Siate forti nella fede
Un grande dono per tutti
Capitoli
Nel campo della canonistica, la scienza che studia il diritto della Chiesa, Eugenio Corecco ha pubblicato un’ottantina di saggi che lo hanno progressivamente collocato fra i più autorevoli canonisti del dopo-Concilio e gli hanno pure guadagnato la fama di audace innovatore di questa disciplina scientifica.
Quali sono le ragioni più profonde di questa sua autorevolezza ed in quali settori del diritto canonico si è maggiormente espressa la sua forza innovatrice?
Una personalità affascinante, capace di assumere grandi sfide culturali
Prima di rispondere alla duplice domanda introduttiva vale forse la pena di osservare come normalmente una personalità è veramente grande, ed umanamente affascinante, se è sempre se stessa in tutti i campi dell’espressività umana. E la personalità di Eugenio Corecco è tale, anche a livello del sapere scientifico, perché qui come altrove essa è sempre guidata ed informata da quella sovrana ed ilare certezza (“certitudo super omnia”) che scaturisce dalla fede quale tipo di conoscenza particolare, diverso, ma non alternativo alla scienza umana. Ora, proprio perché Eugenio Corecco ha professato e vissuto questa fede in Gesù Cristo quale criterio di giudizio ultimo ed unificante tutta l’esistenza umana, e dunque anche la cultura quale riflessione sistematica su di essa, raggiunge la sua piena maturità scientifica solo quando, durante il Congresso Internazionale di diritto canonico a Pamplona (tenutosi nell’ottobre del 1976), propone – sfidando un po’ tutti – di modificare la definizione classica di legge canonica in modo tale che tutte le leggi della Chiesa appaiano finalmente ed innanzitutto come espressione della fede del Popolo di Dio e non solo della ragione astrattamente intesa. Il carattere provocatorio di una simile proposta scientifica e culturale è stato ben sottolineato circa quindici anni dopo la sua prima formulazione da un importante quotidiano come la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” che, cercando di fare il punto sul dibattito scientifico suscitato da quell’intervento di Corecco, vi dedica ben tre colonne intitolate “Von den Füssen auf den Kopf gestellt?”, quasi volesse indicare in esso il tentativo di capovolgere radicalmente il modo di concepire lo studio del diritto della Chiesa.
La legge canonica è una disposizione della fede? Fonti e significato di un’ipotesi programmatica
Proponendo di scegliere l’elemento della fede (“ordinatio fidei”) e non più quello della ragione (“ordinatio rationis”) come strumento principale per definire la legge canonica, Eugenio Corecco non propone una nuova definizione vera e propria di questo tipo di legge, bensì lancia una nuova ipotesi di lavoro atta a permettere alla canonistica post-conciliare nel suo insieme di cogliere con maggior precisione il carattere specifico delle leggi della Chiesa. L’aver saputo formulare questa ipotesi programmatica, ad un tempo così provocatoria e così feconda scientificamente, non è frutto esclusivo della genialità dello studioso ticinese. Egli stesso, a più riprese, riconosce di aver attinto anche da altri gli spunti e le intuizioni necessarie alla formulazione di questo affascinante progetto.
A questo livello due sono i punti di riferimento imprescindibili: Luigi Giussani (nato il 19 ottobre 1922), presbitero della Diocesi di Milano e fondatore carismatico di Comunione e Liberazione, e Klaus Mörsdorf (1909-1989), padre della teologia cattolica del diritto canonico. Il primo indica l’esperienza ecclesiale al cui interno Eugenio Corecco ha interpretato e sviluppato l’insegnamento canonistico del secondo.
Questa esperienza ecclesiale è informata dalla coscienza che il cristianesimo è un “fatto nella storia”, un “avvenimento”, che si realizza nella “contemporaneità” di una “presenza straordinaria” e perciò smaschera – come ha recentemente affermato il Cardinale Josef Ratzinger nella sua presentazione al libro “Un avvenimento di vita, cioè una storia” sul movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione – ogni ideologia ed utopia “come vuoto fantasma”. L’essenza della fede è dunque lo “stupore” di fronte alla presenza di Gesù Cristo, è il riconoscimento che questa presenza “qui ed ora” salva la dignità e la ragionevolezza della vita dell’uomo. Nella sua prima enciclica “Redemptor hominis”, Giovanni Paolo II al numero 10 afferma: “In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore e alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè la buona novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche e forse di più ancora, nel mondo contemporaneo. Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell’umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo”. Collegare lo stupore, quale essenza della fede cristiana, con l’umanesimo autentico non è nuovo né alla teologia, né alla filosofia, se si pensa che già Platone definiva l’ammirazione (“admiratio”) quale “atto fondamentale in cui la ragione uscendo fuori dalla sua quotidianità giunge a contemplare l’essere come tale” (H. U. von Balthasar, “Il cristiano e l’angoscia”, Milano 1987, pag. 67). L’apprendere di nuovo, attraverso l’incontro con don Luigi Giussani, questo nucleo centrale della fede cristiana permette al canonista svizzero – in uno dei suoi più famosi articoli, cioè quello sulla “Teologia del diritto canonico” nel “Nuovo dizionario di teologia” pubblicato nel 1977 da Barbaglio e Dianich nel 1977 – la comunione ecclesiale come un’esperienza di libertà che “non nasce dalla natura umana, ma dalla fede”, quale fonte di “altri rapporti inter-soggettivi e strutturali appartenenti alla costituzione della Chiesa e conoscibili solo attraverso la fede”. In secondo luogo, questa stessa esperienza di fede permette ad Eugenio Corecco di trarre tutte le conseguenze dall’insegnamento del suo maestro di diritto canonico Klaus Mörsdorf sul significato giuridico dei rapporti di cui è fatta la comunione ecclesiale. Essi sono di natura giuridica perché partecipano alla normatività propria della Parola di Dio e dei Sacramenti, e dunque del cosiddetto diritto divino positivo, ossia delle norme giuridiche contenute direttamente nella Sacra Scrittura. In ogni cultura umana, e non solo biblica o orientale, il diritto è sempre prodotto attraverso i due fondamentali strumenti della comunicazione umana: la parola (ad esempio quella del re o del capotribù) e il gesto (ad esempio la stretta di mano nella cultura giuridica germanica o l’imposizione delle mani nella simbologia giuridica orientale). Nella Chiesa la loro forza giuridica vincolante è ancora maggiore perché la parola diventa “kerygma”(ossia annuncio della presenza divina nell’umano) e il gesto diventa “sacramento” (ossia gesto attraverso cui opera efficacemente questa stessa presenza). In altri termini quella parola e quei gesti sono fonti di nuovi rapporti umani con un proprio significato giuridico, perché sono parole e gesti di Gesù Cristo stesso. Il carattere formale-normativo di questi nuovi rapporti, che costituiscono l’essenza stessa della comunione ecclesiale, non dipende perciò primariamente dal loro destinatario umano, ma dal fatto che attraverso loro è Dio stesso che parla e si rivela, secondo il principio classico di tutta la teologia fondamentale cattolica: quando Dio parla la sua testimonianza è veritiera (cfr. Vangelo di Giovanni 3,32-33).
È grazie a questo bagaglio di esperienze e conoscenze, nonché ai nuovi e più ampi orizzonti aperti dal Concilio Vaticano II a tutte le discipline teologiche, che Eugenio Corecco arriva a formulare a Pamplona il suo programma di lavoro: la legge canonica, quale implicita dimensione strutturale della comunione ecclesiale, trova oggi nell’ordine della Fede (“ordinatio fidei”) prima che nell’ordine della ragione (“ordinatio rationis”) l’elemento fondamentale della sua definizione. La formulazione di questa ipotesi di lavoro, che mette in discussione addirittura la vecchia definizione di S. Tommaso d’Aquino unanimamente accettata fino al Concilio Vaticano II, è possibile solo a partire dalla costatazione realistica che il passaggio dalla cultura della cristianità, tipica del Medioevo, a quella della modernità, predominante ancora nei nostri giorni, ha prodotto un mutamento così radicale nella scienza giuridica da cambiare sia il ruolo della legge civile, progressivamente ridotta a legge statuale, sia quello della legge canonica, definitivamente spogliata del suo significato di diritto comune ed ormai vincolante solo i fedeli cattolici.
La cultura di cristianità, al cui interno S. Tommaso ha elaborato una definizione di legge valida per tutte le sue diverse forme (divine ed umane) di realizzazione, era caratterizzata dal movimento pendolare tra realismo e volontarismo, tra ragione e volontà, entrambe d’origine divina e come tali aperte all’idea di mistero. Nella cultura moderna, invece, questo movimento viene interrotto dapprima dall’eliminazione di ogni nesso tra ragione e senso religioso della vita, fra ragione e mistero, e poi dalla conseguente opposizione tra ragione e fede. La prima volendosi emancipare completamente dalla seconda s’impone come unica unità di misura di tutto il reale ormai contrapposta alla seconda. In questo contesto è evidente che la nozione di ragione, applicata alla legge canonica quale derivazione umana necessaria della legge divina, non può più avere il significato che aveva nella definizione di S. Tommaso.
Infatti, sempre in questo contesto culturale moderno, se la cosiddetta “legge eterna”, considerata nel suo aspetto filosofico, trova nella legge positiva come ordine della ragione il suo corrispettivo umano, in quanto legge divina rivelata – e quindi sotto il suo aspetto teologico – essa non può più trovare il suo corrispettivo umano nella ragione, ma deve trovarlo necessariamente in un altro modo di conoscenza: la fede, quale concretizzazione analogica del modo con cui Dio stesso conosce. Ciò significa che l’uomo nel tempo storico conosce la legge divina non in forza della logica razionale, ma in forza di una motivazione divina, cioè dell’autorità formale della Parola di Dio rivelata, che l’impulso della grazia gli fa accettare nel libero atto di fede.
Così riassunta e spiegata, la proposta di Eugenio Corecco di sostituire nella definizione classica di legge canonica il termine “ratio” (ragione) con quello di “fides” (fede) appare come un ultimo possibile sviluppo della definizione di S. Tommaso d’Aquino, sviluppo in cui si tiene finalmente conto in modo realistico che la distinzione tra ragione e fede, tra filosofia e teologia è ormai diventata una netta separazione nella cultura moderna. Dall’invito a voler considerare la legge canonica come disposizione della fede e non come ordine della ragione non si può però dedurre che le leggi della Chiesa non abbiano nulla a che vedere con la ragione e tanto meno che esse possano essere irragionevoli. Con una simile proposta Corecco vuole semplicemente relativizzare il ruolo della ragione, e con essa del diritto naturale, quale momento obbligatorio del processo di conoscenza e produzione della norma canonica positiva. Anzi, più che di una relativizzazione dell’importanza della ragione umana si tratta invece di una nuova precisazione del suo ruolo specifico nel processo di formazione storica della concreta norma positiva. La fede, infatti, non minaccia né la ragione né la filosofia, ma anzi difende entrambe dalla pretesa assolutistica della gnosi, cioè da quel tipo di conoscenza religiosa che è più vicino alla magia che non alla scienza umana. In altri termini, proprio in quanto realtà teologica il diritto canonico porta in sé anche tutto il peso della ragione umana, ed il tenerne conto – come fa sempre con grande lucidità Eugenio Corecco – nel suo svilupparsi ed articolarsi come disciplina scientifica, rappresenta senz’altro uno dei tentativi più autentici di ristabilire in modo corretto e preciso i nessi fra norma canonica e verità cattolica.
Nuovi ed autorevoli sviluppi dei diversi nessi fra norma canonica e verità cattolica
La forza di questa sua geniale intuizione circa l’essenza stessa della legge canonica, con la quale volente o nolente tutta la canonistica post-conciliare deve fare i conti, permetterà ad Eugenio Corecco di sviluppare magistralmente alcuni temi fondamentali per la corretta comprensione della specificità del diritto della Chiesa. Fra questi temi a lui cari fin dai primi anni di studio compiuti a Monaco di Baviera sotto la guida sicura del già citato grande canonista Klaus Mörsdorf, qui è sufficiente segnalarne due tra i principali: il tema della sinodalità quale dimensione costitutiva del potere ecclesiale, embrionalmente già tutto presente nella sua tesi di dottorato dal titolo “La formazione della Chiesa cattolica negli Stati Uniti d’America attraverso l’attività sinodale” (Brescia 1970), e quello della fondazione teologica del diritto canonico, il cui nocciolo essenziale è già contenuto nel libretto o strumento per un lavoro teologico pubblicato assieme all’attuale Arcivescovo di Madrid Antonio Rouco Varela sotto il titolo “Sacramento e diritto: antinomia nella Chiesa?” (Milano 1971), e diventato ben presto un vero e proprio “best-seller”.
