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Amici Corecco

La grazia di una vita

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LA FAMIGLIA, LA VOCAZIONE (1931-1943)

Capitoli

«Fino alla malattia ho avuto una vita sostanzialmente felice»[1].

Chi ricordava Eugenio Corecco bambino poteva solo confermare questo bilancio, sorprendente se si pensa ad esempio agli anni della guerra o alla prematura morte del papà. Il racconto dei minuti episodi dell’infanzia ci rimanda l’immagine di un bambino vivacissimo, infaticabile, aperto a tutto. Esprimeva la sua allegria in un canto, che era contagioso e metteva tutti di buonumore[2].

Eugenio Pietro, nato il 3 ottobre 1931, era il terzogenito di Pietro Corecco[3] (1899-1943), originario di Bodio[4], e Margherita Beffa[5] di Airolo (1901-1997). Prima di lui erano venuti al mondo Pietro (morto di «congestione» in tenerissima età) e la sorella Stefania (1929-2016). La perdita subìta aveva lasciato nella mamma una terribile paura, che la induceva a misurare il cibo ai figli piuttosto che correre il rischio di vederli star male o addirittura morire. Nel 1997, con umile autoironia, Margherita Corecco riandava alle sue ansie di giovane madre e non taceva dei vivaci rimproveri dei famigliari in proposito[6].

Trapiantata a Chiasso[7] a causa dell’impiego in ferrovia del marito Pietro, che era verificatore-capo, conservava solidissimi legami con la sua famiglia e con la Leventina. Come gli altri suoi figli, anche Eugenio era venuto al mondo ad Airolo, nella casa che il nonno materno, contadino e a sua volta impiegato della ferrovia, si era fatto costruire nel 1907, sul modello di un’abitazione che aveva visto a Biasca. Il terzo figlio dei Corecco ricevette il nome di uno zio della mamma, il quale, scapolo e benestante, aveva deciso di dedicarsi ai nipoti e ai pronipoti. Sarebbero stati loro la sua famiglia[8]. Non poteva sapere allora che, entro pochi anni, la sua casa sarebbe diventata quella di Margherita, già vedova.

Negli anni della scuola elementare, il mondo degli adulti era per Eugenio un costante stimolo e un’interessantissima scuola: vescovo, assicurava che sarebbe stato ancora in grado di gestire un’azienda agricola, perché da piccolo trascorreva le vacanze in Leventina ed aveva imparato dai nonni tutto quello che occorreva sapere[9]. Eugenio Corecco era grato sia ai nonni Beffa di Airolo, benestanti e assai intraprendenti, sia ai Corecco di Bodio. Da ambedue queste famiglie aveva ricevuto una preziosa eredità. Dai primi l’efficienza: egli seppe sempre «far rendere il tempo», come i nonni materni, «che non si fermavano mai»[10].

Anche i Corecco erano laboriosi contadini di montagna, come i Beffa avevano legami con l’America per la consuetudine ad emigrarvi almeno temporaneamente, ma affrontavano il lavoro con maggiore distacco. Pietro Corecco aveva un fratello, Emilio, e quattro sorelle: Ottilia, Rosa, Maria e l’ultima, nata in America, detta Baby. Oltre a Pietro, si sposarono Ottilia e Rosa. Ottilia, presto vedova e senza figli, tornò alla casa paterna; anche Rosa, sposata Franscini, perse il marito, che fu una delle vittime del disastro della Nitrium nel 1921. Si ritrovò vedova con i figli piccoli, Natalino, il maggiore che aveva solo 8 anni, Eligio, Iginio e Agnese. Li allevò con il costante aiuto del fratello e delle sorelle: «sono cresciuti nella casa degli zii»[11].

Questi zii di Bodio ospiteranno per qualche mese anche Stefania, dopo la morte del padre prima che andasse in collegio[12]. Da loro Eugenio imparerà soprattutto che il significato della vita non consiste soltanto nel successo. C’è qualcosa d’altro, qualcosa che affida all’eternità l’operare. Nell’omelia della messa di deposizione della zia Maria († 1992), riandando all’insegnamento avuto da lei e da tutta la parentela di Bodio, Corecco evocherà proprio questa caratteristica. «Era pienamente a suo agio fra noi, nella vita moderna, ma ha condotto, mi pare, una vita secondo un modello antico, che era il modello della nostra famiglia, di gente relativamente povera, che ha lavorato, sudandosi il pane quotidiano sulla poca terra. Gente il cui unico motivo di gioia settimanale era la domenica: il giorno in cui si vestivano di festa, partecipavano alla Messa grande ed ai Vespri, ma era giorno di gioia e di festa»[13]. E ne approfondirà il significato: «di fronte a persone come lei, e ce ne sono tante e tante anche qui a Bodio, non possiamo non riflettere e capire che l’essenza della vita sta altrove rispetto a quello che ci è detto tante volte dai “media”. Io penso che dobbiamo cogliere un aspetto che nella sua vita è stato fondamentale: quello della docilità di fronte al Signore: non ha mai avuto segni di ribellione, ha sempre accettato la vita così come era, relativamente modesta, dentro una cerchia, di avvenimenti e di persone, ristretta però con dentro la cattolicità del cuore. Dunque non che abbia vissuto in modo chiuso, ma sapendosi cristiana, si sapeva cittadina di tutto il mondo»[14]. Dello stretto rapporto con i nonni, fa stato anche un suo quaderno di storia di terza elementare[15]. Eugenio vi descrive il suo mondo, che è anche quello dei nonni e dei loro racconti. Da queste pagine traspare la sua concretezza, l’interesse per gli utensili ed il loro impiego e funzionamento. Il suo racconto è condito con osservazioni di assoluta praticità: nessuno sterile rimpianto per quello che il progresso ha reso migliore. Eugenio Corecco faceva tutto seriamente, fino in fondo. Per questo si divertiva moltissimo e non perdeva mai tempo. Scolaro assai pronto, riusciva a fare i compiti prima della fine delle lezioni, così poteva aiutare il papà nell’orto o la mamma (godeva, di fatto, di una dispensa speciale dalla scuola per aiutarla a fare il bucato) e giocare a pallone, la sua grande passione. Questa costante assenza di compiti a casa preoccupava i genitori e così i maestri avevano preso l’abitudine di rassicurarli con un particolare messaggio quotidiano. Tornando a casa, già da lontano il piccolo Eugenio sventolava il biglietto del maestro con scritto un bel «bene», che doveva mettere in pace l’animo di mamma e papà[16]. Questo bambino, attivissimo ed attento a tutto – praticamente da sempre – aveva davanti agli occhi un cammino ben chiaro, che esplicitò a undici anni, quando chiese di poter entrare in seminario[17].

