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Amici Corecco

IL VESCOVO EUGENIO CORECCO E CARITAS TICINO

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Caritas Ticino

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2012

Fondata nel 1942 dal Vescovo Angelo Jelmini come risposta ai problemi dell’accoglienza dei profughi, si è sviluppata in questi 70 anni quale espressione della diaconia della Chiesa della Diocesi di Lugano. Ha risposto alle crescenti sfide della povertà materiale, sempre più relativa e per contro, più complessa nel suo dispiegarsi, in particolare divenendo soprattutto fenomeno di esclusione sociale.

Capitoli

Fondata nel 1942 dal Vescovo Angelo Jelmini come risposta ai problemi dell’accoglienza dei profughi, si è sviluppata in questi 70 anni quale espressione della diaconia della Chiesa della Diocesi di Lugano. Ha risposto alle crescenti sfide della povertà materiale, sempre più relativa e per contro, più complessa nel suo dispiegarsi, in particolare divenendo soprattutto fenomeno di esclusione sociale.

Ciò ha determinato un profondo mutamento metodologico nell’azione di Caritas Ticino, che, soprattutto dagli anni ‘80, ha ridotto il sostegno materiale impegnandosi sussidiariamente allo Stato Sociale, e abbandonando ogni forma di colletta o fundraising.

Caritas Ticino, infatti, ha cercato di sviluppare un concetto di intervento sociale fondato sulle risorse -sia della persona bisognosa, sia propriee non sulla penuria, sviluppando forme di autofinanziamento economico/commerciali sul modello di impresa sociale affine al pensiero di Muhammad Yunus (economista e premio Nobel per la Pace 2006) e adattando i propri strumenti d’intervento.

- Disoccupazione: dal 1988, creazione di programmi occupazionali, vere aziende, che hanno inserito temporaneamente fino ad oggi più di 5000 disoccupati in attività artigianali o industriali (riciclaggio di rifiuti elettronici ed elettrici, mobili, tessili e oggettistica) e agricole;

- Servizio sociale: struttura tradizionale dell’intervento di Caritas Ticino, si è evoluto secondo una linea di professionalizzazione e di risposta ai nuovi bisogni, sviluppando, ad esempio, la consulenza alle situazioni di indebitamento o la psicoterapia.

- Settore informativo: uno strumento di lotta alla povertà, con la diffusione del bene più prezioso di Caritas Ticino, il pensiero fedele all’intelligenza della Dottrina Sociale della Chiesa, con la creazione dal 1994 di uno studio televisivo in proprio che produce settimanalmente video disponibili online e sui canali TV ticinesi.

Roby Noris

Incisa col laser su una piastra metallica di 8 metri per 4 montata sulla facciata del nuovo stabile CATISHOP.CH in via Ceresio 48 a Lugano-Pregassona, la frase programmatica del vescovo Eugenio Corecco: “La carità non ha come misura il bisogno dell’altro, ma la ricchezza e l’amore di Dio. È infatti limitante guardare all’uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l’uomo è di più del suo bisogno”. Si tratta di un passaggio della sua relazione al convegno del 50esimo di Caritas Ticino nel 1992 che ha segnato l’evoluzione dell’organizzazione diocesana negli ultimi vent’anni (versione integrale dell’intervento, p. 14). Il negozio e programma occupazionale CATISHOP.CH infatti apre i battenti nel 2012 a segnare il 70esimo di Caritas Ticino, e l’enorme piastra bucata sulla facciata con il testo del vescovo Eugenio è un omaggio a questa grande figura a cui è dedicata la nuova costruzione. Nei vent’anni fra il 50esimo e il 70esimo Caritas Ticino ha maturato una linea metodologica di intervento sociale fondata sull’idea di risorsa e non su quella di penuria e di bisogno, che sono il normale riferimento di tutto il welfare o della filantropia caritativa; questo ha permesso di valorizzare sia le risorse di chiunque chiede aiuto, sia quelle dell’organizzazione che si è completamente staccata dall’idea del fundraising filantropico a favore di una concezione imprenditoriale di impresa sociale - Social Business secondo il modello di Muhammad Yunus - che guadagna e reinveste rispondendo così ai bisogni sociali che incontra. Ma questa idea laica delle risorse come punto di riferimento di ogni intervento sociale, e non del bisogno, nasce da quell’intuizione profondamente religiosa che il vescovo Eugenio ha affidato vent’anni fa a Caritas Ticino, facendo maturare e aprire lo sguardo a visioni sociali ed economiche incontrate cammin facendo, che costituiscono oggi il background, il pensiero sociale dell’organizzazione. Gratitudine profonda per questo saggio che ha saputo reinterpretare la dimensione della carità evangelica in un modo comprensibile e accettabile anche per chi non ha abbracciato la fede cattolica ma si muove su un piano di ricerca di modelli risolutivi a lungo termine di fronte alle sfide della povertà assoluta e di quella relativa. Il CATISHOP.CH e la ricorrenza del 70esimo sono quindi dedicati al vescovo Eugenio, l’amico e il padre, il saggio che ha aperto lo sguardo alla speranza per tutti. Come dice Padre Mauro Lepori (intervista a p. 28) “Il vescovo Eugenio non ci guardava a partire dai nostri bisogni”.

Ed è proprio avendolo conosciuto, che molti hanno sperimentato direttamente, concretamente, questo sguardo che sapeva cogliere la ricchezza di una persona; quindi prima della sua geniale formulazione, scritta sulla facciata del CATISHOP.CH, si è toccato con mano questa possibilità per tutti di essere guardati come portatori di risorse e non come bisognosi. La dimensione della carità è fondamentale per ogni cristiano, ma chi vive professionalmente l’attenzione agli altri e la lotta contro la povertà non può evitare il confronto serrato con questa chiave di lettura. Il vescovo Eugenio ha invitato ad aprire gli occhi affinché la si smettesse di ripiegarsi sul bisogno e sulla penuria di risorse, perdendo la possibilità di intuire la speranza insita in ogni persona in quanto amata da Dio. Ed è stato straordinario scoprire nel corso degli ultimi vent’anni la perfetta corrispondenza operativa col pensiero di economisti e pensatori che hanno formulato in termini laici l’idea fondamentale dell’uomo portatore di risorse; idea su cui va centrata l’attenzione per poter immaginare qualunque progetto sociale che consideri le persone come dei soggetti attivi e non dei fruitori passivi di beni distribuiti a fondo perso. Penso che forse non avremmo colto la portata del pensiero di Muhammad Yunus, di Amartya Sen o di C. K. Prahalad, per il nostro lavoro, se non avessimo avuto in fondo già tracciato il cambiamento profondo di rotta mostrato dal vescovo Eugenio. Non essere definiti dal proprio bisogno perché siamo molto più del nostro bisogno, ha significato concretamente spostare l’attenzione dal vittimismo che genera assistenzialismo, alla carica potenziale che va cercata e fatta esprimere da ogni persona, anche se apparentemente incapace di riconoscerla e tantomeno di esplicitarla. Questo su scala ridotta ha voluto dire per Caritas Ticino reimpostare ad esempio il servizio sociale e i programmi occupazionali per il reinserimento dei disoccupati, partendo dal fatto che nessun “povero” uscirà mai dalla sua condizione se rimane oggetto passivo di distribuzione di beni, ma solo se diventa soggetto economico produttivo. E su grande scala questo ha significato anche uno sguardo diverso sui progetti e sul sostegno ai paesi poveri del mondo. Il ripensamento quindi delle forme di solidarietà e di carità che ci hanno portato oggi ad edificare una costruzione come il CATISHOP.CH a LuganoPregassona, per far lavorare disoccupati, dedicandola al vescovo Corecco, è fondato su un concetto di impresa sociale che si muove in ambito economico, che produce, investe e fa profitti coniugando economia e solidarietà. La speranza che cerchiamo di suscitare in ogni disoccupato inserito in questo programma occupazionale, è che ogni persona, come è scritto sul gigantesco tabellone sulla facciata principale del CATISHOP.CH “… è di più del suo bisogno”.