La stessa intuizione permetterà ad Eugenio Corecco di mettere a fuoco la fondamentale diversità fra l’ordinamento giuridico della Chiesa e quello dello Stato con l’organizzazione di un memorabile Congresso Internazionale di diritto canonico a Friburgo (1980), che gli ha guadagnato la stima di tutto il mondo della scienza giuridica e canonica. Essa trova poi un ulteriore sbocco naturale, logico, in tutta una serie di pubblicazioni sui più complessi problemi del diritto della Chiesa, come ad esempio quello della diversa natura del potere ecclesiale (“sacra potestas”) rispetto a quello esercitato dallo Stato moderno, oppure quello relativo al ruolo dei carismi nella costituzione, anche giuridica, della Chiesa, nonché quello ancor più complesso dei nessi reciproci fra diritto ecclesiale universale e particolare. L’autorevolezza scientifica ed il carattere innovativo di tutti questi scritti permetteranno a questo grande uomo delle nostre umili terre ticinesi di essere chiamato da Papa Giovanni Paolo II a far parte di quel ristrettissimo gruppo di esperti che, con lui, curerà l’ultima stesura del nuovo Codice di diritto canonico per la Chiesa cattolica latina, poi promulgato nel 1983.
Lo stesso pontefice, dopo aver eletto Eugenio Corecco vescovo della Diocesi di Lugano, lo nomina sempre nel 1986 membro del Pontifìcio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi. Questa importante nomina, assieme al Dottorato Honoris Causa attribuitogli dall’Università cattolica di Lublino nel 1994, costituisce il sigillo definitivo dell’autorevolezza acquisita universalmente in campo scientifico, e soprattutto canonistico, dal nostro Vescovo Eugenio.
In occasione del Convegno Internazionale “Antropologia, fede e diritto ecclesiale”, organizzato a Lugano il 12 novembre 1994, si è tentato un primo bilancio interdisciplinare di questo importante contributo dato da Eugenio Corecco al rinnovamento della canonistica post-conciliare. In questa sede di commiato, senza volersi ripetere, si è voluto semplicemente sottolineare, e spiegare in modo succinto e il più possibile divulgativo, che se agli addetti ai lavori spetterà anche in futuro il compito di confrontarsi con gli importanti contenuti della sua mirabile lezione accademica, tutti i fedeli ne possono già sin d’ora sentire in qualche modo gli effetti benefìci a livello della nuova prassi giuridica ecclesiale, più equa, più conforme agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e più capace di dialogare con le istanze della cultura moderna e post-moderna.
Ho incontrato mons. Eugenio Corecco per la prima volta negli anni Settanta a Parigi alle riunioni del comitato di redazione della Revue Catholique Internationale Communio, di cui eravamo entrambi membri.
Poi l’ho rivisto a Friburgo, nel 1981: ero venuto a insegnare, durante il semestre invernale, storia della Chiesa all’Università, su invito di Padre Guy Bedouelle. Eugenio Corecco era allora decano della Facoltà di Teologia. Abbiamo parlato della situazione della teologia cattolica. Lo stesso anno abbiamo collaborato a un convegno sui movimenti nella Chiesa.
Nel 1986, Padre Hans Urs von Balthasar mi mostrò la fotografia del nuovo Vescovo di Lugano che costui gli aveva inviato dopo la sua ordinazione episcopale a cui Balthasar aveva assistito.
Il 12 ottobre 1988, mons. Eugenio Corecco mi invitò a una riunione, prevista a Lugano il 17 dicembre, per discutere a fondo della «creazione di un’Accademia teologica internazionale a Lugano». E mi faceva dire, da don Libero Gerosa, suo ex-dottorando in diritto canonico, membro del movimento Comunione e Liberazione, oggi professore all’Università di Paderborn, che egli teneva molto alla mia partecipazione.
Tuttavia questa riunione appartiene al secondo momento della storia della futura Facoltà. Al primo appartiene l’intenzione del professore Corecco.
L’intenzione del professore
Nominato, nel 1969, professore ordinario di diritto canonico alla Facoltà di Teologia di Friborgo, Eugenio Corecco è mosso dal desiderio di portare avanti l’idea del diritto canonico come disciplina teologica, idea formata alla scuola del prof. Mörsdorf di Monaco di Baviera, e vuole trasmettere anche attraverso l’insegnamento universitario la vita rivelata e data da Gesù Cristo con la fede: non gli basta incontrare i giovani ticinesi di cui è l’assistente spirituale e aiutarli a conoscere Dio ed il suo Cristo e vivere del suo amore. Anche il modo di insegnare e di preparare gli studenti al loro mestiere deve, secondo lui, essere adatto alla trasmissione della fede. Ora il professore si rende conto che questo non è facile.
Eugenio Corecco ci pensa con alcuni amici: il domenicano, Padre Christoph Schönborn, professore di teologia dogmatica nella stessa Università, oggi Vescovo ausiliare di Vienna, che ha conosciuto in Francia la crisi del 1968; il suo dottorando, don Angelo Scola, membro del movimento Comunione e Liberazione, poi professore di antropologia teologica all’Istituto Giovanni Paolo II per lo studio del matrimonio e della famiglia a Roma, oggi Vescovo di Grosseto, che ha partecipato alle lotte studentesche contro i comunisti a Milano nel medesimo periodo; Stanislaw Grygiel, un filosofo polacco, professore al medesimo Istituto romano, che vuol aprire, come Karol Wojtyla e con lui, il pensiero cattolico classico al pensiero moderno, e, come polacco, conosce i regimi comunisti, la schiavitù dell’ideologia e la forza del pensiero: ha capito che solo il pensare la verità vince la menzogna che appartiene in proprio all’ideologia; il quarto amico è un altro domenicano, Padre Guy Bedouelle, professore di storia della Chiesa a Friburgo, che anche lui ha conosciuto il clima del ’68, iniziando i suoi studi di teologia in questi momenti e da storico, si interessa al rinnovamento della Chiesa all’inizio del 16. secolo.
Nel suo discorso del Dies Academicus 1993, mons. Corecco ha riassunto il risultato degli scambi di idee tra questi cinque amici: l’Università di oggi è costruita sul modello dell’Università ideata da von Humboldt nella prima metà dell’Ottocento. Però si è democratizzata, vale a dire che il numero degli studenti e dei professori è cresciuto in ogni università in modo impressionante e che le Università si sono moltiplicate. La società di oggi aspetta ed esige dall’Università una formazione di tipo professionale. Nell’Università, il ruolo della Facoltà di scienze e di medicina si è fatto sempre più importante a causa del numero degli studenti e dei professori, del costo delle infrastrutture, delle ricerche e quindi degli studi. Anzitutto, queste Facoltà hanno acquistato un ruolo di leadership: ciò che è scientifico è ritenuto come vero perché è efficace. La scienza è infatti legata alla tecnica. Perciò tutto il sapere è di ordine tecnico-scientifico. Anche l’uomo diviene oggetto della scienza: si costituiscono le scienze umane che hanno la loro rilevanza. E la filosofia, che era per eccellenza il sapere umano, è tentata di trasformarsi in una delle tante scienze umane. Presa nei cambiamenti attuali di società e di pensiero, l’Università dovrebbe fare un grande sforzo per evitare di diventare una scuola superiore di formazione professionale. L’uomo, in quanto capace di riflettere su se stesso e di compiere il suo destino, è scomparso dal mondo accademico; gli resta la sua vita privata. Ora è appunto a questo uomo, capace di dire di sì o di no al suo destino, che Dio parla e rivela il suo amore.
Si capisce così perché il professore di diritto canonico costatava la grande difficoltà di annunziare il Vangelo anche in una Facoltà di Teologia: strutturalmente l’Università della fine di questo secolo trascura l’uomo. Da qui il bisogno di un’altra struttura accademica, di un altro modello di insegnamento o, come diceva il Vescovo Eugenio, di un «modello alternativo di Università» (o di Facoltà).
Per realizzare un tale progetto, il gruppo di questi professori si sentiva ispirato dalla teologia di Padre Hans Urs von Balthasar e del cardinale Henri de Lubac per rinnovare l’insegnamento della teologia sulle orme del Concilio Vaticano II. All’inizio, prima della morte di Padre H.U. von Balthasar, aveva pensato di creare un Centro Accademico Europeo, installato a Strasburgo, vicino alla casa di Padre Balthasar, situata a Basilea, per chiedere il suo consiglio ed il suo appoggio.
L’elaborazione del Centro Accademico
Il 29 giugno 1986, don Eugenio Corecco era stato ordinato Vescovo. L’intenzione del professore era diventata quella del Vescovo. Egli voleva adesso inoltre far tornare i seminaristi da Friborgo e dare loro una formazione accademica a Lugano.
Nel 1988, quando mons. Eugenio Corecco mi invitò a partecipare alla riflessione di questo gruppo di cui erano membri anche don Libero Gerosa e don Willy Volonté, suo padrino di ordinazione episcopale, responsabile in Svizzera del movimento Comunione e Liberazione, oggi Segretario generale della Facoltà di Teologia di Lugano, «il Centro Accademico Europeo» o «l’Istituto Accademico Internazionale», come chiamavamo la futura Facoltà, aveva già il suo orientamento dottrinale e i suoi destinatari, gli studenti che aspiravano a un’altra metodologia. Non aveva invece un programma, una metodologia, un corpo docente, una forma giuridica e dei fondi.
Invitato da mons. Corecco, ho proposto la mia esperienza di professore della Facoltà dei Gesuiti di Bruxelles, acquisita durante venti anni. Esperienza originale perché, dal 1968 – ancora una volta -, la Facoltà dei Gesuiti aveva centrato l’insegnamento sullo studio della Parola di Dio e della dottrina della Chiesa, fatto insieme dai professori e dagli studenti.
Ci sono due principi essenziali in questa metodologia.
Il primo è il metodo seminariale o dei seminari. Quattro seminari sono organizzati, ogni semestre, della durata da 45 a 90 ore ognuno. Almeno due, se possibile tre professori di aree disciplinari diverse (esegesi, dogmatica, morale, filosofia) e gli studenti approfondiscono insieme un argomento preso dalla Bibbia, dalla dottrina cattolica o dalla storia delle idee, per esempio, il Vangelo di S. Giovanni, un’opera di un teologo, come Gloria di H.U. von Balthasar, Freud e la religione. I professori non sono davanti agli studenti, ma i primi e i secondi davanti e con tutti, collaborando insieme. C’è un’alternanza di sedute generali, con esposizioni di uno studente o un professore, seguite da discussioni generali e di piccoli gruppi di una decina di studenti con un professore. Questo è il principio del metodo seminariale. È un metodo attivo e profondo.
La direzione personale degli studenti o tutoring costituisce il secondo pilastro della pedagogia. È un metodo utilizzato dagli Anglo-Sassoni. Ogni studente sceglie, con l’approvazione del Rettore, un professore, che incontra ogni mese e che l’aiuta a stabilire ed attuare il suo programma di corsi e lo accompagna nel suo percorso accademico, perché si studia «à la carte». Infatti, ogni semestre, durante un ciclo di otto semestri, ha un tema di studio generale, per esempio, la rivelazione di Cristo o l’agire cristiano; per ogni semestre sono proposti 4 seminari di un totale di 300 ore circa e una quindicina di corsi di un totale di anche 300 ore circa. Lo studente sceglie la metà di questo programma circa. Una decina di professori sono abilitati a questo compito, essenziale e delicato, della direzione degli studi. Coprono tutte le discipline (filosofia, esegesi, teologia dogmatica e fondamentale, morale, diritto canonico, storia della Chiesa). Questa direzione è anche collegiale. Ogni mese, i professori si riuniscono con il Rettore per esaminare il fascicolo accademico di ogni studente, almeno un quarto d’ora è consacrato ad ogni studente.
Nei nostri tempi di scarsità di vocazioni, sembrava arduo costituire un corpo docente di almeno otto professori stabili, incaricati dalla direzione degli studi, e di una ventina di altri professori a termine. Per una fortuna straordinaria, mentre altre Facoltà sono in difficoltà per trovarne, noi li abbiamo trovati e tutti hanno accettato questa metodologia nuova, poi, con grande semplicità, l’hanno imparata: questa è una meraviglia più grande della prima. Mi sia consentito notare che il Generale dei Gesuiti ha accettato di staccarmi dalla mia Facoltà di Bruxelles, in cui insegnavo teologia dogmatica e storia della Chiesa e partecipavo alla direzione degli studi, per mandarmi a Lugano. È stato un sacrificio per la mia Facoltà, in un periodo in cui le vocazioni mancano, e per tutti i miei colleghi che hanno accettato di essere più impegnati.
