteplici e note, come molteplici e note sono le difficoltà della dottrina nell’individuare con certezza tutte le ascendenze culturali che hanno dato origine e progressivamente fatto evolvere l’idea dei diritti dell’uomo e del loro riconoscimento istituzionale come diritti fondamentali nelle costituzioni democratiche [1].

L’involuzione anti-ecclesiale della cultura illuminista, che legittima, sia pure solo parzialmente, il rigetto cattolico delle libertà moderne consumato dal Sillabo, e l’assenza di preoccupazioni costituzionalistiche esplicite nel legislatore canonico, spiegano perché il CIC del 1917 non si sia posto o comunque non abbia affrontato il problema dei diritti dei fedeli negli stessi termini delle costituzioni statuali, ma lo abbia risolto senza uscire dall’impianto giuridico del diritto civile privato e di quello procedurale, congeniale alle codificazioni europee.

Nato come rampollo ecclesiastico del processo culturale e giuridico laico delle codificazioni del diritto privato moderno, il CIC del 1917 [2], pur contenendo dal profilo materiale molte norme di carattere costituzionale, ha potuto procedere alla formulazione di certi diritti-doveri del fedele senza ricorrere alla tecnica propria al diritto pubblico costituzionale.

Ciò è stato possibile non da ultimo grazie al fatto che anche i codici civili, attraverso i quali si è espressa la società liberale-borghese con la propria tavola di valori proposta a tutti come universalmente valida, hanno assolto, pur non assumendone gli strumenti giuridici, un ruolo costituzionale parallelo o complementare rispetto a quello delle costituzioni vere e proprie [3].

Anzi, più dei codici civili, quello canonico, proprio per l’assenza di una carta costituzionale formale della Chiesa, ha introdotto, specie quando si trattava di regolare la posizione giuridica delle persone fisiche, norme che nella teoria generale del diritto avevano già assunto una inconfondibile valenza costituzionale e che di conseguenza avrebbero potuto essere enunciate in una prospettiva più consona al carattere generale e assoluto del diritto costituzionale, che al carattere soggettivo e personalistico del diritto privato.

L’istanza costituzionalistica, comunque soggiacente al CIC, ha permesso alla canonistica tedesca, più sensibile di quella latina all’influsso della dottrina protestante, il cui problema centrale è stato da sempre quello della posizione costituzionale della Chiesa in seno allo Stato, di affrontare il Libro II del CIC, sulle persone, in termini esplicitamente costituzionali.

La dimensione costituzionalistica immanente al CIC del 1917 spiega perché il legislatore canonico, a differenza di quanto ha fatto il legislatore civile, non si è limitato a formulare norme indirizzate più al giudice che al fedele [4], in vista della possibilità di una tutela giudiziaria dei diritti del fedele – come per es. il principio della giustiziabilità di ogni diritto, stabilito dal can. 1667 (secondo cui «quodlibet ius non solum actione munitur… sed etiam exceptione»), oppure il principio «nulla poena sine lege» del can. 2195 § 1, o quello ben più rigido del «nulla poena sine culpa» dello stesso canone – ma ha enunciato in modo programmatico e con intenti giuspubblicistici il principio del can. 87, secondo cui l’uomo con il battesimo acquista non solo la qualifica teologica di membro della Chiesa, ma anche quella giuridica di soggetto capace di diritti e di doveri.

Accanto a questa capacità giuridica generale del fedele, il CIC del 1917 ha evidentemente riconosciuto l’esistenza di altri diritti specifici del cristiano, che, nel diritto pubblico moderno, sarebbero considerati, aldilà della loro formulazione tecnicogiuridica, inconfondibilmente come diritti costituzionali fonda- mentali. Si tratta di diritti non derivati dall’ordinamento giuridico in quanto tale, ma costitutivi dello stesso, come il diritto al matrimonio del can. 1035, quello della libertà nella scelta dello stato, riconosciuto direttamente solo in funzione dello stato clericale e religioso (can. 214 § 1 e 572 § 1 n. 4), e soprattutto il diritto dei laici di ricevere dal clero i sacramenti (can. 682). Anche se attribuito direttamente ai laici, questo diritto costituisce una norma estensibile a tutti i fedeli. Anzi, per una sua natura prelude «in nuce» all’esistenza di altri diritti-doveri aventi la stessa caratteristica costituzionale, tanto più che nel CIC pia- no-benedettino l’idea dell’esistenza della figura del fedele in quanto soggetto giuridico trascendente i tre stati (quello laicale, clericale e religioso) non è totalmente estranea [5], e non potè- va del resto esserlo, anche se non è possibile attribuirle la stessa funzione portante, rispetto a tutto il vecchio sistema del Codice piano-benedettino, che essa ha invece assunto nel nuovo Codice, dove il fedele ha sostituito la gerarchia nella funzione di protagonista dell’ordinamento canonico [6].


II. Elementi di un catalogo nel Vaticano II

La ripresa del dialogo con la cultura secolare instaurato dalla politica di Leone XIII [7], realizzatasi prevalentemente sul terreno epistemologico del diritto naturale, proprio alla dottrina sociale della Chiesa, e sfociata nella recezione teologica delle istanze di fondo della cultura moderna nel Decreto conciliare sulla «Libertà di coscienza» e nella Gaudium et spes, hanno posto la dottrina canonistica di fronte alla necessità di accettare il confronto con uno dei postulati imprescindibili del sistema costituzionalistico moderno, quello del catalogo dei diritti fondamentali del cittadino.

Già il Vaticano II ha avuto coscienza di questo problema, anche se non l’ha affrontato in modo organico, come invece ha fatto per i diritti dell’uomo, sia pure più succintamente che nelle encicliche sociali [8]. L’elemento ecclesiologico che ha fatto lievitare nei vari testi del Concilio questa urgenza, fino a permettergli di esprimersi con indicazioni dottrinali precise, anche se giuridicamente non sempre elaborate, è stato senza dubbio l’approccio della Chiesa attraverso l’immagine teologica del «Popolo di Dio». Questo approccio si è dichiarato a livello costituzionale nella identificazione del fedele come figura sacramentale-giuridica comune a tutti i tre stati (quello laicale, quello clericale e quello degli Istituti di vita consacrata), in cui si realizza e diversifica concretamente la posizione costituzionale di ogni singolo fedele. Ciò ha postulato inevitabilmente l’enunciazione del principio della fondamentale eguaglianza nella dignità e nell’azione di tutti i membri della Chiesa. Da tempo immemorabile, considerata dalla dottrina come «società* inae- qualis», la Chiesa si rivela invece essere simultaneamente una «societas aequalis et inaequalis».

Malgrado l’uguaglianza fondamentale, la disuguaglianza dei suoi membri ha infatti carattere solo funzionale, ma costituzionale, essendo radicata nel sacramento o nel carisma [9].

Tenendo conto della promozione globale del fedele, che il Concilio ha operato investendolo di una responsabilità irrinunciabile nella edificazione del Regno di Dio, nella Chiesa e nel mondo, sulla base della sua partecipazione ai tre uffici di Cristo (di insegnare, santificare e governare), l’analisi dei singoli documenti conciliari permette di ricavare un catalogo, anche se non esauriente, di diritti-doveri propri a tutti i fedeli. Il fatto che alcune di queste disposizioni siano concretamente enunciate come diritti-doveri appartenenti ai laici in quanto tali, e non a tutti i fedeli, dimostra solo che il Vaticano II non è riuscito fino in fondo a isolare dottrinalmente la figura del fedele dai tre stati di vita ed è caduto in sovrapposizione.

Seguendo l’ordine cronologico dei documenti e prescindendo dai numerosi diritti-doveri naturali dell’uomo, non diretta- mente estesi dal Vaticano II ai membri della Chiesa, possono essere numerate come appartenenti esplicitamente ad un catalogo conciliare dei diritti-doveri del fedele le seguenti fattispecie: 1. Il diritto-dovere di partecipazione attiva alla liturgia (SC 14, 1); 2. Il diritto alla predicazione della parola e alla celebrazione dei sacramenti (LG 37, 1); 3. Il dovere di obbedienza ai pastori (che vale per tutti i fedeli, ad esclusione del papa) (LG 37, 2); 4. Il diritto-dovere di far presente ai pastori le proprie necessità (diritto-dovere che non concerne il papa, se non indirettamente) (LG 37, 1); 5. Il diritto-dovere di esternare pubblicamente la propria opinione anche attraverso eventuali organismi predisposti dall’autorità (LG 37, 1); 6. Il diritto-dovere ad una spiritualità propria (LG 12, 2 e 41); 7. Il dovere-diritto di contribuire alla edificazione del Corpo Mistico (CD 16, 5); 8. Il dovere-diritto dei laici (estensibile a tutti i fedeli) di svolgere un apostolato (AA 3,2 e 25, 1); 9. Il diritto-dovere di seguire il proprio carisma (AA 3, 4); 10. Il diritto-dovere di associazione (attribuito ai laici, ma valido per tutti i fedeli) (AA 19, 4); 11. Il diritto dei laici alla formazione teologica (estensibile a tutti i fedeli) (GS 62, 7); 12. Il diritto alla libertà di ricerca e insegnamento (GS 62, 7) [10].

Si tratta di 12 enunciazioni di principio che possono essere raggruppate attorno a quattro idee di fondo: 1. Il diritto di ricevere dalla Chiesa i mezzi di santificazione; 2. Il dovere-diritto di partecipazione responsabile alla vita della Chiesa (che si articola in fattispecie diverse: partecipazione alla liturgia, all’edificazione del Corpo Mistico, all’apostolato, nella manifestazione privata e pubblica della propria opinione, alla vita associata); 3. Il diritto ad alcune libertà personali (articolate dal Concilio come diritto alla spiritualità, alla formazione teologica, alla libertà di insegnamento, alla realizzazione dei propri carismi); 4. Il dovere di obbedienza ai pastori (potenzialmente suscettibile di assumere fattispecie distinte).

Conformemente agli intendimenti generali del Vaticano II, i settori più nuovi, anche se non segnano una vera e propria soluzione di continuità con la tradizione precedente, sono quello della partecipazione responsabile alla vita della Chiesa, in cui emerge la novità dell’ispirazione ecclesiologica della teologia contemporanea al Concilio stesso, e quello delle libertà personali, in cui è più sensibile l’influsso della cultura laica moderna.

Per scoraggiare qualsiasi giudizio affrettato, soprattutto riguardo al diritto di partecipazione dei fedeli alla vita della Chiesa, basterebbe non dimenticare, per esempio, che già nel CIC del 1917, malgrado il blocco creato dalla riforma protestante, la predicazione dei laici era ammessa, anche se esclusa dalle chiese (can. 1327 § 2 e 1342 § 2). La differenza tra questa ed altre eventuali fattispecie, già contenute nel vecchio codice, e quelle elaborate nei testi conciliari, sta nel fatto che nel CIC esse non erano dottrinalmente giustificate in base al principio della partecipazione di tutti i fedeli ai tre uffici di Cristo e tanto meno giuridicamente qualificate come abilitazioni generali o diritti soggettivi ad eventuale carattere «collettivo». Esse emergevano neH’ordinamento canonico, solo congiuntamente a norme disciplinari dirette pragmatisticamente, secondo la tecnica specifica del diritto civile, più a stabilire ambiti di competenze o interdizioni per le singole persone che a formulare principii universali.

 


III. Il catalogo nello Schema «De Populo Dei» del 1977 e nella «LEX ECCLESIAE FUNDAMENTALIS» del 1979

Un notevole contributo alla formalizzazione giuridica della fattispecie di molti diritti-doveri del fedele è stato dato dalla canonistica post-conciliare, grazie all’allestimento di alcuni cataloghi modello dei diritti-doveri dei fedeli, che spesso sono andati oltre il perimetro dei contenuti previsti dal Vaticano II [11].

Più che per il loro influsso diretto sui lavori della Commissione di Revisione del CIC, sensibile soprattutto nel catalogo dello Schema del «De Populo Dei» del 1977, queste proposte della dottrina sono state importanti per rivelare i nodi teorici soggiacenti alla questione della struttura di un catalogo generale dei diritti-doveri del fedele nell’ordinamento canonico. In particolare il problema della possibilità di rendere esigibili all’interno della Chiesa i diritti naturali dell’uomo [12] e quello dell’eventuale fondamentalità dei diritti-doveri specifici del fedele nella costituzione della Chiesa [13].

L’analisi dei contenuti e dei presupposti ecclesiologici e canonistici di questi modelli esigerebbe un esame particolare anche se è già stato compiuto da altri [14]. In questa sede può bastare un breve studio dei cataloghi contenuti negli ultimi progetti dello Schema del «De Populo Dei» del 1977 (SCH) e della «Lex Ecclesiae Fundamentalis» del 1979 (LEF).

A dire il vero anche questi progetti sono stati sottoposti ad una minuziosa verifica, in particolare al IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico di Friburgo nel 1980. Ci sembra tuttavia di poter individuare uno spazio che permette di aggiungere qualche considerazione alle molte che sono già state proposte, prima di passare all’esame del catalogo del CIC.

E stato osservato che il catalogo dello SCH del 1977 si caratterizza per essere stato paradossalmente redatto con una preoccupazione più costituzionalistica rispetto al progetto della LEF del 1979. Nello SCH i doveri-diritti del fedele sono stati formulati con una preoccupazione di concretezza che tiene conto del problema della loro giustiziabilità. Nel testo della LEF, invece, più dipendente nei profili linguistici dagli enunciati del Concilio, le fattispecie risultano più astratte nel contenuto e perciò più vaghe nel significato [15].

Potrebbe perciò apparire paradossale anche il fatto che il legislatore invece del catalogo dello SCH del 1977 abbia incorporato nel CIC il catalogo della LEF del 1979.

Se si prescinde dalla definizione del fedele contenuta nel can. 16 dello SCH e passata nel can. 204 del CIC, bisogna costatare che tutte le fattispecie enunciate dalla LEF nei can. 9-24 ricorrono nella loro sostanza materiale anche nel catalogo dello SCH (can. 17-38), ad eccezione: 1. del dovere di tendere alla santità (LEF can. 10); 2. di quello di lavorare per la crescita spirituale della Chiesa (LEF can. 10); 3. del diritto di ricevere un’educazione cristiana (LEF can. 17 § 1) (queste tre disposizioni sono passate nel catalogo dei doveri-diritti dei fedeli, rispettivamente nei can. 210,1 e II fr. e 217); 4. del diritto-dovere dei genitori all’educazione dei figli (LEF can. 17 § 2), che nel CIC è stato collocato nell’elenco dei doveri-diritti specifici dei laici (can. 226 § 2).

Per contro il catalogo dello SCH contiene ben 22 fattispecie di doveri-diritti del fedele non contemplate nella LEF, di cui però solo 4 sono state assunte nel CIC. Evidentemente questa valutazione numerica è variabile a partire dal diverso criterio con il quale possono essere definite le singole fattispecie [16].

Le quattro disposizioni recuperate dallo SCH nel CIC sono le seguenti: 1. Il dovere di mantenersi in comunione con la Chiesa (can. 19 § 1: CIC can. 209 § 1); 2. L’obbligo di diligenza nell’esercizio degli uffici ecclesiastici (can. 19 § 2: CIC can. 209 § 2); 3. Il diritto al segreto epistolare e alla protezione della sfera personale (can. 33) (formulato dal CIC in modo più generale – nel can. 220, II fr.); 4. Il dovere di promuovere la giustizia sociale (can. 38; CIC can. 222 § 2).

Le 18 fattispecie dello SCH non incorporate nel CIC sono invece le seguenti: 1. Il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge di tutti i fedeli, senza distinzione di stirpe, nazione, condizione sociale e sesso (can. 17 § 1), che positivizza giuridicamente l’enunciato conciliare teologicamente più vasto dell’eguaglianza nella dignità e azione di tutti i fedeli, e che nello SCH non era applicato esplicitamente a tutte le norme del CIC, ma limitativamente al catalogo dei diritti-doveri del fedele; 2. Il principio della rinunciabilità di certi diritti-doveri (can. 17 § 2), applicato dallo SCH solo in rapporto ai membri degli Istituti di vita consacrata; 3. Il dovere di impegnarsi per la pace tra i cristiani (can. 20, II fr.); 5. Il dovere di impegnarsi per la pace tra tutti gli uomini (can. 20, II fr.); 6. Il dovere di conservare la fede (can. 21,1 fr.); 7. Il dovere-diritto di acquisire una conoscenza della dottrina cristiana proporzionata al proprio stato (recuperato nel CIC come diritto specifico dei laici, can. 229 § 1) (can. 22 § 2); 9. Il diritto-dovere di partecipare attivamente alla liturgia (can. 26); 10. Il diritto di aderire senza coazione alle associazioni (can. 31 § 2); 11. Il diritto di ricorso contro l’abuso di potere (can. 34); 12. Il diritto di difesa nelle cause giudiziarie ed amministrative (can. 36 § 2); 13. Il diritto di conoscere il nome del denunciante nelle stesse cause (can. 36 § 3); 14. Il diritto di conoscere le motivazioni delle sentenze e dei decreti (can. 36 § 4) (i diritti formulati nei §§ 2-4 del can. 36 potrebbero essere considerati come implicitamente compresi nel can. 22 §1-2 della LEF e nel can. 221 § 1-2 del CIC); 15. Il diritto di rispettare e promuovere i diritti della persona umana (can. 37 §1,1 fr.); 16. Il dovere di difendere la libertà della Chiesa (can. 37 § 1, II fr.); 17. L’obbligo di astenersi da tutte le attività che possono ledere la dignità della persona (can. 37 § 2, II fr.); 18. L’obbligo di astenersi da tutte le attività anche associative che possono ledere la missione della Chiesa (can. 37 § 2, II fr.).

 


IV. I CRITERI DI INCORPORAZIONE DEI CATALOGHI DELLO SCH 1977 E DELLA LEF 1979 NEL CIC

La commissione per la Revisione del CIC, nei lavori dell’ottobre 1979, ha deciso la soppressione di queste fattispecie argomentando con il fatto che esse erano già contenute nel catalogo della LEF o in altri Schemi preparatori del CIC: quello sui sacramenti, sulle procedure, sui beni patrimoniali e il «De Populei Del» stesso. Sei disposizioni salvate dalla Commissione nella stessa occasione non sono invece arrivate fino al CIC: quelle del can. 17 § 1-2 (principio dell’uguaglianza davanti alla legge e della rinunciabilità ai diritti), quelle del can. 20 sul dovere di favorire la pace tra i cristiani e tra gli uomini e quelle del can. 21 (I-II fr.) sul dovere di conservare e di professare pubblicamente la fede. Come già detto la disposizione di acquisire una dottrina cristiana proporzionata al proprio stato formulata dal can. 22 § 1 è stata incorporata nel catalogo del CIC dei diritti-doveri dei laici.

Per contro alcune disposizioni scartate dalla Commissione sono state in seguito recuperate nel CIC, sia pure con formulazioni diverse: il can. 33 sul segreto epistolare (CIC can. 220, II fr.) e il can. 38 sul dovere di promuovere la giustizia sociale (CIC can. 222 § 2).

E facile constatare che nella decisione di sopprimere le disposizioni dello SCH, la Commissione si sia lasciata guidare non solo dal principio di eliminare i doppioni, rispetto alla LEF, ma anche di sopprimere le fattispecie che potevano essere considerate già implicitamente contenute nella LEF stessa [17].

È possibile verificare questa affermazione facendo diretta- mente il confronto tra le norme dello SCH e quelle del testo finale del CIC, dal momento che il catalogo della LEF del 1977 è stato incorporato nel CIC solo con pochissimi ritocchi.

Quasi tutte le 18 fattispecie eliminate possono infatti essere ricomprese in quelle del CIC: 1. Il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge, in quello più generale e dottrinale della uguaglianza nella dignità e nell’azione (can. 208); 2. Il principio della rinunciabilità dei diritti, in quello della libera scelta dello stato (can. 219); 3. Il dovere di riverenza verso i ministri sacri, in quello di obbedienza ai pastori (can. 212 § 1); 4. Il dovere di mantenere la pace tra i cristiani, in quello di mantenere la comunione con la Chiesa (can. 209 § 1); 5. I doveri-diritti di impegnarsi per la pace tra gli uomini, per la dignità umana e di astenersi da tutte le attività contrarie, in quello di impegnarsi per la giustizia sociale (can. 222 § 2); 6. Il dovere di conservare la fede, in quello di tendere alla santità (can. 210, I fr.); 7. Il dovere di professare pubblicamente la fede, in quello di partecipare al suo apostolato (can. 211); 8. Il dovere-diritto di acquisire una conoscenza della dottrina cristiana proporzionata allo stato, in quello di compiere gli uffici con diligenza (can. 209 § 2); 9. Il dovere-diritto di partecipare attivamente alla liturgia, in quello di ricevere la parola e i sacramenti (can. 213); 10. Il dovere-diritto di difendere la libertà della Chiesa e di astenersi dalle attività contrarie, in quello di annunciare la salvezza a tutti gli uomini (can. 211); 11. Tutti i diritti processuali enunciati nei can. 34-36 (SCH) possono essere considerati impliciti nel can. 221 § 1-2.

Evidentemente se si fosse applicato in modo rigoroso questo criterio l’esito finale sarebbe stato quello di vanificare l’idea stessa di un catalogo o di ridurlo a pochissime norme generali. Applicato nei confronti della LEF ciò poteva a rigore essere plausibile; applicato per contro nei confronti del CIC questo modo di procedere solleva «post-factum» alcuni problemi.

Prima di tutto perché il CIC, anche nell’intenzione della Commissione, aveva il compito di articolare i contenuti della LEF in modo più dettagliato, tenendo conto delle esigenze particolari della Chiesa latina [18].

In secondo luogo perché un simile procedimento presupporrebbe l’attribuzione di una funzione più creativa alla «potestas iudicialis» di quanto il CIC non prevede, essendo il sistema canonico un sistema relativamente chiuso, in cui la giurisprudenza non assume lo stesso ruolo rispetto all’evoluzione della interpretazione della norma di quello assunto in alcuni ordinamenti giuridici statuali (can. 16).

In terzo luogo perché si può constatare che è spesso possibile valutare il rapporto implicito-esplicito in senso inverso rispetto a quanto è stato fatto, come dimostrano alcuni esempi. Infatti il dovere di tendere alla santità potrebbe essere ritenuto implicito rispetto a quello di mantenere e professare pubblicamente la fede, e il dovere di promuovere i diritti della persona umana può essere ritenuto più ampio di quello di lavorare per la pace e per la giustizia sociale.

Da ultimo, sarebbe stato possibile compiere una riduzione numerica delle fattispecie del CIC stesso, applicando lo stesso criterio, sia all’interno del catalogo concernente tutti i fedeli, sia prendendo in esame le disposizioni contenute nel catalogo specifico ai laici, estensibili però a tutti i fedeli (come i can. 225 § 1,1 fr.; 229 § 1-3; 231 § 1-2).

Se si tien conto che alcune norme della LEF come il can. 3 e il can. 81 § 1, cui la Commissione ha fatto riferimento quando ha sfrondato radicalmente nello SCH il catalogo dei doveri-diritti del fedele, sono scomparse assieme alla LEF stessa [19], si può capire perché l’inserimento dei canoni della LEF nel CIC non sia awenuto, anche nel contesto dei doveri-diritti del fedele, senza problemi.

Comunque sia, sembra evidente che il legislatore posto di fronte alla scelta di incorporare nel CIC il catalogo della LEF oppure quello dello SCH si è lasciato pragmatisticamente guidare dall’idea che bisognava ridurre nel limite del possibile il numero delle disposizioni. Ma allora è lecito chiedersi perché non sia stato applicato lo stesso criterio anche nella stesura del catalogo dei doveri-diritti specifici dei laici, dove su 17 fattispecie diverse almeno sei, come si è visto, sono esplicitamente (can. 225 § 1, I fr.) o implicitamente (can. 229 § 1-3; 231 § 1-2) già contenute nel catalogo dei doveri-diritti del fedele o in altre norme del CIC, essendo di per sé estendibili a tutti i fedeli.

Per evitare di ritornare sul problema del rapporto tra il catalogo concernente tutti i fedeli e quello specifico dei laici, si può fare la constatazione che il CIC più che tentare di fissare con rigore dottrinale e giuridico i doveri-diritti esclusivi dei laici, la cui secolarità cambia secondo che essi vivano nel mondo, o in un Istituto religioso o in un Istituto secolare, ha preferito fare una politica promozionale del laicato, utile nel contesto storico attuale, ma contingente dal profilo dottrinale e tecnico-giuridico.