LEZIONI DI CARITÀ DEL VESCOVO EUGENIO CORECCO Due interventi di monsignor Eugenio Corecco, del 1991 e 1992, sulla carità

Il vescovo Eugenio Corecco nella sua genialità e saggezza ha affidato a Caritas Ticino una lettura della carità evangelica fondata sulle risorse, sull’eccedenza e la sovrabbondanza dell’amore di Dio e non sul bisogno o sulla penuria di risorse. Caritas Ticino grazie a questo pensiero ha trasformato completamente il suo modo di affrontare la sfida della povertà nel corso degli ultimi vent’anni. Un messaggio straordinario e controcorrente rispetto all’interpretazione più di natura filantropica che non evangelica, adottata da sempre anche dal mondo cattolico che continua ancora oggi, nonostante encicliche come “Caritas in veritate”, a impostare l’intervento caritativo focalizzandolo sul bisogno e sulla mancanza di risorse. Il vescovo Eugenio ci ha onorati affidandoci questa visione carica di speranza nei confronti dei poveri affinché la diffondessimo. Agli operatori di Caritas durante un incontro di formazione nel 1991 parlò di “eccedenza” e un anno dopo al convegno del cinquantesimo di Caritas Ticino nel 1992 utilizzò il termine “sovrabbondanza”.

Ecco i due testi integrali, un’opportunità straordinaria per un approfondimento della dimensione della carità.

PRIMO INTERVENTO 14 giugno 1991 Incontro di formazione per operatori di Caritas Ticino (trascrizione da registrazione)

Mons. Eugenio Corecco, vescovo di Lugano, partecipando all’incontro di formazione degli operatori di Caritas Ticino del 14 giugno 1991, ripercorrendo i cento anni di Dottrina Sociale della Chiesa, dalla “Rerum Novarum” alla “Centesimus Annus”, ha sviluppato il concetto di carità, solidarietà e comunione quale punto nodale dell’intervento sociale del cristiano che non può accontentarsi della nozione di giustizia: la risposta al bisogno sociale deve essere una risposta “sovrabbondante” al bisogno più profondo della persona.

La dignità dell’uomo

Così il vescovo Corecco si esprimeva: “I problemi del mondo, come i problemi delle nostre singole persone tra di loro, non sono risolvibili con la semplice nozione di giustizia. La nozione di giustizia ci fa fare la guerra: io prendo quello che mi spetta; la nozione di solidarietà mi aiuta ad affrontare la situazione in modo diverso mettendo prima di tutto in discussione la mia posizione e la mia persona. L’elemento fondamentale per ogni discorso sociale è che ciò che conta è la dignità dell’uomo, ciò che produce l’ingiustizia è il non rispetto della dignità dell’uomo, ma questa dignità dell’uomo può essere colta solo se si capisce che l’uomo si realizza, realizza il suo destino, attraverso la solidarietà, attraverso la gratuità e per finire in un rapporto di carità o di comunione con le altre persone. La carità, dunque la Caritas come una delle forme istituzionalizzate di questo discorso, è la denuncia del mondo, la denuncia più radicale, perché si può fare la rivoluzione per la giustizia e va bene, si può denunciare l’ingiustizia del mondo, però se si pongono veramente dei gesti di carità personale verso le altre persone, si contesta il mondo a un livello più radicale, si contesta una moralità laica che teorizza l’individualismo: per cui la carità è la forma più profonda, più radicale, inappellabile in fondo, di denuncia del mondo.”

La sovrabbondanza di Cristo

“Per capire che cos’è la solidarietà, la carità, la comunione, bisogna pensare che non hanno come misura, contrariamente alla giustizia, il diritto dell’altro: io sono giusto quando rispetto il diritto di quell’altro, per cui è il diritto dell’altro che determina il mio comportamento. La solidarietà e la carità non hanno come metro di misura il bisogno dell’altro, ma hanno come metro di misura la sovrabbondanza con la quale Cristo si è manifestato tra gli uomini. Per salvare l’umanità Dio non aveva bisogno di fare assolutamente niente, ma ha mandato il Figlio a morire sulla croce. Dunque, c’è dentro una sovrabbondanza che è totale, perché non era necessario parlando in termini puramente filosofici: se Dio vuole salvare il mondo lo salva, lo dichiara salvo, fa un pensiero, dichiara salvo il mondo, lo perdona. Ma ha manifestato questo fatto attraverso una sovrabbondanza inimmaginabile tanto che fa scandalo,- si parla dello “scandalo della croce”-. La croce è uno scandalo perché non si capisce come Dio possa essere morto sulla croce: in effetti non si capisce, uno ci crede o non ci crede, ma non lo può capire nessuno. Si può capire che è avvenuto un fatto dell’altro mondo, ma si comincia a dubitarne perché è fuori dalle categorie umane; quindi uno ci crede o non ci crede. Comunque la croce fa scandalo proprio per la sovrabbondanza, per cui la misura della carità non è il bisogno che incontriamo. Il bisogno che incontriamo ci provoca e dobbiamo partire da quello, ma di per sé non possiamo limitarci a quello, perché siamo chiamati a qualche cosa di più, ad essere sovrabbondanti. Questo è un altro modo per dire le dimensioni e la natura della solidarietà, della carità e della comunione.

Inadeguatezza e conversione

Magari nella vita riusciamo a realizzare solo un millimetro di questa cosa, ma l’importante è realizzare quel millimetro che ci sentiamo, di realizzare. Poi ogni persona ha dentro una chiamata sua e gli è data la capacità di realizzare due millimetri, tre millimetri, ma non è quello che conta. Quello che conta è la premessa per realizzare anche solo un millimetro e realizzarlo in termini veramente organici a quello che la Caritas può essere e deve essere. L’importante è capirlo, intravedere il valore di questo discorso, intravedere la sublimità, la sovrabbondanza del discorso in quanto tale. Guardando la persona di Cristo che manifesta Dio nella storia, primogenito di tutte le creature, nel senso che è l’uomo per eccellenza, guardando lui possiamo capire cosa siamo di per sé chiamati a fare. Dovrei scoraggiare me stesso per primo, perché tutti siamo inadeguati, ma il problema è di accettare che dovrebbe essere così e dobbiamo misurarci con questo fatto e con questi valori. In questo sta la conversione. Altrimenti riduciamo il tutto a una piccola cucina di cose da fare, di cose da tralasciare, a un moralismo che non ci salva, che non salva la nostra persona. Se la nostra persona entra in una dinamica di questo tipo, allora è come se avesse, una radice in più per vivere. Vive con dentro una prospettiva, un risvolto, una forza dunque, una virtù che le restituisce tutte le potenzialità umane. L’uomo è grande, è a immagine e somiglianza di Dio, dice la Bibbia, vuol dire che è capace di queste cose, può vivere questi valori come Cristo Figlio di Dio ha vissuto questi valori, per cui è immagine e somiglianza per quello. La dignità dell’uomo è dentro questa possibilità di grandezza. I Santi sono persone che hanno vissuto una umanità incredibile, anche se socialmente non contavano niente”.