La sua vocazione era nata in una famiglia praticante, realmente cristiana[18], ed era cresciuta nella parrocchia, con le sue attività ed associazioni. La signora Margherita non menziona nessun suo particolare impegno, ma il suo racconto ritorna continuamente alle amicizie di quegli anni, spesso legate in qualche modo alla vocazione sacerdotale. Un rapporto di lunga, cordiale e reciproca stima univa i Corecco al vescovo Angelo Jelmini (1893-1968)[19], che era stato parroco di Bodio. Alla sua entrata in parrocchia nel 1917, il giovane don Angelo era stato accolto alla stazione dai fedeli e dai membri dell’Azione Cattolica, con tanto di bandiera portata dall’allora diciottenne Pietro Corecco[20]. Fu l’inizio di un periodo d’intensa collaborazione tra i due nelle attività dell’Oratorio e del cinematografo parrocchiale ed anche le rispettive madri divennero amiche. Capitava che la signora Jelmini confidasse a Luisa Corecco le sue preoccupazioni, causate soprattutto dalla sconcertante generosità del figlio:

«Quanto mi costa!», le diceva, sospirando[21]. Tra le amicizie di Chiasso, spunta dai ricordi anche quella con la signora Cortella[22], moglie del dottor Pio, uno dei responsabili del movimento cattolico che fu anche presidente del Fascio della Gioventù cattolica ticinese[23], e madre di Corrado, allora seminarista[24].

Eugenio serviva la S. Messa (ed era un chierichetto assai apprezzato[25]), frequentava l’Oratorio e partecipava – come lupetto – al movimento scout, che era presente in parrocchia. All’Oratorio di Chiasso aveva lavorato per vent’anni don Santino Cavadini[26] e vi aveva fatto fiorire un gran fervore d’attività[27]. Dopo la nomina di don Santino a parroco di Coldrerio nel 1939, l’opera era stata affidata a don Aquilino Mattei[28], allora giovane prete appena consacrato. Di temperamento schivo e discreto, don Mattei avrebbe lasciato una traccia profonda in tutti i luoghi in cui fu chiamato a prestare servizio[29] e di lui Corecco conserverà un riconoscente ricordo[30]. Se la mamma ricorda che fin da piccolissimo Eugenio mostrava interesse per la figura del prete – per non parlare di quella signora che vedendo Eugenio, un bimbo di quattro anni, rendere omaggio alla salma di mons. Bacciarini gli preconizzò che ne sarebbe stato un successore[31] – e mai ha guardato al suo futuro in altro modo, secondo la testimonianza di mons. Giuseppe Bonanomi (1920-1999)[32], don Aquilino ebbe una grande par te nella vocazione di don Eugenio. Fu lui senz’altro a raccogliere la sua prima esplicita domanda, al termine delle scuole elementari. E, a quanto ricordano i familiari, egli avrebbe preferito che si avviasse al sacerdozio ad Einsiedeln[33]. Tuttavia i genitori, soprattutto la mamma, giudicavano che era troppo presto per una decisione grave come quella di entrare in seminario e, per finire, se ne parlò con il vescovo e fu appunto mons. Jelmini a suggerire di aspettare un altro anno, con la famosa frase: «lasciamolo un altro anno per la mamma»[34].Così Eugenio frequentò la prima maggiore a Chiasso. Margherita, sempre vigile, non volle neppure sentire parlare del Ginnasio di Mendrisio, la cui scelta avrebbe comportato trasferte quotidiane in tram. Il piccolo Corecco si era adeguato all’attesa, ma spesso faceva notare alla mamma che la sua idea non cambiava[35]. Trascorso l’anno, mentre la famiglia si trasferiva a Bellinzona, Eugenio entrò nel seminario di Lugano: aveva dodici anni. Un mese dopo, per l’improvviso aggravarsi di un malessere la cui natura non era stata diagnosticata, moriva Pietro Corecco.. In quello che sarebbe stato l’ultimo giorno della sua vita terrena, insieme alla moglie, aveva fatto visita al figlio in Seminario. Ricorda Margherita che Eugenio, lieto e sorridente come sempre, aveva fatto festa soprattutto al papà, quasi presentisse qualcosa. Colto da malore la notte seguente, Pietro moriva all’alba[36]. Era il 30 ottobre 1943. Per lui, la vocazione del figlio aveva avuto un aspetto di dispiacere, perché il suo era l’unico discendente maschio della famiglia e, con questa scelta, si sarebbe estinto il ceppo, ma l’aveva accettata perché, per finire, contava solo il fatto che Eugenio fosse contento. E questa sarà la regola di comportamento di Margherita, anche su invito del figlio, che le diceva: «non ho dispiaceri, sono contento mamma, quindi sii contenta anche tu»[37].

Né genitori, né nonni hanno mai realmente interferito nella vocazione di Eugenio Corecco, assolutamente certi che egli «avrebbe fatto molto, perché questo bambino è fatto così»[38].

E davvero Margherita era contenta di questo figlio dato ad un compito grande, lontano dalla sua quotidianità fatta di casa e di campagna, ma sempre vicinissimo al suo cuore, grazie al suo averlo lasciato andare ed al profondissimo rispetto per la sua vocazione e consacrazione. Per sua madre Eugenio era già in qualche modo «lontano» quando era parroco a Prato, non soltanto quando una brillante carriera accademica lo portò anche in altri continenti[39].

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[1] Corecco a Gazebo (intervista radiofonica di Monica Gruber, 24 dicembre 1992).

[2] Intervista a Margherita Corecco, 19 maggio 1997 (Rita Monotti, Antonietta Moretti), edita in Bollettino dell’Associazione internazionale Amici di Eugenio Corecco, Vescovo di Lugano (d’ora in poi Bollettino Amici) 4/V (marzo 2001) 13-19; ACorecco Lugano, Memoria della sorella Stefania Kuehni-Corecco (2009); di quest’epoca cfr. in ACorecco Lugano, Scat. Infanzia e Giovinezza: la letterina a Gesù Bambino scritta all’età di 6 anni.

[3] Corecco è un cognome onometnico o etnovicano, la cui etimologia è probabilmente di origine pre-romana , forse celtica. Il termine «Corecco» ricorre nella valle Leventina tra Airolo e Carasso, per indicare maggenghi con stalle o cascine, pascoli erti, o vigna abbandonata (Carasso), così in un’indagine di Vittorio Raschèr, del Centro di ricerca per la storia e l’onomastica ticinese, CRT, 12 giugno 1986, in AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco.