 


V. Rapporto tra il CIC e il Vaticano II

Un raffronto tra il catalogo del Vaticano II e quello del CIC permette di stabilire che il CIC, pur con le necessarie modificazioni formali o eventuali articolazioni «ad sensum» del loro contenuto, ha recepito tutte le disposizioni enucleate in modo esplicito dal Concilio come doveri-diritti del fedele, ad eccezione di una: quella concernente il diritto dei laici (attribuibile comunque a tutti i fedeli) di esercitare il proprio carisma.

Oltre a queste fattispecie, il CIC ha formalizzato in termini giuridici anche altri elementi dottrinali che possono essere rubricati secondo tre categorie: gli elementi originari propri del tessuto ecclesiologico e spirituale del Concilio; quelli appartenenti da sempre alla coscienza etico-giuridica della Chiesa e quelli recepiti dalla cultura moderna, già attraverso le encicliche sociali. Appartengono alla prima categoria: 1. Il dovere di far crescere interiormente in santità il Corpo Mistico (can. 210, II fr.); 2. Il dovere di obbedienza ai pastori (can. 212 § 1); 3. Il diritto di far presente i propri bisogni ai pastori (can. 212 § 2); 4. Il diritto-dovere di esternare ai pastori e ai fedeli la propria opinione (can. 212 § 3, I e II fr.) – l’indicazione del Concilio (LG 37,1) sulla possibilità di rendere più effettivo l’esercizio di questo diritto di tutti i fedeli con strutture appropriate è stata recepita, a ragion veduta, per i soli laici, nel can. 228 § 2 5. Il diritto di ricevere la parola e i sacramenti (can. 213); 6. Il diritto alla propria spiritualità (can. 214, II fr.); 7. Il diritto d’associazione (can. 215); 8. Il dovere-diritto all’apostolato (can. 216); 9. Il dovere-diritto alla formazione religioso-teologica (can. 217); 10. Il diritto alla libertà di insegnamento (can. 218). Il diritto-dovere di partecipare attivamente alla liturgia non appare nel catalogo codicíale, ma è stato recepito sia pure con formule giuridicamente meno qualificanti, in altre norme del CIC come per esempio nei can. 835 § 4, 937, 840 e 898.

Si potrebbe opinare che il diritto a vivere i propri carismi sia semplicemente già compreso in quello di praticare una propria spiritualità; diritto per altro formulato quasi solo «en passant» e, per di più riduttivamente, solo in connessione con la garanzia del rito, nel can. 214. Ciò non esime comunque dal dover constatare il profondo disagio del CIC di fronte al fenomeno del carisma. Questa constatazione non emerge solo nella discussione avvenuta in seno alla Commissione per la Revisione del CIC a proposito della LEF, nelle sedute del 24-29 settembre del 1979 [20], ma anche nel fatto che il termine «carisma» è stato inesorabilmente stralciato dalle 8 norme (tutte appartenenti al contesto degli «Istituti di vita consacrata») dello SCH del 1982, in cui esso appariva ancora esplicitamente [21].

Questo fenomeno di rigetto è tanto più sorprendente per il fatto che il Vaticano II ha fatto riferimento ai carismi con grande libertà e con grande ricchezza di testi, nei quali non mancano enunciazioni in cui la valenza giuridica dei carismi si profila con estrema chiarezza [22].

Alla seconda categoria, cioè alle disposizioni del CIC, che recepiscono giuridicamente principii o elementi ecclesiologici generali sparsi nei testi conciliari, appartengono: 1. Il dovere di vivere nella comunione ecclesiale (can. 209 § 1), che senza dubbio è uno dei valori centrali dell’ecclesiologia vaticana; 2. Il dovere di tendere alla santità (can. 210), che nel CIC del 1917 era attribuito solo ai religiosi (can. 593); 3. Il dovere di collaborare alla diffusione dell’annuncio cristiano (can. 211; ripetuto per i laici nel can. 225 §1,1 fr.), in cui si enuclea l’orientamento missionario globale dato dal Concilio alla Chiesa; 4. La garanzia del rito (can. 214), che istituzionalizza anche la garanzia del pluralismo dei riti riconosciuta dal Concilio.

In questa serie possono essere rubricate anche quelle fattispecie che tendono a concretizzare istituzionalmente la promozione globale del laicato operata dal Vaticano II, ma che in realtà si rivelano essere doveri-diritti appartenenti a tutti i fedeli, come il diritto di acquisire i gradi accademici (can. 229 § 2) e l’abilitazione fondamentale dei battezzati a ricevere un mandato di insegnamento (can. 229 § 3).

Appartengono alla seconda categoria le disposizioni il cui contenuto ecclesiologico è eticamente scontato, come: 1. Il dovere-diritto all’educazione cristiana (can. 217), presupposto al dovere-diritto di ricevere la parola e i sacramenti; 2. Il dovere di diligenza nell’esercizio degli uffici ecclesiali (can. 209 § 2), sottolineato dal CIC per i laici con il dovere di acquisire una dottrina cristiana proporzionata allo stato (can. 229 § 1) e una formazione specifica ai ministeri (can. 231 § 1); 3. Il dovere di sopperire alle necessità materiali della Chiesa (can. 222 § 1).

Alla terza categoria appartengono quelle disposizioni con le quali il CIC ha istituzionalizzato alcune istanze culturali delle encicliche sociali recepite e sviluppate teologicamente dal Concilio, come quelle sulla dignità della persona umana: 1. Il principio della libertà nella scelta dello stato (can. 219) – peraltro già contenuto nel vecchio CIC 2. La protezione della reputazione e dell’intimità personale (can. 220); 3. I quattro diritti processuali del can. 221 e, da ultimo, il dovere di promuovere la giustizia sociale (can. 222 § 2) e il diritto alla giusta remunerazione (can. 231 § 2).

Concludendo si può affermare che l’ascendenza conciliare, diretta o indiretta, è immanente a tutte queste enunciazioni concernenti i fedeli, siano esse elencate nel catalogo riservato ai fedeli o in quello riservato ai laici. Tuttavia se si dovesse stabilire un confronto più puntuale tra il CIC e il Concilio si deve constatare che soprattutto nel settore in cui l’ecclesiologia vaticana urge irresistibilmente verso concretezze istituzionali, il CIC, a 20 anni di distanza, non ha osato spingere la sua normativa molto oltre i punti goniometrici già scoperti e già segnalati dal Vaticano II, e dallo stesso enucleati in testi giuridicamente quasi perfezionati. Anzi, come abbiamo osservato sopra, il CIC, facendosi scudo del principio secondo cui l’implicito è già contenuto nell’esplicito, ha potuto esimersi dal fare uno sforzo preciso per svolgere e articolare in modo istituzionalmente più dettagliato la potenziale forza espansiva contenuta in molte fattispecie di doveri-diritti del fedele recepite dal Vaticano II.

 


VI. Il fondamento ontologico dei doveri-diritti del CIC

Un altro criterio di approccio delle disposizioni contenute nel catalogo dei doveri-diritti dei fedeli, rilevante soprattutto in vista della interpretazione delle due clausole generali del can. 223 § 1 concernenti le limitazioni intrinseche ed estrinseche all’esercizio dei doveri-diritti dei fedeli, è l’esame della natura ontologica delle singole fattispecie. In che misura i doveri-diritti del fedele sono postulati dal diritto divino (positivo) e in che misura invece affondano le loro radici nel diritto (divino) naturale? A questo riguardo è possibile raggruppare le disposizioni secondo tre categorie diverse.

Nell’ipotesi che sia possibile fissare a 31 il numero delle disposizioni dei doveri-diritti di tutti i fedeli, contenute nei due cataloghi, e prescindendo nel loro computo sia dal principio generale del can. 208 che dalle due clausole del can. 223, si può constatare che un terzo (11) di esse sono inconfondibilmente connesse con la partecipazione battesimale ai tre uffici di Cristo. Devono essere di conseguenza considerate come enunciazioni derivanti dal diritto divino.

Hanno questo carattere: a) Il dovere di vivere in comunione con la Chiesa (can. 209 § 1); b) Il dovere di tendere alla santità e di far crescere in essa la Chiesa (can. 210,1 e II fr.); c) Il dovere-diritto di collaborare alla diffusione del messaggio evangelico (can. 211), ripetuto nel catalogo dei laici (can. 225 §1,1 fr.) con la specificazione (superflua se si tien conto del can. 215) che ciò può avvenire in modo associato; d) Il dovere-diritto alla parola e ai sacramenti (can. 213); e) Il diritto al rito e alla propria spiritualità (can. 214, I II fr.); f) Il dovere-diritto all’apostolato (can. 216); g) Il dovere-diritto all’educazione cristiana (can. 217).

Per un altro terzo (11) si tratta di doveri-diritti la cui struttura esiste di per sé anche nell’ambito del diritto naturale. Tuttavia per il fatto di essere chiamati a regolare un rapporto non di diritto naturale, ma di natura ecclesiologica, devono essere considerati di diritto divino. Essi sono: a) Il dovere di diligenza nello svolgimento degli uffici ecclesiali (can. 209 § 2) precisato per i laici come dovere di acquisire una dottrina cristiana e una formazione proporzionata allo stato e all’ufficio (can. 229 § 1 e 231 § 1); b) Il dovere di obbedienza all’autorità ecclesiale (can. 212 § 1); D II diritto di manifestare ai pastori le proprie necessità e di esternare ad essi e ai fedeli le proprie opinioni (can. 212 § 2 e 3,1 e II fr.); d) Il diritto di associazione per fini ecclesiali (can. 215); e) Da ultimo si devono annoverare le disposizioni sul diritto di accesso ai gradi accademici (can. 229 § 2) e sull’abilitazione a ricevere un mandato di insegnamento (can. 229 § 3) che, pur essendo positivizzazioni di diritto umano, hanno il loro fondamento nel battesimo.

L’ultimo terzo (9) è rappresentato da fattispecie di diritto naturale vero e proprio, oppure di doveri-diritti appartenenti ai principii generali del diritto. In forza del battesimo essi sono però funzionalizzati alla protezione di valori di diritto divino e non di diritto naturale, per cui subiscono le limitazioni o le estensioni che la priorità immanente ai valori soprannaturali può loro imporre.

Rivelano questa struttura: a) Il diritto alla libertà di ricerca e insegnamento (can. 218), dipendente strutturalmente dalle esigenze della metodologia teologica; b) Il diritto alla libertà nella scelta del proprio stato di vita (can. 219), rafforzato dall’irrevocabilità della vocazione cristiana; c) Il diritto alla protezione della reputazione e dell’intimità personale (can. 220,1 e II fr.), rafforzato dalle esigenze della comunione; d) 14 diritti processuali del can. 221, derivanti, forse più che dal diritto naturale, dalla coscienza giuridica democratica moderna. Si tratta perciò di diritti che non possono essere estesi «ad absurdum», dal momento che il sistema processuale canonico, per l’esigenza dottrinale intrinseca al principio della comunione, riconosce la priorità del principio della certezza materiale su quella formale [23]; e) Il dovere di provvedere alla giustizia sociale (can. 222 §2), rafforzato dalle esigenze della carità soprannaturale; f) II diritto alla giusta remunerazione (231 § 2), in cui il principio della reciprocità proporzionale tra prestazione e controprestazione deve cedere il passo al fatto che l’ufficio ecclesiale ha come presupposto una vocazione ecclesiale.

Sulla base di queste considerazioni devono essere valutate le clausole di riserva poste all’esercizio dei diritti del fedele dal canone 223. Il principio dell’autolimitazione (§ 1) si struttura come proibizione di ogni violazione, eticamente o giuridicamente illegittima, di tre sfere giuridiche protette: quella del bene comune, quella dei diritti acquisiti da terzi e quella dei propri doveri nei confronti di terzi. Esso si conforma perciò come obbligo generale di valutazione dei diritti di ogni soggetto giuridico, fedele o persona morale, in rapporto ai propri doveri. Si tratta evidentemente di un obbligo che acquista un’urgenza particolare in nome della comunione ecclesiale.

La seconda clausola, quella per cui l’autorità competente può «moderare» l’esercizio dei diritti di tutti i fedeli (§2), può sorprendere per essere stata formulata senza le auspicabili precisazioni, anche se si deve riconoscere che la versione definitiva del CIC ha indebolito, rispetto ai progetti precedenti, le capacità espansive dell’enunciato [24]. Infatti la clausola non può apparire come un assegno in bianco nelle mani del superiore. Rischia di compromettere la credibilità dei cataloghi sui doveridiritti del fedele e del laico e di svuotare il contenuto dei singoli dispositivi dei due cataloghi [25].

Il principio del bene comune, non definito da criteri oggettivi di valutazione, resta così vago da prestare adito alle più svariate opinioni. La clausola infatti non determina con quali strumenti legislativi o amministrativi l’autorità è autorizzata ad intervenire [26]. Il problema si porrebbe in termini apparentemente ben più imperativi se questi diritti dei fedeli avessero carattere costituzionale formale, perché sarebbero investiti estrinsecamente da un rango formale superiore a qualsiasi altra norma legislativa o disposizione amministrativa, cui non fosse concesso un potere derogativo dalla costituzione stessa [27].

Trattandosi di una codificazione e non di una costituzione, il problema non si pone in termini formalmente diversi, poiché non si applica il principio della costituzionalità della legge, pur valendo, almeno in linea di principio, quello della legalità dell’attività amministrativa, garantito dal can. 33 § 1.

Tuttavia si deve tener conto del fatto che nel sistema canonico il diritto divino e, subordinatamente, quello naturale godono di una gerarchia materiale, superiore a tutte le altre norme, più forte di quella attribuibile a qualsiasi disposizione per il semplice fatto formale di appartenere ad una costituzione.

Da ciò risulta l’importanza di determinare, con la massima precisione possibile, la struttura ontologica di ogni singolo dovere-diritto dei fedeli, poiché nella loro interpretazione e nella loro tutela giuridica si deve imprescindibilmente tener conto del fatto che, da una parte, la sostanza del diritto divino positivo deve essere sempre salvata; dall’altra, che le specificazioni dello stesso in forza del diritto umano non possono essere abrogate o derogate se non in nome di una migliore interpretazione del diritto divino stesso; da ultimo, che i diritti naturali hanno una valenza provvisoria e interlocutoria, più che sussidiaria, in attesa che sia possibile conoscere con maggior sicurezza eventuali altri contenuti alternativi proposti dal diritto divino [28].

In effetti non si deve dimenticare che i valori tutelati dai doveri-diritti del fedele, radicati direttamente o indirettamente nel diritto divino positivo, non sono valori etici naturali riconducibili ai dieci comandamenti o alle quattro virtù cardinali di estrazione culturale stoica, ma valori correlazionali alle tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, in cui si configura il bene comune della Chiesa [29].

La correlazione tra diritti naturali e valori che essi sono chiamati a proteggere [30] in mancanza di altri strumenti più chiaramente ispirati nel diritto divino positivo, non si esprime solo come eventuale limitazione della loro forza imperativa, ma può anche trasformarsi come urgenza per una loro realizzazione più radicale.

La dignità della persona, redenta dal battesimo, impone perciò una oculatezza legislativa, amministrativa e giudiziaria più grande, espressa da sempre nel principio della «aequitas canonica.» («quod est Deus») [31], di cui oggi si può considerare estrinsecazione ulteriore, ecclesiologicamente più attuale, il principio della «communio». La stessa dignità della persona può però esigere dal fedele anche una capacità di rinuncia alle proprie prerogative naturali in nome dell’obbedienza alla comunione.

Il dovere naturale di lavorare per la giustizia sociale – per fare un secondo esempio – si rivela molto più vincolante se concepito come realizzazione irrinunciabile della «caritas christiana» che, contrariamente a quanto spesso si pensa, non esprime un livello di valore superfluo o non necessario rispetto alla giustizia naturale, ma un valore di rango più alto.

 


VII. La struttura della reciprocità dovere-diritto all’interno della comunità ecclesiale

Nei titoli posti «in capite» ai quattro cataloghi dei doveridiritti – dei fedeli, dei laici, dei chierici e dei membri degli Istituti di vita consacrata, il CIC ha costantemente privilegiato il concetto di dovere su quello di diritto.

L’analisi quantitativa delle disposizioni del catalogo sui doveri-diritti del fedele, contenute nei due cataloghi, quello dei fedeli e quello dei laici, potrebbe far credere che l’enunciazione programmatica contenuta nel titolo non sia giustificata. In effetti delle 31 fattispecie solo 11 sono formulate esclusivamente o primariamente come doveri, 20 invece (cioè 2/3) sono enunciate come diritti.

Tuttavia, se si prescinde dagli 8 diritti che garantiscono le libertà personali dei fedeli, enucleati nei can. 218, 219, 220 e 221 (libertà di ricerca, libertà di scelta dello stato, protezione della sfera personale, diritti processuali), bisogna constatare che quasi la metà delle altre fattispecie enunciate esplicitamente come diritti risultano essere in realtà solo la dimensione speculare di un dovere. Il dovere generale, emergente dai testi del Concilio, di tutti i fedeli di partecipare responsabilmente alla edificazione della Chiesa, formulato giuridicamente dai can. 211 e 225 § 1,1 fr. come dovere-diritto di lavorare alla diffusione dell’annuncio cristiano nel mondo, può essere considerato come il presupposto diretto o indiretto di una serie di diritti che tendono a garantirne l’attuazione; come il diritto di esternare i propri bisogni ecclesiali e la propria opinione ai pastori e ai fedeli (can. 212); quello di associazione (can. 215); quello di acquisire la dottrina e la formazione corrispondente allo stato e all’ufficio (can. 217; ribadito per laici nel can. 229 § 1) – con il quale si connette ultimamente il diritto ai gradi accademici, l’abilitazione aU’insegnamento delle scienze sacre (can. 229 § 2-3) – e il diritto alla giusta rimunerazione (231 § 1).

Dal dovere di tendere alla santità (can. 210), invece, deriva il diritto alla parola e ai sacramenti (can. 213) e quello di seguire una propria spiritualità (can. 214, II fr.), appaiato forse non felicemente dal CIC alla garanzia del rito, dal momento che quest’ultimo non ha carattere solo personale ma collettivo e può essere attribuito anche alle persone morali, come le Chiese particolari.

Il rapporto di reciprocità esistente tra il dovere e il diritto è diverso quando l’istituto emerge dal diritto naturale e quando invece emerge dal diritto divino.

Nel caso degli 8 diritti già menzionati, di provenienza giusnaturalistica (o appartenenti alla categoria dei principii generali del diritto) e la cui funzione è quella di proteggere l’autonomia personale del fedele, il dovere da essi postulato non investe il titolare stesso del diritto, ma altri fedeli o Pastori. Il diritto impone ai terzi il dovere di non violare la sfera giuridica del suo titolare.

Tutte le altre disposizioni del catalogo dei fedeli hanno il loro fondamento, immediato o meno, nel diritto divino, sia che si configurino primariamente come dovere (can. 209, 210, 212, 222) sia che si configurino primariamente come diritto. Quando assumono la configurazione propria di un diritto, ciò avviene solo in ordine alla attuazione di un dovere. A differenza però di quanto avviene per i diritti di provenienza giusnaturalistica, in cui il titolare del dovere cambia rispetto a quello del diritto, nel caso degli istituti di diritto divino il titolare del diritto non cambia rispetto a quello del dovere.

Mentre i diritti naturali sono strutturati come diritti opponibili direttamente a terzi e all’autorità, i doveri radicati nello «ius divinum» creano una opponibilità solo indiretta nei confronti di terzi e dell’autorità, nella misura in cui enunciano il diritto di ottenere l’attuazione del dovere cui sono correlati.

Si deve perciò concludere che, almeno secondo il CIC, il rapporto giuridico base che regola la posizione del fedele nella Chiesa è quello del dovere e che la opponibilità all’autorità è solo indiretta. Non è il dovere di vivere nella comunione che fonda il diritto dell’autorità a intervenire disciplinarmente o penalmente, poiché il diritto dell’autorità è autonomo. Per contro, è il dovere del fedele di vivere nella Comunione che si declina in diritto opponibile ai pastori di ricevere i sacramenti anche se l’opponibilità non è assoluta.

Questa priorità logica e ontologica del dovere sul diritto, nell’ordinamento canonico, non può essere resa plausibile solo filosoficamente affermando, come è stato fatto da alcuni, che mentre il modello sociale laico dà la priorità al diritto sul dovere, perché è fondato sul diritto naturale, quello ecclesiastico privilegia il dovere, perché fondato su una concezione culturale religioso-sacrale [32]. Una simile argomentazione dimentica che anche una concezione sacrale può essere derivata dal diritto naturale. Dal profilo filosofico la differenza tra il primo e il secondo modello deve essere individuata invece nella differenza esistente tra l’opzione intellettualista o razionalista, cui è legato il diritto naturale moderno, e l’opzione nominalista e volontarista originariamente più religiosa, cui è legato il positivismo giuridico moderno.

Bisogna ammettere che rinclinazione nominalista-volontarista luterana, da cui non è possibile sopprimere l’istanza filoso- fico-religiosa della scuola francescana, ha esercitato un influsso determinante sulla concezione del diritto come dovere, creando una delle molteplici ascendenze culturali del problema dei diritti dell’uomo e di quelli fondamentali [33].

È stato Hegel, infatti, nella scia di Samuel Pufendorf e di Christian Wolff (che aveva affermato: «Si nulla esset obligatio, nec ius allum foret»), a considerare, positivisticamente, come più alto dovere dell’individuo, quello di essere membro dello Stato, titolare del supremo diritto contro i singoli [34].

La soluzione volontaristica, lungi dall’eliminare la conflittualità tra la persona e la collettività – e, nell’eventualità, tra il fedele e l’autorità della Chiesa – la fa esplodere in tutta la sua potenziale violenza. In effetti la lotta per il riconoscimento costituzionale dei diritti fondamentali è sfociata nella sostituzione rivoluzionaria dello Stato assolutistico, fondato sul dovere, con quello democratico, fondato sul diritto.

Il problema non può perciò essere affrontato in termini filosofici ma deve essere risolto in termini teologici ed ecclesiologici. L’opzione ontologica propria al realismo tomista può venire in aiuto per facilitare una posizione epistemologica che parta dalla struttura intrinseca alla natura delle cose, sola a garantire l’equidistanza tra gli estremi, quello idealistico e razionalista di reminiscenza platonica e quello nominalista-volontarista moderno.

La priorità del dovere sul diritto nasce dallo stesso riferimento di tutti i fedeli, e perciò anche dei Pastori, a Cristo che redime e chiama a vivere nella comunione con il Padre [35]. La «communio cum Deo» determina l’esistenza e la natura della «communio cum hominibus». I fedeli devono vivere la comunione tra di loro perché con il battesimo, che li rende partecipi all’unico sacerdozio di Cristo, sia pure con una modalità diversa nell’essenza, sono inseriti ontologicamente nella struttura comunionale trinitaria.

A ragion veduta il CIC ha enunciato come primissimo elemento della posizione etico-giuridica del fedele quella di vivere nella comunione con la Chiesa (can. 209 § 1). Da questo dovere derivano ultimamente tutti gli altri principali doveri-diritti, come il dovere alla santità, il diritto ai sacramenti, il dovere di obbedienza, il dovere-diritto alla missionarietà, il diritto all’apostolato.

Il dovere di mantenere la comunione, che non postula per i fedeli e i pastori solo un’adesione interiore, ma anche esteriore («sua quoque ipsorum ratione agendi»), elimina strutturalmente la competitività tra il fedele e l’autorità; competitività ineliminabile nel rapporto persona-Stato, malgrado tutte le misure protettive che dovessero essere prese.

Ciò non significa naturalmente che nella Chiesa non emerga la conflittualità, come la vita quotidiana insegna, ma significa che la conflittualità insorge solo nel momento in cui il fedele o i pastori non entrano in rapporto tra loro secondo tutta la strin- genza, giuridicamente vincolante, della comunione. La conflittualità è un dato di fatto, per sua natura relazionale e contingente, poiché non nasce «ex sese, sed posito alio».

La non-competitività strutturale tra dovere e diritto e tra diritto e dovere è determinata dal profilo istituzionale anche dal fatto che a differenza del modello sociale statuale, quello ecclesiale non è fondato sul rapporto persona-istituzione, in cui l’istituzione, in quanto potere pubblico organizzato, sovrasta il diritto privato e l’individuo, bensì sul rapporto istituzione-istituzione, che coincide con il rapporto persona-persona, poiché tutti i fedeli appartengono all’istituzione della Chiesa e tutti la rappresentano, sia pure in modo diverso.

L’istituzione si costituisce secondo due poli sacramentali, il battesimo e l’ordine sacro; il sacerdozio comune e quello ministeriale. Essendo due forme di partecipazione all’unico sacerdozio di Cristo non sono competitivi o alternativi, bensì correlativi per loro natura e coessenziali l’uno all’altro. Il sacerdozio comune sussiste anche in quello ministeriale e ciò dà la garanzia che i Pastori non possono esimersi dai doveri comuni a tutti i fedeli; il sacerdozio ministeriale esiste solo in forza del rapporto ontologico di servizio che lo orienta verso il sacerdozio comune [36].