Con decreto del 26 febbraio 1991, veniva costituita come persona giuridica la Fondazione ecclesiastica «Mons. Vincenzo Molo» con lo scopo principale di provvedere al reperimento delle risorse finanziarie a sostegno della futura Facoltà di Teologia. É lo sponsor della Facoltà. Prima di morire, mons. Eugenio Corecco ha deciso di trasformare questa fondazione ecclesiastica in una fondazione civile, per inserire meglio la Facoltà nella società civile.
Il Vescovo voleva infatti che la Facoltà fosse indipendente dalla Diocesi come anche dallo Stato e che non si applicasse alla futura Facoltà una regola abbastanza comune : chi paga comanda. Lo Statuto della Facoltà fu elaborato dal professore Gian Piero Milano, consigliere del Vescovo e professore di diritto ecclesiastico e canonico alla Seconda Università di Roma, e dal sottoscritto, con e per il Vescovo, a partire dallo Statuto della Facoltà Gesuita di Bruxelles. Tre delle sue disposizioni sono di grande rilievo.
La prima risponde alla domanda: chi è il Gran Cancelliere? Eugenio Corecco come singola persona oppure il Vescovo di Lugano in ragione del suo ufficio? Il nostro gruppo ne ha discusso a lungo a Venasque, nella Francia meridionale, nel giugno 1989. Ne risultava che la singola persona del Fondatore non era determinante, bensì l’ufficio del Vescovo: solo in quanto Vescovo Eugenio Corecco poteva inserire la Facoltà nel tessuto della diocesi e della Chiesa universale. L’internazionalità della Facoltà mostrava la sollecitudine del Vescovo di Lugano per le altre Chiese all’interno del collegio episcopale. Per lo stesso motivo, il Gran Cancelliere è aiutato da un Consiglio Superiore, composto da membri che rappresentano la Chiesa universale e la società civile: due Cardinali (Agustoni, ticinese, Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, e Macharski, Arcivescovo di Cracovia), due Vescovi amici (Scola e Schönborn), il rappresentante eletto dal capitolo della Cattedrale di Lugano (Canonico Marcionetti), due membri ex ufficio (il Rettore della Facoltà e il Rettore del Seminario diocesano) e sei personalità di spicco del mondo accademico ticinese, svizzero ed italiano. La terza disposizione definiva il legame tra la Facoltà e la Fondazione Mons. Vincenzo Molo: questa sussidia la Facoltà che le presenta il suo preventivo e sovrintende alla gestione della Facoltà.
All’inizio dell’anno 1992, mons. Eugenio Corecco desiderava il riconoscimento immediato del suo Istituto come Facoltà di Filosofia e di Teologia. La Congregazione per l’Educazione Cattolica gli fece osservare che non era sua abitudine, che il corpo docente non era ancora abbastanza numeroso e che il programma di filosofìa non era quello di una Facoltà. Perciò, l’8 maggio 1992, l’Istituto fu riconosciuto come Istituto Accademico di Teologia con il diritto di rilasciare il baccalaureato e la licenza in teologia biblica e dogmatica.
L’apertura dell’Istituto Accademico di Teologia, la concessione del titolo di facoltà ed i primi sviluppi
L’Istituto aprì le sue porte il 28 settembre 1992. C’erano una quarantina di studenti ordinari e il doppio di uditori. Questo successo numerico si spiega per due motivi: la nostra metodologia, che ha attirato gli studenti, e l’accettazione da parte del Vescovo di una ventina di seminaristi che appartengono al Cammino neocatecumenale. Dall’inizio abbiamo ricevuto quattro studenti per la licenza, tra i quali due preti della diocesi di Milano.
La Congregazione per l’Educazione Cattolica concederà all’Istituto il titolo di Facoltà a tutti gli effetti il 20 novembre 1993. Ormai l’Istituto si chiama Facoltà di Teologia di Lugano e ha il diritto di rilasciare anche il dottorato in teologia. Questo titolo ha fatto percepire meglio ai Ticinesi che l’Istituto non era un seminario e che il Ticino possedeva un ente universitario: la Facoltà di Teologia è il primo. E la sua esistenza ha senza dubbio stimolato le iniziative delle autorità civili del Cantone e della Città di Lugano.
La Facoltà ha continuato a crescere: 60 studenti nel 1993, 91 nel 1994. L’incremento più grande del 1994 proviene dall’iscrizione di una decina di ticinesi. Tra questi ticinesi, 4 futuri diaconi permanenti. Il Vescovo di Lugano ha infatti affidato alla Facoltà la formazione accademica dei futuri diaconi permanenti. Nel 1994 ci sono anche circa 90 uditori ticinesi. Dopo tre anni la Facoltà ha pressoché raggiunto il numero di cento studenti che mons. Corecco aveva deciso di non superare a causa della metodologia adoperata e del suo costo elevato.
Più precisamente ecco qualche cifra: per il secondo semestre dell’anno accademico 1994-95, ci sono, tra i 91 studenti ordinari, 9 preti, 2 diaconi permanenti, 48 seminaristi, 7 religiosi, 25 laici; 82 studenti, 9 studentesse; 28 Ticinesi, 63 non Ticinesi; 53 studenti dall’Europa occidentale, 17 dall’Europa dell’Est, 21 dagli altri continenti (Africa, Asia, America latina).
Dopo due anni di corsi di teologia, lo studente può ricevere un Certificato di studi teologici che lo abilita a insegnare la religione nella scuola elementare ; dopo due anni di filosofia, se è necessario, e tre di teologia, il diploma di Baccalaureato che lo abilita all’insegnamento della religione nella scuola media; dopo altri due anni e la presentazione di una tesi, il diploma di Licenza che lo abilita all’insegnamento della religione nella scuola media superiore.
La nostra metodologia consente di formare laici, futuri preti e diaconi permanenti senza dover aprire sezioni speciali: la formazione che vale per un laico vale, in generale, per un futuro prete o un religioso e reciprocamente, e il programma «à la carte» offre molte diverse possibilità. Non sono molte le Facoltà che seguono questo principio. Un altro segno dell’attrattiva della Facoltà è il numero dei dottorandi: ne abbiamo 6 nel 1995, in particolare per fare una tesi sull’opera di Padre Hans Urs von Balthasar.
Luogo di insegnamento, la Facoltà è anche un centro di ricerca. Come aveva desiderato il suo Fondatore, essa, nella sua fedeltà al Concilio Vaticano II, ha deciso di lasciarsi insegnare da due grandi maestri che hanno contribuito alla dottrina del Concilio e ne sono interpreti degni di fede: il cardinale Henri de Lubac e il Padre Hans Urs von Balthasar: l’uno francese e l’altro svizzero. Per favorire il loro studio, la Facoltà ha costituito un Centro di Studi Hans Urs von Balthasar nel febbraio 1993 e nel giugno 1994 un’Associazione Internazionale Hans Urs von Balthasar. Nel settembre 1994, su iniziativa della Facoltà, fu creata un’Associazione Internazionale Cardinal Henri de Lubac, con sede a Parigi, il cui presidente è Jacques de Larosière, presidente della BERD (Banque Européenne pour la Reconstruction et le Développement) e successore del Cardinale all’Istituto di Francia. Costituirà il più presto possibile un Centro di Studi Cardinal Henri de Lubac.
La Facoltà aveva ricevuto con gratitudine nel 1993 una fondazione in favore della Cattedra A. Rosmini, prete, fondatore di una congregazione sacerdotale, filosofo e teologo italiano notevole del secolo scorso.
Continuano i Colloqui di Teologia, iniziati dal Vescovo Eugenio Corecco con alcuni teologi della Facoltà di Teologia dell’Università di Navarra. L’ultimo colloquio sulla Cristologia di H.U. von Balthasar, nel giugno scorso, ha fatto progredire la conoscenza di questo teologo. Questi colloqui sono riservati a pochi. Invece, il primo Congresso internazionale organizzato, al Palazzo dei Congressi di Lugano, dalla Facoltà nel settembre 1994 assieme all’Union internationale des Juristes Catholiques era aperto al pubblico. Mons. Corecco aveva offerto ai Giuristi Cattolici il sostegno della Facoltà. Questo Congresso fu una «première» universitaria a causa del grande numero di giuristi e teologi di reputazione mondiale riuniti a Lugano. Si discuteva della Famiglia alle soglie del III millenio. I problemi scottanti furono trattati da specialisti in seduta pubblica e i dibattiti furono aperti al pubblico secondo la metodologia della Facoltà. Tutti i partecipanti furono contenti del livello ottimo e del clima di discussione serena.
Infine, nel dicembre 1993, la Facoltà ha stipulato una convenzione di scambio con l’Università statale delle Scienze Umane di Russia in occasione della partecipazione del suo Rettore, il prof. Y. Affanasiev al Dies Academicus, invitato dal Gran Cancelliere.
Il futuro prossimo
Per far riconoscere l’Istituto a Facoltà, mons. Eugenio Corecco aveva promesso alla Congregazione per l’Educazione Cattolica la pubblicazione di una Rivista di Teologia. Questa rivista, curata dai professori stabili, verrà pubblicata, nel febbraio 1996, in francese, italiano ed inglese (con riassunti di ogni articolo in queste lingue e in tedesco) e sarà semestrale con 160 pagine al numero. Si chiamerà Revue théologique de Lugano, Rivista teologica di Lugano. Avrà due caratteristiche: invece di recensioni di libri o di un bollettino bibliografico, presenterà due status quaestionis, in italiano uno «stato della questione», al numero, cioè farà il punto sintetico su un argomento teologico o filosofico a partire da libri recenti e più antichi di riferimento. Gli Status quaestionispotranno servire da base di ricerca, di corso, di studio per i professori, gli studenti e le persone interessate ad approfondire da sole un argomento, per esempio l’ecumenismo. La Rivista aprirà un’altra parte che tratterà della vita della Chiesa nel mondo e, più precisamente, in ogni numero, ci sarà un articolo semplice su un evento ecclesiale, come il Sinodo sui religiosi, un secondo su un fatto sociale, come gli andicappati o la droga, ed un terzo in cui delle persone che vivono in quei paesi daranno notizie sulla vita dei cristiani ad esempio in Lettonia e in Kazakhistan, negli Stati Uniti, ecc.
Nell’agosto 1994, mons. Eugenio Corecco ha approvato un progetto di Istituto di Filosofia, redatto dal Padre gesuita Marc Leclerc, un filosofo belga, professore alla Gregoriana di Roma, e recepito dal Consiglio Accademico. L’idea matrice è quella di provare a risolvere il problema della scomparsa dell’uomo dall’Università. Come abbiamo visto sopra, la conoscenza vera dell’uomo è la base dell’evangelizzazione e quindi anche della formazione teologica ed essa determina anche i limiti fuori dai quali la scienza finirebbe per distruggere l’uomo: per averne un’idea, basta riferirsi alla bioetica. Questo Istituto aiuterà professori e studenti di teologia a cercare in profondità il fondamento umano e razionale del loro studio e potrebbe offrire un tramite con le Facoltà di Scienze, di Scienze della Comunicazione e di Archittetura, che il Cantone Ticino ha in progetto di creare, se queste Facoltà lo desidereranno.
Questo progetto fa parte integrante della fondazione della Facoltà nel senso istituzionale e organico, perché fu voluto dal Fondatore della Facoltà e perché un tale Istituto di Filosofìa fornisce alla Facoltà la base indispensabile per parlare di Dio con gli scienziati (nel senso generale del termine).
La ricorrenza della morte nei momenti significativi della Facoltà
Non posso passare sotto silenzio la ricorrenza della morte nei momenti significativi della concezione, della nascita e della crescita della Facoltà.
Padre von Balthasar, sull’appoggio del quale il gruppo contava per creare la futura Facoltà, è morto il 26 giugno 1988, prima della realizzazione del progetto. Io stesso ho ricevuto il primo invito poco dopo la sua morte; avevo lavorato con lui durante quindici anni come editore, teologo e consigliere per la Comunità Johannes Gemeinschaft da lui fondata con Adrienne von Speyr nel 1945.
Il 4 settembre 1991, mons. Eugenio Corecco invitò a Friburgo un primo gruppo di professori della futura Facoltà. Quando arrivai a Friburgo alla sera, egli mi comunicò la notizia della morte del Cardinale Henri de Lubac, che fu per me un padre nella fede : la sua teologia mi ha aperto la mente, quando ero studente, e, con la sua presenza piena d’amore, grazie alle sue lettere e ai nostri incontri regolari, mi ha formato e sostenuto in Dio.
