Una figlia prediletta
Non sono certamente delle qualità accademiche che hanno spinto gli organizzatori di questo incontro commemorativo per i 30 anni del riconoscimento di questa Facoltà Teologica a chiedere a chi vi parla di tenere non solo una conferenza ma addirittura una lectio magistralis, che preferirei definire discipularis, se l’aggettivo latino esistesse, o ancor meglio: filialis.
Non è mio compito tracciare la storia di questa fondazione. Per questo si può attingere alla molto ben documentata biografia di Mons. Corecco realizzata dalla Dott.ssa Antonietta Moretti, o alla testimonianza preziosa di persone direttamente coinvolte in quest’opera, come Mons. E. W. Volonté, per citare un solo nome.
Al sottoscritto preme anzitutto sottolineare che la Facoltà di Teologia fu probabilmente l’iniziativa a cui il Vescovo Eugenio tenne di più, la figlia prediletta della sua paternità, assieme alla formazione di un folto gruppo di giovani dell’Azione Cattolica da lui ravvivata. Mi scrisse infatti il 23 giugno 1994, confrontato con l’acutizzarsi della malattia: “È indubbio che tutto quello che mi sta capitando è un'immensa grazia di Dio. Mi costringe a vivere l'essenza del mistero della vita. (…) Seguendo la processione del Santissimo [a Lourdes] improvvisamente mi sono sentito come uno degli apostoli che andava dietro a Gesù intanto che parlava e faceva miracoli. In quel momento gli ho chiesto 6 anni di vita, senza accorgermi che c'era dentro anche il Giubileo del 2000, prima di tutto non per me ma per concludere le cose iniziate (spec. la Facoltà e l'AC). (…) Costa moltissimo anche autolimitarsi così, ma chiedere la guarigione tout court mi sembra indebito e troppo facile. È comunque un passo avanti anche nell'accettazione di lasciarsi prendere la vita (…). Continuiamo comunque a pregare prima di tutto per morire con fede totale, perché questo è e rimane la grazia più grande.”
Sudar sangue
Otto mesi dopo questa lettera, durante una delle mie ultime visite a Mons. Corecco – ormai malato terminale e ben cosciente di esserlo –, una sera mi chiese di dettarmi una lettera in cui raccomandava ad una persona abbiente di venire in aiuto alla Facoltà che aveva fondato e faceva i primi passi. Fu una dettatura estremamente faticosa per lui, che lo stremò, una fatica che qualcuno, passando e scrollando il capo giudicò, forse a ragione, assurda. Io ebbi piuttosto l’impressione di trovarmi di fronte ad una vera e propria agonia, al Getsemani di un servo fedele che voleva poter morire dicendo “Tutto è compiuto!” (cf. Gv 19,30)
Fu probabilmente l’ultima lettera dell’immenso epistolario in cui durante tutta la sua vita espresse la sua cura per singole persone, famiglie, comunità e opere.
Non posso non pensare a questo episodio ogni volta che sento parlare della Facoltà di Teologia di Lugano, come se fosse la chiave misteriosa che ci apre al significato e al destino di quest’opera. La domanda che sorge in me non è allora anzitutto perché esiste questa Facoltà, ma perché per essa il Vescovo Eugenio ha, per così dire, sudato sangue.
È come per qualcuno che un giorno viene a sapere che sua madre, per darlo alla luce, ha rischiato la vita o l’ha addirittura persa. Di colpo, questa coscienza viene a cambiare non solo la considerazione che costui ha di sua madre, ma anche e soprattutto la considerazione che ha di se stesso, della sua vita, di quello che vive, di quello che fa o non fa. Di colpo lo investe un senso di responsabilità che più che guardare al passato, magari con rimpianto e rimorso, gli fa guardare al presente e al futuro con un’intensità, un desiderio di senso e compimento che prima magari percepiva in modo teorico, moralistico, ultimamente autoreferenziale, come se lo scopo della vita fosse solo la realizzazione di se stessi. Ora quella persona intuisce che il compito della sua vita è denso di una responsabilità che il sacrificio di sua madre gli fa sentire universale.