L’unico elemento non istituzionale della costituzione della Chiesa è il carisma. Essendo però concesso dallo Spirito Santo all’uno e all’altro polo dell’istituzione, esso acquisisce rilevanza giuridica ed è questa la ragione per cui il C1C non avrebbe dovuto emarginarlo.

Concludendo si può constatare che nella costituzione della Chiesa, conoscibile solo per fede essendo di origine divino-po- sitiva e non naturale, esiste un fenomeno ricorrente di immanenza reciproca tra i diversi livelli della sua struttura: immanenza del diritto nel dovere e del dovere nel diritto, del sacerdozio comune in quello ministeriale e di quello ministeriale in quello comune; a livello antropologico, immanenza della persona battezzata nel Corpo Mistico e del Corpo Mistico, che è la Chiesa, nel fedele, la cui identità nuova è determinata dal fatto che tutti gli altri fedeli appartengono come elementi costitutivi della sua persona; a livello ecclesiologico, immanenza della Chiesa universale in quella particolare e di quelle particolari in quella universale, espressa dalla formula conciliare «in quibus et ex quibus una ecclesia catholica exsistit» (LG 23, l) [37].

Questa formula ecclesiologica offre di fatto il migliore modello ermeneutico per capire la natura stessa della «communio». Si tratta infatti di un concetto che potendo assumere diversi significati (psicologici, etici, affettivi, mistici e pastorali) è usato nel linguaggio post-conciliare come «passe-par-tout» per trovare una risposta ad ogni sorta di problemi.

In realtà il principio della «communio» ha valore primariamente strutturale o ontologico. Esso consiste nel fatto che la Chiesa si realizza solo dove c’è immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale [38].

Applicato al problema della reciprocità tra dovere e diritto, ciò significa che il dovere, in quanto determina il rapporto universale comune a tutti i fedeli nei confronti di Cristo, si realizza come rapporto di comunione ecclesiale, solo nella misura in cui ad ogni singolo fedele è garantito l’esercizio dei suoi diritti.

 


VIII. La non-fondamentalità dei dove-diritti del fedele

Contrariamente alla LEF, il CIC non qualifica come fondamentali i doveri-diritti dei fedeli – dei laici, dei chierici e dei membri degli Istituti di vita consacrata.

La ragione della rinuncia alla nozione di fondamentalità non dipende solo dal fatto formale che il CIC non ha lo stesso carattere di fondamentalità della LEF, anche se dal profilo materiale quasi la metà delle norme della LEF sono state recepite nel CIC e molte altre norme dello stesso hanno chiara valenza costituzionale. Anche nella LEF i doveri-diritti del fedele, malgrado il titolo con cui erano rubricati, non avevano la qualifica della fondamentalità.

Il concetto della fondamentalità è correlativo alla funzione che i diritti del cittadino assumono all’interno dell’ordinamento giuridico globale di uno Stato. Esso significa originariamente due cose: preesistenza della persona, come soggetto giuridico, rispetto allo Stato e garanzia di uno spazio di autonomia per l’individuo.

Evidentemente la nozione originaria dei diritti fondamentali è evoluta fino al punto da trasformare la stessa nozione originaria del moderno Stato di diritto. Dallo Stato, chiamato a garantire l’applicazione del diritto, si è passati allo Stato sociale, chiamato a programmare e promuovere il benessere materiale, per giungere al modello dello Stato culturale, chiamato a promuovere anche l’attività spirituale del cittadino.

La struttura originaria di bipolarità concorrenziale tra cittadino e Stato è tuttavia rimasta sostanzialmente intatta. In tutte e tre le forme di evoluzione del modello statale occidentale, il cittadino continua a rivendicare uno spazio di autonomia individuale e lo Stato continua a limitare l’uso del proprio potere, anche se è chiamato a moltiplicare i suoi interventi in favore del cittadino, ben al di là delle previsioni immanenti al modello originale dello Stato di diritto [39].

La tensione non si risolve eliminando la bipolarità strutturale, bensì regolandola secondo il principio pragmatico del «check and balance». Anzi, la competitività si è aggravata, perché è insorta non solo nei confronti dello Stato, ma all’interno dei diritti fondamentali stessi con l’apparire dei primi diritti sociali dell’uomo nelle costituzioni, che per loro natura sono antagonisti delle libertà individuali [40].

I diritti dell’uomo, personali e sociali, si sono trasformati concettualmente in diritti fondamentali facendo il loro ingresso nelle costituzioni moderne, dove grazie alla loro forza di espansione hanno provocato una trasformazione globale dell’assetto giuridico dello Stato. Il principio democratico, la separazione dei poteri, il principio della costituzionalità e della legalità, quello della socialità e il federalismo sono determinazioni più o meno lineari dei diritti fondamentali che hanno determinato il passaggio dallo Stato assolutista allo Stato di diritto democratico, la cui funzione primaria è diventata quella di garantire la realizzazione sia dal profilo formale che materiale dei diritti fondamentali del cittadino [41].

La struttura costituzionale della Chiesa e il suo ordinamento giuridico non hanno invece come «telos» quello di garantire la realizzazione dei doveri-diritti del fedele, ma hanno come scopo primario quello di dare la garanzia che la parola e il sacramento, celebrati oggi dalla Chiesa, siano ancora la stessa parola e lo stesso sacramento istituiti da Cristo [42]. Infatti i doveri-diritti specifici dei fedeli non sono preesistenti alla Chiesa, come i diritti dell’uomo allo Stato, ma conferiti alla persona, mediante la mediazione della Chiesa, dal sacramento, cui è legata inscindibilmente anche la parola. Parola e sacramento sono gli elementi che costituiscono la Chiesa come istituzione [43].

Ne consegue che neppure il concetto di autonomia della persona, legato a quello della fondamentalità, non è applicabile all’interno dell’ordinamento giuridico della Chiesa, almeno nella concezione che la Chiesa cattolica ha di se stessa. Ciò evidentemente non significa che il fedele non goda di una propria autonomia [44], ma solo che i presupposti teorici e le implicazioni giuridiche legate al concetto moderno di autonomia o di libertà non sono applicabili, secondo la stessa valenza culturale, alla costituzione della Chiesa, poiché si rivelano essere in contrapposizione con la sua struttura che è quella della comunione.

Non bisogna dimenticare che una delle ramificazioni genealogiche del problema dell’autonomia dell’uomo, così come è intesa dalla cultura moderna, è stata l’idea luterana della giustificazione. Concepita come una non «imputatici peccati», ha creato un rapporto di libertà «coram Deo» che sottrae l’uomo ad ogni mediazione umana [45].

Questo modo di concepire la «libertas christiana» luterana svincola l’uomo da ogni legame storico istituzionale: dallo Stato e dalla Chiesa. Il rapporto con la socialità cessa di essere strutturalmente intrinseco ed è regolato estrinsecamente solo dall’amore verso il prossimo, che a sua volta è il frutto della libera azione di Dio nell’uomo.

Tale concetto di autonomia, anche se fosse in grado di cancellare la mediazione istituzionale dello Stato nei confronti della coscienza umana, non riesce a cancellare la mediazione istituzionale della Chiesa. Ciò significa, fra le altre cose, che anche i diritti del fedele non possono essere in alcun modo configurati alla stregua di diritti fondamentali, come i diritti dell’uomo nella struttura costituzionale dello Stato.

Il riconoscimento dei doveri-diritti del fedele non ha cambiato la struttura costituzionale della Chiesa, anche a prescindere dal fatto formale che essi sono contenuti solo in un Codice.

Evidentemente, se non è possibile contrapporre la persona del fedele all’istituzione, spesso identificata indebitamente con l’autorità (dal momento che anche il fedele appartiene alla istituzione) non è possibile neppure contrapporre l’autorità al fedele. Questa è una delle implicazioni nuove dell’«aequitas canonica», istituto che da sempre determina i nessi strutturali di tutto l’ordinamento giuridico della Chiesa.

In questa ottica devono essere lette e interpretate non solo le due clausole garantistiche del can. 233, ma anche tutte le altre disseminate senza parsimonia lungo tutto il catalogo dei doveri-diritti del fedele che, globalmente prese, risultano eccessive rispetto al bisogno di sicurezza giuridica [46].


IX. La tutela giuridica dei diritti

Il problema della tutela giuridica esigerebbe per la sua complessità una trattazione a parte. In questa sede è sufficiente far alcune brevi osservazioni.

Contrariamente al can. 22 § 1 della LEF e al can. 35 dello SCH, il can. 221 § 1, ribadendo il principio della tutela giuridica dei diritti del fedele, oblitera la menzione esplicita della via giudiziaria e della via amministrativa. Si limita a fare un generico rinvio alle norme processuali e amministrative («ad normam iuris»), potenzialmente limitatrici, le cui disposizioni sono il can. 1491 per la via giudiziaria e il can. 1400 per la via amministrativa. I riferimenti per quest’ultima sono i can. 1732-1739 (la «petitio» e il ricorso gerarchico) e il can. 1445 § 2 (la «sectio altera» della Segnatura Apostolica).

a) Per quanto riguarda la tutela giuridica è importante che la dottrina e la giurisprudenza sappiano individuare, nella nuova normativa del CIC, l’esatta configurazione sia dei titolari dei diritti e dei doveri corrispondenti, sia il tipo di azione o di ricorso cui dà luogo la loro violazione.

Una sommaria ricognizione delle disposizioni del CIC consente di constatare che la nomenclatura adottata dal CIC non vede come soggetto solo i fedeli in astratto – in alcuni casi, come abbiamo già avuto luogo di constatare, addirittura «sub- introducti» ancora con la veste dei laici -, ma anche i fedeli considerati in concreto, cioè nella veste della posizione giuridica particolare connessa alla loro funzione o attività personale, per esempio di «sacri Pastores» o di «Ecclesiae Pastores», o di coloro «qui disciplinis sacris incumbunt».

Per il differente atteggiarsi delle pretese e degli obblighi che determinano opportunità differenti di tutela dei diritti, un saggio, riferito allo schema della LEF, ma valevole anche per il CIC, è già stato esemplificativamente dato da Mirabelli [47]. I diritti sono espressi talvolta mediante proposizioni che affermano un diritto, enunciato attraverso l’opposta situazione di dovere o di divieto di porre illegittimamente atti lesivi nei confronti di chiunque, o solo dei titolari di «uffici», ed assume la veste di pretesa azionabile per la rimozione della lesione. Altre volte, la garanzia è enunciata direttamente come diritto, con valenza negativa, che può espandersi sino alla pretesa di rimozione degli effetti contrari in un’azione diretta all’accertamento dell’atto viziato. Altre volte ancora, l’interesse protetto esige la partecipazione altrui ed è tutelabile con azioni indirette, per ottenere la prestazione di un comportamento doveroso. Da ultimo, disposizioni permissive che consentono un «facere» del titolare ed esigono l’astensione dal porre in essere di atti ostativi, e dove l’azionabilità si afferma solo nei confronti di interventi che impediscono, o rendono difficoltoso, l’esercizio del diritto.

b) Anche per quanto riguarda la via amministrativa il problema è analogo. Si tratta di approfondire l’analisi della struttura propria alle singole fattispecie in cui si configura la violazione della legge, l’errore «sive in decernendo sive in procedendo», l’abuso di potere o l’indebito uso dello stesso, oppure di individuare le fattispecie dei diritti soggettivi ed eventualmente degli interessi legittimi, passibili di protezione.

Si tratta di un lavoro scientifico in atto da oltre un decennio [48]. Mentre però la teoria generale concernente la struttura degli strumenti giuridici, che permettono l’azionabilità dei diritti, ha assunto, nella scia del diritto romano e germanico, un livello di universalità che le ha permesso di essere recepita nella sua sostanza anche dall’ordmamento canonico, l’analisi, sia degli interessi protetti, sia degli strumenti di tutela nel contenzioso amministrativo, rivela ancora l’esistenza di accentuazioni culturali e di esperienze giuridiche profondamente diverse. Il contenzioso amministrativo si è sviluppato negli ordinamenti giuridici statuali moderni in epoca molto recente, così da non più beneficiare, come quello civile, dell’esistenza di una matrice giuridica comune. Una recezione nel diritto canonico si rivela così più difficoltosa, sia dal profilo materiale che da quello formale.

E proprio sul terreno del diritto formale che il CIC, con sorpresa di molti, ha segnato una battuta d’arresto rispetto alle aspettative, forse prematuramente avallate, dal Sinodo dei Vescovi del 1967.

Lo stralcio dal CIC dei tribunali amministrativi delle Conferenze episcopali, che il dispositivo di legge per altro non esigeva come necessari, ha fatto riemergere «volens-nolens» la certezza dell’esistenza di nodi dottrinali, che la dottrina non ha

ancora discusso con il necessario rigore ecclesiologico e scientifico. Non si tratta tanto di capire se la messa in atto facoltativa dei tribunali amministrativi da parte delle singole Conferenze dei vescovi avrebbe in concreto leso il principio della uguaglianza di tutti i fedeli di fronte alla legge, principio consacrato almeno implicitamente dal can. 208. Si tratta piuttosto di capire se la tutela dei diritti dei fedeli contro atti lesivi posti dalla (così detta) «potestas administrativa» coincida necessariamente, nell’ordinamento canonico, con l’introduzione generalizzata dei tribunali amministrativi, i cui presupposti dottrinali hanno la loro ascendenza genealogica nello Stato di diritto.

A rigore la stessa domanda potrebbe essere posta anche per la via giudiziaria, poiché non è detto che la «potestas sacra li- gandi et solvendi» del vescovo, così come si esprime emblematicamente nel sacramento della penitenza, debba assumere imprescindibilmente le stesse modalità di funzionamento giuridico della «potestas saecularis», la cui assonanza con la «sacra potestas» è solo verbale.

R. Sohm non ha sbagliato di molto avanzando l’ipotesi che in regime di cristianità la Chiesa ha assunto una nozione formale di diritto e di giurisdizione stranamente somiglianti a quelli secolari [49]. In effetti è sintomatico il fatto che negli anni del postconcilio molte voci hanno reclamato un ritorno ad una prassi amministrativo-pastorale, ritenuta più consona alla specificità del rapporto discrezionale tra pastori-fedeli, fondato sulla «potestas ligandi et solvendi». Fu reclamato infatti proprio per le cause matrimoniali che, essendo di natura sacramentale, toccano la Chiesa nella sua struttura più vitale [50].

Queste stesse voci non hanno però ravvisato nessuna contraddizione nel fatto di reclamare, magari con tono più alto, l’introduzione generalizzata del contenzioso amministrativo [51].

Evidentemente non si tratta di andare contro la storia. Tuttavia una soluzione in via amministrativa di certi casi matrimoniali, in cui non è possibile produrre le prove giudiziali della nullità, sarebbe auspicabile in nome della «aequitas canonica», che ricomprende con un criterio diverso e senza la stessa rigidità il principio dell’uguaglianza di fronte alla legge. L’applicazione dei principi propri allo Stato di diritto, dove lo Stato è giustamente sottoposto al giudizio del cittadino, non è un fatto assolutamente scontato per l’ordinamento canonico.

Il contenzioso amministrativo esercitato dal potere primazia- le su quello episcopale non pone difficoltà di principio, esistendo un rapporto gerarchico. Essendo invece la «potestas» delle conferenze dei vescovi solo episcopale, i termini del problema cambiano. I vescovi eserciterebbero ultimamente una giurisdizione su se stessi. Ciò non ha nulla in comune con l’istituto dell’autocontrollo del potere. E sintomatico a questo proposito che il nuovo CIC ha rinviato i vescovi al giudizio della Santa Sede non solo per i casi penali ma anche per quelli del contenzioso civile (can. 1405 § 3 n. 1).

Anche questa ultima considerazione non sarebbe decisiva in ordine ad un giudizio finale sul problema, poiché è un fatto che i concili particolari, almeno fino al xn secolo, hanno esercitato una «potestas iudicialis» anche sui vescovi [52]. Il problema deve perciò essere risolto a un livello più profondo.

Solo in un sistema di separazione dei poteri, così come esiste negli ordinamenti giuridici statuali, è possibile che i funzionari siano giudicati da un altro potere che non è gerarchico intrinsecamente, cioè dal profilo materiale, ma solo dal profilo formale. I vescovi non sono funzionari della Chiesa e il loro compito, né primario né esclusivo, sarebbe quello di applicare la legge.

Una procedura amministrativa, come quella prevista dallo SCH del 1982 [53], non solo avrebbe intaccato il vescovo nella coscienza della propria identità, ma avrebbe intaccato nel fedele stesso l’immagine del vescovo, quale capo della Chiesa particolare, al cui potere discrezionale potrebbe essere dovuta ubbidienza anche quando dovesse commettere errore.

Emerge così di nuovo il problema cui abbiamo già accennato in precedenza: il problema che il principio della legalità, appartenente al patrimonio giuridico della cultura moderna più che al diritto naturale, deve rimanere subordinato ai valori ultimi in funzione dei quali sono enunciati tutti i doveri-diritti del fedele, valori che non coincidono con quelli della giustizia naturale [54]. Per non autodissolversi in una esperienza puramente umana, la giustizia di Dio, i cui valori la Chiesa è chiamata a realizzare, sono tutti riconducibili alle tre virtù teologali della fede, speranza e carità.

Per realizzare il principio della legalità e tutelare il fedele non è necessario introdurre un sistema di sindacabilità giudiziaria dell’attività amministrativa del vescovo. Potrebbe bastare un ufficio (o una commissione), chiamato obbligatoriamente in causa dal vescovo o dal fedele nei ricorsi gerarchici, non per pronunciare una sentenza, ma per dare un «parere tecnico» che, per definizione, non vincola il vescovo e permette al fedele di adire l’istanza superiore e il tribunale della Segnatura Apostolica.

L’esperienza fatta sulla base dell’istituto giuridico, introdotto con il can. 1733 § 2, e quelle in atto a livello di certe Chiese particolari a proposito della procedura amministrativa per l’esame della dottrina, potrebbero offrire elementi per uno sviluppo futuro della normativa del CIC in questa direzione.

c) Il problema della tutela giuridica si pone anche nel settore normativo, dal momento che i diritti dei fedeli possono essere lesi anche «ex actu potestatis legislativae».

Assieme alla LEF sono caduti i canoni: 85, che assicurava (in modo ridondante rispetto al can. 87), la prevalenza delle norme della LEF sulle altre leggi, sia universali che particolari; il can. 86, che prevedeva una duplice garanzia giurisdizionale per il rispetto delle norme della LEF da parte degli atti normativi: il controllo diffuso, rimesso alla competenza di ogni tribunale, che si esprime nella disapplicazione giurisdizionale dell’atto normativo viziato, e il controllo accentrato, nelle mani del pontefice, che consentiva di dichiarare invalido l’atto normativo contrastante con la LEF. Da ultimo il can. 87, che stabiliva che la LEF poteva essere abrogata o derogata dalla fonte che l’aveva emanata, il Pontefice, alla sola condizione che ciò fosse esplicitamente dichiarato [55].

Dal momento che la LEF non poteva avere carattere costituzionale, nel senso statuale del termine, né si poneva come se l’avesse, si deve concludere che, pur non essendo stati recepiti dal CIC questi meccanismi legislativi di tutela, il problema della protezione dei diritti dei fedeli contro atti normativi lesivi rimane attuale in un regime di codificazione.

Del resto anche la LEF aveva proposto semplicemente soluzioni tecniche nuove per affrontare un problema giuridico non nuovo. Da sempre infatti è esistito il problema della violazione di disposti legislativi universali da parte della legge particolare, anche se non è mai stato risolto giuridicamente in termini soddisfacenti. Infatti, dopo Trento fino ad oggi, si è ricorsi pragmatisticamente all’istituto del controllo preventivo da parte della S. Congregazione del Concilio, applicato in particolare alle decisioni legislative dei Concili particolari [56].

Il problema rimane oggi attuale anche senza la LEF, poiché i diritti del fedele, nella misura in cui si esprimono come declinazioni esatte dal diritto divino positivo o da quello naturale, costituiscono un vincolo, non solo per la «potestas administrativa», ma anche per quella «legislativa»; «non già sotto il profilo della gerarchia formale delle fonti, bensì sotto l’altro, sostanzialmente più robusto, anche se formalmente più equivoco, della gerarchia materiale». Ciò in forza del fatto che i diritti del fedele, «nella misura in cui sono coessenziali dell’essere persona nell’ordinamento canonico e costituiscono il nucleo inviolabile del patrimonio giuridico del cristiano, come tali, si impongono all’osservanza, oltre che degli altri individui, di ogni autorità» [57].

Malgrado la loro non fondamentalità, come ho cercato di dimostrare in precedenza, i diritti del fedele, nella misura in cui sono fondati nel diritto divino, sono inviolabili da parte di qualsiasi fonte normativa. Di qui l’importanza di riuscire a determinare con sicurezza la loro struttura ontologica, poiché essi hanno una diversa pretesa sostanziale di tutela, a seconda che siano fondati nel diritto divino, in quello naturale o, più semplicemente, nei principii generali del diritto o nel diritto umano.

Ciò che è cambiato, rispetto alla tradizione canonica precedente e al CIC 1917 in particolare, non è il fatto di aver preso coscienza della gerarchia materiale delle fonti, ma il fatto che il fedele è emerso dal CIC come protagonista principale della vita della Chiesa e del suo ordinamento giuridico. In ciò ha sostituito il clero e in particolare la gerarchia, che in forza dello stesso processo di personificazione con il quale la filosofia illuminista aveva identificato lo Stato con la società, era stata anch’es- sa spesso identificata con la Chiesa. Il giudizio pronunciato da U. Stutz nel 1918, malgrado i diversi tentativi di replica, appare sempre più vero: il CIC del 1917 era «ein fast ausnahmslos Geistlichkeitsrecht» [58].

Il problema si ripropone oggi con una maggiore urgenza poiché, grazie al principio della uguaglianza «in dignitate et actione», i diritti dei fedeli risultano essere, con maggior evidenza di prima, non meno forti dei diritti dei Pastori anche senza che per questo cambi la struttura gerarchica della Chiesa.

Il fatto che la scoperta della figura del fedele avvenga contemporaneamente alla vigorosa affermazione, da parte del magistero, della dignità della persona umana, rende solo più sensibile la nostra coscienza. Permette di capire con più chiarezza che le disposizioni concernenti i diritti dei fedeli non si pongono solo come norme di garanzia negativa rivolte a impedire atti lesivi, ma attribuiscono ad essi una funzione di garanzia anche positiva, cioè programmatica, che impegna, gli altri soggetti e il potere, a un «facere», non solo nel momento esecutivo e giudiziario, ma anche in quello legislativo. Il «facere» potrebbe consistere nel riprendere, senza i condizionamenti in cui si era imbrigliata la LEF, il problema della tutela dei diritti dei fedeli contro atti normativi lesivi, sottordinati rispetto alla legislazione della Chiesa universale [59].

 

 

[1] Cfr. R. Zippelius, Grundrechte, II: Grundsätzliches, in: EvStLex, Stuttgart-Berlin 1975, 925-926.

[2] Cfr. E. Corecco, Presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo «Codex», in: Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, Bologna 1983, 37-68.

[3] Cfr. N. Irti, L’età della decodificazione, Milano 1979, 3-39.

[4] Su tutto il problema cfr. P. Hinder, Grundrechte in der Kirche: eine Untersuchung zur Begründung der Grundrechte in der Kirche, Freiburg-Schweiz 1977, 81-99.

[5] Oltre al can. 87 valgano come riferimento generale i Tit. XVIII e XIX del II Libro: De fidelibus consociationibus in genere… et in specie (can. 684-725), dove la distinzione tra fedeli e laici emerge abbastanza nitidamente.

[6] Cfr. E. Corecco, Presupposti culturali…, cit., 49-52.

[7] Cfr. R. Astorri, La Conferenza episcopale svizzera. Analisi storica e canonica, Fri- bourg 1983 (Ricerca finanziata dal Fondo Nazionale Svizzero per la Ricerca Scientifica, spec. cap. II, in pubblicazione).

[8] Cfr. per esempio, P. de Laubier, La pensée sociale de l’Église catholique, Paris 1979; così pure la sintesi di F. Biffi, I diritti umani da Leone XIII a Giovanni Paolo II, in: I Diritti umani: dottrina e prassi, a cura di G. Concetti, Roma 1982, 199-243.

[9] Se avesse carattere solo funzionale lo «status» delle persone cambierebbe cambiando la funzione. Allora avrebbe ragione il Rahner (Über das Laienapostolat, in: Schriften zur Theologie, II, Einsiedeln-Zürich-Köln 1964, 331-373; Id., Pastorale Dienste und Gemeindeleitung, «Stimmen der Zeit» 195 [1977], 733-743), secondo cui un laico che assume un impegno stabile nella Chiesa perde il suo statuto laicale per entrare a far parte di quello clericale. Sulla questione, cfr. E. Corecco, La “sacra potestas” e i laici, «Studi parmensi» 28 (1980), 3-36.