L’otto maggio 1992, la Santa Sede riconobbe l’Istituto, eretto da mons. Eugenio Corecco il 27 febbraio 1992, come Istituto Accademico. Qualche giorno dopo, dal 18 al 20 maggio 1992, mons. Corecco, i futuri professori dell’Istituto Accademico ed io siamo stati accolti dai miei colleghi della Facoltà gesuita di Bruxelles per imparare gli elementi base del modo d’insegnare la teologia e del programma propri a questa Facoltà ed adottati per il nostro Istituto. Vedo ancora il Vescovo Eugenio, alla fine della riunione, entrare nell’aeroporto di Bruxelles: sentiva i primi dolori del male che provocherà la sua morte ma, con il suo grandissimo coraggio, aveva voluto che la riunione potesse tenersi normalmente.
Il 20 novembre 1993, la Santa Sede riconobbe l’Istituto a Facoltà a tutti gli effetti, cioè con il diritto di rilasciare il grado di dottore. Il 3 dicembre, durante il Dies Academicus, quando mons. Corecco annunziò questa decisione, aveva dovuto farsi curare all’ultimo momento per calmare i dolori che lo rendavano incapace di muoversi.
Il 25 febbraio 1995, di nuovo durante il Dies Academicus, a cui il Vescovo non poteva più assistere, fu letta la lettera autografa di Giovanni Paolo II al suo diletto fratello, nella quale il Papa indicava l’importanza della Facoltà e l’attestava con una somma significativa. Quattro giorni dopo, il primo marzo, mercoledì delle Ceneri, mons. Eugenio Corecco moriva.
Questa serie di date mi impressiona. La ricorrenza della morte nei momenti significativi della concezione, della nascita e della crescita della Facoltà suggerisce di cogliere una dimensione anche invisibile. In altre parole, gli amici che hanno costruito la Facoltà non sono soltanto coloro che si incontravano, ma anche gli amici celesti. Dall’inizio, la storia della Facoltà unisce cielo e terra, come conviene a una Facoltà di Teologia; l’attesta ancora la morte del suo fondatore. Gli fu chiesto, a lui che era pieno di progetti, di lasciare anche la sua Facoltà nelle mani di Dio e degli uomini, scelti da lui, e di accettare che la sua opera fosse così compiuta. In questo contesto, riceve forse tutta la sua forza la parola «cofondatori», indirizzata dal Fondatore ai membri della Facoltà, nella sua omelia della messa che inaugurava il primo anno accademico.
Quando riassumo la storia intera della Facoltà fino alla morte di Eugenio Corecco, mi sembra che egli abbia ricevuto il tempo di delineare la forma della Facoltà, di stabilire e mettere in moto gli organi che assicurano il suo sviluppo all’esterno e all’interno. Perciò ne è nel senso pieno della parola il Fondatore. Dio gli ha dato il tempo per esserlo.
Sento, e tutti i membri della Facoltà sentono con me, un’immensa riconoscenza per lui che si è impegnato sino alla fine delle sue forze a rendere la Facoltà capace di svolgere il suo ruolo culturale e scientifico e osiamo sperare dalla misericordia divina che egli, introdotto nella comunione dei santi, completerà, anche grazie alle sue sofferenze, la fondazione della nostra Facoltà conformemente a quanto Dio gli chiederà e gli darà. Perciò preghiamo. Preghiamo per lui e gli chiediamo di intercedere per noi, che dobbiamo continuare la sua opera.
Non possiamo far meglio per venerare la memoria del nostro Fondatore e Gran Cancelliere che essere fedeli all’orientamento e all’impulso da lui dato alla Facoltà, cioè «cofondatori».
Dapprima qualche data e qualche fatto: è il 1. ottobre 1969, quando Eugenio Corecco entra nel corpo docenti della Facoltà teologica di Friborgo, dove aveva studiato diritto civile dal 1962 al 1965. É nominato professore straordinario il 1. aprile 1971 per insegnare in francese e in tedesco, poi, come consuetudine, professore ordinario il 1. gennaio 1976. Nel 1979 insegna, quale professore invitato alla facoltà di teologia protestante di Ginevra e, dal 1979 al 1981, è decano a Friborgo.
Da questo momento si sviluppa la sua attività scientifica e universitaria che gli procura una reputazione a livello mondiale nell’ambito del diritto canonico.
Dal 6 all’ 11 ottobre 1980 organizza, a nome della “Consociatio internationalis studio iuris canonici promovendo”, il quarto congresso internazionale di diritto canonico. Tema generale: ” I diritti fondamentali del cristiano nella Chiesa e nella società “. Un soggetto di grande attualità nel contesto della riflessione sulla Lex fundamentalis e della revisione del Codice di diritto canonico. La prospettiva ecumenica non era stata trascurata e in questa linea sono stati organizzati dagli oltre trecento partecipanti di Friborgo, gli incontri di Ginevra. A termine di quel congresso Eugenio Corecco veniva nominato vice presidente dell’Associazione internazionale di diritto canonico, raggiungendo una posizione di grande prestigio.
Nel 1985 organizzò la giornata di studio su “Paolo VI e le riforme istituzionali nella Chiesa “.
Seguì la fase terminale di preparazione del Codice di diritto canonico e, dopo la sua promulgazione nel 1983, un grosso lavoro di informazione e di spiegazione in ordine a questo documento. Giovanni Paolo II lo chiamò, nell’estate del 1982, a far parte della Commissione ristretta per l’ultima revisione del progetto del Codice di diritto canonico, facendogli interrompere un soggiorno di ricerca iniziato a Berkeley in California. In seguito, nominato consultore della commissione pontificia per l’interpretazione autentica del Nuovo Codice del 1983, dovette impegnarsi in conferenze su questo documento, continuando nel contempo la sua attività di docente. Fu invitato per questo in tutto il mondo e si recò spesso in Polonia, in Spagna, nel Canada e in numerose città italiane. Ebbe pure un insegnamento regolare, quale professore invitato, all’università Cattolica e alla facoltà di teologia dell’Italia settentrionale a Milano e a Perugia.
Era dunque un uomo conosciuto nel mondo accademico, la cui irradiazione scientifica era incontestabile, noto per la chiarezza delle sue posizione teologiche e giuridiche, che veniva chiamato a divenire Vescovo di Lugano.
Monsignor Eugenio inviò le sue dimissioni il 19 giugno 1986, scrivendo: “questo lungo periodo di lavoro all’università di Friborgo è stato per me un’esperienza umana eccezionale, in cui ho cercato di dare il meglio di me stesso”. E definiva il canton Friborgo, “la mia seconda patria”.
Parlando da collega e da amico, posso affermare che Corecco fu un chiaro sostenitore della presenza dei Padri Domenicani alla Facoltà di teologia di Friborgo, legata all’Ordine dei Predicatori da una convenzione datata di oltre un secolo. Il rinnovo della convenzione doveva aver luogo nel 1985 e il professor Corecco giocò un ruolo importante, quale esperto giuridico, per cercare la formula adeguata che potesse integrare anche la Conferenza dei Vescovi svizzeri nel nuovo accordo.
Quando sono arrivato a Friborgo nel 1976 per insegnarvi storia della Chiesa, preceduto di poco, per la teologia dogmatica in lingua tedesca, da padre Christoph Schönborn, domenicano austriaco, padre e amico molto caro, divenuto vescovo ausiliare di Vienna, Eugenio Corecco ci ha accolti molto bene. Ci colpiva per la sua esperienza pastorale, per la sua capacità e il suo impegno nell’ambito di Comunione e Liberazione, per il suo insegnamento. Ma più ancora ci colpiva la chiarezza coraggiosa delle sue posizioni ecclesiali e teologiche, che non temeva affatto di affermare anche in ambienti a volte ostili.
Eugenio non perdeva mai la sua calma, argomentava e sapeva controbattere. Era un lottatore, solido e risoluto. E in questo modo che ha assolto il suo mandato di decano e, se a volte mancava di prudenza diplomatica, non era mai sprovvisto di buon senso e di intelligenza politici. Nel momento della sua morte ho notato che lui rimaneva per me soprattutto un uomo di coraggio, dimostrato nell’azione e nella malattia. Proprio a Friborgo l’ho visto esercitare questa virtù, sempre più rara nella Chiesa e nella società.
A Eugenio Corecco mi ha avvicinato, negli anni del suo insegnamento a Friborgo, la nostra comune partecipazione alla rivista internazionale teologica “Communio”, fondata da P. Balthasar e dal futuro cardinale Ratzinger. Egli aveva partecipato al primo gruppo di redazione italiana, mentre io avevo partecipato, con Padre Chantraine e altri, alla redazione francese. Dopo alcune difficoltà nell’ambito della redazione italiana, in seguito alle quali Eugenio aveva dimissionato, l’ho chiamato nel gruppo francese, per non spezzare un legame importante e prezioso per la vita di riviste sorelle.
Occupandosi di rapporti con l’Università nell’ambito della Conferenza dei Vescovi svizzeri, monsignor Corecco conosceva per esperienza diretta le difficoltà, ma anche gli aspetti positivi e persino le gioie di questo insegnamento, che lui aveva saputo animare e costantemente inserire nella sua dimensione ecclesiale.
Fra i tanti ricordi che serbo di Eugenio Corecco mi vengono alla mente, con particolare nitidezza, due episodi.
Il primo risale alla sera del 2 giugno del 1994. Era la festa del Corpus Domini; mons. Corecco presiedette la concelebrazione eucaristica, prese poi parte alla processione e finalmente diede la benedizione con il Santissimo. La malattia non gli permise di portare lui stesso l’ostensorio, ma durante tutto il percorso volle rimanere dietro e il più vicino possibile al Signore. Fu un commovente esempio di fede e di generosa dedizione alla sua Chiesa; malgrado l’enorme sacrificio che ciò supponeva, egli faceva di tutto per non abbandonare il suo compito, per essere presente fra i suoi fedeli. Al termine della cerimonia noi professori, che eravamo venuti a Lugano per l’annuale Colloquio di Teologia, ci riunimmo un momento con lui nella sede del palazzo episcopale. Lo si vedeva esausto e potè intrattenersi pochi minuti dialogando con alcuni di noi, accasciato su di una sedia. Questo suo esempio di fedeltà alla missione episcopale mi è servito molte volte per ricordare la sua unione profonda fra dottrina e vita. Nei suoi scritti e nella sua predicazione parlò spesso di servizio alla Chiesa, tanto che ciò può considerarsi come il nucleo della sua riflessione canonistico-teologica. Ma, come mostra l’evento appena narrato, tale discorso non fa solo teorico: Eugenio fu un uomo straordinariamente dotto e intelligente, ma seppe inoltre vivere in modo coerente quei princìpi e quei grandi ideali, che caratterizzano l’autentico Pastore, l’uomo di Chiesa.
Il secondo episodio ebbe luogo due giorni dopo, il sabato sera. Il Colloquio di Teologia era terminato e, come altre volte, il commiato fu una cena in un ristorante di Gandria in riva al lago. Una cena semplice, intima e piena di cordialità. Anche in quella occasione Eugenio volle essere presente fra di noi. Al termine della cena prese la parola per ringraziarci ed evocare brevemente la storia di quei Colloqui internazionali di Teologia. Dirigendosi verso di me, che mi trovavo seduto di fronte a lui, iniziò ricordando il sorgere dell’idea e la collaborazione che si sviluppò con la Facoltà di Teologia dell’Università della Navarra, della quale ero allora il preside. La sua conclusione fu uno sguardo al futuro per esprimere la sua speranza che tali Colloqui potessero continuare a celebrarsi e a svilupparsi al servizio della Chiesa, sia locale che universale. L’affetto che notai nelle sue parole e nel suo sguardo mi rimasero profondamente impressi, ben sapendo la gravità della malattia che lo stava duramente provando. Nelle sue parole si percepiva un tono particolare, non tanto di commiato – poiché lo si vedeva ancora pieno di vita e con voglia di vivere – ma piuttosto di colui che si sente minacciato dalla morte e vuole trasmettere qualcosa che gli sta specialmente a cuore.