Quante persone, non solo in Ticino, non solo credenti, hanno fatto questa esperienza e sono state risvegliate a questa coscienza di fronte alla vita, alla testimonianza, al ministero, alla malattia e alla morte di Mons. Corecco!
Tutto è dono
Spesso si pensa che un’opera o istituzione come la Facoltà di Teologia sia anzitutto il frutto di un impegno, potremmo dire politico, diplomatico, o comunque un impegno in cui si tratta di conquistare uno spazio di potere che magari riduce o contrasta lo spazio di potere degli altri. Un impegno quindi che implica delle lotte, se non delle battaglie, per non dire delle guerre.
Certamente, in ogni iniziativa pubblica, questi aspetti sono sempre poco o tanto presenti, anche nella Chiesa. Non di rado la realizzazione di un’opera comporta l’andare contro correnti della società e della storia che rendono un determinato terreno poco adatto ad accogliere la seminagione di nuove piante. In ogni nuova opera c’è un aspetto di alterità e di novità che può disturbare e minacciare chi si accontenta di ciò che è acquisito e si tiene in mano.
È una legge della vita umana che si sperimenta ad ogni nascita. Il nuovo che viene, che entra nello spazio di altre vite, che prende spazio fra o dentro altri spazi ormai acquisiti, è l’irruzione dentro la realtà a cui siamo abituati di una realtà diversa.
In cosa consiste la diversità e novità? Nel fatto che è fatta da altri che da noi stessi. Chi crede in un Dio creatore sa che ogni realtà, e soprattutto ogni persona, è questa novità diversa. Tutto è fatto da un Altro.
Ma il grande paradosso non è ancora questo. Sì, è questo, ma diventa evidente quando si giunge a prendere coscienza che in questo tutto che un Altro fa ci sono anch’io, c’è la mia persona, la mia vita, il mio “io”, e quindi anche la mia opera, ciò che genero e realizzo.
Si può rifiutare questa consapevolezza, si può negarla, teoricamente o praticamente, perché c’è in noi una resistenza ad accettare di essere l’opera di un Altro, perché ciò sembra ridurre la nostra libertà, la nostra autonomia.
Si può vivere indifferenti a questo dato, come se il fatto di essere creati o meno da Dio non cambiasse nulla della vita. Oppure, questa coscienza può aprire a guardare a se stessi, agli altri, al mondo, a tutto, sotto una luce diversa, una luce nuova, eppure antichissima, perché originale, che doveva essere lo sguardo con cui il primo uomo e la prima donna, che la Bibbia chiama Adamo ed Eva, hanno aperto gli occhi sulla realtà. È uno sguardo che vediamo riprodursi ad ogni inizio di vita nuova, nello sguardo dei bambini.
Di che sguardo si tratta? È lo sguardo che riconosce la realtà come dono.
Se un Altro mi fa, se un Altro fa gli altri, se un Altro fa tutto, posso pensare che tutto sia al suo servizio, che tutto sia schiavitù, che tutto sia fatto per servire un grande padrone, un grande dominatore e dittatore dell’universo.
Ma quest’idea, originalmente instillata dal serpente a Eva e Adamo, dimentica un fattore, che di per sé dovrebbe essere evidente alla ragione: se Dio è capace di fare tutto e tutti, non ha bisogno della creazione, non ha bisogno di noi, di me. Dio non ha bisogno di nulla. E allora? I più grandi spiriti, a cominciare dai bambini, intuiscono, stupiti, che se Dio non crea per sé, se non ha bisogno di una creazione che gli serva, di creature che gli siano serve, schiave, allora tutto è dono, tutto è gratuito.
La sostanza della bellezza
Questa sorpresa è la sostanza della bellezza. La bellezza, l’armonia, che tutti scorgiamo anche nella creazione ferita dal peccato, – rovinata non solo dal peccato originale ma anche dal nostro, dal peccato del nostro tempo –, la bellezza è quella sinfonia che scaturisce e sempre riecheggia fra tutte le creature per il fatto stesso che ognuna è un dono.