[4] Antenati di Eugenio Corecco a Bodio sono segnalati dal XVIII sec.; cfr. l’albero genealogico ricavato dai registri parrocchiali da Giuseppe Gallizia, in AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco: Giacomo Corecco, «deFond», † probabilmente ante 1760.

[5] ACorecco Lugano, Genealogia dei Beffa (dalla fine del 1700): il nonno Sigismondo Beffa aveva sposato Margherita Filippi, di una famiglia originaria di Madrano. Dal matrimonio, oltre a Rita (Margherita) erano nati altri 8 figli: Attilia, Lina, Cherubina, Daniele, Paolino, Sigismondo, Emilio, Basilio.

[6] Intervista a Margherita Corecco, 19 maggio 1997.

[7] Ibid .: la famiglia comprò persino una casa a Chiasso, sul lungo Breggia, nel 1936.

[8] Ibid .

[9] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992.

[10] Così Stefania Kuehni-Corecco, marzo 2010 (colloquio con Antonietta Moretti).

[11] Così nel racconto di Pier Luigi Franscini, figlio di Natalino (Lugano, 23 marzo 2019): ambedue i nonni erano stati in America. Rosa era tornata per prendersi cura della mamma e, una volta sposata, non volle più attraversare l’Atlantico; il marito trovò lavoro a Bodio alla Nitrium, una fabbrica chimica, che accanto ad altre imprese contribuiva in

[12] anni a trasformare Bodio da comune rurale, con forte emigrazione (nell’ultimo quarto dell’Ottocento il 20% della popolazione si trovava in California o in Nevada), in un centro industriale; cfr. M. Fransioli, Bodio (consultato 25 marzo 2019).12 Così Stefania Kuehni-Corecco, marzo 2010 (colloquio con Antonietta Moretti).

[13] ACorecco Lugano, Omelie, nr. 34: Omelia al funerale della zia Maria, Bodio 17 ottobre 1992: la menzione del vestito rivela la delicata attenzione alla personalità della zia, che era sarta.

[14] Ibid .

[15] ACorecco Lugano, Scat. Infanzia e Giovinezza.

[16] ACorecco Lugano: Memoria della sorella Stefania Kuehni-Corecco (2009).

[17] Intervista a Margherita Corecco, 19 maggio 1997: ella ricorda con quanta attenzione il figlio, che aveva allora circa 4 anni, avesse osservato due preti che passavano sotto le loro finestre, primo sintomo di una vocazione, che si sarebbe confermata nel tempo.

[18] Cfr. ibid. , e soprattutto la Memoria della sorella Stefania (2009), in ACorecco Lugano, che evocano numerosi episodi di minuta carità quotidiana, così importanti in anni di povertà e di razionamento a causa della guerra.

[19] HS I/6, 266-269: vescovo dal 1935.

[20] Pietro Corecco resterà attivo nell’AC, tanto che nell’atto di morte il parroco scrive:

[21] al Gruppo Uomini Cattolici», cfr. fotocopia del registro in AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco.21 Intervista di Margherita Corecco, 19 maggio 1997.

[22] Ibid .

[23] Negli anni 1918-1919, cfr. I Appendice , in L. Maffezzoli (a cura di), Il popolo e la fede. 150 anni di Azione Cattolica nella Svizzera italiana e in Europa , Roma-Lugano 2011, 372.

[24] A Milano, nel preciso ricordo della signora Margherita; ed in effetti tra il 1932 ed il 1933, Corrado (Dino) Cortella (1910-2004), lasciato temporaneamente il seminario di S. Carlo a Lugano, era entrato a Venegono, per qualche mese; fu poi al Collegio St. Michel di Friburgo (dove ottenne la maturità) ed infine di nuovo al seminario di Lugano (cfr. AVescLugano, Fondo Seminario di S. Carlo, Scat. VI, fasc. Corrado Cortella); per un breve profilo biografico di questo prete che fu responsabile della Caritas praticamente fin dalla sua fondazione negli anni della guerra, arciprete della Cattedrale e primo vicario generale di mons. Corecco, cfr. SC 114: Corrado Cortella (1910-2004); HS I/6, 287; e Bollettino Amici 6/VII (luglio 2004) 7-15: il necrologio e la trascrizione dell’intervista rilasciata a Patrizio Foletti e Rita Monotti il 9 maggio 1999.

[25] AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco: il parroco di Chiasso lo segnala tra le sue note di merito nel 1943, al momento in cui Eugenio Corecco entra in Seminario; cfr. anche l’intervista di Margherita Corecco, 19 maggio 1997, che ricorda come fosse esplicitamente richiesta la sua presenza, per l’attenzione e la precisione con cui svolgeva i suoi compiti ed il suo costante buon umore.

[26] Per don Santino Cavadini (1897-1970), cfr. SC 93: ordinato prete nel 1922, venne subito inviato come vicario nella parrocchia di Chiasso; passò parroco a Coldrerio nel 1939.

[27] AVescLugano, Fondo Parrocchie, Chiasso, Scat. 4: Attività dell’Oratorio festivo e cinematografo.

[28] SC 119: don Aquilino Mattei (1914-1995) era nato ad Osogna; ordinato prete nel 1939 da mons. Angelo Jelmini. Dopo gli studi nel seminario diocesano, ebbe come prima destinazione pastorale quella di vicario nella parrocchia di Chiasso, retta allora da mons. Gioachino Masciorini (1893-1956, cfr. SC 49). Suo compito era la cura dell’Oratorio, assai attivo e ben avviato. Don Mattei resterà a Chiasso pochi anni, con grande rincrescimento della popolazione. Sarà chiamato dapprima a reggere la vicaria della Madonnetta (1942); in seguito diventerà parroco di Gentilino ed economo spirituale di Agra (1945-1977); da ultimo presterà ancora servizio come cappellano di Gordevio. Da notare che negli anni di Gentilino don Aquilino fu parroco di Aldo e Cele Daccò, che lo aiutarono a realizzare una casa di vacanza per la parrocchia ad Altanca, cfr. M. Viganò (a cura di), Aldo Daccò, Gaggiano 1896-Milano 1975: un industriale tra sfide sportive e mecenatismo , Chiasso 2016, 157160.

[29] AVescLugano, Fondo Sacerdoti defunti: la piccola rassegna stampa di necrologi e di ringraziamenti.