Quel giorno a Pamplona
Tutto ciò mi fa ora riandare con la memoria agli incontri e alla successiva fruttuosa collaborazione che nacque fra di noi a partire dal maggio del 1985. Eugenio non era ancora Vescovo, era il prof. Corecco e, come tale, venne a Pamplona in occasione di un incontro scientifico. Durante un pranzo – che, come spesso succede, diede luogo a conversazioni altrettanto interessanti quanto sedute scientifiche – giungemmo a parlare della secolarità, un tema allora in voga soprattutto per il dibattito sviluppatosi intorno all’allora imminente Sinodo dei vescovi sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa. La conversazione si fece profonda; lui apportava le sue riflessioni quale canonista, io quale teologo e alla luce della spiritualità dell’Opus Dei alla quale appartengo. Ci congedammo con l’idea di continuare il dialogo. Pochi giorni dopo gli mandai una copia di un mio libro recente – Mondo e Santità – che in un capitolo tratta proprio quel tema. Non tardò a giungermi una lettera di mons. Corecco – o meglio del prof. Corecco, poiché ancora era tale – nella quale commentava alcune idee del libro e mi diceva: “Perché non organizziamo una piccola riunione fra specialisti per studiare la questione? Mi sembra che sia un tema sul quale valga la pena di riflettere, anche perché ci sono diverse opinioni al riguardo e alcune realmente contrapposte”. Raccolsi l’idea e incominciammo a pensare ai possibili partecipanti, cercando che la partecipazione rispecchiasse la pluralità di concezioni allora presenti nella Chiesa. Finalmente la riunione fu prevista per il giugno del 1987. La data era scelta, evidentemente, per poter offrire un contributo al Sinodo dei vescovi sui laici che si sarebbe celebrato nell’ottobre di quell’anno. Fra gli altri professori parteciparono: Giuseppe Colombo e Inos Biffi di Milano, Angelo Scola – allora professore all’Istituto Giovanni Paolo II per Matrimonio e Famiglia -, Georges Chantraine dell’Istituto teologico di Bruxelles, Günter Boll dell’Istituto Teologico di Vallendar, Pedro Rodriguez e J.R. Villar di Pamplona, Armando Bandera di Salamanca, Raul Lanzetti dell’Ateneo Romano della Santa Croce, ecc.
Fervevano i preparativi dell’incontro quando subentrò la nomina di Corecco quale Vescovo di Lugano, non gli fu perciò possibile assistere a quell’incontro. Nel pensiero dei partecipanti egli fu comunque presente e, visto il successo di quel primo incontro, sorse spontanea l’idea di ripetere l’esperienza. Coscienti del fatto che quel Colloquio era sorto da un’iniziativa di Corecco, che con me fu anche il principale animatore e organizzatore, ci sembrò logico suggerirgli che la prossima riunione si svolgesse a Lugano, in modo che risultasse più facile renderla compatibile con i suoi nuovi impegni episcopali. Eugenio accettò molto volentieri la proposta e così il secondo incontro ebbe luogo l’anno dopo a Lugano. In un primo tempo non esisteva nessun piano sul luogo in cui continuare a svolgere i nostri Colloqui internazionali, ma dopo la gradevolissima esperienza di quell’incontro luganese e anche considerata la posizione centrale della città svizzera in Europa, non ci furono dubbi sulla convenienza di continuare a riunirci in quella magnifica sede. I Colloqui che iniziarono a Pamplona divennero così i Colloqui Internazionali di Teologia di Lugano.
E c’era von Balthasar
Nel 1988 fu affrontato il tema dei carismi, nel quale Corecco era una delle massime autorità mondiali. Parte delle riflessioni si riferì a una delle idee centrali del suo pensiero: la concezione secondo la quale la Chiesa non ha solo una dimensione istituzionale, ma anche una dimensione carismatica; la sua costituzione è quindi formata dalla istituzione voluta da Cristo e nel contempo dalla comunità vivificata dallo Spirito, che la edifica continuamente mediante molteplici carismi. Oltre ai professori che intervennero nel Colloquio di Pamplona parteciparono altri come: Hervé Legrand e Jean-Robert Armogathe di Parigi, Daniel Brugués di Toulouse, Guy Bedouelle di Friburgo, Bruno Maggioni di Como, il filosofo Stanislaw Grygiel, i canonisti Arturo Cattaneo e Libero Gerosa ecc. Fra i nuovi partecipanti spiccava, malgrado il suo atteggiamento semplice e profondamente umile, il celebre teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, il quale tenne una relazione che fu il centro delle successive riflessioni. Era recentissima la notizia della decisione pontificia di nominarlo Cardinale. La sua presenza fra di noi significava un duplice motivo di gioia: quella dell’incontro con uno dei grandi teologi del nostro secolo e quella di rendergli un omaggio per il cardinalato. Di fatto, al termine del Colloquio, gli offrimmo, in nome di tutti i partecipanti, un bel mazzo di fiori con delle parole di riconoscenza e di profondo apprezzamento per la sua opera teologica. Fu un gran dolore ricevere, pochi giorni dopo, la notizia del suo improvviso decesso, proprio alla vigilia del suo viaggio a Roma per l’investitura cardinalizia. Un evento che diede, d’altra parte, una ulteriore e particolare rilevanza storica ai nostri Colloqui di Lugano.
I Colloqui a Lugano
D’allora in poi i Colloqui si svolsero ogni anno a Lugano. Il seguente fu dedicato alla donna nella Chiesa, come lo stesso von Balthasar aveva suggerito. Oltre a buona parte di coloro che intervennero nei Colloqui precedenti, ci furono anche questa volta dei nuovi partecipanti, come il noto esegeta Padre Ignace de la Potterie, che divenne poi un assiduo frequentatore dei nostri incontri, Sergio Ubbiali e alcune donne: Marie Hendrickx di Lovanio, Nicole Echivard di Parigi e Ludmilla Grygiel di Roma, moglie dell’illustre filosofo che fu pure presente. Come sempre Corecco faceva il possibile per essere presente alle riunioni, fin dove glielo permettevano i crescenti impegni diocesani. Il seguente Colloquio trattò del Sacerdozio. La prima e fondamentale relazione fu ad opera dello stesso Corecco. Ho ancora in mente le sue parole e la forza con cui parlò della vocazione sacerdotale e del Sacerdote come di colui che, identificandosi sacramentalmente con Cristo – Capo della Chiesa, – si trova particolarmente inserito in essa e al suo servizio. Rammentando quelle parole mi sovviene spontaneamente il ricordo dell’ultimo Colloquio, quello del 1994, poiché effettivamente il suo modo di esercitare il ministero episcopale fu una testimonianza viva e continua di quell’ideale, fino all’estremo delle sue forze.
Nel 1991 pensammo, e uso il plurale poiché, pur essendo ormai i Colloqui chiaramente centrati a Lugano, Corecco – con la preziosa collaborazione prima di Libero Cerosa e poi di Willy Volonté -, volle sempre mantenere uno stretto contatto con la Facoltà di Teologia di Pamplona come co-organizzatrice dei Colloqui, pensammo – dicevo – che visto l’interesse manifestato dal Papa riguardo all’urgenza di una nuova evangelizzazione dell’Europa e della necessità di riscoprire le sue radici cristiane, fosse opportuno dedicare il prossimo Colloquio a quest’ultimo tema.
In occasione di quegli incontri commentammo spesso fra di noi e con Eugenio la rilevanza che i Colloqui stavano tenendo nella vita intellettuale ticinese e ci chiedevamo come avrebbero potuto incrementarla. Seguendo tali riflessioni, Corecco incominciò a prospettare la creazione di un’accademia di teologia, che permettesse di dare una maggior continuità e diffusione, anche a livello d’insegnamento, a quelle aspirazioni.
Mosso dalla sollecitudine
Un anno dopo, l’8 maggio 1992, la Santa Sede approvava l’Istituto Accademico di Teologia di Lugano. Nel decreto di costituzione mons. Eugenio Corecco illustrava le ragioni che l’avevano portato a promuovere tale progetto, affermando, fra l’altro, che si sentiva “mosso dalla sollecitudine di incrementare la ricerca e l’insegnamento della filosofia e della teologia nello spirito del Magistero conciliare e pontificio, nonché delle altre discipline inerenti alla struttura istituzionale della Chiesa, per una sempre più approfondita conoscenza della Rivelazione cristiana; attento alle molteplici ragioni ecclesiali che richiedono, conformemente allo spirito dei tempi, la ricostituzione del Seminario diocesano nella sua sede naturale; consapevole dell’esigenza di rinnovare nella Chiesa particolare in Svizzera la sollecitudine pastorale e l’impegno missionario, per un più proficuo incontro tra Fede e cultura contemporanea e aperto alle istanze presenti nella società ticinese, perché la Svizzera italiana sia dotata di istituzioni di livello universitario, anche nello spirito dell’integrazione a livello regionale e sovranazionale”.
Per chi, come il sottoscritto, aveva partecipato in un modo o nell’altro alla gestazione di tale Istituto, la notizia della realizzazione, così rapida, di quell’arduo progetto, fu motivo di grande soddisfazione. A partire da quel momento si apriva evidentemente anche una nuova tappa nella storia dei nostri Colloqui, dato che essi si sarebbero integrati nelle attività proprie del nuovo centro accademico. Ciò non toglie che la Facoltà di Teologia di Pamplona sia sempre ben disposta ad offrire la sua collaborazione, anche grazie all’esperienza derivata da molteplici simposi internazionali di teologia.
I Colloqui del 1992 e 1993, d’accordo con una delle caratteristiche del nuovo Istituto teologico di Lugano, ebbero come tema l’ecumenismo. Lugano, per la sua situazione sia geografica che culturale, si presta singolarmente come sede di incontri ecumenici. Corecco volle, in conseguenza, che la Facoltà di Teologia di Lugano prestasse speciale attenzione al dialogo ecumenico che costituisce, d’altra parte, uno degli aspetti salienti della teologia del ventesimo secolo. Invitato d’onore fu precisamente uno dei principali promotori del movimento ecumenico da parte cattolica: il cardinale Johannes Willebrands.
II fatto che la neoeretta Facoltà di Teologia si trovi in Svizzera spinse Corecco ad incoraggiare i professori a prestare una particolare attenzione alla teologia di von Balthasar. Ed eccoci al Colloquio del 1994, dedicato alla cristologia del grande teologo svizzero, con cui iniziavamo la narrazione di questi ricordi.
Molte altre considerazioni teologiche si potrebbero tessere su quanto ho sbozzato in queste righe, ma penso che un elemento essenziale, senza il quale tutto ciò non si sarebbe sviluppato, è stato senz’altro l’eccezionale personalità sia ecclesiale che intellettuale di Eugenio Corecco: il suo profondo senso della Chiesa, la sua fermissima convinzione della verità del Vangelo, della trascendenza del messaggio salvifico che suppone l’annuncio di Cristo, la sua chiara percezione del fatto che il cristianesimo non è mera dottrina, ma comunità viva, Chiesa costituita – al contempo – da diversi ministeri, funzioni e carismi; il tutto animato da uno stesso ideale, da uno stesso Spirito. Grazie alla sua profonda comprensione della fede e della vita cristiana, Corecco ha potuto concepire la teologia e lo studio del diritto canonico come due àmbiti intimamente uniti e che costituiscono un elemento decisivo al servizio dell’evangelizzazione.
Nei numerosi incontri teologici a cui mi sono brevemente riferito in queste pagine, ho avuto modo di apprezzare tutto ciò, osservando come – grazie a tale sua personalità – si è sviluppato fra di noi, partecipanti dei Colloqui, uno stile e una consapevolezza dell’importanza che nella teologia assume il dialogo aperto, la rigorosa ricerca della verità – alla luce della fede e con la guida del magistero -, ricerca sempre impostata con un sincero spirito di servizio. Ciò è uno dei legati più preziosi che Eugenio Corecco ci ha lasciato, non solo alla Facoltà di Teologia di Lugano, ma anche al mondo teologico e canonistico internazionale, alla Chiesa di questi ultimi anni del ventesimo secolo.
Penso di essere stato il primo tra i colleghi italiani docenti di diritto ecclesiastico e canonico ad invitare Eugenio Corecco, giovane professore a Friburgo, a tenere una conferenza in una Università statale. Era il 1969 e si trattava della Facoltà giuridica di Parma, dove ero arrivato da Urbino l’anno prima, succedendo ad un amico carissimo, anch’egli scomparso meno di un anno fa, Antonino Consoli. Avevano fatto da amichevole tramite Giorgio Feliciani da poco giunto in quell’ateneo, e un altro amico comune che non è più con noi, Valsecchi, allora Rettore del Borromeo a Pavia, poi prete operaio, ucciso da un male inesorabile e dalla miopia delle gerarchie ecclesiastiche italiane chiuse ad ogni prospettiva di applicazione effettiva del Vaticano II.
Nacque a Parma un sodalizio che andò progressivamente rafforzandosi sia nei rapporti tra le nostre università – nel ’71 ero approdato a Firenze – sia all’interno della «Consociatio» internazionale dei canonisti che vide, in più d’una occasione, consenso pieno tra due credenti pur di diverso orientamento ecclesiale, Corecco, appunto, e Pedro Lombardia, uno studioso «laico» dei problemi giuridici della Chiesa, le cui, talvolta impertinenti, posizioni critiche verso la canonistica di palazzo e verso la pochezza degli studi negli atenei pontifici, trovarono in loro ampia e talvolta divertita comprensione, per quasi venti anni.