La bellezza è la sinfonia del dono che ogni creatura è. Nulla potrebbe armonizzare ogni frammento della realtà più e meglio del fatto che ogni frammento è donato, ogni realtà è donata e si riceve, si dona ed è accolta, da altre realtà donate che si ricevono, si donano e sono accolte, per donarsi ancora, riceversi ancora, accogliere ancora. Una bellezza che per il fatto di essere il dono di un Altro, si esprime e può essere ammirata totalmente tanto in una galassia che in filo d’erba. In ogni dettaglio del reale, quando è accolto come dono, possiamo scorgere un’originalità insostituibile, come quella della rosa del Piccolo Principe, o quella che san Francesco celebra per ogni creatura nel suo Cantico di frate sole.
Certo, qualcosa ha disturbato questa sinfonia del dono. Il grande peccato, il grande male è rifiutare il dono, quello che si è e quello che gli altri sono, quello che tutto è. Caino rifiuta di essere dono di Dio per suo fratello, e così rifiuta che Abele sia un dono per lui. Tutto ciò che è male, tutto ciò che è brutto, negativo, ha in questo rifiuto la sua sorgente amara, la sua sorgente avvelenata, fino alle brutture che stanno sotto i nostri occhi, le guerre dei nostri tempi, i massacri, le stragi di tanti innocenti, e la distruzione della natura, nostra casa comune.
Noi, però, non siamo dono di un Altro come una cosa che si regala. Perché il nostro essere dono definisce la nostra libertà, e quindi l’esperienza, la sfida e la responsabilità di essere i soggetti del dono dell’Altro che siamo. Per la persona umana, essere dono di un Altro non è solo un dato passivo, che abbiamo in comune con ogni altra creatura minerale, vegetale o animale che sia: è anche vocazione, una chiamata. L’uomo è dono chiamato ad accogliersi e a donarsi. E questa è la libertà, la vera libertà, la libertà umana nella sua verità, e non come si è spesso definita e soprattutto vissuta la libertà, staccandola dal mistero dell’essere nel quale è voluta e creata.
Che mistero! Essere donati in un modo che ci rende soggetti di quello che riceviamo, di quello che non possiamo scegliere, perché prima di essere donati non esistiamo. La Bibbia definisce questa nostra identità misteriosa come un essere fatti ad immagine e somiglianza di Colui che ci fa (cf. Gen 1,26-27). L’immagine di Dio in noi sta nell’essere fatti per essere noi stessi soggetti liberi del dono di noi stessi che riceviamo.
Il frutto di un sì al dono di sé
Cosa c’entra tutto questo con la nascita di questa Facoltà?
Certo, una Facoltà di Teologia è fatta per studiare queste cose, per approfondirle, per trasmetterne la coscienza e conoscenza, con tutte le sue implicazioni nella vita, nella società e nella storia. Ma quello che mi preme sottolineare è che questo mistero dell’essere come dono c’entrerebbe anche se Mons. Corecco trent’anni fa avesse fondato una Facoltà di matematica, di chimica o di economia. Perché? Perché quest’opera, come le altre che Don Eugenio promosse durante la sua vita, nacque in lui e attraverso di lui proprio perché fu un uomo che ha accettato e desiderato andare al fondo della consapevolezza di essere voluto, amato e donato da un Altro.
Questa consapevolezza in linguaggio cristiano si chiama fede, cioè la coscienza, anch’essa donata, che tutto è dono, donato da un Dio che è Trinità, che è Dono trinitario di sé, di un Dio che non solo è Donatore, ma che in se stesso è Dono e Accoglienza, scambio eterno e infinito del Dono di Sé del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Alla fine dell’omelia nella S. Messa in suffragio delle vittime della strage di Rivera, nel 1992, il Vescovo Corecco, espresse chiaramente la sfida fondamentale che ogni circostanza, anche la più negativa, pone ad ognuno di noi. Invitava a pregare per “capire cosa dobbiamo fare della vita che abbiamo ricevuto in dono”.
Tutti, con maggiore o minore intensità, si pongono questa domanda, almeno per un momento, almeno negli anni dell’adolescenza. Una domanda drammatica, perché mette a confronto il desiderio di pienezza di vita che anima ogni cuore con tutte le circostanze in cui ognuno si trova a vivere. E questo confronto è spesso un duello, perché non sempre le circostanze personali, fisiche e psicologiche, familiari, sociali, politiche, storiche, culturali, ecc., corrispondono convenientemente con la vocazione e missione che si vorrebbe realizzare.