[30] Ibid .: necrologio in Giornale del Popolo, 24 gennaio 1995, a firma dgb (don Giuseppe Bonanomi).

[31] Intervista di Margherita Corecco, 19 maggio 1997.

[32] Bollettino Amici 4/V (marzo 2001) 20-22, 20: «Io lo ricordo però ancora più piccolo, quando giocava all’Oratorio, diretto allora dal compianto don Aquilino Mattei, al quale Eugenio Corecco attribuiva gran merito della sua vocazione sacerdotale»; per Giuseppe Bonanomi (1920-1999), cancelliere vescovile negli anni del vescovo Corecco, cfr. HS I/6, 295; e SC 129.

[33] Intervista con la mamma Margherita Corecco del 19 maggio 1997.

[34] Ibid .

[35] ACorecco Lugano, Memoria di Stefania Kuehni-Corecco (2009); di quest’epoca esiste una lettera alla madre, scritta in occasione della festa della mamma , nella quale Eugenio si impegna a non darle mai dispiaceri ed a correggersi dai suoi difetti, cfr. ACorecco Lugano, Scat. Infanzia e Giovinezza.

Dell’esperienza nel Seminario minore Eugenio ricorderà soprattutto quello che gli è stato facile[40]. In questa nuova vita, ed anche probabilmente grazie all’assoluta positività con cui il vescovo Corecco leggeva la sua storia, si stemperò il dolore per la morte improvvisa del padre[41], al quale

era legato da un profondo affetto e da una grande volontà di imitazione. Don Pierino Tognetti (1922-2011)[42], all’epoca studente di teologia, era prefetto della classe di Eugenio Corecco e lo conobbe bene, anche perché, essendo anche lui originario di Bodio, durante l’estate, aveva l’occasione di frequentare il suo scolaro e la di lui madre, signora Margherita. A tanti decenni di distanza, don Pierino lo descriveva come un ragazzino intelligente e vivacissimo, capace di mobilitare i compagni senza mai atteggiarsi a leader. Non amava primeggiare, ma intorno a lui ferveva sempre la vita[43]. Corecco ricorderà, con una certa tenerezza, quelle giornate che iniziavano con la S. Messa alle 6 meno 20 ed il ritmo intenso delle attività, che non lasciava ai piccoli studenti un gran tempo per l’introspezione[44]. Vi si adattò benissimo, approfittando persino di certi spazi di maggiore libertà, rispetto alla vigile tutela materna: ad esempio poteva giocare di più a pallone[45]. Nel seminario le pagelle di Eugenio Corecco furono costantemente brillanti, nessun cedimento, nessuna crisi adolescenziale sembra aver potuto turbare il suo rendimento scolastico ed il suo comportamento, premiato quasi sempre con il voto massimo[46]. Eugenio Corecco in seminario incontrò davvero le persone, compagni di studio ma anche superiori, e strinse

con loro legami di amicizia che durarono per tutta la vita[47].

Tuttavia gli anni non potevano certo scorrere senza costringere alla verifica della vocazione[48], tanto più che il seminario non versava in buone condizioni[49] ed il clima culturale di quegli anni non guardava con stima a chi sceglieva una forma di vita consacrata. Già negli anni Cinquanta, la fede, intesa come radicata tradizione, fondamento dei valori sociali ancora largamente condivisi dalla mentalità comune e humus delle vocazioni, presentava segni di cedimento, che mons. Jelmini leggeva con estrema chiarezza[50] e cercava di contrastare soprattutto riproponendo la tradizione[51]. L’afflusso delle nuove leve, per lo più ragazzi che terminavano le scuole elementari, iniziava a diminuire. Eugenio stesso nel 1943 era entrato in una I Ginnasio assai poco numerosa, malgrado la presenza di alcuni seminaristi italiani rifugiati in Svizzera a causa della guerra. Rientrati costoro nelle rispettive diocesi, egli proseguì gli studi in compagnia di un drappello di coetanei, che andò progressivamente erodendosi[52]. Negli anni seguenti i ragazzi che si avviavano al sacerdozio furono più numerosi, tuttavia la tendenza delle vocazioni a «perdersi per strada» si confermava con inesorabile regolarità.

A quell’epoca, la formazione dei preti avveniva nel seminario di Besso/Lugano. I chierici frequentavano per cinque anni il Seminario minore (corrispondente al Ginnasio), per accedere in seguito ai tre anni del Seminario maggiore (parallelo al Liceo) e, sempre nello stesso istituto, studiavano la teologia, per quattro anni. Nell’edificio di Besso si cercava di mantenere una separazione tra piccoli e grandi, ovvero tra il Seminario minore e quello maggiore, perché era evidente che non si potevano sottoporre alla medesima disciplina ragazzi di 12 anni e giovani ultra-ventenni. Tuttavia gli spazi mal si prestavano a questa divisione, che appariva talvolta artificiosa. Anche il fatto che i medesimi insegnanti spesso operassero nei diversi ordini di scuola non facilitava la separazione[53].