SECONDO INTERVENTO 21 novembre 1992 Convegno del 50esimo di Caritas Ticino di Mons. Eugenio Corecco

L'assillo di guardare al futuro, "alla ricerca di strade nuove per esprimere la carità", potrebbe nascere da un nostro dubbio interiore.

La carità è ancora atta a garantire la presenza della Chiesa nella società tenendo conto del contributo che essa deve dare alla soluzione dei problemi sociali del mondo contemporaneo? Una risposta semplicistica e perciò palesemente inadeguata, potrebbe essere quella di ricordare che la Chiesa, in realtà, dà il suo contributo alla soluzione dei problemi sociali non solo attraverso la Caritas, ma anche e soprattutto attraverso i sindacati cristiani, i quali, da sempre, lottano per la realizzazione della giustizia sociale.

Questa risposta potrebbe ingenerare l'equivoco di credere che il sindacato cristiano sia preposto alla realizzazione della giustizia, mentre la carità e la Caritas abbiano, come compito, solo quello di garantire il superfluo. Di qui il dubbio sottile, eventualmente contenuto nella formulazione del tema di questo Convegno.

In una società che pretende (almeno nei paesi ricchi come il nostro) di realizzare in modo sempre più globale il Walfare State (malgrado le ricorrenti crisi congiunturali), in uno Stato cioè sempre più sociale, la Caritas ha ancora una prospettiva di avvenire? Per definizione, infatti, il superfluo potrebbe anche non esistere, mentre sempre essenziale e imprescindibile è la giustizia.

Ma noi sappiamo che per il cristiano la virtù della carità non appartiene al novero delle cose superflue. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano non sono le quattro virtù cardinali della prudenza, giustizia, fortezza e temperanza (formulate dalla filosofia stoica, da Seneca in particolare) e recepite anche dal pensiero cristiano. Il pilastro fondamentale della vita del cristiano sono le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità.

La carità appartiene perciò all'essenza stessa dell'esperienza cristiana. Non è possibile, di conseguenza, per il cristiano, regredire semplicemente al livello della pratica delle virtù cardinali (cui appartiene anche la giustizia) e muoversi perciò solo sul terreno della razionalità umana e del diritto naturale, prescindendo dalla pratica della carità, che appartiene all'ambito della esperienza soprannaturale, cioè della redenzione e della grazia.

La carità non coincide con il superfluo, è l'essenza stessa della vita del cristiano. Costituisce perciò l'elemento essenziale della presenza del cristiano e della Chiesa nel mondo e del suo contributo alla realizzazione del bene comune.

Non esiste dubbio sul futuro della carità e perciò, in modo derivato, della Caritas, in quanto forma istituzionalizzata per attivare questa virtù teologale. La Caritas è un albero che non può essere tagliato; anzi, deve crescere e dare frutti sempre più abbondanti, così come ci insegna la parabola del Vangelo. Siamo tuttavia tutti consapevoli che, in una cultura positivista come quella in cui viviamo, un argomento "a priori" non ha più la forza convincente di un tempo. Dobbiamo di conseguenza reperire la risposta alla nostra domanda, percorrendo altri itinerari di ricerca.

La dottrina sociale della Chiesa che, paradossalmente, sembrereb be essere stata elaborata per porre le fondamenta di una concezione cristiana non della carità, ma della giustizia, ha subito, proprio su questa tematica, una profonda evoluzione.

La svolta nevralgica è avvenuta nel 1963 quando Papa Giovanni XXIII, nella Pacem in Terris, per fondare la dignità della persona umana non ha più utilizzato solo gli argomenti classici della filosofia, ma ha fatto ricorso anche alla Rivelazione. Il fondamento ultimo della dignità della persona umana, salvata dal sangue di Cristo versato sulla croce, sta nella sua filiazione divina.

Questa argomentazione di Giovanni XXIII ha introdotto nella dottrina sociale un nuovo criterio epistemologico. Da quello puramente filosofico razionale (sia pure illuminato dalla fede), il Magistero pontificio è passato alla adozione di una conoscenza direttamente derivata dalla Rivelazione, perciò dalla fede. Dalla filosofia è avvenuta una evoluzione verso la teologia.

Il risultato è sorprendente. Se la prima pagina della dottrina sociale della Chiesa, quella scritta da Leone XIII con la "Rerum Novarum" parla della giustizia, l'ultima pagina della stessa, se si prescinde dalla "Centesimus annus", quella scritta da Papa Giovanni Paolo II, cinque anni or sono, con la

"Sollicitudo Rei Socialis", propone il discorso della carità. Per liberare il proletariato dalla schiavitù in cui, nel secolo scorso (secolo del progresso), era stato assoggettato dal mondo padronale, Leone XIII ha invocato il criterio della giustizia e, su questa linea, si sono mossi anche i Papi successivi. Pio XI, commemorando la "Rerum Novarum", quarant'anni dopo (1931), con la "Quadragesimus Annus", affermava ancora, e giustamente, che non si può nascondere l'ingiustizia con la carità e che alla carità non spetta l'obbligo di coprire con un velo la violazione della giustizia.

Tutto ciò è profondamente vero, ma è evidente che in quel contesto il discorso sulla giustizia e sulla carità erano ancora condotti su due piani diversi, senza convergere verso una sintesi. Ciò dipende dal fatto che l'analisi della situazione di ingiustizia sociale, in cui versava la società, era fatta con criteri di natura prevalentemente economica e politica, mentre nella "Sollicitudo Rei Socialis", Papa Giovanni Paolo II ha introdotto un altro criterio di analisi.

Nel solco di Papa Giovanni XXIII, che, come abbiamo visto, aveva dichiarato la Redenzione di Cristo quale fondamento ultimo della dignità della persona umana, Giovanni Paolo II, nei numeri 35 40 della "Sollicitudo Rei Socialis", invece di una lettura economica, ha dato una lettura teologica delle cause della ingiustizia sociale esistente nel mondo.

Papa Giovanni Paolo II sostiene che la radice più profonda dei disordini sociali non è di natura economica o politica, ma di natura morale e teologica. Alla radice sta il peccato personale degli uomini; stanno le "strutture di peccato" che via via si sono consolidate nella società, ma alla cui origine emerge sempre il peccato personale dell'uomo.

La nozione di peccato non è filosofica, ma teologica, poiché il peccato non ha come referente valori impersonali, come potrebbe essere per es. quello della giustizia, ma sempre il Dio personale; anzi, il Dio trinitario, dal cui seno si è rivelato il Figlio, nella incarnazione, per portare all'uomo la Grazia della redenzione.

Con la "Sollicitudo Rei Socialis" la dottrina sociale della Chiesa è stata così collocata all'interno del binomio con il quale da sempre è stata fatta la lettura cristiana della storia: il binomio del peccato e della Grazia. La Grazia, intesa come perdono e aiuto dell'uomo, per la conversione del suo cuore.