Vita come missione da compiere
Ogni persona, infatti, intuisce, in un modo o nell’altro, di esistere con una missione da compiere. Anche chi non ha fede, o ha altre fedi e convinzioni che non sono quelle cristiane, intuisce di vivere per un compito. Ogni persona sente di avere una missione che è assolutamente originale, che nessun’altro può realizzare. E se non la compie, se fallisce, volenti o nolenti se ne prova una insoddisfazione profonda, diversa dall’insoddisfazione che si prova quando non si ottiene qualcosa dagli altri, perché è l’insoddisfazione di non ottenere dalla propria vita ciò che le dà significato.
Di fronte a questo dramma, il problema di sempre, acuitosi con gli strumenti di informazione contemporanei, è l’illusione di credere che realizzare la propria vita sia una questione di successo. Chi ha successo economico o edonistico viene guardato come modello di compimento del senso e della missione della vita. Certo, il successo può coronare la realizzazione di una missione di vita. La menzogna è là dove il successo, il realizzarsi, non corona il dono di una vita, ma l’ambizione di guadagnarla per sé. I veri modelli sono invece coloro che, qualsiasi cosa realizzino nella loro vita, vi esprimono il dono di se stessi. Perché solo questo permette ad ogni vita di compiere la sua missione, anche quando tutto magari impedisce o distrugge ciò che uno si sente chiamato e spinto a realizzare.
Mons. Corecco ha espresso questa coscienza in tutto ciò per cui si è impegnato durante la sua vita. Ma possiamo distinguere la Facoltà di Teologia come l’impegno in cui si sono coagulati tutti i suoi impegni e tutte le sue realizzazioni, soprattutto in quanto pastore. Per realizzare la Facoltà, Corecco ha messo in gioco tutti i suoi talenti, ma soprattutto l’impegno di tutta la sua persona a realizzare la sua vita nella consapevolezza di averla ricevuta in dono, e quindi di avere come vocazione e missione il dono della sua vita e l’aiuto agli altri a realizzare questo significato essenziale dell’esistenza.
Nell’omelia per un’Ordinazione sacerdotale celebrata nella Domenica della Santissima Trinità, il Vescovo Eugenio ha espresso il senso con cui viveva la sua vocazione di battezzato e di pastore:
“L'uomo è colui che non assomiglia a se stesso, ma che assomiglia a un Altro, e quest'Altro è la Santissima Trinità: il Dio Uno e Trino.
Questa somiglianza che portiamo in noi della Trinità (…) coincide con la nostra vocazione. L'uomo, noi tutti, abbiamo la vocazione di manifestare nel mondo la presenza del mistero della Trinità che portiamo in noi stessi, impressa nel nostro cuore, nella nostra persona.
Il senso della nostra esistenza coincide con questa vocazione. Se ci si mette al di fuori di essa, la vita perde lo scopo e diventa assurda, perché ci si pone fuori dallo scopo per il quale Dio ci ha creati, ci ha chiamati all'esistenza, ci ha scelti personalmente con il nostro nome e la nostra fisionomia.
Al di fuori di questa coincidenza tra la vita e la nostra vocazione la vita cessa di essere un compito e si banalizza, perché Dio ci ha creati per affidarci una missione: manifestare Dio nel mistero della Trinità. (…)
Tutto ciò non è soltanto qualcosa di ontologico, che avviene in noi, perché noi manifestiamo la presenza di Dio e del mistero Trinitario nel mondo anche con il nostro comportamento, le nostre idee, il nostro modo di amare, di rapportarci con gli altri, con la nostra vita, e il modo di operare nella società.”
Sappiamo che una delle principali intenzioni della realizzazione della Facoltà di Teologia era quella di riportare in Ticino la formazione dei ministri ordinati. Non era una preoccupazione formale o organizzativa, bensì di creare un ambiente di studio e formazione che educasse pastori corrispondenti alla persona di Cristo buon Pastore.