[10] Questo catalogo è ripreso da Hinder, op. rit., 98-101. Cfr. anche J. Bernhard, Les droits fondamentaux dans la perspective de la «Lex fundamentals» et de la révision du code de droit canonique, in: I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella Società. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico (Friburgo-Svizzera, 6-11 ottobre 1980), a cura di E. Corecco-N. Herzog-A. Scola, Fribourg Suisse-Frei- burg i.Br.-Milano 1981, 378.

[11] Per una bibliografia antecedente al IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico di Friburgo del 1980 cfr. H. Schnizer, Individuelle und gemeinschaftliche Verwirklichung der Grundrechte, in: I diritti fondamentali del cristiano, cit., 420, n. 3.

[12] Su questo problema cfr. A. Rouco Varela, Fundamentos eclesiológicos de una teoría general de los derechos fundamentales del cristiano en la Iglesia, in: I diritti fonda- mentali del cristiano, cit., 53-78; W. Aymans, Munus undSacra potestas, in: ibidem, 185- 202; Id., Kirchliche Grundrechte und Menschenrechte, AfkKR 149 (1980), 389-409.

[13] Cfr. E. CORECCO, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella Società: aspetti metodologici della questione, in: I diritti fonda- mentali del cristiano, cit., 1219-1222.

[14] L’analisi di questi problemi discussi dalla dottrina è stata fatta da Hinder, op. cit., 102-167. Sulla fondazione dei diritti dell’uomo, cfr. A. Scola, L’alba della dignità umana, Milano 1982, spec. 165-185.

[15] Cfr. Schnizer, op. cit., 423-424.

[16] La comparazione dei due cataloghi, quella dello SCH del 1977 e quello della LEF del 1979, è stata fatta da Schnizer, op. cit., 424-426. Ci scostiamo dall’analisi dell’A. solo per il diverso modo di determinare le singole fattispecie.

[17] Cfr. «Communicationes» 12 (1980), 37-44; 77-91.

[18] Cfr. ibidem, 49.

[19] Cfr. ibidem, 90.

[20] Cfr. ibidem, 43-44.

[21] Can. 580, 590 § 3, 631 § 1, 708, 716 § 1, 717 § 3, 722 § 1 e 2.

[22] Per esempio LG 12, 2, in cui si asserisce che il giudizio sulla genuinità e l’ordinato uso dei carismi spetta all’autorità ecclesiastica, alla quale soprattutto incombe il dovere di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono. Cfr. anche LG 4, 1; 7, 3; 30, 1; 50, 1; AA 3, 4; 30, 6; AdG 4, 1; 23, 1; 28, 1; PO 4, 2.

[23] Cfr. E. Coeecco, Valore dell’atto «contra legem», in: Actas del III Congreso Internacional de Derecho Canònico (Pamplona, 10-15 de octubre 1976), Pamplona 1979, I, 845-850.

[24] Cfr. Schnizer, op. cit., 430-434.

[25] Cfr. Communicationes 12 (1980), 43.

[26] Cfr. il testo alternativo proposto da Bernhard, op. cit., 393.

[27] Cfr. C. Mirabelli, La protezione giuridica dei diritti fondamentali, in: I diritti fondamentali del cristiano, cit., 410-418.

[28] Cfr. E. CORECCO, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali, cit.

[29] Cfr. R. Sobanski, Die methodologische Lage des kanonischen Rechtes, AfkKR 147 (1978), 369-372.

[30] Sul problema cfr. A. Hollerbach, Grundwerte und Grundrechte in der Gesellschaft und im Staat, in: I diritti fondamentali del cristiano, cit., 811-833; A. DE Fuen- MAYOR, Derechos fundamentales y familia cristiana, in: ibidem, 910-912.

[31] Cfr. P. Fedele, Lo spirito del diritto canonico, Padova 1962, 231-293.

[32] Per esempio da P. Bellini, Libertà e Dogma: autonomia della persona e verità della fede, Bologna 1984, 117-195. Lo stesso testo in: EphlurCan 34 (1978), 211-246. Alle stesse conclusioni, ma con una impostazione meno ideologica perviene anche S. Lariccia, Considerazioni sull’elemento personale dell’ordinamento canonico, Milano 1971, 60-62.

[33] Cfr. U. SCHEUNER, Les droits de l’homme à l’interieur des Eglises protestantes, RevHistPhilRel (1976), 37,9-397.

[34] Cfr. A. Verdross, Abendländische Rechtsphilosophie, Wien 19632, 128-163.

[35] È lo stesso rapporto che secondo S. Tommaso esiste tra le norme e la coercizione nella nozione formale di diritto, cfr. De ventate, q. 23, art. 4, ad 1.

[36] Cfr. E. Corecco, Riflessione giuridico-istituzionale su sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, in: Popolo di Dio e sacerdozio, Atti del IX Congresso Nazionale dell’ATI (Cascia, 14-18 settembre 1981), Padova 1983, 80-129.

[37] Cfr. W. Aymans, Das synodale Element der Kirchenverfassung, München 1970, 318-366.

[38] Cfr. H. U. von Balthasar, Das Ganze im Fragment: Aspekte der Geschichtstheologie, Einsiedeln 1963.

[39] Cfr. A. Hollerbach, op. eit., 815-920.

[40] Cfr. R. Zippelius, op. eit., 926-927.

[41] Cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali, cit., 1219-

1222.

[42] Cfr. A. Rouco Varela, op. dt., 73-77.

[43] Cfr. K. Mörsdorf, Wort und Sakrament als Bauelemente der Kirchenverfassung, AfkKR 134 (1965), 72-79.

[44] Cfr. G. Feliciani, Le basi del diritto canonico dopo il codice del 1983, Bologna 1984, 121-123.

[45] Cfr. T. Rendtorff, Das Verfassungsprinzip der Neuzeit, in: Handbuch der christlichen Etik, hrsg. von A. Hertz-V. Korff-T. Rendtorff-H. Ringelin, Freiburg i.Br.- Basel-Wien, II, 1978, 226-230.

[46] A. Metz (Droits de l’homme ou droits du chrétien dans le projet de la «Lex Fun- damentalis»? Quelques réflections, in: Festschrift Panzram, Freiburg i.Br. 1972, 85) parla a questo proposito di un «reflex de défense».

[47] Op. dt., 408-409.

[48] Cfr. per esempio, I. Gordon, De iustitia administrativa ecclesiastica tum transado tempore tum hodierno, PRMCL 61 (1972), 251-378; R. Coppola, Intorno al concetto di anormalità nell’atto amministrativo canonico, Napoli 1975; Z. Grocholewski, La “Sectio Altera’’ della Segnatura Apostolica, con particolare riferimento alla procedura in essa eseguita, «Apollinaris» 54 (1981), 65-110.

[49] Das altkatholische Kirchenrecht und das Dekret Gratians, München-Leipzig 1918, spec. 597-614.

[50] Per esempio, P. Huizing, Die Funktion kirchlicher Entscheidung: zur theologischen Bewertung von Ehegerichten, «Concilium» 9 (1973), 466-473.

[51] Per esempio, P. Huizing, Das Problem der Trennung von Obrigkeitsfunktionen in der Kirche, «Concilium» 7 (1971), 202-203; J.A. Coriden, Die Menschenrechte in der Kirche: eine Frage der Glaubwürdigkeit und Autentizität, «Concilium» 15 (1979), 234-239.

[52] Cfr. H. Schmitz, Apellatio extraiudicialis, Mùnchen 1970.

[53] Per una critica alla soppressione nel nuovo CIC della procedura amministrativa cfr. R. Bertolino, La tutela dei diritti nella Chiesa: dal vecchio al nuovo codice di diritto canonico, Torino 1983, 150-157.

[54] Cfr. G. Barberini, Lordinamento della Chiesa e il pluralismo dopo il Valicano II, Perugia 1979, 14-18.

[55] Cfr. C. Mirabelli, op. dt., 412-415.

[56] Con la Bolla Immensa aeterni del 1588 Sisto V ha attribuito alla Congregazione del Concilio il diritto di esame e revisione dei Concilii provinciali; cfr. J F. von Schulte, Die Geschichte der Quellen und Literatur des Canonischen Rechts von der Mitte des 16. Jahruhnderts bis zur Gegenwart, III/1, Stuttgart 1880, 80.

[57] Cfr. C. Mikabelli, op. dt., 415.

[58] Der Geist des CIC, Stuttgart 1918, 83-89.

[59] Cfr. C. Mirabelli, op. dt., 416-418.

La teologia della Chiesa particolare si è posta in questo ultimo trentennio come proposta alternativa alla teologia della Chiesa universale, dominante nella Chiesa latina dal Medioevo al Vaticano II Se si deve constatare che non esiste, contrariamente a quanto l’ecclesiologia occidentale ha per troppo tempo affermato, una priorità della Chiesa universale su quella particolare, sarebbe altrettanto scorretto sostenere la priorità di quest’ultima sulla Chiesa universale.

Dal profilo costituzionale Cristo non ha fondato né la Chiesa universale, né quella particolare, ma un’unica Chiesa, con una duplice dimensione, universale e particolare. Senza voler sottovalutare altre eventuali matrici, come la riscoperta in Occidente della teologia orientale, sembra accertato che l’impulso primario alla cosiddetta teologia della Chiesa particolare provenga, sia dalla riflessione dottrinale sulle missioni, che dalle istanze di democratizzazione delle strutture ecclesiali.

Il riconoscimento del valore delle culture non occidentali, strappato magari a forza dai risvegli nazionalistici, e il progressivo affievolirsi della mentalità colonialista, hanno provocato un ripensamento teologico dell’azione missionaria della Chiesa. Da una missione intesa, nell’orizzonte di una teologia della Chiesa universale, come propagazione della fede per la salvezza degli infedeli, si è passati ad una missione intesa come «plantatio Ecclesiae». Questa concezione ha posto in modo irreversibile il problema della Chiesa particolare.

Mentre in un primo tempo l’impegno prioritario fu quello di smantellare le sovrastrutture occidentali (lingua latina, diritto comune, ecc.) per valorizzare la cultura e il diritto consuetudinario indigeni, in un secondo tempo la revisione dottrinale ha intaccato più in profondità la questione. Oltre all’immagine socio-culturale europea della Chiesa, è stata ridiscussa anche quella ecclesiologica – ad essa legata – della Chiesa universale, che per sua natura non teneva sufficientemente conto delle nuove culture.

Caratterizzando però la Chiesa locale non a partire dalle sue proprietà teologiche essenziali, bensì dall’ambiente culturale in cui essa esisteva, la nuova teologia della Chiesa particolare riproponeva lo stesso equivoco, in cui era già incappata la teologia della Chiesa universale, di saldare il cristianesimo, malgrado la sua trascendenza escatologica, con una cultura determinata, di cui le espressioni, Chiesa latina o orientale, non sono meno ambigue di quelle di Chiesa africana, americana o italiana, spesso appena camuffate da espressioni ecclesiologiche più corrette, come quelle di Chiesa in Europa, in Africa o in Italia [1].

Il secondo motivo che ha dato origine ad una ecclesiologia della Chiesa particolare è quello della istanza di democratizzazione. Le sue matrici sono, dal profilo culturale, l’esperienza della democrazia moderna e, dal profilo teologico, senza dubbio prevalente, la riscoperta, ad opera del Vaticano II, del sacerdozio comune di tutti i fedeli e, per riflesso, del laicato. Evidentemente, il discorso sulla democratizzazione della Chiesa non è stato fatto in rapporto alla Chiesa universale, dove la collegialità episcopale erige un ostacolo insormontabile, ma in rapporto alla Chiesa particolare, quasi che la struttura costituzionale di quest’ultima fosse essenzialmente diversa da quella della Chiesa universale. Le strutture di partecipazione «sinodale», direttamente o indirettamente promosse dal Vaticano II per la Chiesa particolare, furono sovente equivocate e vissute come strutture democratiche parallele a quelle statuali e, conseguentemente, pensate in funzione di una ridistribuzione del potere dall’alto verso il basso. Ciò, nella speranza di attenuare il principio gerarchico con quello maggioritario, dimenticando che solo il ministro ordinato, investito dell’ufficio ecclesiale, può svolgere la funzione di rappresentare tutta la comunità e garantire l’unità della Chiesa [2].

Il punto di riferimento per una ecclesiologia atta a rivalutare la Chiesa particolare nella pienezza della sua funzione costituzionale, senza ricadere nelle unilateralità della teologia della Chiesa universale, è la formula ecclesiologica di LG 23,1, secondo cui la Chiesa universale si realizza nelle e dalle Chiese particolari «in quibus et ex quibus una et unica Ecclesia catholica exsistit» [3]; formula ripresa dal CIC nel can. 368. I risvolti di questa formula sono molteplici dal momento che essa significa: a) che la Chiesa universale non esiste in se stessa, quasi possedesse una consistenza e un luogo di esistenza propri, ma esiste solo laddove essa si realizza in una Chiesa particolare. Essa esiste solo in modo concomitante ad una Chiesa particolare «in quibus»; b) che la Chiesa universale è formata da tutte le Chiese particolari, per cui non è una realtà astratta, ma storicamente concreta che coincide di fatto con tutte le Chiese particolari. E un «corpus Ecclesiarum» (LG 23,2), nozione non recepita dal CIC, o una «Communio Ecclesiarum». Anzi, la stessa Chiesa universale che si realizza in quelle particolari, è quella medesima realtà che si costituisce da tutte le Chiese particolari «ex quibus»; c) ne consegue, che in ogni Chiesa particolare sono ontologicamente presenti tutte le altre Chiese particolari, attraverso la mediazione della Chiesa universale, di cui esse sono gli elementi costitutivi. La Chiesa particolare è Chiesa solo nella misura in cui realizza in se stessa tutti i valori e tutti gli elementi essenziali e comuni, propri a tutte le Chiese particolari, la cui comunione con la Chiesa romana è «piena». La struttura profonda del ministero della Chiesa è perciò essenzialmente una struttura di immanenza: immanenza reciproca e totale della Chiesa universale e particolare «universalia in rebus»

Solo quando questa immanenza si realizza con tutta la sua totalità si realizza anche la nota della «communio piena», prerogativa della Chiesa cattolica, dal momento che in essa, per definizione «sussiste» l’unica Chiesa di Cristo (can. 204 § 2) in tutta la sua verità strutturale e costituzionale e, in particolare, secondo l’immanenza perfetta che in essa si realizza tra la dimensione universale e quella particolare. Tutte le altre soluzioni sono ecclesiologicamente fuorvianti, perché elidono il primo o il secondo elemento. La tradizione ortodossa tende infatti a concepire la Chiesa universale platonicamente «universalia ante res», come un modello o archetipo trascendente, che non esiste concretamente nella storia, ma che si realizza nelle singole Chiese particolari in modo sempre uguale. Enfatizzando l’«in quibus», l’ortodossia orientale non riesce perciò a concepire l’unità della «Communio Ecclesiarum» attorno ad un fatto istituzionale [4]. L’unità è garantita solo dal modello trascendente, comune a tutte le Chiese autocefale. La tradizione protestante enfatizza per contro, nominalisticamente «universalia post res», il secondo elemento, cioè l’«ex quibus». Esistono solo le Chiese particolari, non la Chiesa universale. L’unità tra le singole Chiese particolari può trovare espressione, nel segno di una soluzione volontaristica, solo secondo il modello della federazione delle Chiese particolari. L’ostacolo principale ad una concezione corretta della formula ecclesiologica dell’«in quibus et ex quibus» sta nel fatto che Chiesa universale e particolare sono generalmente concepite come due entità materiali diverse, che in forza della loro concretezza storica tendono a rapportarsi secondo una dinamica di potenziale contrapposizione o concorrenzialità reciproca. In realtà non sono due realtà materiali, ma solo due dimensioni formali di un’unica realtà, quella dell’unica Chiesa di Cristo. Ne consegue che la Chiesa particolare, in quanto dimensione locale o concreta imprescindibile dell’unica Chiesa di Cristo che si realizza solo laddove la Parola e il Sacramento si inverano concretamente nel tempo e nello spazio, ha una legittimità costituzionale altrettanto grande della Chiesa universale. Quest’ultima non coincide neppure con il suo organo istituzionale specifico, il collegio dei vescovi con il primato. Il collegio, infatti, nella sua essenza, emerge come duplice risultanza delle Chiese particolari: quella della comunione gerarchica esistente tra i vescovi diocesani con il papa e quella del papa che a sua volta è vescovo di una Chiesa particolare, cioè della Chiesa di Roma.

Questa dottrina è soggiacente al CIC, sia pure in modo molto sintetico, grazie soprattutto alla ricezione, nel can. 368, della formula conciliare «in quibus et ex quibus», parzialmente ripresa nel can. 369 (cfr. CD 11,1). Invece di definire la Chiesa particolare, il CIC, seguendo il Vaticano II, ha formulato una definizione legale della diocesi (can. 369), provocando così una sovrapposizione tra la nozione di quest’ultima e quella della Chiesa particolare. La diocesi è solo una delle possibili forme giuridiche della Chiesa particolare, anche se è quella più strutturata e completa dal profilo istituzionale. In effetti non esiste identità tra Chiesa particolare e diocesi, come lascia intrawe- dere chiaramente anche il can. 372, § 1. A norma del can. 369, gli elementi istituzionali costitutivi della Chiesa particolare sono: l’esistenza di una porzione del Popolo di Dio, di un vescovo e di un presbiterio. Questi tre elementi possono realizzarsi anche in altre figure giuridiche, come nelle prelature e abbazie territoriali, o nelle amministrazioni apostoliche, quando i loro ordinari godessero della dignità episcopale; figure enumerate e definite (per altro tautologicamente), assieme a quelle dei vicariati e delle prefetture apostoliche, nei can. 370- 371. Quando queste circoscrizioni sono rette da un vescovo, il clero in esse presente si costituisce ontologicamente come parte di un presbiterio, di cui il vescovo è il capo. La ragione d’essere del clero, infatti, non è solo funzionale – quella cioè di aiutare il vescovo nello svolgimento del suo ufficio -, ma è di ordine ecclesiologico. Secondo il Vaticano II (PO 7,1) i presbiteri (e forse anche i diaconi) non sono semplici collaboratori utili del vescovo, ma collaboratori necessari. Per queste e per altre ragioni derivanti dalla struttura ontologica stessa del presbiterio, si deve concludere che la figura teologica del vescovo (non titolare) si realizza sempre e inevitabilmente come figura di capo di un presbiterio. La nozione di «vescovo diocesano» utilizzata dal can. 376 per designare tutti i vescovi non titolari, è riduttiva, perché anche un prelato territoriale vescovo (come del resto un abate o un amministratore) realizza, dal profilo teologico, la stessa figura ecclesiologica del vescovo diocesano, pur non essendolo dal profilo giuridico. Ne consegue che l’istituto della «assimilazione», utilizzato dal can. 368 per equiparare le prelature e le abbazie territoriali, i vicariati, le prefetture e le amministrazioni apostoliche alle diocesi, non può essere in nessun modo applicato in relazione alle Chiese particolari, come invece potrebbe suggerire l’ambigua formulazione del testo. Mentre è possibile attribuire la stessa rilevanza giuridica, «ex parte» o «in toto», a due realtà di estrazione istituzionale positiva (per esempio, prelatura personale e diocesi) non è possibile applicare l’istituto giuridico dell’assimilazione a due realtà ecclesiologicamente differenti (per esempio, prefettura apostolica e Chiesa particolare). Il CIC non risolve correttamente neppure il caso della amministrazione apostolica. Nell’ipotesi che questa sia retta da un vescovo, non è ecclesiologicamente esatto affermare, come fa il can. 371, § 2, 9, che essa è retta dal suo ordinario, non «nomine proprio», ma «nomine Summi Pon- tificis», alla stessa stregua dei vicariati e delle prefetture. Le amministrazioni apostoliche rette da un vescovo, come del resto le prelature e le abbazie territoriali, sono vere e proprie Chiese particolari anche se non sono costituite giuridicamente come diocesi.

Queste precisazioni sono fondamentali per comprendere le implicazioni profonde della natura della Chiesa particolare, che, a differenza di ogni altra realtà o figura giuridica, è Chiesa nel senso proprio del termine, grazie al fatto che in essa – e in essa sola – si realizza l’unica Chiesa di Cristo con tutta la sua dimensione universale. Ne consegue che una Chiesa particolare non può essere manipolata dal profilo giuridico ispirandosi a criteri legislativi puramente positivistici. Analoghe imprecisioni del CIC nel cogliere a livello legislativo la struttura della Chiesa particolare emergono anche in altri settori vitali dell’ordinamento, come in quello delle dispense e in quello delle persone giuridiche. In ordine all’istituto della dispensa, il can. 87 tratta i vescovi diocesani alla stessa stregua di tutti gli altri ordinari, senza lasciare affiorare la specificità che li contraddistingue dal profilo ecclesiologico e giuridico. Mentre i primi posseggono la facoltà di dispensare dal diritto universale «ex sese», cioè in forza del fatto di possedere l’ordine episcopale e di essere pastori di una Chiesa particolare, i secondi, come i prelati e gli abati territoriali, i vicari, i prefetti e gli amministratori apostolici, oltre a tutti i vicari generali non vescovi o vescovi solo titolari, posseggono queste facoltà solo in forza di una delega «ex iure». Anche nell’ambito delle persone giuridiche la posizione della Chiesa particolare non è stata diversificata con sufficiente preoccupazione ecclesiologica dagli altri enti canonici pubblici. Il can. 113 distingue tra le persone morali e quelle giuridiche, per sottolineare il fatto che queste ultime sono istituti creati «ex iure» o «ex concessione». La Chiesa cattolica e la Santa Sede, non essendo erette in forza del diritto positivo, sono qualificate invece come persone morali. Le Chiese particolari, pur essendo poste in essere storicamente grazie a un intervento amministrativo dell’autorità, non sono sussumibili tra le persone giuridiche pubbliche come gli altri enti di diritto positivo, che non affondano le radici della loro esistenza nello «ius divi- num». Come la Chiesa di Cristo e la Santa Sede, anche le Chiese particolari sono necessarie «ex ipsa ordinatione divina», pur non essendo da essa determinate nella concretezza storica della loro esistenza. Sono, infatti, elementi costitutivi della stessa Chiesa di Cristo, che, nella sua universalità, si realizza in esse e da esse. La loro erezione concreta è perciò un fatto solo contingente e determinativo rispetto alla loro necessarietà costituzionale. Anche a voler prescindere dal fatto che il diritto divino non conosce persone morali e giuridiche, il CIC avrebbe colto meglio l’identità ecclesiologica delle Chiese particolari se le avesse qualificate come persone morali alla stessa stregua della Chiesa cattolica e della Santa Sede (cfr. anche il can. 1257, § 1).

Da queste considerazioni si deve concludere che anche la nozione di «autonomia», sovente utilizzata dalla canonistica per definire la posizione costituzionale della Chiesa particolare in seno a quella universale, non è corretta. Essa connota l’incorporazione di una parte in un tutto ritenuto superiore, come per esempio le province e i comuni nello Stato. Nella nozione di autonomia viene a mancare sia l’elemento dell’«in quibus» che quello dell’«ex quibus», poiché la parte non si costituisce come una realtà in cui si realizza il tutto e il tutto non risulta costituito da parti aventi un’esistenza propria. Se non fosse anch’essa culturalmente e giuridicamente legata all’idea di indipendenza da altre realtà, la nozione di sovranità esprimerebbe con maggiore approssimazione almeno l’idea che il tutto, come in una confederazione di Stati, è formato da parti in possesso di una consistenza ontologica propria, che può essere parzialmente limitata in favore di un’unità più grande. Tuttavia anche in questo caso viene a mancare per lo meno l’«in quibus». Ne consegue che la posizione costituzionale della Chiesa particolare in seno alla Chiesa di Cristo, proprio perché è solo una dimensione formale della stessa, non è definibile con categorie politicogiuridiche derivate dal sistema statuale moderno. Il mistero della «Communio Ecclesiae et Ecclesiarum», che è il mistero dell’immanenza reciproca e della inseparabilità di tutti gli elementi costitutivi della Chiesa (Parola e Sacramento, Sacerdozio comune e ministeriale, fedele e comunità ecclesiale, ecc.), non è traducibile adeguatamente con categorie razionali mondane. Lo sforzo comunque compiuto dal CIC per esprimere il rapporto tra Chiesa universale e particolare, più che a livello teorico è visibile a livello delle opzioni positive, come nella ripartizione delle competenze tra i due aspetti della Chiesa. La sua preoccupazione non è più quella universalistica del CIC del 1917, che aveva cercato di unificare tutta la disciplina ecclesiale applicando il principio medioevale «unum imperium, unum et ius», ma quello di garantire un maggiore equilibrio costituzionale tra la Chiesa universale e quella particolare [5]. In effetti, il rinvio alla legislazione della Chiesa particolare non sembra più essere, come nel 1971, una contingenza sulla quale il legislatore decide volta per volta, bensì un principio coessenziale allo spirito del nuovo ordinamento giuridico [6].