Dal 1942, l’istituto era retto da mons. Martino Signorelli (1896-1975)[54], chiamato a quel compito da mons. Jelmini che, in questo modo, ne portava a compimento la «riabilitazione». Dotato di un vivace ingegno e di una insaziabile sete di sapere, Signorelli aveva iniziato l’insegnamento in seminario nel 1919, addirittura prima della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta nel 1920. Il suo entusiasmo, la sua disponibilità al rapporto con gli studenti, soprattutto la sua profonda persuasione che la solidità della vocazione sacerdotale si fondasse sulla libera e consapevole adesione della coscienza e dell’intelletto alla fede ed ai suoi dogmi, piuttosto che sull’abitudine all’obbedienza e tanto meno su di un pericoloso formalismo, che ottundeva le domande, gli rendeva difficile accogliere alcune direttive educative care al vescovo Aurelio Bacciarini (1873-1935)[55] ed interpretate con estremo rigore dal rettore Emilio Campana (1874-1939)[56]. Un conflitto finì per opporre frontalmente Signorelli e Campana negli ultimi anni dell’episcopato di Bacciarini[57]. Come fa emergere il suo biografo don Aldo Lanini, Signorelli e Bacciarini non si capivano e, se i provvedimenti disciplinari portano la firma del vescovo, le inchieste furono condotte da altri, mentre l’accusato fu costretto sempre a spiegarsi per lettera[58]. Nel 1932, Signorelli era stato allontanato dal seminario ed «esiliato» nella parrocchia di Rancate. Gli fu proibito di avere rapporti con i suoi ex-studenti e, per avere violato questo divieto, incorse in gravi sanzioni, che ne limitarono anche il ministero pastorale[59]. All’indomani della morte di Bacciarini, il vicario generale don Davide Sesti (1878-1950)[60] si mobilitò immediatamente per sanare le fratture che si erano formate nel clero durante l’ultimo drammatico scorcio dell’episcopato bacciariniano. Tra queste sicuramente campeggiava quella che riguardava il Signorelli. Rapidamente reintegrato in tutte le facoltà sacerdotali, si vide offrire un nuovo importante campo in cui mettere a frutto il suo talento: l’insegnamento al Collegio Papio di Ascona (1935). Sette anni dopo, Jelmini lo invitava ad assumere il gravoso compito di rettore del seminario. Mons. Signorelli lesse questa chiamata come la piena riabilitazione anche della sua linea educativa. A scanso di equivoci, in un lungo documento indirizzato al vescovo[61], egli scriveva nero su bianco le sue intenzioni e le coordinate del suo progetto educativo. Accanto alla solenne professione di assoluta fedeltà al vescovo (primo e vero rettore del seminario), egli esplicitava il suo pensiero sulla formazione intellettuale e spirituale dei chierici, sulla disciplina, sugli insegnanti, sul loro lavoro, sui rapporti tra di loro e con il rettore, sul direttore spirituale (che Signorelli considerava «sovrano nel suo ordine» senza immaginare quante spine gliene sarebbero venute[62]) ed i suoi rapporti con il rettore, sui compiti ed i ruoli del personale ausiliario. La realizzazione di molti degli auspici contenuti in queste pagine era ardua[63], talvolta affidata al rapporto di amicizia che legava il neo-rettore ai suoi collaboratori e, con l’andar del tempo, questo fondamento rivelerà tutta la sua fragilità[64]. Eugenio Corecco, entrato in seminario all’inizio del rettorato Signorelli, fu certamente testimone del degrado che questa conduzione subiva. Se egli accenna solo con estrema discrezione al disagio che segnò l’ultimo suo periodo della sua frequenza[65], da altre fonti emergono i connotati di un clima marca to da gravi difficoltà. A detta delle numerose relazioni e pareri sollecitati da mons. Jelmini, costantemente preoccupato per lo stato dell’istituto, le cose andavano piuttosto male: secondo qualcuno mancava ogni ragionevole fondamento non solo della vita sacerdotale, ma addirittura della fedecristiana[66]. Un gruppetto di studenti, per altro tra i più vivaci dal profilo intellettuale, si segnalava per un comportamento lamentevole dal punto di vista disciplinare. Questi giovani, pur esprimendo il desiderio di diventare preti, sembravano non tollerare più né le pie pratiche di pietà tradizionali né le rigorose regole, che disciplinavano il comportamento e l’abito dei seminaristi per volontà del direttore spirituale a discapito di quella del rettore; la loro divenne ribellione aperta contro lo stesso vescovo, tanto che i più accaniti verranno allontanati. Ad alcuni fu preclusa del tutto la strada verso il sacerdozio, ad altri si offrì un’ulteriore possibilità e furono trasferiti in diversi seminari lombardi, ognuno per conto suo[67]. Eugenio Corecco non faceva parte di questo gruppetto, ma vi contava degli amici, a cui rimase fedele. Interpellato, al pari di tutti gli altri studenti, sul clima dell’istituto, egli osservava che gli sembrava smarrito il significato ultimo dello stare in seminario[68]. La sua intuizione circa la profondità del malessere è confermata dall’autorevole giudizio di Giuseppe Martinoli (1903-1994), professore del seminario da molti anni e provicario generale dal 1949[69]. Ripercorrendo i passi dell’opera di Jelmini verso un istituto che egli ben conosceva, Martinoli ricordava come il vescovo avesse voluto dapprima rimuovere «il peso dei provvedimenti presi nel 1932 […] come termine di una campagna che non fu certo condotta secondo le norme della disciplina», ma, venendo al presente, ovvero agli esiti del rettorato di Signorelli, esprimeva il suo profondo disaccordo e denunciava una grande confusione, osservando che:

«C’è una mentalità ispiratrice, che è sbagliata: conta di più essere umanista, letterato, che non essere sacerdote e pastore di anime […]»[70].

Eppure, nell’intervista del 1992, Corecco si soffermava proprio sulla limitatezza intellettuale dell’ambiente e sull’assenza di prospettive, mettendo in rilievo i limiti della formazione culturale. Dopo anni di insegnamento accademico, egli coglieva chiaramente le carenze della scuola di allora. A suo giudizio, non mancava la cultura (a cominciare dal rettore, uomo di vastissime conoscenze) ma piuttosto la capacità di trasmetterla, di insegnare un metodo. Infatti nessuno degli insegnanti aveva potuto frequentare un’università e tutti erano autodidatti[71]. Ma anche qualcosa d’altro mancava in questa educazione, che contrapponeva la cultura alla spiritualità ed alla devozione, la coscienza e l’intelligenza all’obbedienza.

Al termine del corso liceale, di fronte alla prospettiva di iniziare la teologia praticamente da solo, Corecco si rendeva conto di quanto l’ambiente di Lugano gli andasse stretto; chiese quindi di poter studiare teologia a Roma, ma mons. Jelmini non era d’accordo. L’estate seguente, Eugenio Corecco incontrò mons. Luigi Villa[72], il prete che sarebbe divenuto il suo padre spirituale. Questo sacerdote ambrosiano, colto e profondamente sensibile, era assistente ecclesiastico all’Università del S. Cuore a Milano e teneva esercizi spirituali e ritiri al clero ed ai seminaristi in tutta la Lombardia. Stretto collaboratore di padre Agostino Gemelli (con il quale mons. Jelmini intratteneva cordiali ed assidui rapporti dall’epoca della sua ordinazione episcopale), amico di don Siro Croce e di don Giovanni Maria Colombo[73], parroco di Prato, mons. Villa venne chiamato anche in Ticino come predicatore mensile.