Spregiudicata lucidità
Né l’ascesa all’episcopato nell’amatissima sede ticinese aveva in qualcosa mutato il tenore e la cordialità dei rapporti: ricordo in più d’una occasione, rapide ma vivacissime colazioni nel ristorante del Motel sull’autostrada del sole, a Firenze Nord, nei viaggi di andata o di ritorno dai «limina» romani che Eugenio «bruciava» a bordo della sua poco episcopale BMW! E ricordo la spregiudicata lucidità con cui commentava le miserie curiali e le resistenze ad una effettiva penetrazione della collegialità nelle strutture ecclesiali che la sua codificazione andava definendo. Se ne trova una acutissima traccia in quello scritto del ’72 («Kirchliches Parlament oder synodale Diakonie», in Communio, 37) nel quale poneva il problema della rappresentatività in relazione al potere del Sinodo dei Vescovi, ed in molti altri suoi lavori.
Qualche anno fa, in occasione dei suoi sessant’anni, pensai di proporre ad un pubblico più vasto dei lettori della pubblicazione del Seminario Lombardo in Roma – nella cui serie era apparsa nel 1970 in una assai limitata tiratura -, la sua tesi di dottorato discussa a Monaco nel ’62 con Klaus Mörsdorf su «La formazione della Chiesa cattolica negli Stati Uniti d’America attraverso l’attività Sinodale»: accettò con entusiasmo e scrisse una illuminante introduzione alla seconda edizione dell’opera che fu stampata, per i tipi del Mulino di Bologna, nella collana da me diretta «Religione e Società». La proposta andava ben al di là di un recupero erudito e l’autore coglieva l’occasione per sottolineare che «non esistono elementi teologici per negare l’esercizio collegiale nel munus docendi a livello degli istituti sinodali minori», anche se la vincolatività delle decisioni è connessa all’unanimità del voto, e per mettere in evidenza come l’esperienza sinodale della Chiesa statunitense del secolo scorso, nella sua pragmaticità e paradigmaticità, fosse una «inconfutabile testimonianza» dell’antica, inconfutabile tradizione ecclesiale dei concili provinciali e plenari, sì che la riproposizione del volume aveva intendimenti «non prevalentemente storici».
Valorizzazione della collegialità
Al di là, quindi, dell’importanza di tale esperienza nel suo cinquantennio centrale (1820-1884) e del suo rilievo qualitativo anche in una fase, come scrisse Eugenio Corecco, di «sinodalità globale e permanente, mai registrata prima d’oggi», quale quella che ha vissuto la cattolicità dopo il Vaticano II, la ristampa di quell’opera è stata un contributo effettivo, anche per la sua originalità, al dibattito dottrinale sull’esercizio collegiale di quel munus, ma anche alle molte questioni poste dalla decisione di Giovanni Paolo II di sperimentare la dimensione «speciale» dell’assemblea del Sinodo dei Vescovi.
La direzione in cui si è mossa la speculazione di Eugenio Corecco – che in questa sede non è neppure possibile richiamare nei suoi molteplici capisaldi – ha costituito un elemento fondante per tale sperimentazione che si muove nella prospettiva di una valorizzazione della collegialità delle forme sinodali particolari, sia in senso formale che materiale, al di là degli stessi orientamenti del Vaticano II e in sintonia con l’antica tradizione della cristianità orientale fondata sull’esperienza religiosa «autonoma» della Chiesa particolare. Se, egli scrive «ci si attiene al principio secondo cui la Chiesa deriva dai sacramenti e dalla Parola… ne consegue che la sinodalità delle conferenze episcopali non è una derivazione di quella del Collegio dei Vescovi, ma è una espressione necessaria della dimensione sinodale intrinseca al sacramento dell’Ordine stesso e perciò al ministero personale ricevuto dal singolo Vescovo». Prescindendo, quindi, dalla diversità strutturale interna, conferenze episcopali e concili provinciali e plenari «non sono ecclesiologicamente di natura diversa».
É una prospettiva di grande importanza quella disegnata, in questo ambito, da Eugenio Corecco; una prospettiva che ci fa cogliere tutto il vuoto dottrinale che lascia la sua dipartita, ma che, ne siamo certi, non potrà che svilupparsi ulteriormente mettendo ancora una volta in luce il contributo essenziale che il suo pensiero ha svolto nella riflessione teologica e canonistica, ma anche nel continuo, concreto prodursi della normativa ecclesiale.
L’uomo – La prima volta che lo vidi fu trent’anni fa. Sembrava un ragazzo e non perse mai quell’aria di atleta dal tratto vitale, a tale punto che, il Papa, parlando di lui, lo chiamava il Vescovo«teenager». In quell’occasione partecipammo insieme, a Varigotti, ad un incontro di meditazione sul mistero pasquale. Relatore era Don Giussani che, con la sua forza persuasiva, descriveva l’avvenimento della morte e resurrezione di Gesù come la radice profonda di tutte le cose. Si era nel Triduo della Settimana Santa. Dopo ogni relazione c’era spazio per il dialogo. Mi colpì quel giovane sacerdote svizzero che, sistematicamente, dopo ogni conversazione andava al microfono, prendeva la parola e sottoponeva Don Giussani ad un fuoco di fila di interrogativi appassionati. Nascevano, da una parte, dalla sua vivace intelligenza dell’umano che gli studi teologici condotti a Roma avevano potenziato e, dall’altra, da quella conoscenza penetrante e generosa dell’animo giovanile (era infatti assistente di «Gaunia» e di «Lepontia») che avrebbe sempre caratterizzato la sua azione di sacerdote, di insegnante e di Vescovo. Vi traspariva una personalità singolare, fortemente segnata dalla sua nazionalità svizzera, in cui rifletteva oltre alla cultura italiana la sensibilitàmitteleuropea a lui ben nota non solo per la posizione geografica del suo amato paese nativo – Airolo – ma anche per gli studi svolti prima a Friburgo e poi a Monaco. Sempre la sua riflessione è stata caratterizzata dalla funzione di ponte tra la cattolicità latina e quella mitteleuropea propria di Lugano e del Ticino.
Gli anni Sessanta sono stati per lui decisivi. Furono il tempo dell’appassionato coinvolgimento con il mondo studentesco ticinese. Vi percepì la necessità di ripensare radicalmente la proposta cristiana che veniva abitualmente fatta ai giovani. Bisognava spalancarli ad una libertà sostanziale, aprendoli al desiderio di pienezza che è costitutivo dell’animo dell’uomo, testimoniando loro, con la propria vita, la «convenienza» suprema della sequela di Cristo. In lui fu sempre acuto il bisogno di colmare lo iato tra la fede e la vita, che già caratterizzava il cristianesimo dal dopoguerra, anche se esigeva una capacità critica del tutto particolare per essere colto. In effetti il momento era ancora tale da poter dare illusione. L’adesione nell’associazionismo cattolico era ancora massiccia e la pratica religiosa consistente. Ma, ad uno sguardo acuto, già si mostrava l’incidenza della fede nell’esistenza quotidiana dell’uomo. Essa era irrilevante, per esempio, nell’ambiente di lavoro e nella scuola.
La molla per Giussani
Fu questa la molla che portò Corecco e i suoi primi giovani all’incontro con Giussani. Incontro che resterà significativo per tutto lo sviluppo della sua esistenza ed anche per la sua teologia. Attraverso questa strada Corecco potè partecipare in profondità – lui, uomo di frontiera per nulla identificabile ad un ticinese appiattito sulla sola cultura italiana – di quella geniale condizione di teologo e di pastore propria della grande Diocesi ambrosiana dopo San Carlo. Mi riferisco alla preoccupazione che il teologo restasse concretamente ancorato alla vita della Chiesa recandosi, ogni fine settimana, in una parrocchia a svolgere il ministero pastorale alla pari degli altri sacerdoti. Poteva così vivificare l’esercizio della sua «intelligenza della fede» nell’esperienza reale del popolo di Dio. Corecco, giovanissimo parroco a Prato Leventina, ma, soprattutto, Corecco assistente di «Gaunia» e di «Lepontia», trovò così la strada che gli consentirà di divenire il teologo e il pastore geniale.
La mia amicizia con questo schietto prete ticinese crebbe a partire dal 1969, quando fui mandato dal mio Vescovo a studiare a Friburgo. Mi accolse nella pionieristica e vivace comunità diChamblioux-La Colline, dove molti dei suoi giovani avevano scelto di stabilirsi (rinunciando magari a sedi universitarie più prestigiose non senza dure lotte con i genitori). Li muoveva l’intendimento specifico di affrontare il sapere universitario dall’interno dell’esperienza di un gusto (sapere) della vita, come quello suscitato in loro dall’incontro con Cristo. Accompagnati da don Eugenio avevano fatto un’affascinante scoperta! L’essere cristiani non solo non intacca di una virgola anche il più fragile dei desideri o dei fremiti del cuore di un uomo, ma al contrario li esalta e consente ad un giovane di essere pienamente se stesso, cioè figlio del proprio tempo, immerso nella realtà e capace di muoversi in essa con tutta libertà. Con Corecco, tra il 1969 e il 1972, passai anni stupendi. Non privi di una certa dialettica stante i nostri diversi temperamenti, ma sempre sottesi da un’amicizia e da uno slancio vitale che ci portava ad affrontare, con i nostri amici, qualunque situazione.
Con rischio, con energia propositiva e con desiderio di paragone nei confronti del nascente Movimento Studentesco (che in Svizzera, a Friburgo in particolare, non prese mai grande peso) ci si lanciò, noi italofoni, a proporre nelle aule dell’Università di Friburgo a tutti, studenti e professori, un confronto aperto e serrato sulla necessità di affrontare il desiderio di cambiamento che animava le masse giovanili, prima americane, poi europee, senza dimenticare, ma anzi a partire dall’avvenimento di Gesù Cristo. Lo sentivamo non solo come radice della nostra storia, ma come la risorsa per dare a quell’anelito di cambiamento consistenza, prospettiva e frutto.
“Telefoniamo a von Balthasar”
In quei frangenti, non privi di ingenuità da parte nostra, ebbi modo di conoscere le due caratteristiche che giudico distintive della personalità di Corecco: l’apertura immediata ad ogni progetto che fosse in grado di mobilitare l’umano e condurlo a riconoscere la convenienza della fede e, dall’altra parte, l’enorme capacità di lavoro e la caparbietà decisa con cui un’iniziativa, dopo essere stata soppesata, veniva da lui perseguita e condotta a termine, senza paura di giocare la propria persona, senza timore anche di urtare quanti vi si opponevano incapaci di produrre ragioni contrarie convincenti.
Ricordo benissimo un pomeriggio del febbraio 1970 quando, nel suo studio al Salesianum, lessi su«Le Monde» una breve notizia. Si parlava del tentativo di von Balthasar, di De Lubac e di Ratzinger di dare vita a una nuova rivista internazionale, che sarebbe poi diventata «Communio». Il giornale diceva, tra l’altro, che dopo una prima riunione, a Parigi, fra un gruppo internazionale di teologi che erano stati esperti conciliari, il progetto sembrava arenato. Dissi a Corecco a mo’ di battuta: «Ecco una cosa interessante per noi». Subito rispose: «Telefoniamo a von Balthasar». Lo aveva visto sì e no un paio di volte a qualche incontro di teologi svizzeri. Dieci minuti dopo aveva già un appuntamento con von Balthasar per l’indomani. Andammo a Basilea e passammo una giornata indimenticabile a cui ne seguirono molte altre a Monaco o a Regensburg con Ratzinger e Greiner. Grazie all’aiuto dell’editore italiano Sante Bagnoli prese corpo «Communio». Penso di poter dire che senza l’azione energica di Corecco e senza la genialità editoriale di Bagnoli, il grande progetto di von Balthasar, di De Lubac e di Ratzinger non avrebbe forse visto la luce. Von Balthasar lo ha più volte riconosciuto. La rivista si chiamò «Communio» su proposta di Corecco e di Bagnoli, cui tutti aderimmo con entusiasmo. Il sodalizio che ne nacque fu assai più di quello che solitamente unisce i redattori di una rivista. Letteralmente cominciò una communio, cioè una trama profonda di rapporti tra filosofi, teologi e uomini di cultura europei ed americani. Eravamo animati da una passione per la Chiesa che poggiava sull’assoluto primato dell’esperienza della communio vissuta come base di un’adeguata riflessione filosofica e teologica. Dall’interno di questa trama di rapporti sarebbero poi nate molte altre iniziative. Soprattutto negli anni in cui vivemmo insieme in Avenue de Gambach(79-’82) fiorì l’idea della collezione dei manuali di teologia (AMATECA), quella di un Seminario internazionale e poi di un’Accademia teologica che è oggi la Facoltà di Teologia di Lugano. Non è pensabile poter ricordare qui i tanti frutti che questo stile di vita – alimentato quotidianamente dal paragone con la proposta cristiana dentro una comunità stringente ma aperta a 360° e tesa all’approfondimento sistematico e critico con tutti e con tutto – avrebbe prodotto. Non si può però dimenticare il grande impegno profuso, sotto la guida di Corecco, per il Congresso internazionale di Diritto Canonico a Friburgo (1980), rimasto per tutti i settecento membri della Consociatio Internationalis momento indimenticabile. Fu la base del giusto riconoscimento ottenuto nell’elezione di Corecco a presidente della Consociatio stessa.