 

 

[1] Cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, in: La Chiesa locale, cit., 17-38.

[2] Cfr. E. Corecco, Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?, SILT «Communio» 1 (1972), 32-44.

[3] Cfr. W. Aymans, Das synodale Element in der Kirchenverfassung, München 1970, 318-330.

[4] Cfr. Y. Congar, De la communion des Églises à une ecclésiologie de l’Église universelle, in: L’Épiscopat et l’Église Universelle, cit., 227-260.

[5] Cfr. E. Coeecco, I presupposti culturali ed ecclesiologici del nuovo «Codex», in: Il nuovo codice di diritto canonico, a cura di S. Ferrari, Bologna 1983, 39-43.

[6] Cfr. H. Schmitz, Gesetzgebungsbefugnis und Gesetzgebungskompetenzen des Diö- zesanbischofs nach dem neuen CIC von 1983, AfkKR 152 (1983), 62-75.

 


 

Bibliografia

Aa.Vv., L’Episcopat et l’Eglise Universelle, Ouvrage publiée sous la direction de Y. Congar et B.-D. Dupuy, Paris 1964; E. Corecco, Il Vescovo, capo della Chiesa locale, protettore e promotore della disciplina locale, «Concilium» 4 (1968), 106-121; Aa.Vv., La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970; W. Aymans, Die “Communio Ecclesiarum” als Gestaltgesetz der einen Kirche, AfkKR 139 (1970), 69-70; P. Chouinard, Les expressions “Eglise locale” et “Eglise particulière” dans Vatican II, Stud. Can. 6 (1972), 115-161; K. Mörsdorf, Eautonomia della Chiesa locale, in: La Chiesa dopo il Concilio, Milano 1972, vol. I, 165-185; W. Beinert, Dogmenhistorische Anmerkungen zum Begriff “Partikularkirche”, Th. Ph. 50 (1975), 38-69; J. Beyer, Chiesa universale e Chiesa particolare, «Vita Consacrata» 18 (1982), 73-87; A. Rouco Varela, Iglesia universal – Igle- sia particular, lus Can. 22 (1982), 221-239; H. Müller, Diözesane und quasidiözesane Teilkirchen, in: Handbuch des katholischen Kirchenrechts, hrsg. von J. Listl-H. Müller-H. Schmitz, Regensburg 1983,329-335; Commission Théologique Internationale, Emique Eglise du Christ, Rapport rédigé pour le Synode par Mgr P. Eyt, Paris 1985.

Legislazione

CIC cann. 368-374.

I. Evoluzioni del principio di solidarietà

Se si prescinde da riferimenti più antichi, che secondo alcuni potrebbero risalire addirittura alla filosofia di Aristotele, mi sembra sostenibile affermare che, nell’ascendenza culturale moderna del principio di sussidiarietà, siano presenti anche elementi propri di quel pensiero liberale, che nel secolo scorso ha sostenuto, non senza enfasi, il primato della persona, privilegiandone il carattere individuale.

Non è un caso che Abraham Lincoln (t 1865), in una situazione storica come quella americana, in cui l’assolutismo radicale e il liberismo economico sviluppatisi negli Stati europei non avevano ancora travolto l’idea liberale stessa, ha lasciato un testo sorprendente. Nel suo tenore pragmatico esso anticipa, sia la valenza positiva (l’aiuto che lo Stato deve dare all’individuo), sia quella negativa (la salvaguardia delle prerogative dell’individuo) di quel principio di sussidiarietà, che solo un secolo più tardi sarà formulato concettualmente ad opera del pensiero e del magistero cattolico.

Il presidente americano, nel pieno rispetto della cultura pragmatica del nuovo mondo, scrisse infatti a metà del secolo scorso che «l’oggetto legittimo del governo è quello di fare per la comunità tutto ciò di cui la gente ha bisogno e che non è capace di fare o non può fare altrettanto bene da sola. In tutto ciò che la gente è in grado di fare bene da sola, il governo non deve immischiarsi» [1].

Tuttavia, è solo nell’«humus» culturale del cattolicesimo dell’epoca susseguente alla I guerra mondiale, che in Germania si pongono le premesse per il primo e decisivo intervento magi- steriale di Papa Pio XI, nella Quadragesimo anno del 1931.

Un cattolicesimo che era confrontato, a nord con l’esperienza totalitaria marxista-leninista e a sud con quella corporativi- sta fascista, e che ha trovato nel Vescovo di Mainz, Wilhelm E. Ketteler (f 1877) – e in Heinrich Pesch (t 1926), fondatore del solidarismo, di cui gli addentellati interiori con il liberalismo capitalista non possono essere sottaciuti – il primo teorico della sussidiarietà [2]. Il merito di averla formulata in termini astratti, vale a dire come principio, spetta tuttavia al continuatore della sua opera, Gustav Gundlach (t 1963) [3].

Pio XI ha fatto propria questa dottrina, non solo utilizzandola per la prima volta nella sua concettualità formale in un testo magisteriale, ma conferendole anche il carisma di essere un principio di diritto naturale. In quanto tale è innegabile che il principio di solidarietà costituisca il nucleo centrale dell’insegnamento della Quadragesimo anno.

L’applicazione all’ecclesiologia di questo principio, proprio della dottrina sociale, è avvenuta solo più tardi e in due contesti culturali molto diversi.

Quando il modello ecclesiologico egemone era ancora quello della Chiesa come «società perfetta», il cui parallelismo strutturale con la definizione giusnaturalistica di società perfetta, riferita allo Stato, era evidente, Papa Pio XII nella sua Allocuzione del 20.12.1946 ha affermato che il principio della sussidiarietà, avendo carattere generale, poteva essere applicato anche alla compagine sociale della Chiesa, senza metterne in forse la struttura gerarchica [4].

Lo stesso Papa ritornò sulla questione undici anni dopo, il 5 ottobre 1957, affermando che il principio di sussidiarietà deve determinare il rapporto tra l’autorità ecclesiale e i fedeli laici, riconoscendo così che si tratta di un principio che lega lo stesso esercizio del potere ministeriale. In alcune occasioni particolari lo hanno seguito anche Paolo VI e Giovanni Paolo IL

Lo stesso principio fu ritenuto applicabile con specifico riferimento all’ordinamento canonico anche dal Sinodo dei Vescovi del 1967, che lo adottò quale principio direttivo per la preparazione della nuova codificazione.

In questo momento il contesto politico ed ecclesiologico era ormai mutato rispetto a quello in cui era intervenuto Pio XII.

Non può evidentemente sfuggire il fatto che la preparazione del nuovo Codex Iuris Canonici (CIC) è avvenuta, per lungo tempo, all’ombra del progetto di una Lex Ecclesiae Fundamen- talis (LEF) che, come è noto, aveva ampiamente subito il fascino del costituzionalismo giusnaturalista statuale moderno.

Questi interventi magisteriali hanno offerto spunto alla prevalente dottrina per rivendicare, non solo la legittimità, ma anche la necessità di ricorrere al principio di sussidiarietà quale criterio di ristrutturazione della Chiesa.

Solo dopo la caduta della LEF e con l’affermarsi con maggior consapevolezza di una concezione ecclesiologica più esplicitamente informata dal principio della «communio ecclesialis», sono sorti i primi dubbi e le prime negazioni sull’applicabilità del principio in ecclesiologia.

A queste incertezze ha fatto puntualmente eco, quasi vent’anni dopo l’intervento di Pio XII, il Sinodo straordinario dei Vescovi del 1985, il quale, probabilmente sullo sfondo della diatriba sorta a proposito della competenza della Santa Sede a intervenire in America sul problema della teologia della liberazione, ha esortato a studiare a fondo la questione, al fine di risolvere il dilemma della applicabilità del principio di sussidiarietà in termini rigorosamente teologici [5].

In effetti, il problema è prima di tutto un problema dottrinale e teorico, che si pone perciò, in quanto tale, prescindendo da ogni sua applicazione contestuale. Il fatto stesso che il principio di sussidiarietà, che, malgrado gli interventi di Pio XII e del Sinodo dei Vescovi del 1967 [6], non è mai stato utilizzato quale principio ecclesiologico dal magistero più solenne del Concilio Vaticano II, sia stato formulato dalla filosofia sociale, sembra escludere «a priori» che esso possa essere utilizzato, senza ristrutturazioni concettuali, nell’ambito vero e proprio della teologia.

Infatti, per affermarne la viabilità teologica, non vale il criterio, secondo cui anche la Chiesa, come ha affermato la Lumen gentium al n. 8, è una società, sia pure non più definita, come nella teologia preconciliare, quale società perfetta.

I fautori della sua adozione in ecclesiologia si appoggiano, in modo acritico, a Wilhelm Bertrams, il noto canonista della Gregoriana, a sua volta discendente spirituale di Pesch e Gund- lach, che grande influsso ha esercitato su certe opzioni del Concilio Vaticano II. In un saggio del 1957, pubblicato da «Periodica» e ripreso in sintesi da varie altre riviste [7], Bertrams ha fatto il tentativo teologico più articolato per applicare il principio di sussidiarietà alla struttura della Chiesa, partendo proprio dall’affermazione base, secondo cui la Chiesa è una società veramente umana, quantunque soprannaturale.

L’acriticità degli autori che ricorrono al Bertrams sta nel non tener conto del fatto che tutta la dottrina di questo autore, protesa a legittimare teologicamente l’esistenza dell’ordinamento giuridico canonico, non supera, dal profilo metodologico, il principio fondamentale utilizzato dalla scuola dello «lus Publi- cuni Ecclesiasticum» e da tutta l’ecclesiologia preconciliare, secondo cui la Chiesa è una società umana e perciò naturale, elevata però all’ambito del soprannaturale [8]. Il metodo dell’elevazione al soprannaturale non è più accettabile in ecclesiologia, poiché pecca di evidente estrinsecismo. Nel caso di Bertrams, infatti, il Diritto canonico, invece di apparire come postulato direttamente dalla struttura storico-salvifica soprannaturale della Chiesa, generata dalla Parola e dal Sacramento, risulta esistente per una necessità di ordine filosofico e sociologico.

Non è più possibile costruire un’ecclesiologia in cui il punto di riferimento, per capire e penetrare l’essenza sociale del mistero della Chiesa, sia la «societas naturalis». La socialità della Chiesa nasce dal substrato umano inerente al popolo di Dio, ma è una socialità originariamente propria, che trova il suo principio formale nella «communio» soprannaturale e non nel rapporto sociale naturale esistente tra i fedeli.

Il Diritto canonico non è il prodotto biologico di una socialità naturale che sarebbe ancora presente nella Chiesa, bensì il prodotto di una convivenza umana specifica, inerente alla sa- cramentalità che lega i fedeli tra di loro, frutto della Grazia e riconoscibile solo per fede. In altre parole non è teologicamente sostenibile far ricorso al principio giusnaturalista «ubi societas, ibi et ius» per giustificare, in termini rigorosamente teologici, l’esistenza dell’ordinamento giuridico della Chiesa.

I valori che determinano la società ecclesiale non sono di origine naturale. Non derivano perciò dalle quattro virtù cardinali, elaborate dal pensiero stoico. La socialità ecclesiale ha come fondamento le virtù teologali e soprannaturali della fede, speranza e carità [9].

L’applicazione in ecclesiologia del principio di sussidiarietà non può essere legittimata teoricamente facendo ricorso agli strumenti concettuali propri del giusnaturalismo e, tanto meno, a criteri di pura futilità funzionale, anche se il ricorso a queste soluzioni spurie e di comodo potrebbe sembrare giustificato dalla difficoltà di affrontare il problema in termini rigorosamente teologici.

In effetti, il problema ultimo, tenendo debitamente conto degli interventi di Pio XII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II, che se non possono essere sottaciuti non devono neppure essere sopravvalutati, non sta nell’applicabilità o inapplicabilità di fatto del principio di sussidiarietà, ma nella ricerca delle ragioni rigorosamente teologiche che militano a loro suffragio.

Questo lavoro non è ancora compiutamente avvenuto. La preoccupazione predominante degli autori, che fino ad oggi hanno preso parte al dibattito, sembra essere stata, prima di tutto, quella di schierarsi «a priori» per Tuna o l’altra tesi, senza preoccuparsi di valutare criticamente i propri argomenti.

 


II. Dubbi sulla definibilità filosofica e applicabilità sociologica del principio di solidarietà

Negli ultimi decenni è emersa una crescente incertezza teorica e pratica, da un lato, sulla natura del principio filosofico di sussidiarietà in quanto tale, dall’altro, sulla sua effettiva praticabilità in ordine a risolvere i problemi strutturali specifici della società post-industriale.

Nel solco della Quadragesimo anno, la dottrina cattolica non ha esitato ad affermare che la sussidiarietà è un principio di diritto naturale, essendo radicato, sia nella libertà e nella dignità della persona umana, sia nel bisogno primario, oltre che nella capacità della stessa, di essere integrata in un ambito sociale più ampio. Da ciò si è giunti alla conclusione che la sussidiarietà è un principio strutturale, universalmente applicabile, per l’edificazione di qualsiasi società, anche quella ecclesiale.

Ammesso, anche senza essere necessariamente concesso, che questi elementi possano considerarsi acquisiti, più aperta rimane comunque la questione di sapere se Pio XI, con la qualifica di «gravissimum principium», usata nella Quadragesimo anno, abbia voluto attribuire al principio di sussidiarietà il carattere di principio supremo, oppure solo di principio importantissimo.

In effetti, oltre a non esistere dubbi sul fatto che il principio del «bonum commune», per sua natura, sia il principio supre- mo, in quanto coincide con lo scopo stesso alla cui realizzazione è preposto il potere sociale e politico, bisogna anche riconoscere che esistono altri principi, accanto a quello della sussidiarietà, ai quali potrebbe pure essere attribuito un carattere di pari preminenza: come, per esempio, quello della solidarietà [10].

Bisogna inoltre constatare che è molto difficile distinguere concettualmente la solidarietà dalla sussidiarietà, specialmente quando la sussidiarietà si manifesta nel suo aspetto positivo, cioè di aiuto dato dallo Stato agli individui o ai corpi intermedi. Mancando una vera e propria definizione del principio di sussidiarietà, che vada, cioè, oltre i termini di una descrizione, l’incertezza teorica non fa che aumentare.

Un ulteriore elemento di incertezza dottrinale è il modo di concepire i termini di riferimento della sussidiarietà. Si deve prendere, come punto di riferimento, le società che sono qualitativamente più vicine alla persona (come per esempio la famiglia), oppure le società misurate secondo la loro importanza organizzativa?

E nel distribuire le competenze, in forza del principio della sussidiarietà, si deve partire dai compiti che la società deve svolgere, oppure si deve partire dall’importanza in ordine di grandezza della società?

Se dal campo più specifico della definizione a livello filosofico ci si dovesse addentrare nell’esame della questione in termini sociologici, allora si potrebbe quasi concludere che l’applicazione del principio sia già diventata obsoleta.

Basterebbe a questo proposito leggere l’articolo di Franz- Xaver Kaufmann per rendersi conto della precarietà in cui versa oggi l’applicazione del principio della sussidiarietà, almeno nelle società post-industriali [11]. Sarebbe perciò un errore di metodo perdere d’occhio il fatto che il principio della solidarietà è stato formulato per dare una risposta al tipo di società che, in Occidente, si è sviluppata con l’industrializzazione.

L’autore in questione, infatti, constatando che il principio di sussidiarietà presuppone, almeno nella sua formulazione storica, una società organizzata gerarchicamente, arriva alla conclusione che nelle società moderne, trasversalmente organizzate e dove i centri di potere reale si sono moltiplicati, l’applicazione del principio può essere sostituita con maggiori «chances» di efficacia, dall’uso di molti altri criteri come, per esempio, quello del coordinamento o dell’accordo previo tra le parti.

In altri termini, se la sussidiarietà formulata storicamente, contro le ideologie individualistiche e collettivistiche, può essere oggi con maggior efficacia sostituita con il principio della complementarietà, ci si potrebbe anche chiedere se la sua formulazione in quanto principio di diritto naturale, pur rimanendo eventualmente valido in quanto tale (al di là della utilità avuta negli anni precedenti alla II guerra mondiale), non sia ormai in ritardo rispetto al reale sviluppo della società postmoderna.

Infatti, in una società post-industriale, non più gerarchizza- ta, ma caratterizzata da strutture segmentariamente specializzate e interdipendenti, la gerarchizzazione delle componenti sociali non risulta dalla natura stessa delle cose, bensì da scelte puramente organizzative o burocratiche, dettate dal criterio di un maggiore efficientismo tecnocratico.

In questa situazione, la sussidiarietà rischia di essere ridotta a un problema di distribuzione di competenze. Essa potrebbe, nella prassi, essere sostituita dal principio procedurale, puramente funzionale e non ontologico, predominante in sociologia e antichissimo, della «praesumptio iuris tantum», che ammette la prova contraria e distribuisce l’onere della prova.

Certo, se il principio di sussidiarietà è di diritto naturale, vale di per sé in assoluto, a condizione, tuttavia, che esistano i presupposti sociali e istituzionali che richiedano la sua applicazione.

 


III. Equivoci nella applicazione ecclesiologica

Se dall’ambito statuale si passa a fare un esame della situazione nell’ambito ecclesiologico, si possono fare constatazioni analoghe. Il modo con il quale il principio di sussidiarietà è utilizzato concettualmente dai teologi rivela, infatti, una variabilità e flessibilità altrettanto grandi di quella dei filosofi e sociologi e, in un certo senso, ancora più sconcertanti, se confrontate con l’acribia con la quale si rivendica o si nega la sua applicabilità in ambito teologico.

La nozione di sussidiarietà è spesso utilizzata, dai teologi e canonisti, come sinonimo di decentralizzazione, di ripartizione di competenza, di autonomia, di collegialità e di difesa dei diritti costituzionali dei fedeli. In ogni caso, è sempre usata con la misura precauzionale dell’analogia, di cui tuttavia nessuno si premura di determinare la natura [12]. In effetti, per fare solo un esempio, un conto è usare l’analogia «proportionalitatis» e un conto è usare l’analogia «attributionis».

Anche la prevalenza della sua funzione negativa, quella di limitazione del potere gerarchico, a scapito di quella positiva, cioè di aiuto per le istanze inferiori, emerge in modo abbastanza evidente nella letteratura teologica.

Si usa inoltre il principio di sussidiarietà senza porsi eccessivi problemi dottrinali, sia per regolare i rapporti tra istanze ecclesiali di diritto divino, come quello esistente tra il papa e i vescovi e tra il clero e i laici; sia tra istanze di natura puramente positiva, come per le conferenze dei vescovi o addirittura per le parrocchie, in rapporto alle loro rispettive istanze superiori o inferiori.

In genere, il principio di sussidiarietà è utilizzato in teologia come nozione che permette di affrontare i problemi strutturali della Chiesa, evitando di ricorrere al principio della «communio», che, a sua volta, come nozione, non brilla nel pensiero di molti per una sua eccessiva chiarezza o precisione concettuale.

Porre ordine in tutta questa situazione di fluidità concettuale, sia sul versante civile che ecclesiale, sembra oggi impresa assai ardua. Penso che Joseph A. Komonchak della Catholic University of America, che ha scritto l’articolo dottrinale forse più impegnato e completo sulla questione, abbia ragione quando conclude che il problema della applicabilità della sussidiarietà in ecclesiologia non è ancora maturo [13].

Denunciare queste carenze, sia in ordine alla chiarificazione della nozione filosofica stessa del principio di sussidiarietà, sia in ordine alla sua applicabilità nell’ambito ecclesiale, non significa essere in grado di risolverle. Non è, infatti, mia intenzione cimentarmi con questo problema concettuale che richiederebbe, come peraltro opportunamente auspicato dal Sinodo dei Vescovi del 1985, un approfondito studio «ex professo». Mi limiterò a fare solo alcune osservazioni di fondo di natura ecclesiologica e metodologica.

La prima osservazione concerne la diversità di natura della struttura costituzionale dello Stato e della Chiesa.

Nel pensiero cattolico classico e nel magistero, lo Stato è ritenuto una realtà di diritto naturale iscritto nel piano creazionale di Dio [14], derivante ontologicamente dalla doppia dimensione della natura dell’uomo: quella individuale e quella sociale.

Le formazioni intermedie degli uomini non sarebbero sufficienti per soddisfare le esigenze inerenti alla socialità umana, sia perché potrebbero essere inadeguate allo scopo, sia perché la libertà di associazione non garantirebbe a tanti la fruizione reale delle prestazioni dello Stato.

Ciò non significa che lo Stato si costituisce indipendentemente dalla volontà dell’uomo, quasi fosse concretamente necessitato e prodotto dal diritto naturale. Essendo un’entità morale, il suo costituirsi concreto, in una situazione storica determinata, presuppone una decisione umana: una forma qualsiasi di patto sociale, il cui significato non è costitutivo dello Stato, come pensavano Hobbes e Rousseau, bensì solo esplicativo della esigenza insopprimibile di diritto naturale, radicata nell’uomo.

Da questo intervento della volontà umana deriva il carattere sussidiario dello Stato e di conseguenza il principio di sussidiarietà.

Il principio di sussidiarietà è perciò strutturale per l’esistenza stessa dello Stato, nel senso che ne determina l’esistenza concreta stessa, oltre che la natura del rapporto tra Stato e individuo, condizionando alla radice il costituirsi dello Stato e del suo modello storico concreto.

In questa prospettiva appare chiaro che la costituzione della Chiesa è essenzialmente diversa.

Dal profilo sociologico e fenomenologico l’autorità ecclesiastica, con le strutture burocratiche di esercizio della «sacra pote- stas», può essere letta usando gli stessi criteri utilizzati per lo Stato, ma in realtà gli elementi soggiacenti sono di natura diversa.

La prima evidente differenza sta nel fatto che l’autorità, essendo di origine sacramentale, è insita nell’essenza stessa della natura della Chiesa ed è preesistente alla volontà esplicativa degli individui. Ne consegue che la sussidiarietà non è strutturale alla Chiesa ed è applicabile in modo solo suppletivo, per quelle determinazioni del rapporto tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio comune soggette alle competenze storiche dell’uomo; comunque, solo in mancanza di altri criteri di origine prettamente teologica.

Questa stessa considerazione vale evidentemente anche per quanto concerne il rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare. L’affermazione fatta da qualche autore, secondo cui la Chiesa universale è sussidiaria rispetto a quella particolare, è in se stessa teologicamente insostenibile, a meno di esplicitare che il principio di sussidiarietà potrebbe essere eventualmente applicabile solo in rapporto alle modalità storiche secondo cui questo rapporto viene strutturato.

Il problema in realtà deve essere colto a un livello ancora più profondo, poiché il rapporto essenziale tra Chiesa universale e particolare non solo è predeterminato, così da essere sottratto ad ogni potere di disposizione umana, ma è anche di natura comunionale, nel senso che la Chiesa universale non solo è immanente a quella particolare, ma anche nel senso che la stessa Chiesa universale (che esiste solo dove e nella misura in cui si realizza nelle Chiese particolari) non è una realtà monolitica, bensì una realtà costituita, a sua volta, da tutte le altre Chiese particolari (LG 23,1).

La comprensione di questo elemento centrale della costituzione della Chiesa non è facile. In realtà, nella misura in cui si attribuisce alla Chiesa universale e alla Chiesa particolare una esistenza materiale propria e diversa, si aumentano le difficoltà di comprensione del mistero e si genera una dinamica di alterità tra le due Chiese, stabilendo un rapporto di concorrenzialità reciproca, non solo storico ma anche strutturale.

La Chiesa universale e la Chiesa particolare devono essere affrontate e capite solo come due dimensioni formali diverse dell’unica Chiesa di Cristo. Cristo non ha fondato prioritariamente, né la Chiesa universale, né quella particolare, ma un’unica Chiesa, alla quale è inerente una dimensione di particolarità e di universalità [15].

Dalla perfetta realizzazione e compenetrazione «in essentia- libus» della particolarità e della universalità nasce la «communio piena», cioè la caratteristica essenziale della Chiesa cattolica. Le Chiese particolari che non realizzino in modo completo, sia a livello sacramentale, che a livello della Parola e della dottrina, tutti gli elementi propri alla Chiesa di Cristo, non realizzano in se stesse, nella sua completezza, la Chiesa di Cristo.