«Durante un’estate all’inizio degli anni ’50 – si trattava probabilmente dell’estate del 1952 – avevo predicato al seminario estivo di Prato Leventina ed avevo ascoltato di buon grado i seminaristi desiderosi di parlare con me o di confessarsi»[74]. Corecco fu tra questi e, malgrado il forte senso di discrezione che lo accompagnerà per tutta la vita, gli aprì il suo cuore. Mons. Villa colse immediatamente il notevole potenziale intellettuale e la profondità della fede del giovane chierico che aveva davanti, insieme al grave rischio che in quel momento una vocazione così promettente correva. Incoraggiò Eugenio a rinnovare la sua richiesta a mons. Jelmini, facendo presente al superiore che ne andava della vocazione; Jelmini, questa volta, comprese e lo lasciò partire. Sempre assai concreto, Corecco si diede da fare per conservare la borsa di studio della parrocchia di Bodio (300 FRS mensili), onde evitare che il soggiorno all’estero pesasse troppo sulle finanze della mamma, che integrava la esigua pensione vedovile con il suo lavoro[75]. A Roma, come la maggior parte dei chierici ticinesi, prese alloggio al Seminario Lombardo[76] e si iscrisse alla Gregoriana, dove scoprì lo stimolante mondo dell’università, e, sebbene non ne fosse forse pienamente consapevole, lasciò un buon ricordo di sé. Corecco dirà di aver studiato in una scuola che «contava grandi nomi»[77]: infatti il corpo insegnante dell’ateneo romano dei Gesuiti annoverava eminenti personalità provenienti da tutto il mondo[78]; tra questi anche i teologi di fiducia di Pio XII, a sua volta ex-studente della Gregoriana. L’impegno nello studio era intenso, ma anche lieto e lasciava spazio all’amicizia con gli altri seminaristi, in particolare con gli altri tre ticinesi[79], e a momenti di svago. Il rientro in patria, alla fine dell’anno accademico, si allungava perché includeva nel tragitto qualche meta prestigiosa, grazie al biglietto ferroviario che permetteva di fare tappe intermedie ed alla possibilità di chiedere ospitalità a qualche convento[80]. Parte delle vacanze estive di Eugenio Corecco continuò ad essere dedicata all’apprendimento del tedesco[81], non senza suscitare qualche perplessità nel rettore del Seminario Lombardo, che pur apprezzava la sua vivacità intellettuale, perché, chierico già tonsurato, era solito partire per le sue vacanze linguistiche in autostop e abbandonando, temporaneamente ma senza patemi, la veste talare[82].

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[36] Intervista di Margherita Corecco del 19 maggio 1997.

[37] Ibid .

[38] Così aveva riposto il nonno Beffa ad un compaesano, il quale, saputo che Eugenio intendeva fare il prete, aveva cinicamente osservato che allora quel ragazzo aveva voglia di fare poco ( ibid. ).

[39] Significative a questo proposito sono le osservazioni nell’intervista del 19 maggio 1997 sull’abitudine di mettersi in ginocchio davanti al vescovo, anche quando si trattava di un amico di famiglia.

[40] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992.

[41] Ibid ., e soprattutto la lettera del dodicenne Corecco, in ACorecco Lugano, Scat. Infanzia e Giovinezza, con la quale assicura di stare bene, tutti gli sono vicini e si sente accompagnato da tanto affetto. Tuttavia lo stesso Corecco osserva che questa morte ha lasciato un segno profondo in Margherita. Di fatto, la morte di Pietro porta ad una sorta di diaspora della famiglia: Margherita, chiusa la casa di Bellinzona, ritornerà ad Airolo dai genitori, riprenderà il lavoro nei campi e sugli alpi, fino a quando non accetterà di accudire lo zio Eugenio, trasferendosi in casa sua; Stefania, dopo essere rimasta alcuni mesi presso gli zii di Bodio ufficialmente per imparare a cucire, proseguirà i suoi studi in un collegio vicino a Lucerna, mentre Eugenio continuerà la sua vita in seminario.

[42] Per don Pierino Tognetti (1922-2011), cfr. SC 133.

[43] Intervista di don Pierino Tognetti (Antonietta Moretti, Intragna 1° marzo 2010).

[44] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992: «uno non aveva neanche il tempo di pensare a se stesso».

[45] Ibid .

[46] AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. 8A: la documentazione degli anni Cinquanta fino all’ordinazione presbiterale.

[47] Spicca la fedeltà all’amicizia con don Siro Croce (1910-2000; cfr. SC 114), che incontrò sulla porta entrando in seminario, quando anche questo prete iniziava il suo lavoro di vice-rettore per poi divenire nel 1958 suo parroco ad Airolo. Corecco, memore del suo insegnamento in seminario, pubblicherà un caloroso augurio sul Bollettino parrocchiale di Airolo del maggio 1962, in occasione del suo 25° di Messa (ACorecco Lugano, Scat. 8, fasc. 9, nr. 29); nel 1964 in una lettera a mons. Jelmini si permetterà di suggerirne il trasferimento a Lugano, per motivi di salute, per permettergli di dedicarsi ad un’attività più consona alle sue attitudini e perché la parrocchia di Airolo ha bisogno di un impulso più vivace (cfr. ACorecco Lugano, Scat. 8, nr. 15: 1° luglio 1964); due anni dopo don Croce veniva processato per atti contro la morale e condannato a 5 mesi con la condizionale; come riferisce una velenosa cronaca del Il Dovere, l’unico giornale a dare notizia del processo, che conclude così la sua corrispondenza. Pronunciata la sentenza «un prete dall’aria giovanile e simpatica gli si avvicina. Escono insieme e partono a bordo di una Volkswagen» (cfr. Il Dovere, 3 giugno 1967, 2) . Come non riconoscere in questi brevi tratti don Corecco! Due anni dopo ancora si interessa della sistemazione di don Croce (cfr. AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco: lettera a mons. Martinoli del 25 gennaio 1969 e risposta del vescovo del 28 gennaio 1969: don Croce è a Menzingen); tra i compagni spicca l’amicizia con don Bruno Zoppi (1931-2001), cfr. SC 146, e don Bruno Molinari (  1927), cfr. SC

[48] si ritira a vita privata nel 1986), a proposito del quale si veda anche la lettera a mons. Jelmini del 10 settembre 1967, da Monaco, in AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco.48 Si vedano a questo riguardo anche i giudizi del parroco sul comportamento del chierico Corecco durante le vacanze estive: pur essendo sempre puntuale nell’adempienza agli obblighi del suo stato, nel 1948, il parroco don Gianini (Gianini Emilio, 1894-1966, SC 90) lo trovava poco convinto/troppo indipendente; l’anno seguente, concludeva il solito rapporto positivo, osservando che il chierico gli sembrava incerto e un po’ chiuso (AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr Corecco; e Fondo Seminario S. Carlo, Scat. XXVII).