La capacità di ascoltare
Sarebbe ingiusto fermarsi solo su questi aspetti e dimenticare le ore ed ore spese da don Eugenio ad ascoltare, sempre in ogni momento, qualunque bisogno tu gli esponessi. Decine e decine di studenti, molti colleghi, amici e conoscenti, politici, managers, uomini di cultura suonavano alla sua porta. Spesso senza preavviso. Non di meno li riceveva con gioia, li invitava a restare a mangiare con noi. Talvolta si dovevano far miracoli perché il cibo bastasse per tutti (in un appartamento di studenti!).
Come scordare il fascino che ti prendeva quando, studiando, avevi un’intuizione ed entravi di corsa nel suo studio e cominciavi a discuterla intensamente con lui che interrompeva sereno qualsiasi cosa stesse facendo? Ne veniva un allargamento di orizzonti e nuovi stimoli alla ricerca.
Per non dire dell’appassionata attenzione con la quale approfondiva, mediante una rete fittissima di rapporti epistolari, le domande che i suoi giovani – e non solo i giovani – gli rivolgevano, scrivendogli da qualunque parte del mondo.
Sopra ogni cosa regnavano il sorriso e la letizia: quando ci si metteva a tavola a Gambach, in quindici o sedici; quando si usciva, magari in venti o trenta, in Basse Ville a mangiare la fondueoppure quando il sabato sera si partiva per Berna per vedere in nocturne un film di cowboys che sempre lo divertiva anche se l’aveva già visto. Si passava con immediatezza dalle cose serie a quelle leggere esprimendo una contentezza sempre maggiore del vivere, un autentico godimento dell’essere, secondo l’idea del grande Agostino che «godere di una cosa è aderire ad essa con amore mossi dalla cosa stessa» («La dottrina cristiana» 1,4). Al di là di fragilità, limiti ed errori si era mossi da una presenza che dava significato ad ogni aspetto della vita e appassionava all’incontro e al dialogo con tutti. Questa letizia veniva a Corecco da un cuore spalancato di fanciullo e, nello stesso tempo, da uno slancio vitale energico. Era costruttore di fatti, di situazioni, di imprese. Era un lottatore, ma capace di cambiare parere e di riconoscere il proprio errore. Per questo solo chi non l’ha veramente conosciuto ha potuto pensare di lui che fosse un uomo di parte. La sua parte, in realtà, era l’intero, cioè la verità.
Il teologo – Benché un primo bilancio dell’opera teologico-canonistica di Eugenio Corecco sia stato tentato dal suo alunno Libero Gerosa, nella recente presentazione di una selezione accurata dei suoi scritti (Ordinatio fidei, Paderborn 1994), ci vorrà ancora non poco lavoro per cogliere, in profondità, l’ordito e la trama che sostengono l’opera scientifica di questo autore. Anzitutto sarebbe sbagliato misurare Corecco col metro del semplice uomo di scienza. Infatti, pur sviluppate in maniera rigorosa in una teologia del diritto canonico, le sue intuizioni principali – come ebbe a dire egli stesso qualche mese fa al Palacongressi di Lugano, in occasione della presentazione del volume dei suoi scritti – hanno visto la luce nella sua esperienza di fede ad un tempo personale e comunitaria. Esse mi sembrano, propriamente parlando, riconducibili a due elementi che certamente si connettono alla concezione del diritto canonico ricevuta dal maestro Mörsdorf e sviluppata nel tenace sodalizio di studi con l’attuale Arcivescovo di Madrid, Rouco Varela, con l’Arcivescovo di Freiburg, Saier, con il successore di Mörsdorf, Aymans, e molti altri, ma che tuttavia rappresentano, rispetto a quell’intenzione originaria, un avanzamento sul piano del metodo e del contenuto.
Un’intuizione profetica
Si tratta, anzitutto, della elaborazione organica del concetto di communio. Per chiarire cosa Corecco intendesse veramente con questo termine credo ci si debba rifare ad un suo scritto, tutt’oggi insuperato, che meriterebbe di essere meditato tanto fu profetico nel suo intendimento profondo. Profetico, purtroppo, di qualcosa che si sarebbe puntualmente verificato. Il testo, che porta il titolo:«Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale?» si trova nel primo numero di «Communio» (1972). Corecco affronta il problema dei consigli presbiterali e pastorali come espressione della questione generale della «rappresentanza» dentro la Chiesa. Vi è in quell’articolo un approfondimento del concetto cattolico di communio che, per certi aspetti, va al di là del puro dato conciliare cui pure Corecco si riferisce e si alimenta. Per Corecco la communio è il segno dell’accadere nel presente dell’evento di Gesù Cristo. Avvenimento che solo nella communio si rende contemporaneo alla storia dell’uomo di tutti i tempi. Nell’ottica dell’evento e della concezione del reale come segno che rinvia al Mistero, egli seppe pensare questa categoria in maniera completa ed equilibrata, partendo dal suo livello antropologico, legato all’insostituibilità dei rapporti interpersonali vissuti in Cristo, per giungere alla dimensione ecclesiologico-sacramentale. Corecco ne seppe inoltre derivare, da acuto canonista, una considerazione obiettiva della costituzione della Chiesa che lo condusse ad equilibrare in maniera adeguata la relazione tra Chiesa universale e Chiesa particolare. Con grande apertura ecumenica, pensò a queste due dimensioni costitutive dell’unica Chiesa di Cristo nei termini di una indispensabile reciproca coimplicanza. Nell’ottica del dogma cristologico di Calcedonia, senza separazioni e senza confusioni Chiesa universale e Chiesa particolare si implicano a vicenda nel tutto che è la Chiesa di Gesù Cristo. La communio diviene in tal modo un principio metodologico che esige di essere tradotto a rutti i livelli della vita ecclesiale e conduce così la Chiesa ad attestarsi concretamente negli ambienti dell’umana esistenza. Sarà questo uno dei contenuti di fondo del suo impegno pastorale una volta nominato Vescovo. Non pochi dei suoi studenti poterono sviluppare tesi significative partendo da questa teologia della communio.
L’essenza della Chiesa
La seconda categoria portante della teologia di Corecco fu certamente l’intuizione, che trovò forse la più acuta espressione nei suoi numerosi interventi all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi sul laicato (1987), della co-essenzialità della dimensione carismatica nella vita e nella costituzione della Chiesa. Egli elaborò, con rigore teologico, l’affermazione che la costituzione della Chiesa ha una dimensione istituzionale e una dimensione carismatica, distinguendo con acribia la co-essenzialità della dimensione carismatica come tale, dalla contingenza di ogni singolo carisma. Anche questa intuizione, che divenne in lui organica elaborazione teologica, feconda e meritoria di ulteriori sviluppi, poggiava sulla sua esperienza di vita cristiana così come egli potè condurla a partire dalla comunione di vita e di pensiero con mons. Luigi Giussani.
Communio e dimensione carismatica, dimensioni costitutive dell’essenza della Chiesa, rappresentano per Corecco non solo il fondamento di un diritto canonico a pieno titolo, salvato e garantito come disciplina teologica, ma anche la base per una riflessione poliedrica su svariati contenuti teologico-canonistici talora legati a bisogni, urgenze e circostanze relative alla concreta vita della Chiesa. Difficilmente si cercherebbe nella produzione scientifica di Corecco un puro sviluppo positivo del diritto, anche se la larghezza di orizzonte elaborata sui due principi poco fa esplicitati gli consente di intervenire, con puntualità, su questioni non soltanto di rilevanza teologica, come ministro del sacramento del matrimonio o la vera natura teologica della legge (ordinatio fidei),ma anche su problemi pratici scottanti quali, ad esempio, il dimettersi dalla Chiesa per ragioni fiscali.
In questa sede ci si può limitare a simili rilievi di carattere generale, lasciando ad altri, più competenti, il compito di approfondire il portato di Corecco alla scienza teologico-canonistica.
Il pastore – Quando, nel 1986, il Santo Padre lo chiamò alla guida della Diocesi ticinese, Corecco avvertì immediatamente l’urgenza di dover riformulare, nell’ottica del nuovo compito che gli veniva affidato, le due dimensioni costitutive della sua vita: quella del cristianesimo come fatto di esperienza e di communio e quella della riflessione teologica condotta su tale esperienza ecclesiale.
Bisogna dire anzitutto che, nella persona di Corecco, l’esercizio del ministero episcopale si lasciava, con naturalezza, identificare con la cura del popolo di Dio. Egli si sentì, fin dall’inizio, mandato a tutti i battezzati e a tutti gli abitanti del Canton Ticino. Percepì acutamente la dimensione di paternità cui l’episcopato – non certo per capacità dell’insignito, ma per grazia – consegna un uomo e il suo cuore«non restò stretto», come dice San Paolo, ma si dilatò, instancabilmente, in tutte le direzioni e nei confronti di tutti gli uomini che si rivolgevano a lui o che lui poteva raggiungere, a qualunque forza sociale, culturale e politica appartenessero. Nulla lasciava intentato pur di prendere sul serio quella cura del popolo di Dio che costituisce l’essenza della missione del Vescovo e del prete, ma anche di ogni altro fedele. Dall’interno di questo convincimento, che fu per lui incrollabile e che non è per nulla scontato – non è diffìcile trovare, infatti, anche nel presbiterio, persone che hanno perso il senso di questa cura del popolo e che scelgono l’uno o l’altro aspetto del ministero in cui si sentono particolarmente versati trascurando il resto – Corecco era ben preparato, in forza della sua esperienza e riflessione sulla communio, a cogliere la valenza specifica del ministero episcopale così come è stata elaborata dal Concilio Vaticano II, soprattutto in Lumen Gentium.
Indomito dinamismo
Anzitutto la coscienza di essere chiamato, con la nomina episcopale, a far parte del Collegio dei Vescovi che vive nel vincolo di comunione con il successore di Pietro – in analogia al collegio apostolico che sta cum Petro e sub Petro – determinò in Corecco una immediata apertura della duplice dimensione propria del ministero episcopale. Era inviato come guida ad una Chiesa particolare, la Chiesa ticinese, ma nello stesso tempo – in quanto membro del collegio dei Vescovi – era chiamato ad una precisa attenzione nei confronti di tutta la cattolicità. Visse con indomito dinamismo il suo essere come Vescovo, fattore di comunione tra una Chiesa particolare e tutte le altre Chiese particolari. Questo spiega la sua concreta apertura di orizzonti. Mai, fin dall’inizio del suo episcopato, quando ancora il muro di Berlino non era caduto, ha rifiutato un invito delle Chiese dell’Est e dell’America Latina o degli Stati Uniti. Così come mai si è sottratto alla collaborazione con la Chiesa universale, nelle sue istituzioni romane, superando ogni preoccupazione che la sua immagine potesse risultare schierata a quanti, pregiudizialmente, guardano al centro della cattolicità non ancora liberi da un certo antirömischer Affekt. Da qui anche la cura e la vigilanza con cui Corecco ha voluto e cercato la verità nella carità con i confratelli nell’episcopato dentro la Conferenza Episcopale dei Vescovi Svizzeri e non ha trascurato contatti ecumenici di primaria importanza, sia nella direzione delle Chiese riformate, sia della Chiesa ortodossa. Per la stessa ragione ha instaurato nessi e collegamenti con ogni forma di autentica esperienza cristiana che, pur non essendo presente nella Chiesa ticinese, si rivolgeva a lui come pastore per chiedere aiuto, consiglio e cittadinanza nella pluriforme unità della Catholica.