Non realizzano, perciò, in se stesse neppure la «communio», ossia la compenetrazione «piena» delle due dimensioni. Non essendo realizzazioni perfette della Chiesa di Cristo, non vivono neppure nella piena comunione con la Chiesa cattolica, in cui la Chiesa di Cristo «subsistit» (LG 8).

Una seconda differenza essenziale tra la struttura costituzionale statuale e quella ecclesiale è data dal rapporto tra i cittadini e, rispettivamente, i fedeli e l’autorità. Potrebbe essere utile precisare, prima di tutto, che la costituzione della Chiesa non si esaurisce, come nello Stato, nel rapporto tra l’individuo (con i corpi intermedi) e l’istituzione.

Anche il carisma, che non è conferito solo ai fedeli laici, ma a tutti i fedeli indistintamente, cioè anche ai ministri ordinati, è un elemento essenziale della Chiesa. Appartiene perciò alla costituzione della Chiesa tanto quanto l’istituzione, anche se il carisma, non essendo conferito dallo Spirito Santo se non ai battezzati o ai ministri, presuppone l’istituzione.

Se con la nozione di istituzione si intende definire quegli elementi stabili di una società, in cui si cristallizza l’organizzazione del potere pubblico in rapporto al cittadino, allora bisogna constatare che il modello ecclesiale non è fondato sul rapporto tra individuo (o persona) e istituzione.

Nella Chiesa l’istituzione non si esprime attraverso l’istituto giuridico dell’ufficio nel quale il potere di cui è investito il tito- lare è delegato dalla società, in una forma o nell’altra. L’ufficio episcopale non è affidato ai vescovi, né dai fedeli, né dagli altri vescovi, né, di conseguenza, dalla Chiesa in quanto tale. Nella Chiesa il potere è conferito direttamente da Cristo, attraverso la mediazione sacramentale della Chiesa.

La Chiesa non è, infatti, una realtà ipostatizzabile come se fosse una entità istituzionale anonima, sovrastante gli individui, fosse pure in una funzione, come nello Stato moderno, di semplice organo di servizio.

Anzi, poiché la Chiesa nel suo aspetto istituzionale non nasce come derivazione dall’esigenza naturale di socialità, insita nella persona umana in quanto tale, ma dal Sacramento (in cui è compresa la Parola), si deve concludere che tutta la «societas ecclesialis» nasce dal Sacramento.

Il Sacramento (comprendente la Parola) è l’elemento istituzionale per eccellenza, perché garantisce l’esistenza e la continuità della Chiesa stessa. Ne consegue che la Chiesa, in quanto istituzione, si realizza non secondo un unico polo, come nello Stato; ma secondo due poli diversi, tutti e due generati dal Sacramento: il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale.

Il rapporto tra questi due poli della istituzione, che, per loro natura intrinseca, non si pongono come limitativi l’uno dell’altro, rimane sempre e solo un rapporto tra persone. Il rapporto ecclesiale si definisce sempre come rapporto tra persona e persona, non, come nello Stato, tra persona e istituzione.

La dialettica concorrenziale tra persona e istituzione è trasformata in dialettica comunionale tra persona e persona, sia perché il sacerdozio comune conferito dal battesimo rimane immanente al sacerdozio ministeriale, sia perché tanto il sacerdozio ministeriale, come quello comune, sono generati da una partecipazione, ancorché qualitativamente diversa, all’unico sacerdozio di Cristo.

Ciò elide alla radice ogni competitività. Di per sé non esiste tensione dialettica strutturale tra il sacerdozio comune e quello ministeriale e viceversa.

Il principio di sussidiarietà non è perciò strutturale, perché non regola geneticamente l’esistenza del rapporto tra gli elementi costituzionali della Chiesa. In mancanza di altri criteri teologici, può essere al massimo utilizzato come strumento suppletivo per correggere il rapporto, quando esso non fosse vissuto secondo la dinamica teologica che le è propria.

 


IV. Valenza dei principi di diritto naturale in ecclesiologia

Quest’ultima considerazione permette di affrontare un’altra questione fondamentale: quella della valenza del diritto naturale in ecclesiologia, nella varietà e molteplicità dei suoi istituti specifici.

E doveroso precisare, prima di tutto, che non si tratta di escludere dalla riflessione teologica l’apporto della filosofia e in particolare della metafisica, alla quale il pensiero cattolico non ha mai rinunciato totalmente, neppure durante l’esperienza nominalista di ispirazione francescana, del tardo Medioevo.

Senza la metafisica non rimarrebbe altra soluzione che quella di applicare Y «analogia fidei», così come ha cercato di fare Karl Barth, il cui presupposto è la tesi dogmatica della «natura totaliter deleta». L’«analogia fidei» esclude però Y«analogia en- tis». Applicata rigorosamente, senza compromessi surrettizi, implica gravi conseguenze sulla concezione stessa della salvezza e della Chiesa, inaccettabili per la fede cattolica.

Salvare la metafisica come punto di riferimento razionale, che permette alla teologia di non astrarsi dall’esperienza storica dell’uomo, non implica però la possibilità di trasportare i principi e gli istituti di diritto naturale in ambito teologico, utilizzandoli in alternativa ai principi e agli istituti di natura teologica.

L’esempio che nella discussione teologica contemporanea rivela con particolare eloquenza la necessità di chiarire la questione del rapporto tra il diritto naturale e quello divino, è quello della applicabilità dei diritti naturali della persona umana all’ordinamento canonico [16].

L’esame dei due cataloghi di diritti riconosciuti ai fedeli in quanto tali e ai laici dal CIC, permette di constatare che circa un terzo di questi diritti sono di origine giusnaturalistica. Hanno questa struttura ontologica, per esempio, il diritto alla libertà nella scelta dello stato di vita (can. 219), quello alla protezione della reputazione e dell’intimità personale (can. 220), i quattro diritti processuali del can. 221, derivati forse, più che dal diritto naturale, dalla coscienza giuridica democratica moderna, e il dovere di realizzare la giustizia sociale (can. 222 § 2) [17].

Ci si deve allora domandare: quale valore deve essere riconosciuto nella Chiesa ai diritti naturali della persona?

Il paradigma del rapporto tra diritti naturali dell’uomo e diritti del cristiano, appare in modo evidente nel diritto alla libertà di coscienza. Esso non è applicabile come diritto fonda- mentale del cristiano nella Chiesa, tuttavia costituisce il presupposto naturale senza del quale neppure la Chiesa potrebbe costituirsi. Già Graziano, citato come fonte dal can. 1351 del CIC del 1917, fa stato di questa coscienza antica della Chiesa.

Il cristiano non gode della libertà di coscienza nel senso che la comunità ecclesiale non possa domandargli, come condizione della sua appartenenza, un comportamento confessionale vincolante; gode soltanto del diritto che, nei suoi confronti, la Chiesa non eserciti alcuna forma di costrizione, usando mezzi per loro natura estranei alla natura profonda del proprio ordinamento giuridico.

La libertà di coscienza è stata indicata ripetutamente dal magistero come diritto fondamentale dell’uomo, in cui convergono tutti gli altri diritti naturali e costituzionali. In questo senso costituisce il parametro del rapporto tra natura e sopranna- tura, tra ragione e fede.

Diritti naturali dell’uomo validi anche per il cristiano nella Chiesa? La risposta è un sì e un no nello stesso tempo. Un sì, perché i diritti naturali sono un limite e una condizione previa affinché la «communio» ecclesiale possa porsi come esperienza e realizzarsi; un no, perché essi, in quanto espressione di valori non soprannaturali, non sono in se stessi capaci di generare la «communio ecclesiae et ecclesiarum» in quanto tale.

Un sì, perché la Chiesa, in un determinato momento storico, potrebbe ritenere necessario ricorrere ai diritti naturali per provocare una riflessione più profonda sulla natura dei diritti del cristiano; un no, perché la loro funzione può essere considerata solo come provvisoria e interlocutoria, in attesa che i cristiani recuperino totalmente nella fede, nella speranza e nella carità, i valori e i criteri che dovrebbero determinare la specificità della loro esperienza ecclesiale [18].

 


V. Dalla sussidiarietà alla «communio»

Le stesse considerazioni devono essere applicate al principio di sussidiarietà, in quanto principio di diritto naturale.

Alla pari dei diritti naturali della persona, anche il principio di sussidiarietà non è strutturalmente adeguato per cogliere le esigenze profonde del principio della comunione, che regola il rapporto tra il sacerdozio comune e il sacerdozio ministeriale, tra i fedeli e i ministri ordinati e, di conseguenza, tra le «istanze» ecclesiali inferiori e quelle superiori.

E legittimamente applicabile solo quando la fede non è ancora arrivata ad una conoscenza della verità e dei valori intrinseci del mistero della Chiesa, in tutte le sue implicazioni per la convivenza ecclesiale; oppure, quando la mancanza concreta di fede nei cristiani, o nei pastori, esige il ricorso a criteri più facilmente comprensibili e intuibili da tutti.

Il principio di sussidiarietà può diventare lo strumento concreto per regolare, in modo provvisorio, questioni afferenti all’unità della Chiesa, quando dovessero mancare altri criteri, capaci di promuoverla positivamente con più precisione teologica.

Il principio di sussidiarietà non è perciò costitutivo della struttura costituzionale della Chiesa e di conseguenza deve essere applicato, all’occorrenza, con grande cautela. Può essere applicato solo tenendo presente il fatto che il «bonum commune», di cui esso è strumento, non è il «bonum commune» naturale di una società umana di diritto naturale, ma quello soprannaturale della Chiesa. Ora il «bonum commune» nella Chiesa è la «communio».

Non è facile definire che cosa sia la «communio». Una cosa comunque è certa. Essa sottolinea l’immanenza reciproca e la inscindibilità dei valori e degli elementi costitutivi dell’esperienza cristiana, non la loro autonomia reciproca: l’immanenza della Chiesa universale in quella particolare e viceversa è l’esempio più chiaro e perciò paradigmatico.

E vero che nel corso della storia la Chiesa ha sempre fatto ricorso a categorie provenienti dalle culture da essa incontrate, ma non è dimostrato che questo ricorso abbia né sempre né necessariamente contribuito ad una maggiore penetrazione conoscitiva dell’essenza della Chiesa e ad una esperienza più autentica della verità salvifica, di cui essa è portatrice nella storia.

In un momento in cui l’ecclesiologia ha assunto uno sviluppo, che non ha pari nella storia della riflessione teologica, aggrapparsi a un principio di diritto naturale, come quello di sussidiarietà, che ha certo una sua forza provocatoria, oltre che una sua eventuale utilità funzionale, ma che potrebbe già essere superato in quanto tale, per risolvere i problemi strutturali della Chiesa contemporanea, potrebbe essere un atto di abdicazione.

In effetti, alcune applicazioni che di essa si vogliono fare palesano tutta la loro precarietà. Bastano alcuni esempi.

Applicare il principio di sussidiarietà per sostenere una maggiore autonomia delle parrocchie va oggi, senza dubbio, contro la emergente comprensione della realtà sacramentale del presbiterio diocesano, così come si è manifestata nel Sinodo dei Vescovi del 1990, che ha sottolineato, sia la priorità dell’unità del clero attorno al vescovo e della loro reciproca immanenza e inscindibilità, sia l’imperativo di una pastorale diocesana comune.

Applicare lo stesso principio per rivendicare un rafforzamento delle Conferenze Episcopali, ignora il fatto che, in realtà, il vero problema oggi è quello di salvare l’identità e la responsabilità dei singoli vescovi.

Invocare il principio di sussidiarietà per negare alla Santa Sede il diritto di intervenire in una diatriba teologica, che agita tutto un continente, come quella della teologia della liberazione in America latina, oltre a trascurare il fatto che il principio di sussidiarietà postula in quanto tale anche un aiuto dato dalle entità superiori a quelle inferiori, ignora anche l’altro fatto, quello che le questioni teologiche hanno una portata universale, poiché coinvolgono tutta la Chiesa, non solo una parte di essa. Ciò è tanto più evidente in forza della risonanza internazionale che le questioni dottrinali acquistano oggi con i moderni strumenti della comunicazione.

Il diritto naturale non è la fonte primaria, né dell’antropologia teologica, né per la conoscenza della struttura istituzionale del mistero della Chiesa. Perciò può essere utilizzato solo con criteri di supplenza. Oggi più che mai l’interesse dell’umanità non è quello di sapere se la Chiesa è, o non è, una società perfetta, paragonabile allo Stato politicamente più avanzato, ma di conoscere l’essenza del suo mistero.

In teologia si può volare a bassa o ad alta quota. Ognuno deve saper scegliere e trarre per il suo impegno teologico le conseguenze relative.

 

 

 

[*] Conferenza tenuta, sia al XXIII Congresso dell’Associazione San Benedetto «De unitale in diventiate», Hauterive (Svizzera), 19-22 settembre 1991; sia per l’inaugurazione dell’anno accademico della Facoltà di Diritto canonico dell’Ateneo Romano della Santa Croce, il 17 gennaio 1992.

[1] Libera traduzione del testo inglese, pubblicato da O. von Nell-Breuning nella voce Subsidiaritàtsprìnzip, in: StLex 19626, VII, 828.

[2] Cfr. Joseph A. Komonchak, Subsidiarity in the Church: The state of the question, «The Jurist» 48 (1988), 298-349; A. Rauscher, Subsidiaritiitsprinzip, in: StLex 1989, 386-390.

[3] Cfr. O. von Nell-Breuning, cit., 826.

[4] Sugli interventi dei papi l’articolo più esauriente è quello di Jean Beyer, Principe de subsidiarité ou “juste autonomie’ dans l’Eglise, NRT 108 (1986), 801-822.

[5] Cfr. Il futuro della forza del Concilio. Sinodo straordinario dei Vescovi 1985, Documenti e commento di W. Kasper, Brescia 1986, 36.

[6] II sinodo aveva stabilito 10 principi per la nuova codificazione. Nella IV e V proposizione si auspica l’applicazione del principio di sussidiarietà. Cfr. Communica- tiones (1969) 77-85.

[7] Cfr. Quaestiones fundamentales iuris canonici, Roma 1969, 545-582.

[8] Cfr. E. Corecco, Diritto canonico, in: Dizionario Enciclopedico di teologia morale., Roma 19733, 239.

[9] Cfr. R. Sobanski, Okumenismus und Verwirklichung der Grundrechte der Getauften, in: I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Fribourg (Svizzera) 6-11 ottobre 1980, 713-737.

[10] Cfr. R. Herzog, Subsidiaritatsprinzip, in: EvStLex II (19872), 3564-3571.

[11] The principle of subsidiarity viewed by the sociology of organisations, «The Jurist» 48 (1988), 275-291.

[12] Cfr. per esempio, P. HuiZlNG, Subsidiarität, «Concilium» (1986), 486-490.

[13] Cfr. Subsidiarity in tbe Church, cit., 342.

[14] Cfr. H. Peters, Staat, in: StLex (19626) VII, 528-532.

[15] Cfr. Discorso tenuto a Lugano il 12 giugno 1984, in: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Città del Vaticano, VII, 1, 1984, 1676-1683.

[16] Riassuntivamente, cfr. E. Corecco, II catalogo dei doveri-diritti del Fedele nel CIC, in: I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa, Atti del V Colloquio giuridico (8-10 marzo 1984), Città del Vaticano 1985, 101-125.

[17] Va precisato che a questi doveri-diritti non può essere riconosciuta la qualifica di diritti fondamentali propria ai diritti umani, scritti e non scritti, contenuti nelle costituzioni statuali democratiche moderne. Infatti, non è possibile determinare la struttura della costituzione della Chiesa, prendendo come punto di riferimento i diritti dei fedeli, perché in questo caso si sfocerebbe in una struttura democratica, così come è avvenuto in ambito statuale. Il passaggio dalla monarchia alla democrazia, oltre che per la separazione dei poteri e per lo Stato di diritto, è ovviamente avvenuto proprio come conseguenza della introduzione nelle costituzioni statuali dei diritti fondamentali del cittadino. Questa trasformazione dello Stato è avvenuta nel momento in cui la dottrina della preesistenza della persona allo Stato e la nozione di autonomia è stata applicata, concretamente e con tutte le sue conseguenze, anche a livello giuridico e costituzionale. La nozione di fondamentalità implica un cambiamento del telos stesso dello Stato, affidandogli come compito primario, storicamente nuovo, quello di garantire i diritti dei cittadini, con il relativo spazio di autonomia individuale. L’aspetto positivo e negativo del principio di sussidiarietà si inserisce organicamente, per l’appunto, nella dinamica di queste esigenze.

[18] Cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società, in: Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico,, cit., 1219-1234.


I. Premessa

La valutazione del rapporto tra diritto universale e particolare, risultante dal CIC, può avvenire sulla base di criteri diversi [1]. Un primo potrebbe essere quello di allestire l’elenco dei rin- vii fatti dal CIC in favore del diritto particolare [2].

Un secondo criterio potrebbe essere quello di valutare, all’interno dell’ordinamento canonico globale, lo spessore e l’importanza ecclesiologica e disciplinare dei settori legislativi concessi dal Codice al diritto particolare.

Un terzo possibile approccio è quello di collocare l’indagine sul rapporto tra diritto universale e particolare, nel quadro dottrinale più ampio del rapporto esistente tra Chiesa universale e particolare.

Sono convinto che solo questo approccio ecclesiologico è in grado di offrire una valutazione che superi l’orizzonte limitato dei due precedenti.

Evidentemente, in tutti e tre i casi, potrebbe essere interessante completare l’indagine con un confronto del CIC attuale con quello del 1917 e con il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990. Ma le circostanze di questa esposizione e il margine di tempo mi inducono a limitare questo intervento al terzo criterio di indagine.

Procedendo in tal senso, un dato preliminare è la prevalenza indiscussa del diritto universale su quello particolare; risultato inevitabile della prevalenza nella ecclesiologia latina, oltre che nella prassi ecclesiale dell’ultimo millennio, della Chiesa universale su quella particolare. Una prevalenza che il Concilio Ecumenico Vaticano II non ha eliminato, anche se l’ha attenuata, grazie ad alcuni testi in cui ha ricuperato pienamente, almeno in linea di massima, il valore teologico della Chiesa particolare.

In effetti, l’impianto della Lumen gentium rimane globalmente dettato dalla ecclesiologia latina della Chiesa universale.

E inevitabile, perciò, porre la domanda se questo dato abbia radici e giustificazioni di natura solo storica, oppure, e in quale misura, sia legittimamente sostenuto da chiare e imprescindibili premesse dottrinali.

Il nocciolo della questione per valutare in termini non meramente qualitativi o quantitativi, ma ecclesiologici, il rapporto tra diritto universale e diritto particolare, così come è stato stabilito dall’ordinamento canonico codificato dieci anni or sono, non è, perciò, di natura primariamente giuridica, bensì ecclesiologica.

Il punto nodale della questione, se, da una parte, è quello di valutare, nel Vaticano II, la forza ecclesiologica dei testi concernenti la Chiesa particolare, in rapporto a tutto l’orientamento universalistico del Concilio stesso, dall’altra, è quello dell’interpretazione che di questi testi hanno dato sia la dottrina teologica, sia il magistero successivi.

 


II. Chiesa universale – Chiesa particolare

Il «locus theologicus» più esauriente per comprendere il mistero del rapporto tra Chiesa universale e Chiesa particolare è il testo della LG 23, 1, in cui il Concilio Vaticano II ha utilizzato la formula «in quibus et ex quibus» [3].

Gli altri testi paralleli, come quello del n. 26, 1 della LG stessa e il n. 6, 3 del Decreto CD, mettono in evidenza solo 1’«in quibus», senza peraltro negare ì’«ex quibus».

I risvolti di questa formula sono molteplici, dal momento che essa significa, prima di tutto, che la Chiesa universale non esiste in se stessa, quasi possedesse una consistenza e un luogo di inveramento propri, ma esiste e si concreta solo laddove essa si realizza in una Chiesa particolare. Essa esiste solo in modo concomitante ad una Chiesa particolare.

Roma non è la sede della Chiesa universale, ma solo di un organo della stessa, cioè del ministero petrino. La diocesi di Roma, cioè 1’«Ecclesia romana», non ha uno statuto paragonabile al Distretto di Washington nella Confederazione degli Stati Uniti d’America.

In secondo luogo, la formula «in quibus et ex quibus» significa che la Chiesa universale è formata da tutte le Chiese particolari, per cui non è una realtà astratta, ma storicamente concreta, che coincide di fatto con tutte le Chiese particolari. E un «corpus Ecclesiarum» (LG 23, 2 – nozione non recepita dal CIC), o una «communio Ecclesiarum». La Chiesa universale che si realizza in quelle particolari è quella medesima realtà che si costituisce da tutte le Chiese particolari.

In terzo luogo, la formula ecclesiologica di LG 23, 1, significa che in ogni Chiesa particolare sono ontologicamente presenti tutte le altre Chièse particolari, attraverso la mediazione della Chiesa universale, di cui esse sono gli elementi costitutivi. La Chiesa particolare è Chiesa solo nella misura in cui ripropone in se stessa tutti i valori e tutti gli elementi essenziali e comuni, propri a tutte le altre Chiese particolari, la cui comunione con la Chiesa romana è «piena».

La struttura profonda del mistero della Chiesa è perciò essenzialmente una struttura di immanenza: immanenza reciproca e totale della Chiesa universale nelle e dalle Chiese particolari. Solo quando questa immanenza si avvera in tutta la sua totalità, si realizza anche la nota della «communio piena», prerogativa della Chiesa cattolica romana, dal momento che in essa, per definizione, «sussiste» l’unica Chiesa di Cristo in tutta la sua verità strutturale e costituzionale e, in particolare, secondo l’immanenza perfetta che in essa si realizza tra la dimensione universale e quella particolare.

Il principio dell’immanenza reciproca, e perciò di inseparabilità, degli elementi costitutivi, della struttura costituzionale della Chiesa, così come emerge in modo paradigmatico nell’immanenza dell’universale nel particolare e del particolare nell’universale, forma l’essenza stessa della nozione di «communio» [4]. Si tratta di un principio che, pur assumendo molti significati, spirituali, è prima di tutto un principio strutturale, riscontrabile a molti altri livelli della realtà ecclesiale, fino a investire la dimensione antropologica del fedele cristiano [5].

Infatti, esiste una immanenza reciproca tra la Parola e il Sacramento, che sono inscindibili e sono solo due manifestazioni formali diverse, attraverso le quali Dio comunica e trasmette all’uomo la salvezza; tra il Papa e il Collegio dei vescovi, poiché l’uno non esiste se non cointendendo l’altro; tra il vescovo e il presbiterio, perché il vescovo non esiste da solo, senza partecipazione del suo ministero a un collegio di presbiteri e questi ultimi non esistono senza il vescovo; immanenza tra il sacerdozio comune e quello ministeriale, perché il sacerdozio comune sussiste in quello ministeriale e quello ministeriale non ha senso, se non in quanto è orientato alla realizzazione di quello comune; tra l’istituzione e il carisma; da ultimo, tra il fedele stesso e la Chiesa e viceversa, poiché la persona battezzata è immanente al Corpo Mistico di Cristo, e il Corpo Mistico, che è la Chiesa, è immanente al fedele. L’identità antropologica nuova del fedele è determinata proprio dal fatto che tutti gli altri fedeli gli appartengono, attraverso l’unico battesimo e l’unica fede, come elemento costitutivo della sua persona di «homo novus».

Al di fuori di questa dinamica di reciproca immanenza, tutte le altre soluzioni del rapporto tra Chiesa universale e particolare, sono ecclesiologicamente fuorvianti, perché elidono il primo o il secondo elemento: 1’«in quibus» o l’«ex quibus».

Ciò avviene ad esempio per la tradizione ortodossa, che tende a concepire la Chiesa universale platonicamente, secondo il principio filosofico degli «universalia ante res», vale a dire come un modello o archetipo trascendente, che in se stesso non esiste concretamente, ma che si realizza solo nelle singole Chiese particolari e in modo sempre uguale. Privilegiando Y«in quibus», l’ortodossia orientale non riesce perciò a concepire l’unità della «communio Ecclesiarum» attorno ad un fatto istituzionale, come il ministero petrino, che è proprio di una specifica Chiesa particolare, quella romana. L’unità è garantita solo dal modello trascendente, comune a tutte le Chiese autocefale.

Altrettanto può dirsi per la tradizione protestante, che privilegia nominalisticamente, secondo il principio «universalia post res», il secondo elemento, cioè l’«ex quibus». Esistono solo le Chiese particolari, non la Chiesa universale. L’unità tra le singole Chiese particolari può realizzarsi, nel segno di una soluzione volontaristica, solo come federazione delle Chiese particolari.