La storia dell'umanità, in effetti, è la storia del coinvolgimento di tutti gli uomini nelle conseguenze, sia del peccato che della Grazia.

Il coinvolgimento nel peccato si realizza, socialmente e politicamente, nelle "strutture di peccato" che creano condizionamenti e ostacoli per la realizzazione del bene comune e dello sviluppo dei popoli.

Il coinvolgimento della Grazia avviene, socialmente e politicamente, nella solidarietà tra gli uomini. Quello della solidarietà è l'unico criterio possibile per superare la brama del profitto e la sete del potere, in quanto aspetti negativi più caratteristici della vita sociale contemporanea. Si tratta, infatti, di una solidarietà che deve realizzarsi non solo tra le singole persone, ma anche tra i gruppi intermedi e tra le nazioni, tra Nord e Sud; di una solidarietà intesa come opzione preferenziale per i poveri, nel senso non solo materiale ma anche spirituale della parola.
Dalla nozione di giustizia, la dottrina sociale della Chiesa è evoluta perciò verso la nozione di solidarietà. Ma di quale solidarietà intende parlare la "Sollicitudo Rei Socialis?" La solidarietà è senza dubbio una virtù umana, che potrebbe essere anche annoverata accanto alle quattro virtù cardinali già menzionate, attorno alle quali Seneca ha tentato la sintesi di tutta la sua filosofia morale.

Tuttavia, la solidarietà, afferma Giovanni Paolo II, tende a superare se stessa per rivestire la dimensione specificamente cristiana della gratuità totale, e perciò della carità, che è il segno distintivo dei discepoli di Cristo (Gv 13, 35). Il re ferente di questa solidarietà cristiana non è più perciò soltanto l'individuo umano, con i suoi diritti e la sua fondamentale uguaglianza rispetto a tutti, ma l'uomo, in quanto viva immagine di Dio Padre; in quanto persona riscattata dal sangue di Cristo e posta sotto l'azione permanente dello Spirito Santo.

Questo uomo, non più definito filosoficamente, ma teologicamente, deve essere amato, anche se nemico, con lo stesso amore con cui lo ama il Signore. Per lui bisogna essere disposti anche al sacrificio supremo: "dare la vita per i propri fratelli" (1 Gv 3, 13). Non è un caso che la "Sollicitudo Rei Socialis", a sostegno di questi concetti, introduce l'esempio di Massimiliano Kolbe, che ha dato la vita per un uomo a lui estraneo, in nome di Cristo, considerandolo come fratello.

Su questa base teologica si prospetta l'emergere di un nuovo modello di solidarietà e di unità del genere umano, al quale deve ispirarsi l'azione sociale del cristiano. Un modello che va al di là dei vincoli umani naturali, poiché ha come fondamento la carità. Per la prima volta nella dottrina sociale della Chiesa, la "Sollicitudo Rei Socialis" propone al mondo, come modello di riferimento, la forma della socialità tipica dell'esperienza cristiana; propone la comunione come modello per realizzare il bene comune di tutta l'umanità.

Se la Chiesa osa segnalare il proprio modello di comunione come esempio valido universalmente per realizzare la giustizia sociale, lo fa perché possiede la coscienza di essere chiamata dal Signore ad essere, come dice la Lumen Gentium, segno e sacramento di salvezza per il mondo intero.

"I meccanismi perversi" della società e le "strutture di peccato" potranno essere vinte, afferma la "Sollicitudo Rei Socialis", solo mediante l'esercizio della solidarietà umana che, per il cristiano, può logicamente configurarsi solo come comunione e perciò solo come frutto della carità.

A questo punto non possiamo non sottrarci, ancora una volta, ad una domanda precisa: ma cos'è la carità?
Come per la solidarietà, anche in merito alla carità le possibilità di equivoco sono grandi.

La carità non consiste solo nel fare qualche cosa per gli altri. È più di questo. Non può essere confusa con altruismo. Il fare, l'agire, l'intervenire, il dare, sono solo i modi in cui si realizza la carità, non sono la sua origine.

Non rileggeremo mai con sufficiente attenzione il celebre testo del cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: "Anche se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli... anche se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza... anche se trasportassi le montagne con la fede, ma non avessi la carità, non sarei niente. E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla".

È un testo che non lascia scampo. Il cristiano in quanto cristiano, non è nulla anche se facesse le cose più grandi di questo mondo, anche se distribuisse tutti i suoi beni in elemosina, o realizzasse la perfetta giustizia sociale. Non saremmo nulla, poiché per vocazione non siamo stati chiamati a dare o a realizzare la giustizia in quanto tale o a praticare l'elemosina, bensì a condividere con gli altri la nostra persona, in nome di Cristo.

La virtù teologale della carità esige dal cristiano di riconoscere l'altro come parte di se stesso; parte della propria persona e della propria umanità. Il cristiano deve lasciarsi determinare dal fatto che Cristo, sulla croce, ha stabilito un'unità oggettiva tra lui e gli altri. Il punto genetico della carità sta nel riconoscere l'unità stabilita tra gli uomini da Gesù Cristo. Il cristiano è chiamato ad amare l'uomo ed a fare unità con lui e, così, a realizzare anche la giustizia sociale, non grazie alla propria generosità, ma in nome di Gesù Cristo. La carità consiste nell'aprirsi all'altro, non in nome dei propri sentimenti naturali, ma in nome di Gesù Cristo. Per questo il cristiano è chiamato addirittura ad amare anche il suo nemico.

La carità è, di conseguenza, un gesto che nasce da una concezione diversa di noi stessi. Il punto che siamo perciò chiamati a convertire è prima di tutto la concezione che abbiamo di noi stessi. Una concezione capace di generare in noi una coscienza nuova circa la nostra persona, diversa da quella presente nel mondo.

La carità, così intesa, è la conseguenza della nostra adesione, nella fede, alla persona di Gesù Cristo, e della nostra speranza circa il fatto che, come afferma S. Paolo, "le tribolazioni del tempo presente sono senza paragone rispetto alla gloria che ci attende nella vita futura" (Rm 8, 18).

Solo in forza delle virtù teologali della fede, della speranza e della carità è possibile per il cristiano valutare in modo adeguato il destino globale dell'uomo. Sono i criteri che ci permettono di realizzare questo destino, dando una risposta adeguata anche alla "questione sociale".

La nozione di solidarietà, proposta dalla "Sollicitudo Rei Socialis", sfocia nella nozione di comunione e di carità cristiana, superando tutti gli schemi dottrinali precedenti. Rimane evidentemente vero che non è possibile praticare la carità se non si realizza la giustizia, ma l'enciclica "Sollicitudo Rei socialis" afferma chiaramente anche che, per il cristiano, la giustizia deve essere vissuta e realizzata come, e in forza della carità. È l'insegnamento inequivocabile di S. Paolo: "Anche se dessi tutti i miei beni agli altri, ma non avessi la carità, non sarei nulla".

Perché nulla? Perché senza la carità non mi porrei come segno di Cristo di fronte alle esigenze di giustizia sociale presenti nel mondo. In quanto cristiani siamo, infatti, chiamati a rendere presente Cristo nel mondo.
Attraverso ogni intervento sociale siamo chiamati a porre nel mondo un segno rivelatore della salvezza.