Nell’evoluzione della modernità
Centrale, nell’esercizio del suo ministero fu certamente l’intuizione della delicata fase di transizione in cui veniva a collocarsi l’evoluzione della modernità. Ciò si evince con chiarezza fin dai primi pronunciamenti (si pensi alla sua prima Lettera pastorale del 1987: «Siate forti nella fede») nella preoccupazione di fare eco alla grande denuncia di Paolo VI circa la separazione tra fede e vita che caratterizza, nell’epoca contemporanea, il popolo dei battezzati. Essa si documenta non solo nella progressiva riduzione della pratica della vita cristiana, ma anche nella tentazione di ridurre la potenza dell’evento di Cristo a una pura dottrina, a una pura ascesi o ad una pura morale. Dottrina, ascesi o morale sono dimensioni essenziali dell’evento cristiano, ma prendono tutto il loro vigore soltanto dall’interno dell’attestarsi visibile della forma stessa (Gestalt) di Gesù Cristo nel cuore della persona e soprattutto al centro della comunità cristiana, chiamata ad essere segno trasparente della potenza salvifica di Cristo per il mondo. La necessità di superare il divorzio tra la fede e la vita, perché la fede tornasse ad essere fondamento di un entusiasmo critico dell’esistenza, furono oggetto dell’ansia pastorale del Vescovo Corecco. Essa si mosse in due direzioni privilegiate.
Anzitutto la cura nei confronti del mondo giovanile: parlare alla libertà dei giovani, per mostrare loro che non è affatto necessario abbandonare la fede dei padri per essere fino in fondo giovani del proprio tempo. Anzi, non esiste sfida più entusiasmante per il desiderio costitutivo della libertà, per la sua imperfetta capacità di scelta e per il suo anelito alla soddisfazione che fare un’esperienza di Gesù Cristo come centro affettivo del proprio io, come ragione del vivere quotidiano, circostanza dopo circostanza, rapporto dopo rapporto. L’attenzione al mondo giovanile si è esplicata per il Vescovo Eugenio non solo nelle Giornate mondiali della gioventù, nei pellegrinaggi, nella rigenerazione dell’Azione Cattolica, nell’apertura alla pluralità dei carismi che sono stati accolti dalla Chiesa in questi ultimi anni, ma anche nella disponibilità sempre pronta ad ascoltare i giovani che volessero andare a trovarlo e nella fitta corrispondenza intrattenuta con loro e che costituisce un vero e proprio epistolario di rilievo – speriamo, in futuro, di vederlo pubblicato! -, più simile ai grandi epistolari dei pastori tradizionali che allo stile, spesso manageriale, del Vescovo di oggi.
L’importanza del Presbiterio
La seconda direzione in cui Corecco esplicò il tentativo di superare il divorzio tra fede e vita fu la cura nei confronti del presbiterio. Era in lui chiaro – e ne discutemmo spesse volte – un convincimento preciso e prezioso. O la modalità di relazione dei presbiteri col Vescovo e tra di loro è la communio sensibilmente espressa, che non si riduca solo all’ex opere operato prodotto per grazia dall’ordinazione sacerdotale ma che tenda il più possibile, al di là delle fragilità e dei conflitti, a documentarsi nella vita quotidiana attraverso la condivisione dei bisogni pastorali e personali di ciascuno, oppure, inesorabilmente, essa diventa frutto di un calcolo, i rapporti diventano «politici». Corecco cercava sempre di evitare questo rischio. Il fatto che fosse uso alla franchezza (parresia)ed amasse essere diritto e chiaro nei rapporti, dicendo con chiarezza ciò che pensava, non gli impediva l’accoglienza comunionale per la quale era disposto a cambiare la propria opinione di fronte alla posizione convincente dell’interlocutore. Il fatto che egli fosse realista nel conflitto, nell’accettare la contraddizione, non deve trarre in inganno! Conflitto e contraddizione sono elementi inevitabili nell’esperienza ecclesiale a causa dell’umana fragilità. Tuttavia la stima per lacommunio venne in lui sempre prima, perché essa è il segno sacramentale che rende assolutamente necessaria alla mia personale vocazione, qualunque persona mi sia donata come prossimo – soprattutto prossimo nel presbiterato – per iniziativa dello Spirito. Il cuore di questa sua appassionata attenzione al presbiterio fu la decisione di riportare il Seminario in Diocesi. Corecco capì che sarebbe stato impossibile preparare i futuri sacerdoti ed educarli all’appartenenza al presbiterio, senza offrire loro la possibilità di vivere concretamente – pur nel necessario distacco esigito dalla preparazione ascetica, morale e teologica – l’immanenza ai problemi, ai bisogni, alle ansie del popolo di Dio che costituisce la Chiesa ticinese. A questa scelta si accompagnò da subito, nel pastore che era anche sapiente teologo, la necessità che i giovani non avessero a soffrire nel necessario apprendimento, rigoroso e scientifico, delle ragioni che costituiscono l’intellectus fidei.Certamente questa fu la molla principale che spinse Corecco alla creazione di quella che oggi è laFacoltà di Teologia di Lugano. Non l’unica, perché il pastore Corecco, conscio della dimensione cattolica del suo ministero episcopale, concepì la Facoltà teologica come un servizio da rendere alla Chiesa intera. Corecco comprese che era suo compito, come fu nella storia della Chiesa compito di altri grandi figure mitteleuropee – penso per esempio a Scheeben dopo il suo insegnamento romano – aiutare un dialogo critico e costruttivo tra Roma e le Chiese e le culture dell’Europa centrale. Proprio per questo volle una Facoltà teologica aperta. E la volle non solo per l’Europa e come servizio alle Chiese dell’Est, uscite dalla grande prova dei socialismi realizzati. La offrì, come possibilità, ai pastori dell’Africa e dell’America Latina. Ad altri toccherà sviluppare in dettaglio il significato di questa creazione, che anticipò con singolare genialità l’urgenza di un’università nel Canton Ticino, così come altri dovranno ora continuarne l’eredità.
Fare di Cristo il cuore del mondo
Queste nostre notazioni, per forza di cose frammentarie e del tutto incomplete, su Corecco pastore ci impongono di dire una parola anche sulla coscienza acuta che egli ebbe della necessità di impostare su nuove basi la relazione della Chiesa ticinese con la società civile e con l’istituzione statale del Canton Ticino. Non era solo l’esito della constatazione banale che la Chiesa è fatta di uomini e vive inesorabilmente mescolata ai bisogni, alle ansie, agli interessi dei singoli e dei gruppi, dei corpi intermedi, che costituiscono la società civile e, in modo particolare, delle istituzioni che la rappresentano, ma anche a questo proposito la sua preoccupazione fu squisitamente pastorale. Egli infatti sentì con forza ciò che il Sinodo straordinario dei Vescovi sul Concilio Vaticano II (1985) ebbe a dire: che la Chiesa non ponesse troppo l’accento su di sé, ma fosse sempre più segno diretto, immediato e trasparente dell’evento salvifico di Cristo per il mondo. Per questo egli tentò di impostare su nuove basi più solide lo statuto giuridico della parrocchia della città di Lugano e si adoperò attraverso una speciale Commissione paritetica tra Chiesa e Cantone perché si formulasse una nuova legge civile-ecclesiastica. Non lo fece per dare maggior potere alla Chiesa, ma per consentirle di vivere, libera da preoccupazioni «temporali», la sua alta missione. Ciò esige il riconoscimento fattivo, da parte della società civile e dello Stato, della sua realtà organizzata e dei relativi bisogni economici.
Un altro tratto della sua pastorale lo portò ad ascoltare e a collaborare con chiunque, anche non cattolico, gli presentasse progetti e proposte di carattere culturale, sociale, politico. In tutti i modi non si precluse, nella verità e nel rigore, relazioni con tutti e non lasciò mancare la sua parola a nessuna realtà, ovunque egli fosse invitato.
Da dove nasceva questa preoccupazione che la Chiesa potesse essere per il mondo segno credibile che il disegno del Padre è fare di Cristo il cuore del mondo? Nasceva dalla percezione della cattolicità della Chiesa stessa o meglio della sua natura ecumenica.
Per illuminare questa notazione è necessario dire una parola sull’acuta analisi di Corecco circa la modernità, in modo particolare circa la fase di transizione tra il moderno e il cosiddetto postmoderno che, per la prima volta, taluni membri dell’intellighentia mondiale non hanno rinunciato ad identificare come postcristiano. Più volte si discusse con Corecco della natura di questo stato di transizione. Egli mi diceva più o meno queste parole: «Stiamo passando da un residuo mondo cattolico ad una situazione di nuova evangelizzazione. La tradizione come tale, che resta valida nei suoi contenuti oggettivi, non vive più in un corpo ecclesiale capace di comunicarla, perché la fede di questo corpo non e più una fede sostanziale, perciò non si può fare affidamento, come in passato, su forme che spontaneamente trasmettano la fede. Bisogna realmente, favorire l’incontro tra l’evento di Cristo e il cuore della libertà di ogni uomo». Parafrasando una bella espressione del Cardinal Ratzinger anche per Corecco la fede, nel tempo della nuova evangelizzazione, deve comunicarsi, quasi per contagio, da persona a persona, da esperienza a esperienza. Con grande prudenza, senza nulla lasciar cadere dei modi di comunicazione ecclesiale tradizionali, bisogna immettere le nuove forme sorte dall’esperienza convinta di persone, parrocchie, comunità e gruppi. In questo passaggio è necessaria la libertà critica di lasciar finire ciò che per sua natura è destinato a finire, senza mantenere in vita artificiosamente nulla che non sia veramente esigito dal bene essere del popolo di Dio.
In questo senso il giudizio di Corecco sulla fase finale della modernità illumina anche il suo modo di interpretare tutta la vicenda moderna. É stato detto e scritto di lui che fu un integralista o che, come membro e confondatore di «Communio», fu un teologo di centro. Niente vi è di più ingeneroso di una simile opinione, ma questo interesserebbe poco, perché Corecco era un uomo libero dai pregiudizi e persino dagli insulti e dalle ingiurie che da più parti non gli sono mancate. Conta che una simile valutazione è del tutto inadeguata a cogliere la sua figura di cristiano, di teologo e di pastore. In effetti, se è vero che egli fu realista nel tener conto dell’analisi maritainianasull’antimoderno e sui tre Riformatori, è anche vero che le categorie di integralista e conservatore a lui riferite mancano il bersaglio. Egli seppe infatti affidare la missione della Chiesa nel mondo non a una concezione intellettualistica di cultura, ma a una dimensione veramente universale ed ecumenica del soggetto cristiano. Per spiegarmi meglio. Accogliendo l’affermazione di Giovanni Paolo II nel celebre discorso sulla cultura tenuto all’UNESCO (1980), Corecco ebbe coscienza che il primo atto culturale è il porsi chiaro, dentro tutti gli ambienti dell’umana esistenza, del soggetto cristiano concretamente visibile e sperimentabile.
Una grande novità
La cultura è anzitutto l’esperienza del soggetto ecclesiale in atto. Solo derivatamente, in quanto discorso di secondo grado, essa è approfondimento sistematico e critico di quest’esperienza. Essa nasce già chiusa ed incapace di slancio ecumenico, se non nasce dall’orizzonte veramente intero (cattolico) proprio dell’evento ecclesiale. Dove si vede la forza di questo soggetto ecclesiale se non nell’obbediente paragone con la rivelazione stessa di Gesù Cristo? In tale paragone si incontrano tutte le esigenze e le domande, le ansie, i bisogni, le urgenze, i problemi che agitano il cuore dell’uomo. Non dimentichiamo che nell’oggettiva visione della fede che fu di Corecco la libertà, pur conservando tutta la sua autonomia, è maternamente avvolta dalla grazia di Dio. La grazia precede la libertà e la suscita. Nel continuo confronto con questa grazia che è Cristo Gesù nessun grido dell’uomo, fosse cristiano, appartenente ad altre religioni od ateo, purché veramente libero, restò inascoltato dalla grande apertura della visione cattolica di Corecco. Una visione veramente ecumenica, che supera ogni schematismo di comodo proprio di categorie come «conservatore», «progressista» o «di centro», tipiche di un concetto intellettualistico di cultura.
Col dono del Vescovo Eugenio il popolo di Dio che è in Ticino ha visto una grande novità. Le testimonianze di affetto lungo tutto il tempo della malattia, il tributo reso alle sue spoglie nei giorni dell’esposizione in Cattedrale e la partecipazione di massa alle sue esequie ne sono la testimonianza convincente. Realmente egli, per grazia di Dio, con la sua vita e con la sua morte, ha ridato corpo alla Chiesa luganese perché ha ridato sostanza alla fede di decine di migliaia di fedeli. E non solo in Ticino, ma in tutta la Svizzera, così come all’innumerevole schiera di amici e di persone che l’hanno conosciuto in tutto il mondo.
Questa novità è una eredità che egli ci lascia. Essa attende la nostra libertà. É un compito gravoso, che però riempie il nostro cuore di entusiasmo. La nostra gratitudine verso il Vescovo Eugenio cresce ogni giorno col dilatarsi in noi della tenerezza propria del singolare modo di compagnia che ora egli ci fa, insieme con tutti i Vescovi suoi predecessori, i nostri parenti ed amici che ci hanno preceduto all’altra riva.