Nel Vangelo di Giovanni, Cristo stesso definisce il buon pastore come colui che “dà la vita per le pecore”, contrapponendolo al mercenario a cui “non importa delle pecore”, perché il senso della sua vita è ridotto al guadagno e non è il desiderio che le pecore abbiano la vita in abbondanza. Se viene il lupo, il mercenario fugge (cf. Gv 10,10-13).
La Facoltà è stata concepita e voluta per essere un aiuto a realizzare questo senso della vita, e a realizzarlo a 360 gradi, come esperienza, come conoscenza, come condivisione e come missione. Per questo, Mons. Corecco e gli altri promotori vollero che la Facoltà fosse fin dal suo nascere un ambito di comunione di vita, di insegnamento e di apprendimento. Solo dentro le dimensioni di questo ambito di comunione la teologia, come d’altronde ogni altra scienza, trova il suo significato, cioè il senso che ha per la vita. Ciò che non ha senso per la vita, ciò che non aiuta a che la vita sia più vita, più umana, più piena, più accolta e donata per il dono che è, non ha senso neppure in se stesso.
Donare la verità
Lo intuiva bene san Bernardo di Chiaravalle quando scriveva a riguardo dei santi Pietro e Paolo: “Che cosa ci hanno insegnato e ci insegnano i santi apostoli? Non l’arte della pesca o della fabbricazione delle tende, né nulla di simile; neppure a leggere Platone o a districarci nelle sottigliezze di Aristotele; neppure a sempre imparare senza mai pervenire alla conoscenza della verità. Gli apostoli mi hanno insegnato a vivere. Ti sembra poca cosa saper vivere? No, è una gran cosa, anzi la più grande di tutte.”
San Bernardo descrive con queste parole la preoccupazione che Don Corecco ha sentito bruciare in sé, come pastore, come professore e come vescovo, di fronte alla deriva che sempre minaccia la formazione a tutti i livelli, soprattutto quello accademico. Il pericolo appunto di “sempre imparare senza mai pervenire alla conoscenza della verità”, della verità non soltanto del campo scientifico che si sta studiando, ma della verità della vita, della verità come senso della vita.
Fu questa l’insistenza essenziale dell’allocuzione che Mons. Corecco tenne introducendo il primo Dies Academicus della nuova Facoltà di Teologia. Diceva che “la crisi dell'università non è primariamente di tipo organizzativo ed istituzionale, ma spirituale e culturale. In altri termini, è in crisi l'università come istituzione educativa e come luogo di produzione del sapere, sia teorico che pratico.
I giovani, vittime della crescente specializzazione, non incontrano più un luogo in cui possa essere posta la domanda che riguarda l'uomo come tale. Ogni singola disciplina la respinge dal proprio ambito, qualificandola come non scientifica rispetto ai termini del proprio lavoro settoriale. In questo mondo specifico lo studente non ha la possibilità di interrogarsi criticamente su se stesso, sulla propria identità più autentica, sui fini che intende perseguire nella vita. Di conseguenza non può assumere criticamente il ruolo sociale cui l'università lo prepara.”
La società di trent’anni fa come quella di oggi non è in crisi di scienza e tecnica, ma in crisi di verità e di senso della vita. Ogni progresso scientifico, tecnico, economico, ma anche filosofico e teologico, che non si integra, e addirittura non si sottomette al progresso umano, al progresso del senso della vita, della vita come dono accolto e trasmesso nella sinfonia del dono di tutti e di tutto, diventa come un treno, o un razzo, che sfreccia oltre l’uomo senza portarlo con sé.
Viviamo un’epoca culturale che sembra stia passando dal dominio del “Grande Fratello” a quello del …“Grande Pappagallo” artificialmente intelligente. Un’epoca in cui ciò che si definisce come verità passa dal controllo del potere allo svuotamento della più raffinata ripetitività. La verità non è più scoperta creativamente come riflesso di Dio nella realtà, ma diventa un gioco di specchi immanenti in cui l’uomo non fa che riprodurre all’infinito, ipnotizzato dalla molteplicità dei riflessi, l’immagine di se stesso che narcisisticamente si illude di vedere.
Chi ci restituirà una verità reale, una verità per la vita?