Il vero problema perciò non è quello di sapere se continuerà ad esistere, anche in avvenire, uno spazio di intervento sociale per la Caritas, ma piuttosto di riuscire a precisare sempre meglio la sua modalità di intervento nel mondo. La Caritas, in effetti, ha come missione di essere lo strumento istituzionale attraverso il quale la Chiesa interviene nel mondo, ponendosi esplicitamente come attuazione concreta delle virtù teologali e, in particolare, della carità.

I settori e i criteri d'intervento della Caritas, in seno alla società, possono cambiare, come, del resto, sono costantemente cambiati, anche nel corso di questo primo mezzo secolo di esistenza della nostra Caritas diocesana. L'esperienza non lascia nessun dubbio sul fatto che in via primaria, oppure anche solo in via di supplenza rispetto alla società civile e allo Stato, esisterà sempre uno spazio di intervento specifico della Caritas. Ciò è vero anche nell'ipotesi che avvenisse una totale realizzazione del Welfare State.

La ragione sta sia nel fatto che l'uomo è irriducibile ad un progetto culturale, sociale e politico di ogni tipo, sia nel fatto che l'amore per il prossimo è costitutivo dell'esperienza cristiana. La Caritas ha perciò un ruolo insopprimibile, indipendentemente dal fatto che si esprima secondo forme istituzionalizzate oppure solo individuali.

Il problema dell'avvenire non è quello della sopravvivenza della Caritas in quanto istituzione. Sarà sempre possibile individuare nuovi bisogni dell'uomo e della società e nuovi spazi d'intervento. Il vero problema è quello di riuscire a fare della Caritas un'espressione sempre più eloquente della missione pastorale della Chiesa. Anche se la Caritas copre un settore particolare, non può mai limitarsi a fare gesti solo particolari. Ogni gesto deve, nella misura del possibile, contenere ed esprimere il tutto.

La transizione, nella dottrina sociale della Chiesa, da una visione d'intervento fondata sul diritto naturale e perciò sulla virtù della giustizia, ad una visione fondata sulla solidarietà cristiana e perciò sulla comunione e la carità, rende il ruolo della Caritas insostituibile, perché è chiamata a realizzare non solo la giustizia umana, ma la solidarietà cristiana, che nella sua espressione più precisa assume la caratteristica della comunione e della carità.

Qualunque dovesse essere la natura e il settore dei suoi interventi in campo sociale, la Caritas è chiamata, con urgenza sempre più grande, ad esprimere nella società due valori specifici del cristianesimo, la cui rilevanza sociale non è misurabile infatti con criteri puramente razionali.

Il primo è la gratuità verso l'uomo in difficoltà, poiché è stata gratuita anche la redenzione offertaci da Cristo. Il secondo è quello dell'eccedenza, poiché eccedente è l'amore di Cristo verso di noi. La carità non ha come misura il bisogno dell'altro, ma la ricchezza e l'amore di Dio.

È, infatti, limitante guardare all'uomo e valutarlo a partire dal suo bisogno, poiché l'uomo è di più del suo bisogno e l'amore di Cristo è più grande del nostro bisogno.

Sarà sempre possibile dare nei confronti dell'uomo e dei suoi bisogni, spirituali e materiali, una testimonianza di gratuità e di eccedenza. Anzi, è un dovere al quale siamo chiamati in forza della nostra vocazione cristiana.

Ne consegue, più che mai, che la carità, anche nella forma istituzionale assunta nella Caritas, non può essere eliminata dall'esperienza di una Chiesa particolare e non può perciò essere eliminata dalla nostra Diocesi.

Eugenio Corecco, vescovo della diocesi di Lugano dal 1986, dr. jur. can. già professore all'Università di Friborgo e all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presidente della Consociatio internatinalis Studio Juris Canonici Promovendo, fondatore nel 1992 e Gran Cancelliere dell'Istituto Accademico di Teologia di Lugano.

RIFLESSIONI SUL VESCOVO EUGENIO CORECCO E LA CARITÀ DI: Monsignor Pier Giacomo Grampa Vescovo di Lugano Padre Mauro Lepori Abate generale dell’ordine cistercense Don Giuseppe Bentivoglio Presidente di Caritas Ticino Don Ernesto Volontè Rettore del Seminario diocesano di Lugano

RIFLESSIONI DI MONSIGNOR PIER GIACOMO GRAMPA

La verità di questa intuizione di Mons. Eugenio Corecco, che avete scelto come logo del vostro nuovo CATISHOP.CH, trova la sua convalida nell’Evangelo di Luca, dove si legge della guarigione dei dieci lebbrosi (Lc 17,11-19). Tutti sono stati guariti da Gesù, ma uno solo, il decimo, viene anche salvato. Perché? Tutti erano nel bisogno di guarigione, ma solo uno ha capito di aver bisogno d’altro, oltre alla guarigione fisica, e che Gesù poteva offrigli questo di più che consiste nella salvezza, cioè nel dare senso compiuto alla sua vita. Solo il decimo lebbroso ha capito che l’uomo è di più del suo bisogno materiale, fisico, corporeo, economico e Gesù poteva fargli dono di questo altro. Il bisogno dell’uomo è sempre il punto di partenza dei suoi incontri, delle sue relazioni e della sua piena realizzazione. Il bisogno non va sottovalutato perché ogni essere umano nasce nel bisogno, la sua vita è bisogno, un insieme di bisogni. Il bambino ha bisogno di nutrirsi, vestirsi, lavarsi, e i suoi bisogni devono essere appagati, perché possa crescere. Il ragazzo vede nascere il bisogno della bicicletta, del motorino, del telefonino. Il giovane conosce il bisogno degli studi, del lavoro, della carriera, della casa, della macchina. L’esistenza si realizza quando si colmano i nostri bisogni, rendendoci conto però che non basta che essi ci riempiano le mani e la bocca. Abbiamo bisogno di incontrare, riconoscere, e rapportarci con le persone che rispondono ai nostri bisogni, dobbiamo saper cogliere il valore e il significato della loro presenza, della loro vicinanza, delle loro parole e delle nostre risposte. Il bisogno non può essere pienamente appagato se non si trasforma in relazione, in rapporto personale, se non ci umanizza, facendoci cogliere la bellezza e la profondità di essere persone.

Credo sia questo il senso da dare all’intuizione del Vescovo Eugenio: “L’uomo è di più del suo bisogno”, bisogno che resta il mezzo per realizzare l’esistenza con pienezza, ma il cui fine è non di avere cose, bensì di costruire l’essere che va oltre il bisogno. L’essere umano ha altre domande a cui offrire risposte; altri desideri da realizzare; altri traguardi da raggiungere; altri valori da perseguire. Dire che l’uomo è più del suo bisogno non comporta il disimpegnarci dal soddisfare i suoi bisogni, ma richiede di non fermarsi lì, di vedere quanto più ampio sia l’orizzonte del mistero della persona umana. È un invito dunque a non fermarsi alle cose, ma a trasformare l’esperienza quotidiana in grazia, in tenerezza, in compassione, in amore, in fiducia, perché si possa dire: “io ho bisogno di te, io mi fido di te, io mi affido a te”. Se poi l’iniziale di questo pronome personale la scriviamo con la lettera maiuscola: Te, avremo raggiunto l’Assoluto. Perché l’uomo, diceva il card. Martini, è un “paradossale promontorio sporgente sull’Assoluto”. Egli può decollare verso il grembo del mistero della vita, solo se viene “sollevato su ali di aquila (Dt 32,11), solo se è liberato dal giogo della schiavitù del bisogno e condotto, attraverso il deserto inospitale, verso la terra della promessa” (Franco Giulio Brambilla, “Come stai con la tua fede?”, pag. 37). Questo è l’impegno e l’ambizione di Caritas Ticino. L’augurio più schietto da parte del Vescovo.