Scorrendo queste differenti prospettazioni del rapporto tra Chiesa universale e particolare ci si accorge che l’ostacolo principale ad una concezione corretta della formula ecclesiologica dell’«in quibus et ex quibus» sta nel fatto di concepire la Chiesa universale e quella particolare come due entità materiali diverse. Così intese, esse, in forza della loro concretezza storica, tendono a rapportarsi con una dinamica di potenziale contrapposizione o concorrenzialità reciproca. In realtà non sono due entità materiali, ma solo due dimensioni formali di un’unica realtà: quella dell’unica Chiesa di Cristo.

Ne consegue che la Chiesa particolare, in quanto dimensione locale o concreta imprescindibile dell’unica Chiesa di Cristo, che si realizza solo laddove la Parola e il Sacramento si inverano concretamente nel tempo e nello spazio, ha una legittimità «costituzionale» altrettanto grande della Chiesa universale.

Quest’ultima (la Chiesa universale) non coincide neppure con il suo organo costituzionale specifico, il collegio dei vescovi con il Papa. Il collegio, infatti, è indissolubilmente radicato nelle Chiese particolari in forza di due elementi; sia perché i vescovi che lo compongono provengono dalle Chiese particolari, che rappresentano, sia perché lo stesso Papa è, a sua volta, vescovo di una Chiesa particolare, cioè la Chiesa di Roma [6].

Se l’unica Chiesa di Cristo ha una duplice dimensione universale e particolare, come ha affermato anche il Sommo Pontefice nella sua omelia a Lugano nel 1984 [7], mi sembra problematico affermare una previetà ontologica, e ancora meno una previetà temporale, della Chiesa universale su quella particolare.

In effetti, per definizione, la Chiesa di Cristo, nella sua dimensione universale, è costituita da tutte le Chiese locali, in cui la Chiesa di Cristo si realizza nella sua dimensione particolare. Senza questo inveramento nella particolarità, la Chiesa universale non è posta in essere.

L’immagine della Chiesa, emersa il giorno della Pentecoste, è comprensibile solo a condizione di tener conto che nelle persone degli undici Apostoli sono già realmente presenti, sia pure secondo un potenziale sviluppo storico, tutte le future Chiese particolari [8]. Un’interpretazione «metropolitana» della Chiesa di Pentecoste sarebbe altrettanto falsa di quella «federativa», proposta da una certa teologia contemporanea, della Chiesa particolare.

Giova notare che anche l’incorporazione sacramentale e giuridica irreversibile di una persona nella Chiesa, in forza del battesimo, non avviene né a livello della Chiesa particolare né a quello della Chiesa universale, bensì nell’unica Chiesa di Cristo [9].

Non a livello della Chiesa particolare, perché questa appartenenza è soggetta a mutamenti in seguito al cambiamento di domicilio, di rito o di confessione; non a livello della Chiesa universale, perché essa non esiste in quanto tale, ma solo come risultanza della aggregazione di tutte le Chiese particolari, in rapporto di comunione piena con la Chiesa di Roma.

La dinamica di immanenza tra l’universalità e la particolarità ha un preciso risvolto anche ecumenico. Infatti, la nota dell’universalità è attribuibile solo alla Chiesa cattolica, perché è l’unica Chiesa che realizza tutti i Sacramenti e l’integralità della Parola, in quanto elementi contemporaneamente costitutivi, però, anche delle singole Chiese particolari. In forza del fatto che l’attributo dell’universalità – predicabile solo dell’unica Chiesa di Cristo – si realizza nella Chiesa cattolica (romana), è possibile affermare che in essa «sussiste» la Chiesa stessa di Cristo (can. 204 § 2).

Le Chiese (particolari) e le Comunità ecclesiali separate, per contro, realizzano l’unica Chiesa di Cristo in misura solo diversamente limitata, perché, o sono carenti sul piano della universalità o su quello della particolarità.

Dalle considerazioni precedenti bisogna concludere che gli elementi materiali essenziali e costitutivi della Chiesa, cioè la Parola e i Sacramenti, sono comuni sia alla dimensione universale che a quella particolare della Chiesa, poiché, in quanto tali, appartengono alla Chiesa stessa di Cristo.

La peculiarità delle Chiese particolari (cattoliche) è, infatti, sintetizzata mirabilmente dalla Lumen gentium al n. 26,1 ove si afferma che «la Chiesa di Cristo è veramente presente nelle legittime comunità locali di fedeli, nelle quali, sebbene piccole, povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Cristo, infatti, in quanto unico Figlio di Dio, è universale e, in quanto uomo, è particolare. Il Verbo si è incarnato nella particolarità di un uomo singolo.

Affinché questo inverarsi locale e particolare della Chiesa di Cristo avvenga, è necessario l’elemento formale della legittimità, cioè del riconoscimento, da parte del Papa o del Collegio episcopale, della esistenza della comunione. Esso non crea la comunione, ma ne constata semplicemente l’esistenza.

Riconoscere l’esistenza della comunione è un fatto formale, non aggiunge nulla ai contenuti del Sacramento e della Parola, celebrato o annunciata dal vescovo in una Chiesa particolare.

Dal profilo materiale, cioè dei contenuti salvifici, il Sacramento celebrato dal vescovo e dal Papa, oppure dal Collegio episcopale concelebrante, sono perfettamente uguali e i contenuti del magistero del vescovo possono essere esattamente uguali a quelli del Papa quando parla «ex cathedra» o del Concilio ecumenico. Ciò che è diverso è la forza vincolante formale del magistero papale e conciliare, perché è l’unico, a differenza di quello episcopale, che può vincolare definitivamente i fedeli.

Lo stesso valore formale è attribuibile alla dimensione particolare della Chiesa. La pluralità culturale presente nelle Chiese particolari non è un fattore sostanziale in ordine al contenuto salvifico, ma solo estrinseco. La Chiesa particolare non si definisce a partire dalla sua capacità di inculturazione in un determinato ambiente storico e sociale, ma si definisce a partire solo dal Sacramento e dalla Parola che essa celebra e annuncia localmente [10].

Le modulazioni culturali diverse, nel celebrare i sacramenti e nel comprendere la fede, pur essendo in grado di aiutare tutta la Chiesa universale a formulare in modo eventualmente più profondo le verità della stessa fede, grazie al fenomeno della ricezione, sono elementi puramente formali, rispetto ai contenuti salvifici proposti dalla Chiesa particolare in un determinato luogo e in un determinato tempo.

Se la Chiesa particolare non è in grado di dare a se stessa la garanzia di vivere in perfetta comunione con l’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa universale, in quanto elemento formale della Chiesa di Cristo, non è in grado di esistere di per se stessa, se non incarnandosi in una molteplicità di Chiese particolari, che le garantiscono la pluralità delle espressioni culturali.

La Chiesa di Cristo non potrebbe mai coincidere con un unico vescovo ed un’unica diocesi, fosse pure quello di Roma, perché verrebbe a mancare l’elemento essenziale della pluralità, che è il presupposto della comunione.

Le considerazioni fin qui esposte introducono un’ulteriore riflessione, che riguarda quella delle quattro note della Chiesa, professate nel Credo niceno-costantinopolitano; esse colgono il mistero della Chiesa a livelli diversi e non sono neppure formulate in modo sistematico ed esaustivo. Infatti, è pensabile attribuire alla Chiesa anche altre note, altrettanto significative.

Dopo il Vaticano II sarebbe, per esempio, legittimo aggiungere nel Simbolo della fede di credere che la Chiesa cattolica, cioè universale, si realizza nelle e dalle Chiese particolari.

Ne consegue, perciò, che la preminenza di valore data alla universalità sulla particolarità, o viceversa, nasce da un equivoco derivante da una infrastruttura di pensiero di natura filosofica, più che teologica, che tende, a seconda dei casi, ad attribuire una priorità all’universale sul particolare, oppure al particolare sull’universale.

Così, la preminenza o la previetà ontologica data all’universalità sulla particolarità suppone l’accettazione del principio, di ascendenza platonica, degli «universalia ante res», che ha fatto, più o meno consapevolmente, da infrastruttura culturale e filosofica alla teologia latina della Chiesa universale.

Per contro, la preminenza ontologica attribuita da una certa ecclesiologia contemporanea alla Chiesa particolare fa capo, come abbiamo visto, al principio nominalista degli «universalia post res», cui si è ispirato anche il protestantesimo.

Il principio filosofico più vicino e connaturale alla comprensione del mistero ecclesiale della immanenza degli elementi costitutivi della Chiesa è quello ilemorfistico degli «universalia in rebus».

L’universale è presente nella cosa; la forma si incarna nella materia. L’analogia con il mistero dell’incarnazione è stata usata peraltro anche dalla Lumen gentium al n. 8, 1, nel tentativo di coniugare l’elemento divino e umano, invisibile e visibile della Chiesa. Essa serve evidentemente anche per capire il rapporto tra la Chiesa universale e quella particolare.

Tuttavia, anche questo principio filosofico tomista, pur aiutando a comprendere come la Chiesa universale si inveri o incarni necessariamente in quella particolare, rivela anch’esso i suoi limiti. Pur aiutando a capire 1’«in quibus», non riesce a dare ragione dell’«ex quibus», perché non riesce ad esprimere il fatto, conoscibile solo per fede, che quella Chiesa stessa universale, che si realizza nelle Chiese particolari, non è una realtà monistica e universale ontologicamente preesistente, come la forma rispetto alla materia, bensì una realtà in se stessa già pluralistica, materialmente costituita da tutte le altre Chiese particolari.

L’«ex quibus» della LG 23,1, d’altra parte, non è il frutto di una concessione sincretistica fatta dal Concilio al nominalismo, poiché la Chiesa universale, dal profilo teologico, non è semplicemente la somma di quelle particolari, né è da esse «composta», come un po’ approssimativamente dice la Mysti- ci Corporis.

Anche l’«ex quibus» esprime una realtà di fede irriducibile a categoria filosofica umana: ha origine nel mistero del progetto divino, in ossequio al quale Cristo non ha scelto un unico Apostolo, bensì un corpo di Apostoli, in cui è già presente, come essenziale, l’elemento della pluralità. L’unicità di Dio è conoscibile, infatti, solo attraverso la pluralità, così come l’universalità della Chiesa può realizzarsi solo attraverso la pluralità delle Chiese particolari.

 


III. Diritto universale e particolare

Il discorso sul valore formale della dimensione universale e particolare dell’unica Chiesa di Cristo, deve essere tenuto presente ed applicato per impostare correttamente anche il problema del rapporto tra «ius universale» e «tus particulare».

Affrontare questo problema usando le categorie politiche, costituzionali e sociologiche, come quella della centralizzazione e decentralizzazione del potere, sarebbe metodologicamente sbagliato, così come sarebbe inadeguato far ricorso al principio della sussidiarietà, diventato di moda [11]. Queste categorie sono incapaci di definire il rapporto di comunione, vale a dire di immanenza reciproca, sacramentale ed ecclesiologica, sia della Chiesa universale e particolare, sia del Diritto canonico universale e particolare.

La tradizione latina, che ha privilegiato la Chiesa universale, ha condizionato inevitabilmente anche le codificazioni del 1917 e del 1983, potenziando, sia pure in misura diversa, il diritto universale a scapito di quello particolare.

In effetti, l’idea giusnaturalistica della «societas perfecta», che ha dominato l’ecclesiologia post-tridentina, facendo prevalere nella legislazione e nella scienza canonistica il metodo giuridico su quello teologico, ha esteso la sua ombra anche sulla codificazione del 1983, continuando a far prevalere, di fatto, il criterio tipicamente giuridico dell’importanza prevalente del diritto universale su quello particolare. Ciò è vero malgrado il dettato del can. 20, che in linea di principio afferma (come del resto nel CIC del 1917): «lex universalis minime derogai iuri particulan».

In realtà però, prevale di fatto la clausola salvatoria: «nisi aliud in iure expresse caveatur», posta alla fine del can. 20 stesso. Del resto, l’intenzione abrogativa del CIC, nei confronti del diritto particolare, appare chiaramente nel can. 6 § 1 n. 2.

Il diritto universale è prevalente anche nel nuovo Codice, benché la svolta epistemologica, in esso avvenuta, sia evidente. In effetti, mentre nelle «Norme Generali», nel «Diritto Patrimoniale», in quello «Penale» e in quello «Processuale», affiora ancora senza attenuanti il principio epistemologico razionale soggiacente all’impianto sistematico romanistico del vecchio Codice, i libri concernenti il Popolo di Dio, il «munus docendi» e il «munus sanctificandi» sono chiaramente determinati dal principio epistemologico proprio della fede.

Quanto la logica della Chiesa universale abbia ancora prevalso nel CIC, lo si può misurare valutando le conseguenze applicative che avrebbero potuto avere i due testi chiave del Vaticano II.

Nel n. 8a del Decreto Christus Dominus, il Concilio riconosce, con dichiarazione fondamentale, che i vescovi diocesani, in quanto vicari e successori degli Apostoli, per se stessi, cioè come rappresentanti non del Papa, ma di Cristo, in nome del quale agiscono (LG 27,1 e 2), sono titolari di tutto il potere – ordinario, proprio e immediato – necessario all’esercizio del loro ministero pastorale.

Il Papa – ma ciò vale anche per il Collegio episcopale in quanto tale – in forza del suo ufficio, può solo riservare a sé o ad altra autorità alcune cause, in vista dell’utilità della Chiesa o dei fedeli, limitando, entro certi limiti, l’esercizio del potere dei vescovi (LG 27, 1). In questo contesto, la «sacra potestas» è intesa, evidentemente, non come potere di ordine, ma come potere di giurisdizione.

Questo riconoscimento del potere fondamentale proprio ai vescovi nelle loro diocesi, dove è presente Cristo e la sua Chiesa una, santa, cattolica e apostolica (LG 26,1), comprende, come risulta chiaramente anche dal n. 27 della LG stessa, sia la funzione legislativa, che quella giudiziaria e amministrativa.

In particolare, il n. 27,1 della LG sottolinea il potere e il dovere fondamentale dei vescovi di provvedere, attraverso le leggi, al bene dei loro fedeli.

E noto che il Concilio, con la constatazione del n. 8a, in cui si riconosce implicitamente che il potere di giurisdizione ordinario, proprio ed immediato del vescovo, secondo le funzioni legislative, giudiziarie e amministrative, appartiene al vescovo «ex iure divino», ha capovolto la situazione rispetto al Tridentino, per il quale il vescovo era da considerarsi solo «tamquam Seáis Apostolicae delegatus».

Abolendo il vecchio sistema della concessione del potere ai vescovi, il Vaticano II ha introdotto quello della riserva di potere in favore del Papa, segnando un ritorno al regime ecclesiale del primo millennio e stabilendo una chiara presunzione di competenza di potere a favore dei vescovi.

Tuttavia bisogna notare che, mentre il cpv. b) del n. 8 del Decreto CD concede al vescovo una larghissima facoltà di esercizio del potere amministrativo, abilitandolo a dispensare anche dalle leggi della Chiesa universale, il cpv. a) vincola più strettamente il potere legislativo del vescovo [12]. Ciò risulta da due fatti.

Prima di tutto, perché il cpv. a) attribuisce al Papa, senza sottoporlo alla clausola di dichiarazione, un potere di riserva più globale, rispetto a quello relativo alle dispense, regolato invece dal cpv. b) [13].

In secondo luogo, perché il n. 26,2 della LG afferma in modo generale che, nell’esercizio del potere legislativo, il vescovo deve attenersi non solo ai precetti del Signore, ma anche alle leggi della Chiesa. Le leggi della Chiesa, in questo contesto, sono sia quelle universali, sia quelle infrauniversali e sovraparticolari dei concili provinciali e plenari e delle conferenze episcopali.

Mentre la facoltà di dispensa, concessa dal n. 8b, per sua natura, avrebbe potuto essere utilizzata dai vescovi anche immediatamente dopo il Concilio, il principio più generale del n. 8a comprendente in particolare anche il potere legislativo dei vescovi, pur nella sua importanza fondamentale, non poteva avere, per il suo carattere troppo generale, forza di legge. Esigeva di essere concretizzata con una legge di applicazione.

Dal profilo tecnico-giuridico, la riserva al Papa, formulata al n. 8a, avrebbe legislativamente potuto essere concretizzata adottando lo stesso metodo applicato alle dispense e alle competenze delle Conferenze dei vescovi, cioè quello dell’elaborazione di un catalogo.

Il vantaggio di questa soluzione sarebbe stato quello di sotto- lineare con più evidenza il radicamento del potere legislativo dei vescovi nello «ius dwinum» e, di conseguenza, di mettere in risalto lo spessore ecclesiologico anche della Chiesa particolare.

Le difficoltà tecniche nel fissare le competenze legislative riservate al Sommo Pontefice sono evidenti. Questa soluzione, oltre a rompere con tutta la prassi legislativa precedente della Chiesa latina, avrebbe probabilmente reso improponibile anche il progetto, coltivato da decenni, di procedere ad una nuova codificazione.

Tuttavia, è evidente che il peso culturale della lunghissima tradizione della ecclesiologia latina, peraltro operante anche nella codificazione dei canoni del diritto orientale [14], è stato così decisivo da non permettere neppure che si affacciasse l’idea di un catalogo delle competenze legislative del Papa.

Mentre il n. 8a del Decreto CD introduce il sistema della riserva, il CIC offre invece un’immagine complessiva diversa, se non addirittura contraria: quella di una legislazione universale che, invece di riservarsi alcuni settori propri, apre solo alcuni spazi, quasi residuali, alla legislazione particolare; che, in concreto, sono solo una sessantina.

Come vedremo in seguito, a questi casi di legislazione concessa al diritto particolare, non possono propriamente essere assimilati, né la competenza generale dei Concili particolari, né le ottanta competenze attribuite alle Conferenze dei vescovi, di cui peraltro solo la metà circa sono di natura legislativa [15] .

Dal profilo giuridico le competenze attribuite dal CIC alle Conferenze hanno un duplice carattere: da una parte sono una concessione fatta alle Conferenze dal legislatore universale; dall’altra sono una riserva fatta dallo stesso legislatore, ma non a se stesso, bensì in favore delle Conferenze, a scapito dei vescovi diocesani.

Anche la grande autonomia statutaria, attribuita dal diritto universale del CIC agli Istituti di Vita Consacrata, non può essere considerata come una apertura in favore dello «ius particulare» vero e proprio. Si tratta, in effetti, di «ius speciale», il cui fondamento, più che di natura corporativa, è di natura carismatica, ma comunque non derivante immediatamente dalla «sacra potestas» episcopale. Dal profilo formale, infatti, il diritto degli «Istituti di Vita Consacrata» assume la connotazione di una concessione, invece di quella della riserva. Si tratta di un diritto che, per esistere, ha bisogno, fin dal suo nascere, dell’approvazione costitutiva, o del vescovo o della Santa Sede.

Di fronte a queste constatazioni la domanda che sorge spontanea è la seguente: il CIC ha tradito l’istanza fondamentale del Concilio, formulata al n. 8a del Decreto sui vescovi?

La risposta è molto più articolata di quanto le apparenze potrebbero suggerire.

Deve essere formulata, comunque, tenendo conto non tanto di criteri quantitativi o contenutistici, cioè qualitativi, bensì delle valutazioni ecclesiologiche emerse in precedenza sul rapporto Chiesa universale-particolare.

In effetti, se è vero che l’universalità e la particolarità non sono due realtà materialmente diverse, bensì solo due dimensioni formali dell’unica Chiesa di Cristo, alla quale appartengono in quanto tale tutti gli elementi costitutivi in cui si attua la salvezza attraverso la Parola e il Sacramento, ne consegue che anche le norme canoniche, in cui si esplicitano questi contenuti comuni alla Chiesa di Cristo, non appartengono, di per sé, né alla dimensione universale della Chiesa, né a quella particolare.

Si tratta di norme comuni, che hanno nella Chiesa di Cristo, in quanto tale, il loro «locus theologicus».

In realtà, tutte le norme che formulano o esplicitano il diritto divino positivo (e, sia pure in via suppletiva e provvisoria, il diritto divino naturale), non sono norme specifiche della Chiesa universale, né di quella particolare. Sono norme comuni a queste due realtà formali diverse. La Parola e i Sacramenti appartengono, infatti, alla Chiesa di Cristo in quanto tale e, perciò, in modo uguale alla Chiesa universale e a quella particolare.

A queste norme di diritto divino positivo devono essere aggiunte, a mio avviso, anche tutte quelle regole disciplinari che, nel corso dei secoli, sono diventate pacificamente patrimonio comune di tutta la Chiesa in quanto tale. Esse devono essere considerate, in forza della ricezione della Chiesa universale verso quella particolare e da quest’ultima verso la prima, come appartenenti ormai al «munus regendi» ordinario e comune della Chiesa di Cristo. Allo stesso modo che esiste un «munus docendi» comune, esiste anche un «munus regendi» comune.

Esiste, perciò nel CIC, un «corpus» legislativo che appartiene all’unica Chiesa di Cristo in quanto tale. Il fatto che queste norme siano state formulate dalla Santa Sede o dai vescovi diventa, a distanza di tempo e in ultima analisi, irrilevante.

A rigore possono essere considerate pari a norme che potrebbero essere state formulate anche da un Concilio ecumenico, nel quale l’immanenza della Chiesa universale in quella particolare, grazie alla presenza del ministero petrino e di tutti i vescovi in rappresentanza delle loro Chiese particolari, si esprime in modo perfetto.

Nel Concilio, infatti, non opera solo la «potestas episcopalis ordinaria, propria et immediata» del Papa, che può essere fonte anche di diritto particolare, ma anche la «potestas propria ordinaria et immediata» dei singoli e di tutti i vescovi: quella riconosciuta, appunto, ai vescovi dal numero 8a del Decreto CD.

La distinzione fra diritto universale e particolare è applicabile perciò propriamente solo al diritto umano, sia pure con la riserva fatta sopra a proposito delle norme ormai entrate a far parte del patrimonio comune della Chiesa, anche se si deve tener sempre conto del fatto che il diritto umano, per definizione, rimane sempre riformabile.

Il riconoscimento dell’esistenza, comunque non facile da valutare quantitativamente e qualitativamente, di un «corpus» legislativo comune a tutta la Chiesa di Cristo, ridimensiona in modo considerevole, anche nel CIC del 1983, lo scarto ancora evidente, tra il diritto universale e quello particolare.

Questa relativizzazione del problema non intende peraltro nascondere la difficoltà nel distinguere con esattezza e senza incertezze, da una parte, il diritto divino da quello umano e dall’altra, nell’ambito del diritto umano, il diritto diventato ormai patrimonio tradizionalmente comune all’identità di tutte le Chiese particolari.

La Lex Ecclesiae Fundamentalis ha dovuto essere abbandonata proprio perché, più che l’idea di enucleare il «corpus legu- um commune», aveva soggiacente un tentativo di applicare all’ordinamento canonico il concetto e la tecnica giuridica costituzionali, propri del moderno Stato di diritto.

La legislazione umano-positiva universale e quella particolare hanno, perciò, in ultima analisi, funzioni formali, che si equivalgono. Da una parte, quella di garantire l’unità, dall’altra, invece, la pluralità, secondo il principio dell’«in quibus et ex quibus». Giova sottolineare che «formale» non significa qualche cosa di irreale. L’unità, infatti, esiste o non esiste, come dato di fatto concreto. Deve però essere garantita, poiché è l’obiettivo stesso della Salvezza, ma non aggiunge nulla ai contenuti della stessa, rivelati e trasmessi in modo efficace e totale all’uomo, attraverso la Parola e il Sacramento.

L’unità ecclesiale, per definizione, non può essere realizzata se non nella pluralità di espressione. Anche la pluralità non aggiunge nulla ai contenuti della Parola e del Sacramento; è un dato di fatto che esiste o non esiste. Deve comunque essere garantito dalle Chiese particolari, che hanno il compito di assumere, nell’ambito della Salvezza, tutte le molteplici espressioni socio-culturali dell’umanità. L’umanità, infatti, deve essere salvata nella pienezza delle sue espressioni culturali più autentiche.

Il compito del diritto umano universale e di quello particolare è perciò quello di garantire, di volta in volta, nel corso della storia, sia l’unità che la pluralità dell’unica Chiesa di Cristo, realizzando nel modo umanamente migliore il principio ecclesiologico dell’«in quibus» e dell’«ex quibus».

Ciò esige, da una parte, che il Diritto canonico universale umano-positivo deve poter essere applicabile nelle singole Chiese particolari senza forzature, evitando di confondere l’unità con l’uniformità; dall’altra, che il Diritto canonico particolare umano, per uno scorretto processo di inculturazione, non deve risultare eterogeneo al diritto delle altre Chiese particolari, che costituiscono la dimensione universale della Chiesa di Cristo e costituiscono, perciò, anche il diritto universale.

Il punto di riferimento di tutte e due può essere solamente il «corpus» legislativo comune, in cui si manifesta, istituzionalmente, l’unica Chiesa di Cristo.