Nauseato da tante verità irreali e false, da troppe verità vendute, l’uomo contemporaneo è come un Pilato che pur portando in sé una ricerca sincera della verità, anche quando se la trova davanti, anche quando la Verità in persona è lì e gli parla, se ne va offuscato nello sguardo e stordito nell’ascolto, rifugiandosi dietro il paravento di uno scetticismo a priori che si nutre di se stesso perché mai si confronta con una realtà che possa contraddire la sua inconsistenza.
La carità della verità
Come si può ricondurre l’umanità, la nostra e l’universale, ad un incontro con la verità della vita, con la verità che dia senso alla vita, che richiami la vita al suo senso di dono da donare?
La verità non si dona imponendola, ma testimoniandola. La testimonianza è quella trasmissione, dalla propria vita alla vita degli altri, della verità di cui si vive. Come tale, la testimonianza della verità è un grande atto di amore. Un amore cosciente che la vita non la si dona agli altri come un oggetto, ma trasmettendo agli altri la verità che dà senso alla nostra vita. Un martire che viene ucciso per la sua fedeltà alla verità non trasmette agli altri la sua vita, ma la verità che dà senso alla sua vita oltre la morte. I martiri cristiani trasmettono Cristo, così come i martiri di altre fedi o valori, trasmettono ciò che per loro vale più della vita.
Benedetto XVI iniziava la sua enciclica Caritas in veritate “sullo sviluppo umano integrale” con queste parole essenziali: “La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera.”
Perché progrediscano la persona e la società umane, perché progredisca l’umano, e quindi una cultura per l’uomo, non basta soltanto l’amore o soltanto la verità. È necessaria la loro sinergia, la loro unità dialogica. Quando la carità e la verità camminano separate, invece di costituire la “forza propulsiva” di un progresso umano integrale e universale, lo frenano, lo arrestano, lo fanno regredire. L’amore senza la verità scade nella compiacenza del buonismo che benedice tutto ciò che ultimamente distrugge l’umano. La verità senza la carità scade nell’orgoglio autoreferenziale dell’intolleranza, indifferente al cuore dell’altro fino alla violenza.
In realtà, senza la verità la carità non è se stessa, e senza la carità la verità è menzogna.
Il Card. Macharski, in una intensa commemorazione del Vescovo Eugenio, affermò: “Questo testimone dice la verità!”
Infatti, Mons. Corecco si è impegnato tutta la vita ad amare dicendo la verità, non la verità sterile che spoglia l’altro senza pietà, ma donando, da umile e certo testimone, quella Verità più grande di noi che illumina la vita, le apre un orizzonte e che permette a tutti di fare un cammino verso la pienezza della vita come dono ad immagine della Trinità; pienezza che, come lo esprime la Gaudium et spes, si ritrova solo “attraverso un dono sincero [e quindi vero] di sé”.
Solo questa prospettiva dà ragione fino in fondo all’intenzione con cui Mons. Eugenio Corecco ha voluto e fondato la Facoltà di Teologia, e, nello stesso tempo, solo questa prospettiva ci aiuta a capire quale possa essere il ruolo di questa Facoltà rispetto alle altre Facoltà dell’Università della Svizzera Italiana e alla società in cui è inserita.
Seminare nel deserto
Una lettera molto critica che un sacerdote indirizzava al Vescovo Corecco, citata nella biografia curata da Antonietta Moretti, denunciava l’assurdità di prospettare un istituto teologico a Lugano. Cito: «…"uno studio teologico" a Lugano. Una città culturalmente morta: non vi sono altri centri universitari con cui dialogare. Dialogare con il vuoto culturale lo si è già sperimentato. Credo ti ricordi del seminario degli anni '60. Teologi e insegnanti non erano poi tanto male, ma era il rachitismo culturale. Situazione obbligata: nessuna possibilità di colloquio con altri studi e studenti. È questo che mi porta ad essere duramente contrario a una Università ticinese.»