RIFLESSIONI DI PADRE MAURO LEPORI

Il 30 novembre abbiamo celebrato l’apertura del nuovo CATISHOP.CH, con una cerimonia formale, con il taglio del nastro da parte della sorella di mons. Eugenio Corecco e la benedizione di mons. Pier Giacomo Grampa, il nostro Vescovo attuale. Mons. Eugenio (don Eugenio, come lo conoscono i suoi amici), era presente anche con una mostra a lui dedicata, già ospite del Meeting per l’Amicizia Fra i Popoli, nell’agosto scorso, a Rimini, ripresentata al terzo piano del CATISHOP.CH. Per ricordarlo ulteriormente, abbiamo chiesto ad un suo figlio spirituale, ora abate generale dell’ordine dei Cistercensi, padre Mauro Lepori, di origine ticinese, che con lui ha condiviso gli anni da studente a Friburgo, cosa significasse per Mons. Corecco che la carità è più del bisogno a cui risponde, anzi, come scritto a lettere cubitali sulla facciata del nuovo edificio di Caritas Ticino,” l’uomo stesso è di più del suo bisogno”. “Per quanto mi riguarda personalmente,” dice padre Mauro Lepori “sicuramente Mons. Eugenio, don Eugenio, non ci ha mai ridotto ai nostri bisogni. Nel vivere con lui, nel rapporto con lui, era attentissimo al nostro bisogno, anche ai nostri bisogni, ma appunto ci aiutava ad affrontarli, senza ridurci ad essi.” Attinge alla sua esperienza personale padre Mauro, per ricordare che don Eugenio non ha mai considerato il bisogno una definizione delle persone, anzi, pur essendo attento ad ogni necessità, ha aiutato i suoi amici a superare quelle che spesso erano sintomo di immaturità o di fragilità. Soprattutto più importante del bisogno stesso è l’amore di chi ad esso risponde, perché per Dio, in fondo, la necessità dell’uomo è un pretesto per manifestare la sua grazia. “Il prossimo è qualcuno - riprende l’abate - questo mi diceva don Eugenio quando scriveva che essere vescovo, governare, non significava fare qualcosa, ma essere qualcuno. ” La risposta adeguata ad un bisogno, dunque, sta nella presenza, nell’offrire una compagnia e una comunione, e questo è quello che di mons. Corecco, ricorda padre Mauro, per lui e per i suoi compagni. Gesù, nella sua vita, non ha mai dimenticato le persone, anche in mezzo alla folla, riusciva ad intravvedere Zaccheo, che aveva bisogno di lui, di uno sguardo unico e personale da parte del Maestro, così come don Eugenio faceva con i suoi amici, e di questo sguardo è memore padre Mauro. Del resto, questa attitudine di mons. Corecco, l’abate la ritrova nella sua comunità, dove per struttura la salvezza non è un fatto individuale, ma un cammino di comunione in cui si giunge insieme alla meta che è Cristo Gesù, come del resto afferma anche san Benedetto alla fine della sua regola. In questo percorso la conversione è un elemento centrale e al suo cuore sta l’obbedienza alla realtà, l’accoglienza della vita, che don Eugenio ha testimoniato in particolar modo nella sua malattia. “Accettando la nomina episcopale, con tutte le circostanze di questo cambiamento nella sua vita, poi, con la malattia (mons. Corecco) ha capito che l’obbedienza è qualcosa che ti prende la vita, ti porta laddove in fondo non vorresti andare, ma dove scopri la grazia di appartenere a Cristo in modo più profondo e più vero.”

RIFLESSIONI DI DON GIUSEPPE BENTIVOGLIO

L’identità e l’azione di Caritas Ticino hanno, quale costante riferimento, quanto ci disse il vescovo Corecco in occasione del 50esimo della nostra Associazione, segnando per noi una svolta significativa, cioè che il fondamento fu cercato, da Giovanni XXIII prima e Giovanni Paolo II poi, nella Rivelazione (e non solo nella filosofia naturale) e fu individuato in Cristo e nella sua Redenzione. La persona, allora, diventa il centro di tutto. In ogni uomo si svolge un combattimento tra il bene e il male, il nostro cuore è il campo di battaglia dove la Grazia e il peccato duellano incessantemente. Le conseguenze di una vittoria del bene sul male o viceversa riguardano non solo l’individuo, ma l’intera società. Il cristiano, inteso come soggetto rinnovato da Cristo, agisce quindi nella società a partire dalla novità che egli è, che gli permette di avere uno sguardo d’amore originale su se stesso e su ogni uomo. Caratteristica di questo amore è la totale gratuità. La carità è questo amore gratuito. Essa poi riassume ogni altra parola, che definisce la natura del rapporto interpersonale e sociale, come “giustizia” e “solidarietà”. Parlare di carità, in traduzione operativa, porta a rivedere profondamente le modalità dell’azione sociale e a individuare un nuovo modello di solidarietà e unità fra gli uomini, che prende il nome di “comunione”: si tratta di rapporti che hanno quale fondamento e significato Cristo. Oggi non mancano gli equivoci: molti pensano che la carità equivalga all’altruismo, alla generosità, alla bontà (genericamente intesa), che consista nel fare qualcosa per gli altri. La carità ha tuttavia uno spessore e un significato diversi. Ce lo ricorda nella sua prima lettera ai Corinti S. Paolo: “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo alle fiamme per gli altri, ma non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla”. In altre parole: se anche dessimo tutti i nostri averi ai poveri e riuscissimo a realizzare in questo mondo la giustizia sociale, non per questo abbiamo vissuto la carità! Testimonio la carità, allora, quando riconosco che gli altri sono parte di me e che fra me e gli altri c’è un’unità, che non dipende da me, ma da Cristo. È Cristo a unire gli uomini e a renderci una cosa sola, a renderci cioè fratelli, indipendentemente dalle qualità di ognuno. Questa fraternità deve essere vissuta con chiunque, anche con chi ci è ostile, proprio perché è costitutiva della nostra persona, è un “dato”, qualcosa che per l’appunto mi viene dato. Infatti, l’altro è parte di me non perché lo voglio io o perché “lo sento” o perché determinate circostanze mi permettono di dirlo, ma perché lo è realmente, in quanto siamo uniti a Cristo e in Cristo diveniamo una cosa sola. In questo vincolo d’amore, che è Cristo, il vescovo Eugenio identificava anche la realizzazione piena della giustizia sociale.