[49] Cfr., a tale proposito, A. Lanini, Martino Signorelli un dissenziente fedele , Locarno 1979, 40-48: le pagine sul rettorato Signorelli (1942-1957; SC 89), progressivamente emarginato.

[50] Così I. Marcionetti, Angelo Jelmini vescovo , Locarno 1986, 35.

[51] Così l’avvocato Antonio Snider (1922-2019) in un colloquio con Antonietta Moretti (Orselina, 16 novembre 2018). Ex allievo di Martino Signorelli al Papio, Antonio Snider era un giovane cattolico, pieno di attese e di domande, che aveva cercato un punto di riferimento nel gruppo della Gazzada.

[52] AVescLugano, Fondo Seminario di S. Carlo, Registro dei chierici alunni dei Seminari vescovili ticinesi 1904-1969 (registro minore): Eugenio ebbe 7 compagni in seconda ginnasio; cinque in terza, tre in quarta e quinta ginnasio e in prima Liceo e poi solo due.

[53] Si vedano su questo problema i cambiamenti architettonici introdotti proprio negli anni Cinquanta, cfr. AVescLugano, Fondo Seminario, Scat. V: 1959.

[54] SC 89: Martino Signorelli tenne il rettorato fino al 1957, tornò poi nella sua Valmaggia; riprese l’insegnamento al Papio e ne assunse anche la direzione (1964); trascorse anche i suoi ultimi anni di quiescenza di nuovo nella sua amata valle.

[55] HS I/6, 259-264: vescovo dal 1917.

[56] SC 15; ma cfr. anche Lanini, Martino Signorelli: un dissenziente fedele , 28, per l’impatto negativo tra Signorelli e Campana, subentrato a mons. Angiolo Pometta nella carica di rettore.

[57] Ibid. , 101-142: il capitolo «Dissenso e fedeltà»; e AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. VI, per le carte di questo conflitto.

[58] AVescLugano, ibid .

[59] AVescLugano, ibid .: gli atti ed i verbali dell’inchiesta del 1932.

[60] SC 71: tenne la carica dal 1935 al 1940; cfr. anche HS VI/1, 284.

[61] AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. Vb: A sua Ecc. Ill.ma e Rev.ma mons. Angelo Jelmini, L’ufficio del Rettore del Seminario, Memoria presentata dal sac. prof. Martino Signorelli, settembre 1942.

[62] Si veda Lanini, Martino Signorelli un dissenziente fedele , 43.

[63] Ibid ., 40: «vi sono aspetti del suo pensiero che sembra opportuno mettere in risalto. L’uno è la disponibilità più ammirevole, quasi eccessiva, nei riguardi della volontà e persino dei minimi desideri del vescovo».

[64] Ibid ., 42s.: Lanini osserva come non fu possibile al Signorelli rinnovare la compagine del corpo insegnante, facendo capo a colleghi scelti tutti fra i suoi antichi allievi.

[65] Corecco ospite a Gazebo, 24 dicembre 1992.

[66] Così nella relazione di Alfredo Poncini (in AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. VI). Alfredo Poncini (nato nel 1928) si era avviato al sacerdozio dopo aver studiato al Politecnico di Zurigo ed era allora studente a Roma. Ordinato prete nel 1952, lascerà l’abito nel 1978 (SC 140).

[67] AVescLugano, Fondo Seminario di S. Carlo, Scat. VI: le copiose carte di questi anni e le lettere dei seminaristi, che subirono sanzioni disciplinari, come Oliviero Bernasconi (  1930; SC 143), che fu mandato a Venegono e, come dichiarerà in un’intervista del 27 agosto 2010, con immensa sua fortuna, perché il nuovo ambiente gli aprì orizzonti vastissimi, soprattutto dal punto di vista intellettuale; e Bruno Zoppi (1931-2001), che andò a Pavia, cfr. SC 143. Entrambi divennero sacerdoti e servirono la Chiesa di Lugano.

[68] AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. VI: inchiesta del 20 giugno 1950.

[69] HS VI/1, 269s.: fu, dal 1968 al 1978, amministratore apostolico e poi primo vescovo di Lugano.

[70] AVescLugano, Fondo Seminario di S. Carlo, Scat. VI: 3 agosto 1950.

[71] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992; non mancava però di citare l’eccezione costituita da don Luigi Agustoni, musicologo specialista di canto gregoriano, divenuto una celebrità mondiale; si veda anche AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, fasc. 6, Anni ’50 : lettera s.a. del sacerdote Luigi Agustoni (1917-2004; SC 122), che è a Solesmes ed aspetta anche il seminarista Corecco, per un ritiro di studio in un’oasi di pace, mentre il seminario è in subbuglio .

[72] Intervista di mons. Luigi Villa (Patrizio Foletti e Rita Monotti, Milano 14 novembre 1998).

[73] Giovanni Maria Colombo (1919-2011), cfr. SC 125.

[74] Ibid .

[75] AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco: 2 ottobre 1952, lettera al vescovo Jelmini.

[76] Ibid. : 1° ottobre 1952, lettera di mons. Jelmini a don Francesco Bertoglio, rettore del Seminario Lombardo, per sollecitare un posto per questo nuovo chierico.

[77] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992.

[78] Intervista a mons. Carlo Quadri, canonico di S. Lorenzo a Lugano (Antonietta Moretti, Lugano 29 aprile 2013): dai ricordi di questo coetaneo di Corecco, che studiò a Roma negli stessi anni, emergono i nomi dei docenti di dogmatica Maurizio Flick e Bernardo Lonergan, canadese; dello spagnolo Juan Alfaro, il teologo della speranza; dell’americano John Patrick Donnelly; dell’olandese Sebastian Tromp.

[80] .: si trattava, oltre che di Carlo Quadri (  1931), cfr. SC 145, di Angelo Casella (1926-2010), cfr. SC 141, e di Enrico Simona (1930-1988), cfr. SC 144; per un giudizio su questi seminaristi ticinesi da parte del Rettore del Collegio Lombardo, cfr. AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. XXVII: pagelle degli anni 1952-53 e lettere del 1° luglio 1952 e 8 luglio 1953.80 Così dall’intervista a mons. Carlo Quadri, 29 aprile 2013.

[81] Era un preciso desiderio di mamma Margherita, che ben sapeva l’importanza di questa lingua per chi viveva in Svizzera (intervista a Stefania Kuehni-Corecco, febbraio 2011).