Non contesto il giudizio di vuoto culturale qui espresso, perché corrisponde all’esperienza del mittente e forse anche del destinatario della lettera. Ma proprio questa situazione negativa non poteva che stimolare ulteriormente il Vescovo nella sua intenzione. Perché il movente della vita e delle iniziative di Mons. Corecco era fondamentalmente quello di esprimere la missionarietà della Chiesa, mandata da Cristo proprio a riempire il vuoto in cui si ritrova l’umanità, a riempirlo non solo di cultura, ma del Significato di tutto che, come un seme, fa fiorire una cultura umana in ogni deserto. Corecco non guardava alle condizioni che trovava, ma a ciò che lo spingeva interiormente e nell’ambito di Chiesa che sperimentava come amicizia da diffondere, come paternità capace di generare, come sapienza di verità evangelica da seminare.
Tutto questo, don Eugenio non lo aveva inventato, non era creazione sua: era ciò che lui aveva incontrato e di cui faceva esperienza. Il motore di ogni sua iniziativa non era la conquista di uno spazio di potere, come dicevo all’inizio, ma la trasmissione umile e certa di un dono ricevuto, gratuito, non meritato, che aveva riempito di senso e bellezza la sua vita e che per questo sentiva corrispondente al bisogno di ogni cuore, di ogni persona che incontrava, e del popolo che, come Vescovo, gli era affidato e a cui si sapeva mandato proprio per questo, per amarlo trasmettendogli la verità e la bellezza che aveva incontrato e accolto.
L’approccio di questo pastore e testimone alle situazioni di vuoto a cui era mandato, lo trovo illustrato nella descrizione che san Benedetto, il padre dei monaci d’Occidente, fa della venuta di Dio incontro all’uomo per donargli la vera vita. All’inizio della sua Regola Benedetto mette in scena un Dio che circola in mezzo alla folla, che circola in mezzo al vuoto di senso, di verità e di pace che anche oggi sembra dominare l’umanità. In questo deserto affollato di gente vagante e sperduta, Dio si mette a gridare una frase del salmo 33: “C’è un uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?” (Sal 33,13). Questa domanda, essenziale in ogni cuore, in ogni cultura, in ogni fede, questa domanda è una provocazione, ma carica di proposta. Quel Dio mendicante ha in Se stesso il bene che propone, è Lui stesso il bene che offre. Provoca la folla, non per giudicarla, ma perché in Lui c’è una sorgente di vita e felicità che ha sete di sgorgare, di raggiungere e di incontrare l’umanità.
San Benedetto fa partire tutto da questa proposta, ma anche dalla libertà di chiunque in mezzo alla folla risponde: “Io!”.
A partire da questa risposta elementare della libertà che riconosce di desiderare la vita e la felicità, Dio fa iniziare un cammino, una “via della vita”. Un cammino di educazione, di formazione, di accompagnamento affinché quell’“io” che dice “Eccomi!” possa crescere in quella coscienza e esperienza.
Nessuna istituzione o opera, nessuna proposta, sono umane, e veramente libere, fuori da questa dinamica elementare.
È così che Mons. Corecco ha proposto l’avventura di questa Facoltà, che proprio per questo è chiamata ad incarnare questa proposta in tutto l’ambito universitario e sociale in cui è stata seminata. Una proposta che, se la Facoltà vorrà vivere, non finirà mai di rimanere tale per la libertà di chi è chiamato a promuoverla e di chi è chiamato ad accoglierla.
Senza libertà nulla di veramente umano può crescere, e nulla può essere donato. La libertà – oggi è urgente richiamarlo! – non è se stessa senza una gratuità. Ma la gratuità non è tanto là dove tutto è gratis, ma dove qualcuno paga di persona. La maturità si misura dalla disponibilità a pagare di persona, anche quello che si fa con passione.
Per il Vescovo Eugenio creare questa Facoltà fu una vera passione. Ma da Cristo in poi, questa parola, “passione”, è diventata anche la definizione di un amore che paga con la vita quello che desidera. Don Corecco lo ha capito e vissuto fino in fondo, accettando di vivere la passione per le sue iniziative come passione nell’offrire per esse la sua vita, la sua sofferenza e la sua morte.
Se la Facoltà di Teologia è un albero di trent’anni, se continuerà a crescere, a dare frutti, è e sarà sempre perché un seme per lei è caduto in terra fino a morire, con una carità che testimonia e propone a tutti la verità della vita.
Padre Mauro Giuseppe Lepori