La carità, perciò, è la conseguenza della nostra adesione alla persona di Gesù Cristo e quindi al riconoscimento della nostra unità in Lui. Ed è a partire da questa riconosciuta e abbracciata unità che l’impegno sociale per un cristiano diventa doveroso e adeguatamente fondato. Il vescovo Eugenio ha molto insistito sulla necessità di testimoniare nella società due valori, gratuità ed eccedenza. Penso che con “eccedenza” si voglia dire che nei rapporti con il nostro prossimo non possiamo limitarci a soddisfare i suoi bisogni materiali o anche spirituali, ma dobbiamo comunicare quella speranza, quell’orizzonte di verità, quell’amore, per cui gli uomini sono fatti. Aiutare le persone a ritrovare se stesse, incontrando Cristo, è l’eccedenza che qualifica ogni rapporto, qualunque siano le circostanze che lo hanno reso possibile. Questo mi sembra essere il fattore qualificante lo sguardo d’amore, che sull’esempio di Cristo, il cristiano è chiamato ad avere su ogni uomo.

RIFLESSIONI DI DON ERNESTO VOLONTÈ

Il vescovo Eugenio Corecco ha segnato un cambiamento profondo nelle linee direttive di Caritas Ticino. Ne parla Don Ernesto volonté, direttore del seminario diocesano e amico del vescovo Eugenio.

Il vescovo Eugenio, lo dice anche quando farà il suo discorso per il 50esimo di Caritas Ticino, coniuga sempre la parola giustizia e carità, e dice una cosa molto importante: la Chiesa ha pensato i termini della Dottrina Sociale prevalentemente in relazione alla giustizia, ed è stato molto importante pensare di ripristinare una equità e una giustizia che nel mondo mancava; però, lui dice, se non c’è un’eccedenza, un di più nel vedere l’uomo, la giustizia non basta. E difatti dice: la Dottrina Sociale della chiesa a un certo punto ha fatto questo scatto, ha recuperato il fatto che solamente la carità può dare veramente giustizia all’uomo, e in questa eccedenza, in questo di più, mi fa vedere l’uomo come uomo. La carità mette l’uomo non solo al livello dell’equità, ma lo pensa come una vera risorsa anche nel momento del bisogno. Proprio perché il bisogno è radicale nell’uomo e non è qualche cosa da soddisfare temporaneamente, il bisogno interpella la mia intelligenza ad accoglierlo con la stessa dignità delle cose che io tratto tutti i giorni. Se non si ha questo punto di partenza, la carità sarà sempre ad tempus, per quel tanto di tempo che io posso dare per risolvere il problema. E l’altro invece non sarà mai per me una risorsa. La carità invece fa capire che l’uomo anche in una situazione di bisogno è una risorsa, sprigiona una capacità di rimettere in moto una persona per quel tanto che può fare, in termini che la giustizia non è in grado di realizzare. Allora è veramente guardare l’uomo con un’altra prospettiva. Il vescovo Eugenio aveva due grandi risorse, la prima è una risorsa naturale: è cresciuto con una sensibilità nel guardare l’uomo, era una sua genialità propria; alcuni l’hanno, altri non l’hanno, altri se la formano; io credo che avesse una dimensione naturale proprio inerente alla sua persona, che gli veniva dalla sua storia, dal suo contesto, da come aveva affrontato l’uomo. La seconda credo che derivi dalla sua riflessione teologica, perché il ministero all’interno della Chiesa, che per anni il vescovo Eugenio ha svolto, era quello di pensare la rivelazione cristiana, che si può anche pensare in astratto. Io credo che dietro alla riflessione teologica del vescovo Eugenio ci stesse l’uomo. Quindi una visione antropologica, una visione dell’uomo che continuamente si correlava con la rivelazione; in altri termini: Cristo che cosa pensava dell’uomo, come lo affrontava nella sua concretezza? Da questo impianto naturale di riflessione teologica io credo abbia tratto anche le coordinate culturali, il modo di affrontare la realtà dell’uomo nella sua situazione. Probabilmente ha individuato o ha riflettuto sul fatto che la carità non è un superfluo, o non gestisce il superfluo dell’uomo, gestisce l’uomo, affronta l’uomo, parla con l’uomo, risolve il problema dell’uomo. E quindi l’uomo lo avrai sempre con te. Quindi Caritas ha bisogno effettivamente, a partire dalla sua radice cristiana, di vedere l’uomo con questo occhio, con questa modalità. Il vescovo Eugenio per il suo genio proprio, e per la riflessione sul fondamento ultimo della rivelazione cristiana, aveva anche lo strumento per individuare dove la carità potesse essere adeguatamente tenuta presente; l’uomo non è definito dal suo bisogno contingente, l’uomo non è definito dalla sua malattia contingente, l’uomo è bisogno fondamentale di comunione, di relazione, di dignità, di capacità di affronto della società, di elaborazione culturale, questo è l’uomo nel suo bisogno fondamentale.

di Roby Noris

Personalità ecclettica e geniale, il vescovo Eugenio Corecco aveva intuito in modo chiarissimo che la comunicazione e in particolare la comunicazione elettronica avrebbero cambiato completamente il modo di relazionarsi, di far passare informazioni, di formare le coscienze, di evangelizzare. Aveva chiesto a Caritas Ticino di creare una radio e poi aveva spinto perché ci si lanciasse nell’avventura televisiva. Si dimentica spesso che forse senza di lui non sarebbe nata negli anni successivi TeleTicino e tutta l’avventura mediatica “privata”. Certamente non sarebbe mai nata la produzione video di Caritas Ticino che è un unicum nel panorama delle organizzazioni socio/caritative, credo mondiali. Fra gli aneddoti ricordiamo quando, brandendo un microfono su un palco, disse: “Il potere ce l’ha chi ha il microfono in mano”. Quando uscì sul mercato uno dei primi modelli di telefono portatile, enorme e pesantissimo, ne comprammo uno assieme. A Filippo Lombardi, direttore del Giornale del Popolo, il giornale di cui era editore, diede l’appoggio totale affinché iniziasse la produzione di news televisive con una rubrica quotidiana “Caffè del Popolo” trasmessa dal canale privato italiano Telecampione. Un’occasione incredibile per l’informazione cattolica locale di entrare in tutte le case, anche di chi non frequentava la Chiesa. E quando si prospettò l’ipotesi di partecipazione di Caritas Ticino a questa sperimentazione mediatica, di fronte alle obiezioni di chi si indignava che si utilizzasse un canale privato che aveva spazi notturni a luci rosse, disse di non preoccuparci e di andare avanti che il pubblico di quel canale avrebbe avuto almeno di giorno una buona programmazione, e alla sera bastava cambiare canale. Non si può non accostare la lungimiranza di questo Vescovo riguardo ai media elettronici locali di una piccolissima realtà come il Ticino, a quella di Papa Giovanni Paolo II che col suo direttore della sala stampa Joaquín Navarro-Valls, ha rivoluzionato completamente il concetto di comunicazione vaticana facendo fare alla Chiesa un salto gigantesco nelle sue modalità di comunicazione col mondo. In un’epoca di passaggio dove convivono faticosamente la comunicazione digitale della rete e una parte dell’umanità che ne è tagliata fuori, parzialmente o totalmente, è straordinario vedere alcuni uomini di Chiesa particolarmente illuminati che hanno colto la sfida e, pur non essendo degli specialisti dei media elettronici, li hanno integrati nella loro azione pastorale perché, come diceva Il vescovo Torti, già direttore di Caritas Ticino, sulla scia del vescovo Corecco suo predecessore, “Se San Paolo avesse avuto un satellite chissà cosa avrebbe combinato”.

di Roby Noris FILIPPO LOMBARDI RICORDA EUGENIO CORECCO E GLI INIZI TELEVISIVI DI CARITAS TICINO

In occasione della 900esima puntata di Caritas Insieme, al direttore di TeleTicino, Filippo Lombardi, che fu all’origine della nascita dell’avventura televisiva ticinese e della particolarissima esperienza di produzione video di Caritas Ticino che si affiancò fin da subito, abbiamo chiesto di ricordare quegli inizi pionieristici nel 1994, resi possibili grazie alla lungimiranza del vescovo Eugenio Corecco che diede il “La” e morì l’anno dopo.