[82] AVescLugano, Fondo Seminario S. Carlo, Scat. XXVII: rapporto di mons. Francesco Bertoglio dell’8 luglio 1953, che non tace anche altre osservazioni negative. Trova infatti che Eugenio Corecco sia diffidente, urtato dalle disposizioni che non gli aggradano, e di umore un po’ instabile (anche in Fondo Vescovi, Scat. Mr. Corecco).

Nel 1955, il 2 ottobre[83], Eugenio Corecco riceveva l’ordinazione sacerdotale a Bodio. Ricorda mons. Villa che fin da allora era circondato da una tale stima, che qualcuno già lo vedeva futuro vescovo[84]. Malgrado queste brillanti previsioni, nel 1956 divenne parroco di Prato Leventina. Mons. Jelmini aveva a cuore soprattutto le sue parrocchie, non voleva lasciarle sguarnite e quindi nessuno dei suoi chierici continuò gli studi[85]. Eugenio sarebbe rimasto volentieri a Roma, ma accolse di buon grado la decisione di Jelmini, che lo inviava in un piccolo villaggio. Egli voleva essere soprattutto prete e si pose con umiltà di fronte al nuovo compito. Per tutta la vita sarà grato ai parrocchiani di Prato per avergli insegnato a fare il parroco, cioè a predicare, a spiegare il catechismo, a portare la responsabilità di una comunità[86]. Come emerge dalle omelie, accuratamente preparate, desiderava che i suoi parrocchiani prendessero coscienza dell’eredità di fede che avevano ricevuto dai loro antenati, che ne facessero tesoro, non soltanto custodendo le tradizioni, ma riscoprendo il dinamismo concreto della vita cristiana, che aveva disseminato la regione di bellissime chiese e dato forma ai rapporti di una società civile[87]. Il desiderio di far presente la concretezza della fede lo spingeva a stare con la gente, ad accettare gli inviti. Soprattutto si coinvolgeva con i giovani, andando con loro in montagna, sia d’estate che d’inverno (imparerà a sciare)[88]. A Prato non era lontano da mamma Margherita, che ricorderà di lui, oltre alla sollecitudine amichevole verso i parrocchiani, la Vespa con la quale si spostava, fino a quando lei stessa, su suggerimento di alcune pie signore che avevano a cuore il decoro del giovane parroco, non gli regalò la prima Volkswagen[89]. Mons. Villa, con il quale continuava un intenso amichevole rapporto, non era però dell’avviso che i talenti intellettuali di Corecco dovessero rimanere in qualche modo nascosti. Dopo che Eugenio ebbe ottenuto la licenza in teologia alla Gregoriana nel 1958, lo sollecitava perché chiedesse al vescovo il permesso di continuare gli studi ed egli stesso approfittava della sua posizione per fare qualche pressione[90]. Eugenio Corecco ricorderà con molta ironia come fu che egli divenne canonista. Mons. Jelmini gli aveva lasciato la scelta tra lo studio del diritto canonico e quello della matematica. Questa seconda materia lo avrebbe portato quanto prima all’insegnamento al Collegio Papio di Ascona, una prospettiva che non lo attirava molto, ed egli indirizzò quindi le sue preferenze sul diritto[91]. Dopo soli due anni di parrocchia dunque, si preparava a partire per riprendere gli studi. Il compito di porgergli il saluto e l’augurio di prammatica a nome della comunità di Prato fu affidato a Mario Orelli. Ed è significativo che l’oratore abbia espresso la certezza che, ovunque fosse andato e qualunque cosa avesse intrapreso, don Corecco «non avrebbe fallito a glorioso porto – assistito come ha tanto semplicemente dimostrato di essere – da doti così poco appariscenti e così indispensabili a rendere ovunque vivo e operante il messaggio evangelico». Di lui – ricordava Orelli – la comunità apprezzava soprattutto il cuore, il

«suo gran cuore […] non foderato di libri […] per il quale noi non abbiamo tardato ad essere il suo gregge affezionato e fedele»[92].

Corecco lasciava Prato Leventina con lo sguardo fisso avanti, ma la sua non era una fuga. Aveva amato la vita del parroco e si era sinceramente affezionato alla sua comunità; se la sua nuova carriera si fosse rivelata deludente, rispetto alla pienezza alla quale aspirava, sarebbe tornato indietro[93].

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[83] AVescLugano, Fondo Vescovi, Scat. mons. Corecco: il carteggio per il conferimento degli ordini minori (11 febbraio 1955, con preavviso favorevole di don Bertoglio), la domanda per la dispensa romana, necessaria per tenere le ordinazioni il lunedì dell’Angelo (5 marzo 1955); ACorecco Lugano, Scat. Materiale proveniente da Airolo: Numero unico dedicato all’evento dal parroco che è don Siro Croce; e ibid ., Scat. Telegrammi 1955: le numerose felicitazioni.

[84] Intervista di mons. Luigi Villa, 14 novembre 1998.

[85] Intervista a mons. Carlo Quadri, 30 aprile 2013, a sua volta inviato ad AmbrìPiotta.

[86] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992.

[87] ACorecco Lugano, Omelie, Scat. 2, fasc. 11: entrata in parrocchia, Prato 1956.

[88] Si vedano le fotografie, che hanno immortalato queste uscite ed il commosso ricordo di qualche parrocchiano, come Titta (Giuditta) Gendotti, intervistata a Faido il 5 maggio 2011. La signora Gendotti conobbe Corecco quando era suo parroco a Prato, il giovane prete allacciò con la sua famiglia legami di profonda amicizia; significativo un altro piccolo episodio: una suora di Menzingen, di origine veneta, era stata inviata a servire in una parrocchia della Leventina. Scesa dal treno alla stazione di Faido, non aveva nessuna idea di dove fosse la sua destinazione e di come raggiungerla. Mentre si guardava intorno piuttosto preoccupata, la notò questo giovane prete, che la avvicino e si informò sul suo problema e per finire la accompagnò di persona alla sua destinazione (Bellinzona, 2012).

[89] Intervista a Margherita Corecco, 19 maggio 1997.

[90] Così nell’intervista del 14 novembre 1998, dove però, in contrasto con il racconto del protagonista, insiste precisamente sull’opportunità di dedicarsi al diritto canonico.

[91] Corecco a Gazebo, 24 dicembre 1992.

[92] ACorecco Lugano, Scat. 8, fasc. 9, nr. 15: sig. Mario Orelli, Prato Leventina 1958.

[93] Così Titta (Giuditta) Gendotti, intervista del 5 maggio 2011.