Questa necessaria omologabilità del diritto umano con il «corpus» del diritto divino e del diritto umano acquisito pacificamente da tutta la Chiesa come patrimonio comune, è stata formulata negativamente dalla tradizione canonistica, in particolare con Graziano e san Tommaso, con l’aforisma «lex humana, legi divinae et naturali contraria, irrita est».

Essa fa emergere il problema fondamentale soggiacente a tutto il processo legislativo universale e particolare e perciò all’ordinamento canonico globale: il problema della natura della legge canonica e del metodo della scienza canonistica.

La semplice «rationabilitas» della legge canonica e il metodo giuridico in quanto tale, non sono in grado di garantire la corrispondenza dell’ordinamento canonico con il mistero della Chiesa.

Una perfetta immanenza reciproca tra il diritto umano universale e quello particolare può essere garantita solo nella misura in cui si rispetta il fatto, con tutte le conseguenze inevitabili di metodo per la scienza canonistica, che la legge canonica non è una «ordinatio rationis», bensì una «ordinatio fidei». Sia il diritto umano universale che quello particolare devono essere formulati a partire da una epistemologia non razionale-filo- sofica, cioè puramente giuridica, ma teologica [16].

Molte smagliature del passato a livello universale e particolare avrebbero potuto essere evitate.

 


IV. Considerazioni sul CIC e sulle Conferenze dei vescovi

Fatte queste premesse a carattere fondamentale, mi sia permesso fare due considerazioni di ordine particolare. La prima riguarda il sistema codiciale attuale, la seconda le Conferenze episcopali.

1) Il CIC del 1983 è un’opera di transizione. Mentre quello del 1917 lo fu, inevitabilmente, ma solo di fatto, poiché gli era stata attribuita una pretesa di definitività, il nuovo Codice è opera di transizione per due motivi immanenti allo stesso, già fin d’ora riconoscibili [17].

In primo luogo, perché solo i tre libri centrali, il II, il III e il IV, hanno un impianto intrinseco teologico, mentre gli altri sono rimasti legati alla tradizione romanistica razionale. Anzi, l’idea stessa della codificazione rimane in futuro aperta ad altri sviluppi, vista la sua matrice culturale illuminista [18].

In secondo luogo, perché solo il futuro dirà se la Chiesa latina potrà assorbire definitivamente nel suo ambito anche quelle Chiese particolari nuove, che non hanno radici comuni con la tradizione culturale del Patriarcato latino-occidentale.

Già la recente Codificazione dei Canoni delle Chiese di Rito Orientale è, da questo punto di vista, significativo. In realtà, si tratterà di realizzare in futuro, in forma sempre più compiuta, il principio ecclesiologico dell’«in quibus et ex quibus».

La formula, secondo cui le Chiese particolari «nascono nella e a partire dalla Chiesa» («Ecclesiae in et ex Ecclesia») [19], arrischia di sovvertire il principio dell’«in quibus et ex quibus», se il termine «Ecclesia» dovesse essere usato, non come sinonimo di «Ecclesia Christi», bensì di «Ecclesia universalis» [20]. Non può perciò essere usata per la Chiesa universale, ma neppure con riferimento alla Chiesa latina nei confronti delle Chiese particolari che storicamente le appartengono. La Chiesa universale non è la madre delle Chiese particolari.

2) La seconda osservazione concerne le Conferenze dei vescovi.

Non dovrebbero esserci dubbi che le Conferenze episcopali, come del resto i Concili particolari, sono espressione della sinodalità inerente al ministero episcopale [21].

Il ministero episcopale è costituito da due elementi formali diversi, inscindibili tra di loro, poiché anche nel ministero episcopale si realizza il principio della «communio», vale a dire della immanenza reciproca degli elementi che la costituiscono.

Il sacramento dell’ordine, oltre a poter essere esercitato personalmente dal vescovo, esige, per sua natura, di essere esercitato anche sinodalmente, poiché il sacramento in quanto tale è unico. Tutti i vescovi sono investiti con l’unico sacramento.

La sinodalità nasce dal fatto che il sacramento dell’ordine è necessariamente conferito a più persone, poiché la pluralità dei ministeri episcopali è ontologicamente necessaria, in quanto riflesso storico-istituzionale dell’unità e pluralità insita al mistero trinitario.

La sinodalità non si pone come alternativa alla dimensione personale dell’esercizio del sacramento dell’ordine e della «sacra potestas». Essa non restringe l’ambito del ministero episcopale, ma gli conferisce una estensione più vasta, poiché sviluppa la relazione ontologica esistente in ogni vescovo con gli altri vescovi. L’allarga oltre i confini territoriali che determinano l’attività del vescovo quando agisce da solo.

Infatti, come afferma il n. 23,2 della LG, il singolo vescovo, da solo, se non può esercitare atti di giurisdizione sulle altre Chiese né sulla Chiesa universale, è tenuto tuttavia ad avere una sollecitudine verso tutta la Chiesa. Questa sollecitudine si trasforma in esercizio vero e proprio dell’aspetto giurisdizionale della «sacra potestas» quando opera in forme sinodali.

La sinodalità non nasce dalla pluralità delle Chiese particolari, bensì dalla struttura profonda del ministero episcopale in quanto tale, poiché, a mio avviso, l’unica opzione ecclesiologica corretta è quella espressa dal principio «Ecclesia a sacramentis» e non invece in quella «Sacramenta ab Ecclesia».

Se la sinodalità nascesse dalla pluralità delle Chiese [22], la conseguenza logica sarebbe quella di dover negare sia il carattere sinodale del Sinodo dei Vescovi [23], poiché esso rappresenta le Chiese particolari in modo prevalentemente sociologico, sia il carattere sinodale del Presbiterio, poiché esso non rappresenta affatto altre Chiese particolari. E una struttura sinodale, sia pure diversa da quella del Collegio episcopale, interna ad una Chiesa particolare e derivante dalla dimensione sinodale, cioè dell’immanenza reciproca tra il grado dell’episcopato e quello del presbiterato, insita al Sacramento dell’Ordine.

Tuttavia, la «sacra potestas» episcopale, quando è esercitata sinodalmente dai Vescovi nell’ambito delle strutture sinodali particolari (delle Conferenze e dei Concili particolari), non vincola mai il singolo vescovo «ex iure divino». «Ex iure humano» e in forza del principio della comunione, il singolo vescovo può essere vincolato, ma mai in modo definitivo.

Il singolo vescovo può sempre fare appello al Papa. Il suo appello contro una decisione giurisdizionale del Concilio particolare o della Conferenza dei vescovi è di natura completamente diversa dallo «ius remonstrandi» nei confronti del Papa [24], poiché è un vero e proprio diritto di ricorso, anche se non è ancora stato codificato.

È evidente, infatti, che, pur ammettendo l’esistenza di un potere magisteriale, sia pure particolare, provvisorio e subordinato a quello del Papa, delle Conferenze dei vescovi, un singolo vescovo non è mai vincolato in coscienza da questo magistero particolare.

Nell’esercizio del potere di giurisdizione, nelle funzioni legislativa, amministrativa e giudiziaria, i singoli vescovi possono essere vincolati disciplinariamente dal diritto universale, ma anche in questo caso a mio avviso dovrebbe esser loro riconosciuto il diritto di ricorso alla Santa Sede.

Ciò significa che pur essendo le Conferenze episcopali radicate nel diritto divino, cioè nell’elemento formale sinodale inerente al ministero episcopale, la loro forza vincolante, come del resto anche quella dei Concili minori, non è una necessità insita al diritto divino, ma una soluzione giuridica di natura solo positiva umana.

«Ex iure divino» le Conferenze non hanno perciò potestà, né ordinaria né propria [25]. Il diritto positivo può considerarla tale, come avviene per esempio per i parroci, ma si tratta di una soluzione giuridica dettata da criteri di pura funzionalità.

E perciò errato definire le Conferenze dei vescovi, come del resto i metropoliti e i Concili particolari, quali istanze intermedie tra la Chiesa universale e quelle particolari [26].

Non sono istanze intermedie «ex iure divino». Infatti, «non datur medium», cioè non si dà nessuna istanza intermedia tra la dimensione universale e quella particolare della Chiesa di Cristo; tra il Collegio dei vescovi con il Papa e i singoli vescovi, e ciò vale anche per le Chiese orientali.

Si tratta semplicemente di morfologie ecclesiali di natura socio-culturale e perciò storica, profondamente radicate nella tradizione della Chiesa, ma di natura non ontologica, anche se svolgono una funzione aggregativa del cui valore nessuno intende dubitare.

Non esiste ecclesiologicamente un’istanza intermedia, perché, malgrado la terminologia da sempre invalsa, i raggruppamenti delle Chiese particolari, attorno alle Conferenze dei vescovi, non sono Chiese nel vero senso del termine. Ad esse, infatti, non è possibile applicare il principio dell’«in quibus et ex quibus».

Non è applicabile nei confronti della Chiesa universale, perché essa non si costituisce ontologicamente nelle e dalle Chiese provinciali o nei e dai raggruppamenti territoriali delle Conferenze episcopali. Non è applicabile neppure alle Chiese particolari, perché la provincia o i raggruppamenti delle Conferenze episcopali non si realizzano nelle e dalle Chiese particolari.

Fatte queste precisazioni, non si può prescindere dal constatare che a livello delle Conferenze episcopali, alle quali il CIC significativamente non conferisce il carattere di persona morale, bensì solo quello di persona giuridica (can. 449 § 2), si sta oggi ripercorrendo di fatto, su base più apertamente democratica di quella antica dei Concili particolari, lo stesso itinerario che ha guidato lo sviluppo e la prevalenza nella ecclesiologia latina della Chiesa universale su quella particolare, e del diritto universale su quello particolare.

Dilatando questo fenomeno, le Conferenze hanno esteso la propria dimensione territoriale, dal livello nazionale a quello sovranazionale, e quindi l’ambito delle proprie prerogative, facendo sempre più perdere di vista il ruolo e gli spazi fruibili dal diritto particolare.

Infatti, l’unica fonte vera del diritto particolare che, malgrado l’ampliamento avvenuto nel nuovo CIC rispetto a quello del 1917, arrischia di essere erosa è quella della «sacra potestas» dei vescovi.

L’intensificarsi della presenza ed attività delle Conferenze episcopali segna, a mio avviso, un fenomeno che è di mutamento, sia della visione universale che di quella particolare della Chiesa, a favore di una «intermedia» figura federativa della Chiesa. Il diritto prodotto dalle Conferenze episcopali, più che particolare, è infrauniversale e sovraparticolare, e l’immagine che esse offrono della Chiesa è di una collettività confederativa.

 


V. Conclusioni

Il risultato di questa indagine permette alcune considerazioni. La prima sta nella necessità di relativizzare l’esistenza di quella tensione solitamente ritenuta strutturale, che sarebbe immanente al rapporto tra diritto universale e particolare.

Esiste, infatti, un «corpus» legislativo, per quanto difficile da identificare, comune alla Chiesa di Cristo, cresciuto enormemente nel corso di due millenni, che non dovrebbe essere propriamente classificato, né come universale, né come particolare, perché ha contemporaneamente queste due dimensioni.

Il criterio, infatti, per valutare il rapporto tra diritto universale e particolare non può essere solo quello eminentemente giuridico dei soggetti che, di fatto, hanno prodotto le norme: il Papa o il vescovo. E un criterio giuridico secolare che tende a contrapporre tra di loro i due soggetti di imputazione legislativa. Ne è prova il fatto che un vescovo può benissimo regolare l’oggetto sul quale intende legiferare, enucleandone tutta la sua valenza ecclesiale universale.

Ciò ha permesso a molte norme promulgate dai Concili particolari dei primi secoli di essere recepite dalla Chiesa universale.

Il criterio giuridico, secondo cui il legislatore sarebbe il punto di imputazione esclusivo per decidere dell’universalità o particolarità del diritto, è ecclesiologicamente errato. Infatti, ogni soggetto legislativo è sempre radicato sia nella Chiesa universale che in quella particolare: il Papa in quella particolare, perché è interiore alla stessa; il vescovo in quella universale, perché in forza dell’ordine sacro e della comunione diventa membro del Collegio dei vescovi.

La seconda osservazione è che, dal profilo quantitativo e qualitativo, la sproporzione esistente nel CIC tra le norme del diritto particolare e quelle del diritto universale rimane ancora grande.

In effetti, le norme che aprono uno spazio al diritto particolare sono, salvo errore, solamente 56. Un numero esiguo, se si vuole, benché più grande di quello del CIC del 1917. E significativo il fatto che, né l’indice del Gasparri, né il vocabolàrio del Kostler, offrano un elenco dei rinvìi al diritto particolare contenuti nel CIC del 1917, mentre ha ritenuto di doverlo fare il Prof. Ochoa, di venerata memoria, per il Codice del 1983.

Dal profilo qualitativo i settori legislativi lasciati alla competenza del vescovo possono sembrare di secondaria importanza anche se non privi di interesse locale. Essi concernono la formazione del clero, i parroci, i vicari foranei, la custodia dei libri e degli archivi, i funerali, i beni ecclesiastici, le tasse giudiziarie, ecc. Pochissime norme concernono la Parola di Dio (se non una sulla predicazione e due sulla catechesi) e i Sacramenti (rinvio del battesimo, la custodia e il ministro straordinario dell’eucarestia). E possibile perciò affermare che la preoccupazione di garantire la pluralità è meno evidente nel CIC di quella di salvare l’unità della Chiesa.

Pur restando consapevoli che le implicazioni della teologia della Chiesa universale perdurano tuttora, si deve comprendere che, a causa sia dell’espansione enorme della Chiesa, con il relativo aumento del numero dei vescovi, oltre i confini culturali dell’Occidente, sia del persistere, un po’ovunque, delle tendenze centrifughe, possano, ancora oggi, far prevalere la preoccupazione di garantire l’unità della Chiesa, anche se la vera unità ecclesiale non può ontologicamente prescindere dalla pluralità.

Poiché il perfetto equilibrio tra le due dimensioni della Chiesa potrebbe essere storicamente impossibile da raggiungere, non deve sorprendere il fatto che, in diversi momenti della storia della Chiesa, il diritto particolare prevalga su quello universale o viceversa.

È evidente, del resto, che un ritorno al regime del primo millennio non sarebbe pensabile, proprio perché il modello di rapporto fra Chiesa universale e particolare, realizzato nella Chiesa antica, o del primo millennio, non è un modello assoluto, ma storico, come quello, del resto, del secondo millennio, elaborato dalla ecclesiologia latina della Chiesa universale.

Concludendo, ci si deve augurare che la situazione interna della Chiesa contemporanea diventi meno tormentata, così da permettere in futuro uno sviluppo più proporzionato del diritto particolare. La condizione, tuttavia, per ottenere questo equilibrio, è che il diritto infrauniversale e sovraparticolaré delle Conferenze dei vescovi non diventi l’ostacolo maggiore.

 

 

 

[1] La letteratura sull’argomento è molto scarsa. Cfr., comunque, Aymans-Mörsdorf, Kanonisches Recht. Lehrbuch aufgrund des Codex Iuris Canonici, Bd. I, Paderborn – München – Wien – Zürich 13/1991, 191-192; L.M. De Bernardis, Il diritto canonico territoriale tra il Concilio Vaticano li e la riforma del Codice, in: lus populi Dei. Miscellanea in honorem Raymundi Bidagor, Bd. II, Roma 1972,27-42; F. Campo del Pozo, El Derecho particular de la Iglesia segtin el Código de 1983, «Estudio Agustiniano» (1985), 473- 528; H. Eisenhofer, Die kirchlichen Gesetzgeber. Technik und Form ihrer Gesetzgebung, München 1954, 1-45; G. May, Verschiedene Arten des Partikularrechtes, AfkKR 152 (1983), 31-45; M. Pesendorfer, Partikulares Gesetz und Partikularer Gesetzgeber im System des geltenden lateinischen Kirchenrechts, Wien 1975 (Kirche und Recht 12); W. M. Plöchl, Ueber den Regionalismus im Kirchenrecht. Ein Rückblick auf den alten und ein Ausblick auf den neuen C1C, in: Diritto, persona e vita sociale. Scritti in memoria di Orio Giacchi, I, Milano 1984,692-701; R. Puza, Die Teilkirche und ihr Recht im neuen Codex, ThQ 164 (1984), 34-51; J.-C. Röchet, Le droit particulier a-t-il retrouvésa place? L’exemple de la France, «L’Année Canonique» 27 (1983), 165-169; J. Traserra Cunillera, La legislación particular “contra ius”, «Revista Catalana de Teologia» 12 (1987), 165-194.

[2] Lo strumento più utile è l’Index Verborum ac Locutionum Codicis Iuris Canonici di X. Ochoa, Città del Vaticano 19842, utilizzando le voci: lus particulare, Ius proprium, lus universale, Norma (ae), Servatis normis, Servatis praescriptis, Servatur praescriptum canonis, Servatus (a, um), Servo (are).

[3] Sull’argomento cfr. K. Mörsdorf, Konzil II, LThK, 151 n. 4; e specialmente W. Aymans, Das Synodale Element der Kirchenverfassung, München 1970, 318-366.

[4] Tra le innumerevoli inesattezze incorse e le riduzioni arbitrarie commesse da Èva M. Maier nell’esposizione degli scritti e del pensiero della cosidetta «Scuola di Monaco di Baviera» nel suo articolo: Zum Zusammenhang von “Theologisierung” und Positivismus im kirchlichen Recht. Aktuelle Tendenzen kirchenrechtlicher Lehre und Entscheidungspraxis, OAfKR 38 (1989), 37-51, non posso non precisare che il principio della immanenza degli elementi, anche quando fosse perfetta, non implica in nessun modo una identificazione degli stessi. La nozione stessa di immanenza presuppone per sua natura una distinzione. Per un commento preciso e critico all’articolo della Maier, cfr. L. Mùlles, Theologisierung des Kirchenrechtes?, AfkKR 160/2 (1991), 441-463.

[5] Cfr. E. Corecco, Considerazioni sul problema dei diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società: aspetti metodologici della questione, in: I diritti fondamentali del cristiano. Atti del IV Congresso Internazionale di Diritto Canonico, Friburgo (Svizzera) 6-11 ottobre 1980, Milano 1981, 1222-1225.

[6] Per una giustificazione non primariamente biblica o storica, bensì ecclesiologica del Primato cfr. A. CAKRASCO RouCO, Le Primat de l’Évêque de Rome. Etude sur la cohérence ecclésiologique et canonique du Primat de juridiction, Fribourg (CH) 1990.

[7] «La Chiesa nella dimensione universale e locale è l’ambiente della nuova dimensione dell’uomo», 12 giugno 1984, in: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, Città del Vaticano 1984, VII/I, 1676-1683.

[8] Cfr. invece la Lettera della Congregazione per la dottrina della Fede, del 22 maggio 1992, ai Vescovi della Chiesa Cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, Città del Vaticano 1992, spec. 8-10. Su questo problema meritano di essere citate le osservazioni pertinenti di A. Cattaneo nell’articolo: Teologia de la lglesia parlicular. Reflexiones a proposito de un libro redente (NR. di José R. Villar, Teologia de la lglesiaparticular, Pamplona 1989), «Scripta Theologica» 23 (1991), 287-309, spec. 304.

[9] Cfr. E. Coeecco, battesimo, in: Digesto, Disdpline Pubblicistiche II/4, Torino 1987, 213-216; Id., Chiesa particolare, in: ibidem IV/4, 3-4.

[10] Cfr. G. Colombo, La teologia della Chiesa locale, in: La Chiesa locale, a cura di A. Tessarolo, Bologna 1970, 17-38.

[11] Sul problema cfr. per esempio, J. Beyer, Principe de subsidiarité ou “juste autonomie’’ dans l’Eglise, NRT 108 (1986), 801-822; F.-X. Kaufmann, The principle of subsidiarity viewed by the sociology of organisations, «The Jurist» 48 (1988), 275-291; J. A. Komonchak, Subsidiarity in the Church: The state of the question, ibidem, 298-349; E, Corecco, Dalla sussidiarietà alla comunione, «Rivista Internazionole di Teologia e Cultura: Communio» 127 (1993), 90-105.

[12] Per una interpretazione della facoltà dei vescovi di dispensare dalle norme universali cfr. J. Herranz, Studi sulla nuova legislazione della Chiesa, Milano 1990, 190- 194.

[13] Cfr. K. Morsdorf, LThK, cit., 158-161.

[14] Sulla codificazione dei canoni delle Chiese orientali in ordine al diritto particolare cfr. I. ZjÌEK, Particular Law in the code of canons of the Eastern Churches, in: The Code of Canons of the Eastern Churches. A Study and Interpretation. Essays in honor of Joseph Cardinal Pareccattil, Alwaye (India) 1992, 39-56.

[15] Cfr. J. Listl, Plenarkonzil und hischofskonferenz, in: Handbuch des katholischen Kirchenrechts, hrsg. von J. Lisd – H. Müller – H. Schmitz, Regensburg 1983, 314-320.

[16] Una posizione più sfumata in merito è quella di W. Aymans, che tuttavia rimane fedele alla formula del Mòrsdorf, secondo cui la canonistica è una «Theologische Disziplin mit juristischer Methode». Cfr. Aymans-Mórsdorf, Kanonisches Recht. Lehrbuch aufgrunddes CIC, I, Paderbom 1991, 142-152. Su questo argomento rimane spesso nella letteratura l’equivoco, secondo cui il principio deW«ordinatio /idei» mortifica la funzione della razionalità umana e, perciò, del metodo giuridico; cfr. per esempio, L. Orsy, Theology and Canon Law. New Horizons for Legislation and Interpretation, Collegeville (USA) 1992, 176-177. Caratterizzato da scarsa disponibilità a capire il pensiero degli altri è il lavoro di dottorato – che tocca evidentemente anche il problema del rapporto tra fede e ragione – di M. Wijlens, Theology and Canon Law. The Theories of Klaus Mòrsdorf and Eugenio Corecco, Lahnam – NY – London 1992, spec. 116-206.

[17] Cfr. H. Schmitz, Tendenzen nachkonziliarer Gesetzgebung, AfkKR 126/2 (1977), 381-419; Id., Der Codex Iuris Canonici von 1983, in: Handbuch des katholischen Kirchenrechts, cit., 33-57.

[18] Cfr. E. Corecco, Aspetti della ricezione del Vaticano II nel Codice di Diritto Canonico, in: Il Vaticano II e la Chiesa, a cura di G. Alberigo e J.P. Jossua, Brescia 1985, 333-397.

[19] Cfr. Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, del 22 maggio 1992, ai Vescovi, cit., 10.

[20] Cfr. la posizione più possibilista di P. Rodríguez, La comunione nella Chiesa, «Studi Cattolici» 7 (1992), 496. Per la comprensione ecclesiologica, valevole anche in questo contesto, è importante l’opera dello stesso autore, tradotta in più lingue, Chiese particolari e prelature personali. Considerazioni teologiche su una nuova istituzione canonica, Milano 1985.

[21] Cfr. E. Corecco, Articolazioni della sinodalità nelle Chiese particolari, in: La synodalité. La participation du gouvernement dans l’Eglise. Actes du VII Congrès International de Droit Canonique, Paris 21-28 septembre 1990 (.Année Canonique, hors série I II) I, 861-868.

[22] Cfr. tra gli altri J.H. Provost, Episcopal Conferences as an Expression of the Communion of Church, in: Episcopal Conferences. Historical, Canonical and Theological Studies, edited by Th. J. Reese, Georgetown, University Press, 1989, 267-289; W. Aymans, ‘Wesenverständnis und Zuständigkeiten der Bischofskonferenz im Codex Iuris Canonici von 1983, AfkKR 152/1 (1983), 46-61; Id., Synodalität – ordentliche oder ausserordentliche Leitungsform in der Kirche, in: Actes du VII Congrès International de Droit Canonique, Paris 1990, cit., 123-67.

[23] Sulla natura del Sinodo dei Vescovi, cfr. lo studio analitico e particolarmente approfondito di G.P. Milano, Il Sinodo dei Vescovi, Milano 1985.

[24] Cfr. E. Labandeira, La “remonstratio’ y la aplicación de las leyes universales en la Iglesia particular, «Ius Canonicum» 24 (1984), 711-740.

[25] Come afferma invece A. Antón, Lo statuto teologico delle Conferenze Episcopali, in: Natura e Futuro delle Conferenze Episcopali, Atti del Colloquio Internazionale di Salamanca (3-8 gennaio 1988), a cura di H. Legrand, J. Manzanares, A. Garcia y Garda, Bologna 1988, 201-235, spec. 220.

[26] Cfr., per esempio, G. Greshake, «Zwischeninstanzen» zwischen Papst und Ortsbischöfen. Notwendige Voraussetzung für die Verwirklichung der Kirche als «Communio Ecclesiarum», in: Die Bischofskonferenzen. Theologischer und juristischer Status, Düsseldorf 1989, 88-115.