18 anni fa, nel 1994, si è aperto uno spiraglio di collaborazione fra il GdP e Telecampione. Si stava modificando la legge svizzera e la creazione di emittenti regionali private cominciava a diventare una prospettiva possibile. Abbiamo accettato questa proposta per il GdP con l’editore Eugenio Corecco. E poi nelle discussioni su questo spazio informativo regionale ci siamo detti che bisognava fare qualcosa di specifico nostro, qualcosa per portare quello che la diocesi voleva far passare in Ticino. Chi lo poteva fare? Se il GdP si focalizzava sull’informazione, sulla cronaca e domani sullo sport, sull’informazione religiosa in senso ampio, su quello che può comprendere valori di società e di solidarietà, ci sarebbe stato un partner che poteva farlo: Caritas Ticino, che aveva manifestato un interesse in questo senso. L’intelligenza del vescovo Corecco è stato quella di capire che era interessante per il GdP aprire uno spazio di collaborazione televisiva e assieme al giornale doveva esserci uno spazio specifico per la solidarietà e la socialità di stampo cattolico rappresentato da Caritas Ticino. La sua fede nelle persone e anche nelle cose, nello sviluppo, nel divenire, era tale che non si faceva fermare dalle apparenze, dalle prime difficoltà, dagli ostacoli immediati, diceva: “no, andiamo oltre e vediamo”. La vicinanza col vescovo Corecco mi ha permesso di scoprire un’altra faccia della sua personalità, una cosa fantastica che pochi direttori di giornali sperimentano: un editore che ti dà pieno sostegno, fiducia totale, chiede ogni tanto di verificare alcune cose ma non interviene mai nel tuo lavoro. C’è un dato di fatto innegabile: le persone intelligenti, di un grande formato intellettuale, quale il vescovo Eugenio era, non hanno paura nel dare fiducia a qualcuno, nel dargli in mano gli strumenti per sviluppare un progetto e discutere con lui, confrontarsi, non hanno mai paura; questa è la cosa fantastica che abbiamo trovato nel vescovo Eugenio, nella nascita di Caffè del popolo e di Caritas Insieme TV perché non aveva paura delle idee nuove, non aveva paura della novità, lasciava fare. Questo è stato il dono più bello dell’amicizia e del rapporto professionale con Eugenio Corecco.

Desideriamo concludere questo libretto dedicato al Vescovo Eugenio Corecco con un passaggio dell'enciclica Caritas in veritate di Papa Benedetto XVI del 2009 perché, a distanza di 17 anni, abbiamo ritrovato la stessa atmosfera e la stessa saggezza nel declinare la dimensione della carità

[...] Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant'Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto "data". In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l'amore, « non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all'essere umano ».

Perché dono ricevuto da tutti, la carità nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità.

(Benedetto XVI, Caritas in veritate, cap. III, “Fraternità, sviluppo economico e società civile”, par. 34)

Nato ad Airolo il 3 ottobre 1931, ordinato sacerdote il 2 ottobre 1955, studiò a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana, conseguendo la licenza in Sacra Teologia nel 1956; a Monaco di Baviera, conseguì il dottorato in diritto canonico nel 1962, e a Friburgo, nel 1969, fu nominato professore di diritto canonico. Tra gli anni 60 e gli anni 80, si dedica all’attività pastorale in particolare coi giovani promuovendo il metodo del movimento ecclesiale Comunione e Liberazione di don Giussani, accanto all’attività accademica e scientifica. Nel 1982 Giovanni Paolo II lo nomina membro della commissione che si occuperà, insieme al pontefice stesso, dell’esame del nuovo Codice di Diritto Canonico (CIC), promulgato dal Papa nel 1983.

Ordinato Vescovo della diocesi di Lugano II il 29 giugno 1986, promosse importanti iniziative tra cui, nel 1992, la fondazione a Lugano dell’Istituto Accademico di Teologia riconosciuto nel 1993 quale facoltà universitaria di teologia, la prima esperienza accademica a Lugano. Rilancia l’Azione Cattolica e favorisce l’esperienza televisiva del suo quotidiano, Giornale del Popolo, e di Caritas Ticino, da cui nascerà qualche anno dopo il canale ticinese Tele Ticino. Dopo lunga malattia, che fu occasione di una straordinaria testimonianza pubblica, morì il 1º marzo 1995, e le sue spoglie sono custodite nella cripta della chiesa del Sacro Cuore a Lugano.

Vent'anni fa come oggi moriva il vescovo Eugenio Corecco lasciando molti, come me, orfani di un padre spirituale, di un amico, di un saggio, di un pensatore eccezionale. Uno che sapeva voler bene alle persone senza giudicarle, anche se era rigoroso e preciso nelle analisi: sapeva distinguere l'affermazione di un principio su cui non si doveva transigere, dalla capacità di accoglienza delle persone anche quando ne combinavano di tutti i colori. Trasmetteva la gioia di vivere rendendo ragione del senso delle cose, della ragionevolezza della bellezza della vita. Studente ventiduenne, ho chiesto la mano di mia moglie "a lui", che ci ha detto che era una buona idea. Ci ha seguito per molti anni con affetto e saggezza. Da Vescovo, qualche anno prima di morire, mi ha affidato Caritas Ticino, un direttore laico non era certo nella tradizione e nelle aspettative, e rivoluzionò le basi del modello di intervento sociale che fino ad allora era indiscusso: il "bisogno" non doveva più essere il punto di riferimento per pensare al sociale, ma la "persona" che è molto più del suo bisogno, cioè portatrice di risorse. Ho una gratitudine smisurata per questa idea straordinaria che mi ha arricchito personalmente permettendomi di lottare controcorrente per affermare un pensiero geniale che fonda la speranza su una visione positiva e vincente della persona, anche quella più segnata dalla sofferenza e dal limite. Non era un sociologo o un economista ma un uomo di fede e questa immagine della persona non definita dai limiti ma dalle risorse, nasceva proprio dalla sua capacità di coniugare fede e ragione: la salvezza è possibile per tutti. Scoprire in seguito in alcuni economisti e pensatori di altre culture, la stessa idea delle "risorse sempre presenti", mi ha fatto apprezzare ancora di più quest'uomo saggio che aveva visioni ampie , portatore di un pensiero sano che poteva dialogare anche con posizioni laiche o di altro credo religioso, sulla base di una onestà intellettuale che apre i confini del pensiero e dell'universo. Grazie Eugenio.

Link video "Ricordando Mons. Eugenio Corecco con: padre Mauro Lepori, don Libero Gerosa e Cristina Vonzun" 23 minuti